COSA SARA' di Francesco BruniHo visto Cosa sarà al Cinema Rondinella di Sesto San Giovanni, l'ultimo giorno di apertura prima del nuovo lockdown di ottobre. E devo dire che c'è una scena del film che mi ha lasciato basito. Il destino del film, d'altra parte, sembra legato all'altalena della pandemia in atto. Girato nelle ultime settimane del 2019, doveva uscire il 19 marzo (Festa del Papà) del 2020, con il titolo Andrà tutto bene. Non andò tutto bene e l'uscita fu rinviata a causa dello scoppio della pandemia; e il titolo del film diventò casualmente lo slogan scaramantico del lockdown primaverile. Uscito il 24 ottobre, con un titolo già meno ottimistico, è rimasto nei cinema per soli due giorni, prima della nuova chiusura delle sale. E d'altra parte il film di malattia parla. Francesco Bruni, che ha scritto e diretto il film (con un contributo di Kim Rossi Stuart in fase di sceneggiatura), vi racconta la propria autobiografica esperienza di incontro e scontro con una malattia potenzialmente fatale, e il film è dedicato a Mattia Torre, sceneggiatore e regista, autore del cult Boris ma anche de La linea verticale - a sua volta un racconto autobiografico e ospedaliero - che nella lotta contro la malattia ha avuto la peggio ed è scomparso l'anno scorso all'età di 47 anni. La scena cui accennavo, quindi. Il protagonista, Bruno Salvati (un nome e cognome che sono un'allusione al suo autore e al suo destino), è un regista cinematografico. Dopo che gli viene diagnosticata una mielodisplasia, viene ricoverato in ospedale per un ciclo di chemioterapia, in vista di un trapianto di midollo spinale. Il medico che lo ha in cura lo informa che in ospedale c'è una sala-cinema e gli propone di proiettare un suo film e di presentarlo. Arriva il giorno, e Bruno si presenta davanti allo schermo già provato dalla malattia e dalla terapia, in camice verde, mascherina, cappellino verde sulla testa rasata. Sdrammatizza, dicendo di essere la metafora del cinema italiano - eternamente e proverbialmente non in buona salute. Dice di non sentirsi molto bene, ma che altri suoi colleghi sono messi peggio di lui. E' una battuta, ma non fa ridere; la camera fa un controcampo sulla platea che assiste impassibile: una prima fila con gli allettati, quelli in sedia a rotelle, quelli con le flebo. Dietro, sulle gradinate dell'auditorium, gli altri degenti invitati alla proiezione, malati, la mascherina sul volto. Mi sono guardato dietro e intorno nel cinema, verso gli sparsi spettatori silenziosi, con la mascherina a coprire il volto, e mi si sono rizzati i capelli in testa. Lo schermo era come uno specchio e noi c'eravamo dentro; eravamo noi, siamo noi, potenzialmente malati, che stiamo assistendo (forse) all'ultimo spettacolo dell'ultimo film su grande schermo, senza sapere se - noi e il grande schermo - sopravviveremo e se avremo ancora possibilità di incontrarci in futuro. Il Covid-19 minaccia le nostre vite e minaccia la sopravvivenza del cinema. Cosa sarà? Andrà tutto bene? Ne usciremo migliori? A quest'ultima domanda, viste le cronache degli ultimi giorni, è ovvio rispondere di no, ma queste sono in fondo tutte le stesse domande che si pone il protagonista del film, autore di commedie che non fanno ridere, ma che magari fanno commuovere, uomo adulto che si porta dentro le fragilità di un'infanzia mai risolta, marito in crisi, padre insicuro, con tanta tanta paura di morire. Eppure Cosa sarà racconta la storia di un malato privilegiato, con una professione difficile ma bella, una moglie separata ma amica, una famiglia tutto sommato unita, affettuosa, solidale, con un padre fedifrago ma che non manca nel momento del bisogno; ricoverato in una clinica lussuosa, assistito da un ottimo medico (un anti-Caronte che che ogni anno organizza una gita sull'acqua imbarcando tutte le vite che ha salvato) e da un infermiere premuroso, e che può beneficiare di una donazione di midollo davvero insperata e inaspettata. Molto molto più fortunato, quindi, di tanti malati che hanno conosciuto la sofferenza e a volte anche la morte in questo 2020 sciagurato. Bruni (pluripremiato sceneggiatore di praticamente tutto Virzì e di Calopresti, già autore di film in cui è forte il tema del confronto intergenerazionale (Scialla!, Noi 4, Tutto quello che vuoi), impagina il racconto mescolando andamento cronachistico (diaristico quasi, nella parte ospedaliera), flashback (che arrivano a rievocare anche traumi e ricordi dell'infanzia del protagonista ) e scene oniriche; oscillando tra le cupe ambientazioni ospedaliere e quelle più ariose da commedia famigliare, ma con un'importantissima divagazione picaresca in una trasferta livornese; e alternando i toni lividi del racconto della malattia e della cura a quelli lievi e ironici, senza mai cedere alla disperazione e mantenendo sempre viva la fiamma della speranza. Al centro di questa tragedia di un uomo ridicolo, cui non si può non voler bene, malgrado difetti e debolezze quali tutti ne abbiamo, c'è Kim Rossi Stuart, a volte a rischio di overacting, ma coraggioso nel mostrarsi con la testa depilata e sofferente, e comunque credibile ed efficace in mezzo ad un cast che lo è altrettanto, in cui spiccano la Fiorella di Barbara Ronchi e la figlia Adele di Fotinì Peluso e in cui trova posto nel decisivo ruolo della dottoressa la consorte di Bruni, Raffaella Lebboroni, immancabile nei suoi film. E dopo, cosa sarà? Nessuno può saperlo; speriamo di ritrovarci un giorno, passata questa sporca bufera, sulla nave dei salvati, navigando verso il mare aperto, più consapevoli delle nostre fragilità e della nostra caducità, ma anche dell'importanza dei nostri affetti. E di ritrovarci tutti, un giorno, a viso aperto, a guardare di nuovo un grande schermo e una nuova storia.
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LACCI di Daniele LuchettiSi intitola Lacci, come il libro di Domenico Starnone da cui è tratto (e i lacci ci sono, quelli veri delle scarpe da annodare – in un modo originale che sembra uno dei pochi lasciti “positivi” che il protagonista lascia ai figli – e quelli metaforici, che annodano inestricabili la coppia dei protagonisti, impedendogli di liberarsi e di non sprofondare nell'abisso di scontentezza di un rapporto deteriorato); ma potrebbe a buona ragione intitolarsi Ferite. E' una ferita quella che si apre all'inizio del film, dopo una festa di Carnevale, con la confessione del marito alla moglie di un relazione extraconiugale; ed è – scopriremo – una di quelle ferite che non cicatrizzano mai, che continuano a rimanere aperte e a spurgare per sempre. Ha una strana e complessa struttura, Lacci. Il film si svolge su due piani temporali. Al centro del primo c'è una coppia (Lo Cascio-Rohrwacher) in crisi, a causa del tradimento di lui, con accanto i due figli piccoli. Ad un certo punto della narrazione, ci si sposta all'improvviso su un secondo piano temporale, molti anni dopo, con la stessa coppia (stavolta Orlando-Morante) ancora insieme, ma ancora percorsa dalla crepa aperta quella sera in cui lui ha confessato la propria infedeltà. Lo sviluppo tuttavia non è cronologico, poiché dal secondo piano si torna spesso al primo, non solo per mostrarne i successivi sviluppi, ma a volte per tornare sulle stesse situazioni già viste e per mostrarle da un'altra angolazione e da un altro punto di vista. Non solo; al “termine” del secondo segmento, con una nuova cesura, se ne aggiunge un terzo, che lo precede di poco in termini temporali, ma la cui coppia di protagonisti è stavolta cambiata, vedendo in scena solo due personaggi, i figli della coppia ormai adulti (Giannini e un'irriconoscibile Mezzogiorno). C'è una ragion d'essere in questa complessità drammaturgica: se i primi due segmenti mostrano infatti gli effetti (letteralmente) devastanti della frattura tra i due protagonisti in termini “verticali”, ossia nel corso del tempo, il terzo ne mostra i disastrosi influssi in termini “orizzontali”, estendendone le conseguenze su altri personaggi, come se i cerchi del sasso gettato della crisi si allargassero nell'acqua. Quello a cui assistiamo è una sorta di carnage coniugale e poi familiare, un gioco al massacro tutto interno alla cerchia famigliare a cui nessuno riesce a sfuggire nemmeno potendolo fare. Un naufragio di cui entrambi i membri della coppia sono consapevoli e in qualche misura colpevoli, l'uomo con il proprio tradimento prima, poi con la propria irresolutezza, la debolezza che lo spinge in fondo a lasciare che siano “le cose che capitano”, o ancor più le altre (la moglie, l'amante, e poi ancora la moglie) a decidere del suo destino, senza mai veramente scegliere tra l'allettamento del desiderio e il dovere della fedeltà famigliare; la donna con la propria intransigenza prima, con un'isteria incontrollata che la porta fin sull'orlo del suicidio, poi con la sete di vendetta e di rivalsa con cui nutre un rapporto sfibrato e sadomasochista, lesionista e autolesionista. E' difficile soffrire in modo simpatico, afferma ad un certo punto il protagonista del film, e il film parla di sofferenza ed è quindi “antipatico”, claustrofobico, con la macchina da presa spesso a ridosso delle facce dei personaggi, a distillarne gli umori cupi, la rabbia, la disillusione, la recriminazione, l'acuta disperazione, il sordo rancore. Il pubblico esce perplesso, portato da una parte a ritenere “eccessiva” la vicenda narrata e gli esiti di una storia apparentemente ordinaria, e nello stesso tempo turbato dalla spaventosa verosimiglianza di una vicenda che - per l'appunto - non ha nulla di “eccezionale”. I personaggi scelgono di soffrire anziché di non soffrire, eppure ci si rende conto che in ciò non c'è nulla di strano o di insolito, che potremmo raccontare delle storie simili di persone che conosciamo, o che forse tutti l'abbiamo fatto qualche volta nella nostra esistenza. Nell'andamento altalenante della filmografia di Luchetti, direi che Lacci si situa in una zona mediana, ma tendente ai risultati migliori; e contro le aspettative non disturba più di tanto l'avvicendarsi nello stesso ruolo di due coppie di attori così famosi e così differenti. MISS MARX di Susanna NicchiarelliC'è stato un periodo in cui il pensiero marxiano informava tutto il dibattito pubblico, permeando non solo la politica ma i più diversi campi del pensiero, dall'economia alla sociologia, dalla critica letteraria e cinematografica alla teologia.
Poi, negli ultimi decenni, Marx è diventato un nome impronunciabile, cancellato dall'orizzonte dei discorsi dal fallimento del socialismo reale sovietico (e relativo revisionismo storico) e dalla marea montante del pensiero unico del capitalismo avanzato. Ora, passato evidentemente il periodo di autoimposizione del tabù culturale, il vecchio Marx si riaffaccia, comparendo in un paio di occasioni nelle ultime stagioni cinematografiche. Trattandosi di cinema, ovviamente la prassi prevale sulla teoria, l'aneddotica sull'approfondimento. Prima di essere uno dei più grandi esponenti del pensiero critico nella storia dell'umanità, Marx diventa quindi un personaggio, approcciato lateralmente o tangenzialmente. Se il cosmopolita di origini haitiane Raoul Peck affronta la giovinezza di Marx (Il giovane Marx), dall'incontro con Engels alla pubblicazione del Manifesto del partito comunista, l'italiana cosmopolita Susanna Nicchiarelli lo relega sullo sfondo, concentrando la propria attenzione sulla figlia Eleanor, detta “Tussy”. Sesta figlia di Karl, Eleanor ne segue le orme diffondendo le idee del padre, traducendone gli scritti e impegnandosi in battaglie sociali e politiche, per i diritti dei lavoratori, l'emancipazione delle donne e contro lo sfruttamento del lavoro minorile. La Nicchiarelli, che già aveva dedicato la sua attenzione ad una donna in lotta con se stessa e il proprio mito in Nico, 1988, concentra la sua attenzione drammaturgica sulla contraddizione tra la vita pubblica di Eleanor, personalità forte e determinata nelle sue battaglia sociali e politiche, e la sua vita privata, incentrata sul rapporto con Edward Aveling, con cui condivideva la passione per il teatro e per l'attivismo politico, ma fedifrago e scialacquatore, e su quello con i padri "ingombranti", quello naturale, Marx, e quello putativo, Engels. Il contrasto tra gli ideali e il carattere apparentemente indomito e battagliero e un legame sentimentale che la rendeva invece succube e dipendente diventerà alla fine intollerabile per Eleanor, fino a portarla ad una scelta drammatica. Tuttavia il film, se non può rendere adeguatamente la dimensione intellettuale, nello stesso tempo rimane un po' esangue per quanto riguarda il racconto della storia e il disegno della protagonista, tanto che il finale tragico, che si svolge peraltro fuori campo, giunge impreparato e inatteso. Per attualizzare il soggetto, e togliere un po' di polvere dai costumi e dalle scenografie ottocenteschi (peraltro ben realizzati), la Nicchiarelli sceglie degli espedienti che richiamano quelli utilizzati da Marcello in Martin Eden, inserendo dei filmati d'epoca, ma evidentemente anacronistici, e dei brani di impronta punk nella colonna sonora, a dare evidenza all'animo ribelle e anticonvenzionale della sua Tussy. Le riscritture di classici del romanticismo da parte dei Gatto Ciliegia contro il Grande Freddo e soprattutto le riletture punk rock degli americani (comunisti) Downtown Boys (L'Internationale, Dancing in the Dark), per quanto paradossali rispetto al contesto, rischiano di essere le cose migliori del film, iniettando una dose di energia in un film narrativamente e drammaturgicamente un po' fiacco. PADRENOSTRO di Claudio NoceClaudio Noce aveva due anni quando suo padre Alfonso, vicequestore a Roma, fu ferito in un attentato dei Nuclei armati proletari in cui persero la vita un poliziotto e un terrorista. Suo fratello Valerio assistette alla scena dal balcone di casa. Oltre 40 anni dopo, Claudio mette in scena quella scena primaria, capace di segnare indelebilmente qualsiasi vita, e la racconta attraverso gli occhi di Valerio. La terribile scena dell'agguato, con gli spari, il padre che si accascia, i cadaveri rimasti sull'asfalto nel sangue, viene restituita per frammenti e da diverse angolazioni nel corso del film, che si svolge in gran parte nel “dopo”. Un dopo sul quale grava come una cappa soffocante e angosciante quel fatto terribile eppure ripetibile e eternamente minaccioso (i terroristi proclamano l'intenzione di portare a termine la loro malriuscita “missione”). Il padre granitico si è improvvisamente rivelato vulnerabile; la madre è perennemente nervosa; e qualunque cosa – un'assenza, un rumore, una moto che sorpassa un'automobile – può stendere un opprimente velo di minaccia e di terrore. Molto efficace sotto questo punto di vista, e nella stilizzata ma riuscita evocazione iconografica degli anni '70 in cui si svolge la vicenda, il film sceglie però a fini drammaturgici una strada più arrischiata, che materializza, dalle fantasie di Valerio che già nascondeva un amico immaginario nella soffitta di casa, un amico adolescente che rimane perennemente (fino al finale) sospeso tra fantasia e realtà. Emanazione della solitudine di Valerio, Christian sembra acquistare uno statuto di realtà nel momento in cui raggiunge il protagonista nella sua vacanza in Calabria, dove viene “visto” e accolto dalla famiglia. Per il giovanissimo Valerio sarà però un nuovo motivo di ansia, diviso a quel punto tra l'attrazione per quel ragazzo, più grande e libero di lui, e la gelosia per il rapporto affettuoso che sembra stabilirsi tra il padre e Christian, che insidia il suo solitario primato affettivo. La vicenda nasconde un segreto che porterà ad un drammatico scioglimento finale, mentre un prologo angosciante e un epilogo consolatorio offrono una cornice (ma di nuovo non è dato sapere quanto realistica e quanto frutto delle emozioni non ancora spente del Valerio adulto) alla vicenda al cuore del film. Difficile esprimere un giudizio puramente estetico su un film che tratta una vicenda autobiografica così incandescente per la vita del suo autore; la mescolanza tra la storia criminale del Paese, il punto di vista di un ragazzino, un registro che alterna il realistico e l'onirico, e anche l'ambientazione nella natura del nostro Meridione, mi ha ricordato molto l'operazione tentata da Fabio Grassadonia e Antonio Piazza con Sicilian Ghost Story, ancora più azzardata ma forse più efficace nel raggiungere un difficilissimo equilibrio tra materia e rappresentazione e tra i diversi toni della narrazione. Pierfrancesco Favino, nel ruolo del padre Alfonso, è una presenza anche fisicamente decisamente importante, ma sembra a volte girare un po' a vuoto; premiato con la Coppa Volpi nell'anomala edizione 2020 della Mostra del Cinema di Venezia, ha dato altrove interpretazioni più convincenti. LE SORELLE MACALUSO di Emma DanteEmma Dante torna a parlare di donne, di famiglie, di Palermo, della danza della vita e della morte. Le sue sorelle Macaluso nel passare dalla dimensione del teatro (dove sono state protagoniste di uno spettacolo molto premiato) a quella del cinema, si riducono di numero (a teatro sono sette, al cinema cinque) acquistano concretezza, una maggiore linearità drammaturgica, e soprattutto uno spazio. Che è lo spazio domestico, quello della casa di famiglia, sesta protagonista del racconto, mostrata più volte anche da vuota, quando i personaggi sono assenti, in inquadrature in cui sembra di sentirne il respiro, inudibile quando le sorelle sono all'interno. Sembra quasi di sentire il rumore impercettibile delle ante del credenzino che si vanno screpolando, mentre il tempo passa inesorabilmente. Un respiro impossibile da percepire quando le donne sono in casa: tra parole, strepiti, litigi, recriminazioni, ma accomunate da un rapporto di sorellanza quasi simbiotico. La casa, che diventerà man mano il regno dei ricordi, dei fantasmi, dei ritorni, è coabitata dai piccioni allevati nella colombaia, con la loro vita elementare ed enigmatica, simbolo di libertà ma anche di legame indissolubile alla casa alla quale puntualmente ritornano. Quello delle Macaluso è infatti un mondo sostanzialmente chiuso e quasi autosufficiente, dove i pochi personaggi esterni alla famiglia (il commerciante di piccioni; la ragazza di cui Maria è innamorata; il marito di Katia) compaiono una sola volta (l'amante di Pinuccia, per dire, è poco più dei rumori di un amplesso sopra un letto immerso nella penombra). Un mondo tutto al femminile, quindi, senza padri o madri, quasi senza figli (su cinque sorelle solo una ha famiglia e prole), vitale eppure già consegnato dall'inizio a un destino di morte e di malattia. La giornata perfetta della prima parte del film, dopo che le sorelle hanno intrapreso un viaggio verso il mare lungo come un'odissea, piena di sole, di mare, di voglia di seduzione e d'amore, dove la danza libera e gioiosa di Maria contagia prima le sorelle e poi anche gli altri bagnanti, si conclude con una tragedia che segnerà per sempre la vita della strana famiglia. Il tempo è all'opera con la sua azione distruttiva, e lo si vede in particolare nelle sequenze chiave di ciascun segmento: dalla danza amorosa di Maria con la sua ragazza nel pieno sole di un'arena cinematografica estiva al lugubre piano-sequenza in cui la stessa, vestita con un grottesco tutù, si ingozza di pasticcini, fino alla devastazione e alla spoliazione della casa di famiglia. Queste sorelle nubili e orfane, orbate anche dalla perdita di un anello della loro ineluttabile catena di affetti e di complicità, sembrano infatti trascinare la propria vita verso la morte che prima o poi deve arrivare, tra una casa ormai difficile da mantenere, le malattie che le minano, i sogni che si dissolvono, i ricordi chiusi dentro un cassetto che fa ogni volta male aprire. La Dante ambisce a raccontare l'arco di cinque vite, mostrandoci le sorelle in tre diverse epoche della loro storia (schematicamente infanzia, maturità e vecchiaia) in meno di un'ora e mezza, comprimendole in tre momenti chiave (una giornata al mare, una riunione di famiglia, un funerale) che occupano quasi per intero le tre parti del film. Il racconto è quindi dominato dalla figura dell'ellisse narrativa, e l'autrice lesina le coordinate utili allo spettatore per orizzontarsi. Nel primo segmento i personaggi che emergono sono sostanzialmente tre, mentre alle altre due sorelle viene dedicata una definizione più vaga; e di capitolo in capitolo le interpreti cambiano, con qualche effetto anche di spiazzamento (la carina Maria si trasforma improvvisamente in una donna brutta e malata, la procace Pinuccia si trasforma nella figura di un'interprete raffinata come la Finocchiaro). La semplificazione e la scrittura quasi minimalista (il terzo segmento è pressoché senza dialoghi), rischiano in qualche momento l'oscurità e il calo di tensione narrativa, e il film finisce forse per assumere troppo presto una dominante funerea che smorza subito l'impeto vitale in un percorso penitenziale. e VOLEVO NASCONDERMI di Giorgio DirittiForse ho già avuto modo di dirlo, non amo molto i film biografici. In questo caso poi la sfida affrontata da Diritti (e proposta al recensore) è duplice, dovendosi confrontare non solo con i dati biografici di Ligabue, e dalle tracce audiovisive da questi impresse nei documentari a lui dedicati mentre era ancora in vita, ma anche con l'epocale sceneggiato televisivo realizzato da Salvatore Nocita con una memorabile interpretazione di Flavio Bucci, tale da imporre un imprinting definitivo sulla carriera dell'attore e sulla rappresentazione dell'artista (Flavio Bucci è Ligabue, Ligabue è Flavio Bucci). Il Ligabue di Diritti racconta la vita del pittore dall'infanzia (segnata dall'abbandono, dalla malattia, dall'emarginazione), alla giovinezza nomade e sbandata (trascorsa tra rifugi improvvisati lungo il Po, gli istituti di carità e gli ospedali), alla maturità (con la scoperta, propria e altrui, dell'eccentrico talento pittorico e plastico e alla conseguente affermazione nel mondo dell'arte - senza che questo arrivi mai a significare una vera integrazione sociale) fino alla malattia che lo condurrà ad una morte prematura. Apparentemente Diritti sembra scegliere una narrazione simile a quella utilizzata da Schnabel per raccontare Van Gogh, quindi senza una reale concatenazione logica-narrativa, ma piuttosto seguendo le vicende del protagonista secondo un procedimento paratattico e casuale, con pochi flashback a ricordare le sofferenze dell'infanzia. Pure lo stile di Diritti si discosta da quello di Schnabel: al contrario di questi . artista che racconta un artista - il suo scopo non sembra quello di un'immedesimazione immersiva ed estatica nella mente del suo personaggio. Se la logica frammentaria del racconto può alludere alla dimensione mentale e spirituale non organizzata secondo una logica razionale, Diritti mantiene sempre un certo distacco dal suo personaggio, una distanza dal quale osservare una personalità aliena senza empatizzare troppo. Personalità che, pure, è oggetto predominante del suo interesse, quasi sempre presente sulla scena e nell'inquadratura. Diritti è infatti da sempre interessato a raccontare l'incontro/scontro con un'individualità eccentrica rispetto al contesto sociale in cui si inserisce (sia esso un pastore francese in una comunità agricolo-pastorale nel Piemonte occitano; una bimba muta nell'Appennino bolognese segnato dall'occupazione nazista; una volontaria italiana in una comunità indigena in Amazzonia, o un artista anomalo nell'Emilia rurale e novecentesca in cui Ligabue visse gran parte della sua vita). Se il "corpo estraneo" di Ligabue è una figura a tutto tondo, pur nella sua naïveté indecifrabile, tutte le altre figure sono come appena abbozzate in bassorilievo sullo sfondo, scarsamente riconoscibili e caratterizzate. Non solo: le stesse opere del pittore rimangono visivamente in sordina, mostrate solo per quel tanto richiesto dalla diegesi, per ricevere la dovuta attenzione solo durante i titoli di coda, quando l'ingombrante personaggio di Ligabue è ormai scomparso e non può più monopolizzare l'attenzione del regista. Dopodiché la voglia di raccontare Ligabue di Diritti si accompagna alla bramosia di Elio Germano nell'interpretarlo. Germano prende il personaggio, lo scava dall'interno, lo indossa, si immedesima in lui, e di conseguenza si prende il film, visto che il film è Ligabue. Germano diventa un Ligabue sbilenco, pulcioso, sporco, selvatico, scontroso. I fan di Flavio Bucci possono tranquillizzarsi: non so quale sia l'interprete migliore, ma quello che è certo è che Germano ha affrontato il ruolo con una foga e un coinvolgimento totali. A Hollywood questo sarebbe certamente un ruolo per cui aspirare all'Oscar. Che poi ad un talento naturale e naturalistico come quello di Germano (già Giacomo Leopardi per Martone) convenga applicarsi a ruoli in diversa misura estremi, ma comunque fortissimamente caratterizzati a priori, che inducono invece a una recitazione imitativa e manieristica, è questione tutta da discutere. VILLETTA CON OSPITI di Ivano De MatteoIvano De Matteo (sempre affiancato in sede di sceneggiatura da Valentina Ferlan) è un autore che seguo con piacere e interesse, impegnato con coerenza nella rappresentazione della società contemporanea e delle sue ipocrisie, partendo spesso da una situazione famigliare, con film non banali e dalla solida drammaturgia. Ho apprezzato la trasformazione quasi in un thriller mozzafiato delle difficoltà economiche e psicologiche di un separato ne Gli equilibristi; la fine descrizione delle dinamiche psicologiche di accettazione-rifiuto del diverso ne La bella gente; la stringente progressione drammatica de I nostri ragazzi, girato praticamente intorno al tavolo di un ristorante. Villetta con ospiti si colloca, tematicamente all'incrocio con questi due ultimi titoli: incentrato sulla reazione di un nucleo famigliare all'irruzione di un corpo estraneo (là una giovane prostituta, qui un ragazzo ferito) come La bella gente, descrive la chiusura a riccio (un riccio dagli aculei d'acciaio) di una famiglia allo scopo di occultare le nefandezze che sono state commesse dai propri membri, come succede anche ne I nostri ragazzi. Purtroppo però in Villetta con ospiti non ho ritrovato né la finezza psicologica de La bella gente né l'implacabile meccanismo ad orologeria drammaturgica de I nostri ragazzi, quanto piuttosto i difetti contrari. Villetta con ospiti è infatti un film a tesi (una definizione contestata o quanto meno argomentata da Gianni Canova), che assegna a ogni singolo personaggio almeno uno scheletro nell'armadio, per sporcarne la coscienza e spingerli nell'ignavia più vile, anche a fronte di una questione immediata di vita o di morte. Il padre è fedifrago e imbroglione, la madre una bigotta ipocrita pronta a predicare bene e a razzolare male, non rifiutandosi neppure le attenzioni di un prete sensibile alle lusinghe della femminilità, la figlia innamorata è pronta a tuffarsi nell'indifferenza e a sublimare nell'autolesionismo. Ma la notizia peggiore è che nell'elegante e isolata villetta del titolo, epicentro e luogo-simbolo di una borghesia benestante quanto ipocrita, di un Nord-est di imprenditori pronti ad arrangiare i conti, e di famiglie con la pistola nel cassetto nel nome del mito alla legittima difesa, vengono convocati anche gli ospiti; oltre all'autorità socio-antropologica rappresentata dai genitori sembra di assistere ad una grottesca parata delle autorità civili (il medico), militari (il poliziotto) e religiose (il prete), tutti ovviamente provvisti del bagaglio di una coscienza sporca e con relativo pelo sullo stomaco, ricattabili e accidiosi. Se nella prima parte il giudizio rimane sospeso - con un ritratto di provincia a tratti sapido e a tratti risaputo, come lo stesso uso del dialetto veneto che dovrebbe dare veridicità geopolitica e corposità al racconto - nella seconda parte, quando il ritratto si sporca del rosso del sangue, la narrazione, che prosegue in unità di tempo, d'azione e di luogo, promette di acquistare intensità e tensione. Invece il film si sfilaccia, dilata i tempi, indugia in maniera sospetta, blocca tutti i personaggi, mantiene perfino le luci assurdamente basse là dove invece occorrerebbe luce oltre che azione. E' vero che la realtà supera a volte la fantasia (v. ad es. un incredibile caso di cronaca nera come quello dell'omicidio di Marco Vannini), ma al cinema spesso l'esigenza di verosimiglianza è superiore a quella di verità. In parallelo, i personaggi rimangono stilizzati, semplici addendi di una somma già stabilita in partenza, aderenti alla loro caratterizzazione e ai loro vizi (oltre che alla naturale propensione al ruolo degli interpreti, a cominciare da Giallini e dalla Cescon), ma dotati di scarso spessore e sfumature. L'interpretazione più vibrante e convincente è alla fine quella di Cristina Flutur, una madre rumena il cui sogno italiano è destinato a svanire in una sola tragica notte. GLI ANNI PIU' BELLI di Gabriele MuccinoChe l'ispirazione di Muccino puntasse verso Scola lo si era già capito con A casa tutti bene, che richiamava per diversi aspetti La famiglia: entrambe sono storie corali, che mettono in scena un gran numero di personaggi appartenenti o affini allo stesso gruppo famigliare, in una sostanziale unità di luogo, la casa di famiglia, appunto. Dal punto di vista narrativo, la differenza sostanziale era quella del tempo, dilatato ellitticamente lungo l'arco di una vita intera quella di Scola, concentrata in una sostanziale unità temporale quella di Muccino. E' proprio il senso del tempo invece stavolta a dominare sia l'opera ispiratrice che quella derivata, che già nei rispettivi titoli allude alla lontananza e alla nostalgia: C'eravamo tanto amati (1974) e Gli anni più belli. Muccino prende il canovaccio scoliano e lo adatta ai nostri decenni: la storia dei tre amici e della ragazza amata da almeno due di loro, che si snoda attraverso i decenni, partendo dai primi anni '80 fino più o meno ai giorni nostri. Gli entusiasmi, i sogni appassionati, gli amori impetuosi, le aspettative ingenue si scontrano ben presto con le avversità della vita: la lontananza forzata, la delusione, il tradimento, la difficoltà nel raggiungere i propri obiettivi, ma anche nel mantenere fede ai propri ideali e ai propri affetti. Perfino il successo professionale, economico e sociale, rivela un prezzo molto alto da pagare. E' il terreno su cui Muccino si muove più a suo agio, quello delle storie famigliari o di coppia, in un ambiente piccolo o meno piccolo ma sempre borghese, all'interno del quale è abile nel descrivere amori e conflitti, ambizioni e fallimenti, tradimenti e pentimenti, grazie anche a una capacità di dirigere gli attori – anche nei toni più alti e gridati - non comune nel cinema italiano. Qui Muccino si confronta però anche con la Storia con l'iniziale maiuscola, che per quanto sullo sfondo non è indifferente rispetto ai destini dei personaggi. Se i protagonisti di C'eravamo tanto amati venivano dalla Resistenza e attraversano il dopoguerra fino alle lotte sociali degli anni '60 (non senza rendere omaggio al grandissimo cinema italiano, dal neorealismo di Ladri di biciclette al mito de La dolce vita, quelli de Gli anni più belli abitano tempi – i nostri - decisamente più prosaici. Nel prologo vengono mostrati alle soglie degli anni '80, sulla linea di trapasso che segna il confine tra il fallimento dei movimenti di contestazione degli anni '70 e il riflusso del decennio successivo. Riccardo (poi soprannominato per questo Sopravvissuto, o meglio Sopravvissù) viene ferito in scontri di strada tra poliziotti e manifestanti, ma gli amici che lo soccorrono escono da una discoteca. Le ambizioni intellettuali di Riccardo e Paolo vengono frustrate, per la difficoltà di inserirsi nel mondo dell'editoria o in quello farraginoso e inefficiente del sistema della scuola pubblica; Giulio, invece, dopo gli studi di Giurisprudenza, passa dal difendere gli ultimi e i bisognosi a salvare un ex-ministro impunito colpevole di strage, in una società perennemente malata che passa dal sistema di potere democristiano a quello berlusconiano. Riccardo si illude di poter tornare a perseguire ideali di palingenesi sociale e politico con il nascere del Movimento a cinque stelle; e i tre amici finiranno dopo anni ancora a discutere di principi e di politica, o di niente: di illusioni perdute e forse mai veramente al centro del racconto. Muccino rivela infatti una certa goffaggine alle prese con l'esigenza di raccontare la Storia, ricorrendo spesso a facili e didascaliche marcature temporali: non gli basta farci sentire in discoteca Il tempo delle mele, ma deve anche esibire la copertina del disco; e i passaggi epocali sono spesso allusi da scene viste in tv, dalla caduta del Muro di Berlino alla discesa in campo di Berlusconi al crollo delle Torri Gemelle. Il suo interesse vero è per i sentimenti, per la storia d'amore tra Paolo e Gemma e tra Gemma e Giulio; per la frustrazione di Riccardo il cui fallimento professionale trascina in rovina anche la famiglia; per il disagio di Giulio che invece il successo l'ha conseguito, ma che stenta a rassegnarsi a pagarne il prezzo. Alle marcature storiche posticce corrispondono quindi non a caso i racconti sguardio in macchina dei quattro protagonisti, frasi fugaci lanciate in fretta e in confidenza allo spettatore mentre la vita li trascina via. Da questo punto di vista il film, che soffre di qualche goffaggine di sceneggiatura (firmata da Muccino e Costella), trova, come quasi sempre succede all'autore, alcuni accenti di verità, ottenuti grazie all'abilità nell'entrare in intimità con i personaggi e alla già citata capacità nel dirigere gli attori. Con qualche difficoltà, questa volta, nel tenere a bada il manierismo e le maschere preesistenti di interpreti molto tipizzati, alle prese con personaggi non privi di stereotipi e schematismi. Mi pare ci riesca bene con il solido Favino; la Ramazzotti è sul crinale tra intensità e manierismo, mentre Santamaria e Rossi Stuart mi sembrano indulgere di più nelle rispettive caratterizzazioni; una piacevole sorpresa è la presenza della cantante Emma Marrone, con un personaggio non principale ma neppure secondario, che svolge egregiamente il suo compito nel suo debutto cinematografico, e molto azzeccate sono le scelte dei giovani che impersonano i personaggi all'inizio (anche se il passaggio ad un Favino cinquantenne che discute la tesi di laurea è molto stridente). Ma se a nessuno dei personaggi vengono risparmiate sofferenze, delusioni e fallimenti, anche per propri errori o per propria incapacità, qualche dubbio di misoginia sorge a vedere la rappresentazione del personaggio di Gemma, l'unica dei quattro amici a non proseguire gli studi, ad avere un comportamento sessuale molto disinibito (“la dà via con la fionda”, dice di lei un'icastica battuta), a tradire l'innamoratissimo Paola; e per altro anche gli altri personaggi femminili sono forse più negativi che positivi, come la frivola Margherita, moglie di Giulio, o la rancorosa (non le mancano però i motivi) Anna, moglie di Riccardo. Scola chiudeva su una nota amara e incrinata; Muccino, dopo il finale problematico di A casa tutti bene, sceglie stavolta un finale forse a lui più congeniale, risarcitorio e consolatorio. Vince l'amicizia che supera il tempo e le incomprensioni, vince l'amore che vince sugli errori e su tutto, vince la speranza nei giovani; e quindi, forse, gli anni più belli devono ancora venire. FIGLI di Giuseppe BonitoFigli può essere letto come un altro dei ricorrenti tentativi di replicare, rinnovandola, la commedia all'italiana classica. Le premesse sono promettenti. Alla scrittura c'è Mattia Torre, acclamato autore (scomparso prematuramente tra il rimpianto generale; dirige il film Giuseppe Bonito, già assistente alla regia in Boris) di script televisivi come appunto Boris e La linea verticale, che già vedeva protagonista Valerio Mastandrea; nelle parti principali, sulle quali si regge l'intero film, ci sono Valerio Mastandrea, specialista di una recitazione autoironica e sommessa che mescola costantemente umorismo e malinconia, e Paola Cortellesi, straordinario talento comico nel cabaret televisivo, già accreditata come interprete di molte commedie cinematografiche, ma con l'ambizione di estendere la propria gamma espressiva, anche in situazioni teatrali, fino a registri decisamente drammatici. Forzando l'argomentazione, forse in modo indebito, si può dire che proprio nel rapporto tra cinema e televisione (non si dimentichi che anche Mastandrea ha esordito in tv, nel Maurizio Costanzo Show) si può trovare una chiave di lettura di Figli. Se, con una schematizzazione discutibile e convenzionale, il cinema è il racconto di vicende e personaggi eccezionali, più grandi (anche in senso letterale) della realtà, la televisione può invece essere identificata con il racconto del quotidiano, nel quale lo spettatore si identifica o trova una propria collocazione. Il cinema è il regno del tragico, dell'eccezionale, del più grande della vita, del conflitto, talvolta anche fatale; la televisione è il regno del quotidiano, della vita come flusso, dove i conflitti sono superabili in una logica di continuità e di serialità, dove le vicende si rinnovano di giorno in giorno, di episodio in episodio. In Figli, ci troviamo in una situazione in cui è assente non solo la dimensione del tragico (è ovvio, ci troviamo precisamente nel territorio della commedia), ma anche quella del drammatico o del conflitto, sulla quale anche la commedia e il comico devono trovare fondamento. Nicola e Sara sono una coppia come tante, sulla quarantina, sposata da anni. Non sembrano avere particolari problemi: entrambi lavorano e, a parte i riferimenti a mitologiche e persecutorie cartelle esattoriali, le difficoltà sembrano limitarsi a clienti troppo tentennamenti o poco collaborativi; la figlia maggiore sembra brava e responsabile; ma il figlio neonato piange. Il pianto del bambino, depotenziato per una trovata di messa in scena che lo sostituisce fin dall'inizio e ad ogni successiva ricorrenza con le note della Patetica di Beethoven, è il problema: l'unico, la molla drammaturgica da cui il film dovrebbe prendere spunto ed energia per il suo sviluppo. La struttura paratattica, episodica, scandita da capitoli intitolati a situazioni (Il sonno) o personaggi (I nonni), lo rendono già un prodotto perfetto per la serialità televisiva: per una sitcom, più che per la commedia italiana. Il gesto tragico del suicidio dalla finestra diventa, in una logica, appunto, televisiva, un tormentone, una gag che esaspera iconicamente la condizione di stress dei protagonisti, ma dopo la quale il personaggio suicidatosi torna vivo e vegeto ad interpretare il successivo episodio. È illuminante il paragone con un classico uscito nel 1967, nel periodo d'oro della commedia all'italiana, Il padre di famiglia, diretto da Nanni Loy e interpretato da Nino Manfredi e da(lla mia omonima) Leslie Caron. Anche qui siamo alle prese con una coppia (nota bene: di professione architetti, ovvero in qualche modo progettisti di futuro, mentre quella di Figli esercita professioni nell'ambito della food economy, che soddisfa gli appetiti materiali con il gusto contemporaneo del maquillage estetico) messa in crisi dai problemi della genitorialità, dal flusso dei problemi quotidiani. Ma per loro in gioco c'è la perdita degli ideali giovanili, la frustrazione di non trovare più la forza, l'energia, il tempo per cercare, magari velleitariamente, di cambiare una società inegualitaria, conservatrice, avida solo di profitto. La famiglia appare una struttura naturale ma costrittiva che impedisce o ostacola il cambiamento e il progresso sociale. Il dramma di Nicola e Sara, invece, è quello di non poter andare al ristorante (anche se avrebbero la baby sitter) o di poter passare una serata con gli amici per colpa dei figli. La dimensione sociale è tutta lì, quella politica non esiste. Nel film non esistono servizi pubblici sociali, non esiste solidarietà parentale o amicale. Ogni tanto si parla astrattamente, ironicamente, del fatto di fare (in quanto famiglia) il proprio dovere, di essere all'altezza del Paese e della comunità: entità metafisiche, invisibili, fuori inquadratura. Appunto: iI problema del padre (o meglio dei genitori) di famiglia (guarda caso quando i due si devono inventare un'identità alternativa per una festa in maschera si presentano vestiti come la Sposa di Kill Bill e Drugo di Arancia meccanica, due antieroi celibi, individualisti e asociali) non è più quello di migliorare la società bensì quello, nel migliore dei casi, di adeguarvisi. Ma non si può fare neppure questo: di là c'è il bambino che piange. FAVOLACCE (Ita-Svizz) dei fratelli (Damiano e Fabio) D'InnocenzoFavolacce comincia con una plurima autofalsificazione dei punti di vista. Una voce narrante incorporea, di un adulto maschio, afferma di aver ritrovato nella campana per la raccolta della carta il diario di una bambina, di averlo letto, e di averne proseguito la scrittura inventando il seguito della storia e le parole per raccontarla. “Quello che segue è ispirato a una storia vera; la storia vera è ispirata a una storia falsa; la storia falsa non è molto ispirata”: così la voce fiori campo introduce la narrazione. Quello dei fratelli D'Innocenzo si configura così come uno sguardo disincarnato, quasi entomologico (nel prologo sono inquadrate delle formiche al lavoro), e in quanto tale quasi deresponsabilizzato rispetto alla materia narrata e al modo di raccontarla. Lo stesso titolo, Favolacce, sembra prendere le distanze da un proposito di rappresentazione realistica e sociologica. E' vero che si parla di un quartiere periferico di Roma, di personaggi realistici, che vivono in ambienti credibili, in un contesto geografico e storico ben determinato; eppure gli autori dichiarano un intenzione favolistica, irrealistica, storpiata inoltre dal dispregiativo che ci fa capire di iniziare la visione che non si tratterà di un racconto di fantasia mirato alla consolazione e al lieto fine. Un gruppo di famiglie romane, che vivono in una periferia residenziale, in ordinate casette che ricordano tante altre realtà abitative in giro per il mondo (ne abbiamo tanti esempi anche nel cinema, soprattutto americano: di recente ho visto Suburbicon, firmato da Clooney e da altri due frères terribles, i Coen). Padri, madri, figli e figlie (Elio Germano è solo la punta di diamante di un cast corale che comprende anche molti giovanissimi), in appartamenti con giardino che sono apparentemente delle comfort zone inattaccabili. Tutto il film inoltre si svolge in un'immutabile estate, piena di sole, con il costante frinire delle cicale in sottofondo, nella calda luce estiva che splende su case, campagna, spiagge. Eppure, come il film racconta per un preciso partito preso, quelle case che sembrano così perfette e confortevoli sono ricettacoli di infelicità, di insoddisfazione, di rancore inespresso. Le situazioni all'apparenza più innocenti e felici, come una piscina gonfiabile in giardino o la festa di compleanno di una ragazzina, diventano occasioni di invidia, di malevolenza, di nichilistica frustrazione. La mancanza di valori e di obiettivi, l'insoddisfazione profonda che corrode il cuore degli adulti, e che si trasmette anche attraverso atti di violenza fisica e verbale verso i più giovani, semina e coltiva un malessere profondo anche nei figli. Quelle case sono letteralmente (o favolisticamente) delle bombe pronte a scoppiare, in quegli appartamenti si diffondono letteralmente (o favolisticamente), veleni letali. Non c'è un pifferaio magico, o ce ne sono una marea, o la società stessa è un pifferaio magico che conduce alla distruzione e all'autodistruzione (“così finisce tutto”, è la speranza espressa da uno dei giovanissimi protagonisti). I D'Innocenzo (un cognome che suona ironico rispetto ai loro film che parlano essenzialmente di colpevolezza), come dichiarato, variano i modi dello sguardo e della narrazione. Una bambina parla attraverso la voce e le parole di un adulto che non sapremmo identificare; i giochi dei bambini in giardino con l'acqua sono ripresi con una camera mobile, immersiva, e in controluce estatici che sembrano alludere al cinema di Malick; una scena drammatica è ripresa con la camera immobile in campo lungo e sbilenco, con una distanza e un'obliquità agghiaccianti; un primissimo piano fisso è invece dedicato al volto sdraiato del padre di Alexia e Dennis, che, dopo aver scoperto l'orrore nella propria cucina della casa torna a stendersi nel letto al piano di sopra, quasi a sperare che quell'orrore si dissolva come fanno i brutti sogni, e sapendo che non potrà essere così; infine l'inquadratura si incorpora con quello delle telecamere televisive o nello schermo stesso della tv, a raccontare una tragedia annunciata mostrandone i dettagli più morbosi e scabrosi. Il narratore infatti, pentendosi di aver raccontato una storia così “triste, amara e pessimistica”, dichiara l'intenzione di voler ricominciare dall'inizio; ma è una beffa atroce, e il ritorno sui propri passi non rimedia agli errori e alle tragedie, ma per le ribadisce in un circolo temporale paradossale. I D'Innocenzo dopo il credito conquistato con l'esordio nel noir minimalista de La terra dell'abbastanza, confermano di essere degli autori da seguire. Il loro è un cinema aspro, anticonsolatorio, programmatico nel proprio nichilismo privo di speranza e nel loro sguardo freddo e antiempatico. Qui rispetto all'esordio si nota una cura formale più precisa e consapevole, sia nel taglio delle immagini che del montaggio libero e asintattico, sia nel sound design, con una colonna sonora straniante che sembra saturare le sequenze di cigolii e scricchiolii inquietanti. Favolacce, a torto o a ragione, mi ha ricordato (con un'attenuazione delle punte più acide e insostenibili dei due autori) la poetica di cineasti come l'austriaco Seidl (Canicola) o il messicano Reygadas (la sequenza di Dennis perduto nella natura sotto la pioggia sembra quasi una citazione esplicita del prologo di Fiat tenebras lux). Continueremo quindi a seguire i due fratelli, sperando che davvero non “finisca tutto” e con la consapevolezza che loro e noi tutti, come il padre di Dennis al mare, saremo “i primi a non divertirci”. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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