BOYS di Davide Ferrario-TSpiace sempre parlare male di un film, e ancora di più parlare male di un film italiano. D'altra parte si vedono di più i difetti delle cose che ci stanno più vicino (all'opposto di questo paradosso ci sta il favore spesso sproporzionato di cui gode l'esotico cinema d'Oriente agli occhi della critica occidentale). Faccio questa imbarazzata premessa perché Boys mi è proprio sembrato un film poco riuscito. L'idea forse era buona, riunire un gruppo di attori italiani non più giovani e fargli interpretare i componenti di una rock band di un certo successo negli anni '70; dare ai quattro (uno in realtà è il fratello più giovane del quarto componente, scomparso anni prima) l'occasione di un'ultima fiammata di notorietà, quando un giovane trapper è indotto a realizzare la cover di un loro vecchio pezzo per acquistare i favori della critica più snob e attempata; e spedirli ad ottenere il consenso alla cessione dei diritti anche da parte della ex-cantante della band, che ora vive nella campagna molisana; così i quattro intraprendono un viaggio che ha finalità commerciali ma anche un viaggio sentimentale nel passato. Ma ben poco funziona nel film, a cominciare dal disegno dei personaggi che è fiacco. Sia come gruppo sia individualmente i personaggi non brillano certo di simpatia e di vitalità. Nel presente ciascuno si è adattato alla prosaica realtà dei tempi e dell'età, ma anche dal loro passato, per quel che è dato saperne, ben poco emerge dello spirito rock, ribellistico e politico degli anni '70. I quattro musicisti sembrano degli anziani non particolarmente vivaci, abbarbicati al totem delle loro vecchie canzoni; i pezzi della band erano stati scritti dal membro scomparso e loro continuano a macinare i loro immutabili pezzi del passato, mentre ben poca altra musica si ascolta nel film che non siano i loro brani (scritti e musicati nella realtà da Mauro Pagani). Anche il viaggio attraverso l'Italia ha ben poco di quello che ci sia spetta dall'avventura on the road, in un itinerario praticamente privo di paesaggi e di contesto sociale. Il racconto si disperde in zone morte, tra una lunga sequenza in piscina o le gag (poco o affatto divertenti) sul tumore alla prostata di uno dei protagonisti e sulle sue conseguenti difficoltà erettili. Per il resto ci si aggira nei territori della prevedibilità, tra revival di storie sentimentali, il trapper convenientemente stupido e ottuso e la sua agente prevedibilmente antipatica e stizzosa, la cover ovviamente oscena (ma perfino il video trap che dovrebbe essere parodistico è sciatto e privo di verve) e nessuno dubita di come andrà a finire all'atto della firma del contratto. Purtroppo non funziona nemmeno il comparto attoriale, che avrebbe potuto essere l'ancora di salvezza del film. Ferrario mette insieme un quartetto d'attori (Storti, Paolini, Marcoré, Tirabassi) di formazione diversa ed eterogenea (un cabarettista, un attore teatrale, un eclettico conduttore-imitatore-attore-musicista e un attore di cinema-tv-teatro) e impone loro un registro costantemente sottotono, in surplace, che non riesce però mai a dare un guizzo né ai singoli personaggi né alle dinamiche di gruppo, fornendo l'impressione alla fine di un ensemble poco affiatato. Né Ferrario riesce nell'intento di conferire fascino o funzione comica ai personaggi, maschili e femminili, di contorno. Un'occasione sprecata; a pensarci a posteriori, anche il titolo del film, che è quello della band, suona profeticamente privo di fantasia e di spirito.
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I PREDATORI di Pietro Castellitto |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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