BELFAST di Kenneth BranaghSummertime / And the livin' is easy / (…) / Oh, your daddy, he's rich / And your ma', she's good lookin' / So hush, little baby / Don't you cry. / One of these mornings / You're gonna rise up singing / You gonna spread your wings / And take, and take to the sky / Until that morning / Ain't nothing can harm you / With daddy (daddy) and mammy (mammy) / standing by (oh, standing by) Summertime di George Gershwin E così anche Kenneth Branagh firma la sua opera (semi)autobiografica, il suo romanzo di formazione, collocandolo nel luogo e negli anni della sua infanzia, l'Irlanda del Nord degli anni '60. Il mondo rappresentato è quello visto dalla prospettiva di un bambino, e assomiglia a quello cantato della celebre ninna nanna scritta da George Gershwin per Porgy and Bess. Il papà non sarà ricco ma ha la statura di un mito infantile (anche se è a lungo assente per lavorare in Inghilterra), la madre è protettiva e good looking (anche se è preoccupata per debiti e bollette) e niente potrà nuocere ai bravi bambini che hanno a fianco il loro papà e la loro mamma (almeno finché non saranno in grado di dispiegare le proprie ali e la propria voce e volarsene via); la strada è un affollatissimo campo per giochi inesauribili, i vicini si conoscono tutti e vivono in uno spirito solidale e comunitario (a volte ironico e salace), e il cinema spalanca abissi di meraviglia e di stupore, tanto da saturare lo schermo - altrimenti in bianco e nero - di squillanti colori che riempiono gli occhi, e di riflesso le lenti degli occhiali della nonna, di visioni inaudite. Belfast per Branagh è il paradise lost dell'infanzia, colto proprio nel momento in cui nell'Eden si insinua il serpente del Male, rappresentato dall'odio e dall'intolleranza; è l'inizio dei troubles (in paradise, per parafrasare un altro titolo letterario), quando i protestanti cominciano a pretendere con azioni violente la cacciata dei cattolici dalle strade e dalle città in cui avevano fino a quel momento vissuto gomito a gomito. Ma anche gli eventi storici e drammatici sono visti attraverso la lente deformante degli occhi e della capacità di comprensione di un bambino; che vede sconvolto il suo mondo quando passa in pochi secondo da una lotta contro i draghi in cortile alla violenza reale, concreta e distruttiva dei disordini per la strada, con uno sconcerto reso icasticamente da una doppia carrellata circolare intorno al perno di lui immobile a bocca aperta in mezzo alla via, mentre infuria una violenza inaudita e incomprensibile, e prima che il coperchio del bidone dell'immondizia con cui stava giocando si trasformi favolosamente in uno scudo effettivo con cui la mamma li ripara dalle pietre scagliate con odio. Buddy è protestante, ma senza sapere bene cosa significhi, e con un'amichetta tenta maldestramente di incasellare i propri conoscenti, un mondo improvvisamente confuso e diviso tra cattolici e protestanti, in base ai nomi di battesimo. E se il padre di Buddy - colpevole di non schierarsi con i violenti – finisce nel mirino dei facinorosi protestanti, agli occhi del bambino anche questo contrasto si risolve attraverso una fantasia in cui il papà – tra due ali di poliziotti schierati ma impassibili – affronta l'avversario in condizioni di inferiorità (disarmato contro un uomo con la pistola), ma lo sconfigge, come Gary Cooper in Mezzogiorno di fuoco, con tanto di Do Not Forsake Me, My Darling che risuona nell'aria per la via di Belfast. La mamma e il papà sono giovani e belli (Caitrìona Balfe e Jamie Dornan sono entrambi modelli oltre che attori) perché tutti gli eroi lo sono, partecipi della dimensione di un'epica insieme omerica e proletaria. Quelle che alcuni critici hanno preso per leziosità, superficialità e ruffiana carineria (anche il bambino protagonista, Jude Hill, ha ovviamente faccino ed espressività accattivanti, e i nonni hanno il carisma rugoso di Ciaràn Hinds e Judy Dench) a me sono parsi invece tenerezza dello sguardo, capacità e umiltà di sapersi calare nella prospettiva ingenua dell'infanzia. Se le riprese dal basso non sono proprio “ad altezza da bambino” - ma rendono comunque la prospettiva degli eventi più grandi della (propria) vita che ogni bambino ha dovuto conoscere e misurare -, resta comunque l'eco del taglio visivo teatrale di Branagh, presente in sordina perfino nella coreografia delle scene più concitate, tanto che la visione dal basso potrebbe identificarsi anche con quella dello spettatore in sala che guarda gli attori recitare sul proscenio, e la strada di Belfast potrebbe stare quasi tutta nello spazio di un palcoscenico. Branagh d'altra parte è un cineasta navigato, che si è messo alla prova sia con il cinema d'autore che con quello superomistico ( nel film c'è anche una strizzata d'occhi a Thor), sia con Jack Ryan che con Cenerentola, sia con Shakespeare che con Agatha Christie, e quindi Belfast è anche un'opera squisitamente cinematografica. Non solo nell'uso abbondante dei primi piani, o nell'ariosità conferita alle scene dai cieli d'Irlanda (suggestivi anche nel bianco e nero di Haris Zambarloukos, all'ottava collaborazione con Branagh), o nell'uso in colonna sonora delle belle canzoni di Van Morrison (anch'egli originario di Belfast), ma soprattutto nell'uso raffinato dello spazio, dove interni ed esterni si mescolano continuamente grazie soprattutto alle finestre che si aprono continuamente sulla scena, permeabili e quasi osmotici, a mescolare la vita della strada e quella della casa, la dimensione individuale e quella sociale, a comporre una dimensione domestica dove la home è tanto quella dentro le mura domestiche quanto (come più volte ripetono i protagonisti, a proposito di un possibile trasferimento in Inghilterra) quella al di fuori, della comunità e degli affetti (e dove è anche difficile mantenere un segreto). Le cose dei grandi e della vita Buddy le origlia così, volente o nolente, dalle voci dei genitori attraverso una porta aperta o la tromba delle scale, come fanno i bambini, che sembrano non ascoltare nulla e invece ascoltano tutto, rielaborano a modo loro, e spesso capiscono o intuiscono l'essenza delle questioni, nel mezzo di un'educazione sentimentale dove si mescolano le preoccupazioni domestiche e il disordine del mondo, gli insegnamenti degli anziani e gli spauracchi dei preti che minacciano la dannazione eterna, la confusione delle amicizie e l'infatuazione per la ragazzina del primo banco, cattolica, con cui a stento si riuscirà a scambiare una parola. Don't look back, è l'ultimo lascito della nonna mentre l'autobus porta via i suoi cari. E invece Buddy, e Kenneth, sono partiti, ma si sono anche voltati indietro.
0 Commenti
LA FIERA DELLE ILLUSIONI (Nightmare Alley) di Guillermo Del ToroSin dalle prime immagini La fiera delle illusioni ci immerge nel mondo del noir anni '30, quello de Il postino suona sempre due volte, per intenderci, immerso nei brulli paesaggi immortalati dalla pittura di Andrew Wyeth (cfr. l'immagine al fondo dell'articolo). Il vagabondo con un passato oscuro alle spalle (una casa in fiamme, un grosso involto nascosto in un buco nel pavimento) e in cerca di fortuna, il lavoro avventizio in un'America randagia che si sta risollevando dalla Grande Depressione, una coppia in cui insinuarsi, un libretto pieno di segreti, una cassa piena di veleno. Ma il film (tratto dal romanzo di William Lindsay Gresham, che aveva già avuto una traduzione per lo schermo nel 1947, con Tyrone Power protagonista, cui il film di oggi è sostanzialmente fedele dal punto di vista della struttura narrativa) è diretto e scritto da Guillermo Del Toro, un autore che ha una visione teratologica delle storie e della Storia, per cui tutta la prima parte del film è immersa in atmosfere dove al realismo della narrazione si mescola l'onirismo concreto dell'ambientazione, una fiera delle meraviglie piena di freaks (reali o prodotti con arte e cinismo), di fenomeni di natura, di trucchi escogitati per stupire il pubblico campagnolo, tra donne barbute e donne elettriche, nani e forzuti, uomini-bestia e feti deformi conservati sotto spirito. Ma è nel secondo atto che si rivela appieno la morale del film: quando tra ciarlatani e truffatori, maghi e illusionisti, spiritisti e mentalisti, dottori e psichiatri, sia che ci si trovi in una ruspante fiera di campagna che negli ambienti freddi ed eleganti dell'alta borghesia, si scopre che il mondo si divide sempre e solo tra ingannatori e ingannati. E a volte le due categorie possono anche coincidere, visto che ognuno nasconde in sé fragilità, debolezze e segreti rimossi che lo rendono indifeso davanti al fascino della seduzione e della costruzione (a volte innocua, a volte pericolosa) di una rappresentazione fittizia, prodotta a suo esclusivo uso e consumo, almeno finché l'impatto con la realtà farà esplodere la bolla dell'illusione. Del Toro allestisce un noir in purezza, preciso nelle atmosfere e avvolgente, di grande eleganza figurativa, immerso in atmosfere plumbee e invernali fotografate dal danese Dan Laustsen (già collaboratore in precedenza del regista spagnolo), diviso in due parti (con molti esterni nella parte rurale e una prevalenza di interni in quella urbana), raccontando in realtà una vicenda circolare di ascesa e caduta. I personaggi sono spesso inquadrati dal basso, non per esaltarne il titanismo, ma al contrario per ridimensionarli in una realtà più grande di loro, anche quando credono di dominarla. Gli attori del ricco cast (Bradley Cooper, Cate Blanchett, Rooney Mara, Toni Colette, Willem Dafoe) rispondono ad un progetto di stilizzazione, per cui sono utilizzati in funzione della caratterizzazione fisica e della loro storia di interpreti; tra tutti spicca per fascino ed efficacia la dark lady di Cate Blanchett, sinuosa e incantatrice come un serpente dalla pelle pallida, i capelli biondi e la bocca scarlatta. Il tema dell'illusione, o meglio della consapevole e pianificata fabbricazione dell'illusione, ha fatto pensare a molti che in realtà il film parli (anche) del potere affabulatorio e fascinatorio del cinema. La natura magico-illusionistico del cinema fu tematizzata da Orson Welles, che ad essa dedicò un film metatestuale come F for Fake (e che fece la sua ultima apparizione in tv, il giorno prima di morire, nei panni di un prestigiatore). Ma in questo caso il film parla, forse più che del cinema come linguaggio dell'illusione, del cinema come fabbrica delle illusioni. La molla che spinge i personaggi del film non è mai quella del desiderio di narrare una favola, di costruire una realtà estetica e morale alternativa: protagonisti e comprimari de La fiera delle illusioni sono mossi sempre da moventi utilitaristici: i loro inganni sono finalizzati a procurarsi prima di tutto denaro, e poi fama e potere, dal desiderio di affermazione, di rivalsa, di sopraffazione, di vendetta. Gli illusionisti del film vogliono dare ai loro clienti - usando strumentalmente a questo scopo tecniche psicologiche rudimentali o più raffinate - quello che loro desiderano vedere, che sia un bruto che stacca a morsi la testa di una gallina o che una ragazza morta che resuscita dall'oltretomba. Un po' registi che evocano ad arte una realtà fittizia, insomma, e un po' esperti di marketing che quella realtà la disegnano sulla misura dei bisogni dei loro spettatori/vittime. QUEL GIORNO TU SARAI (Evolution) di Kornél Mundruczó L'inizio di Quel giorno tu sarai è di una potenza ipnotica. Tre personaggi in abiti da lavoro entrano in una stanza nuda, sporca e senza finestre. In silenzio, cominciano a pulire pavimento e pareti, con secchiate d'acqua e spazzoloni. La mdp a mano segue in piano sequenza, mobile e senza stacchi, i tre personaggi nella loro silenziosa sarabanda, seguendoli come topi che si agitano in una gabbia, o come muti personaggi beckettiani impegnati in una missione insensata. Ma presto lo spettatore comincia a rendersi conto che acqua, calce, spazzoloni e la muta frenesia degli uomini non riusciranno mai a cancellare l'orrore di quel luogo, come tutta l'acqua del mondo e tutti i profumi d'Arabia non sarebbero mai riusciti a cancellare le macchie e il puzzo del sangue dalle mani di Lady Macbeth. Infatti da ogni crepa nei muri, da ogni fenditura, da ogni bocchetta della stanza gli uomini cominciano ad estrarre grumosi filamenti sempre più lunghi, e poi intere matasse aggrovigliate di capelli umani. Gli uomini sono attoniti dall'orrore, fino a che non sentono il lamento di un bambino, e allora da un buco sotto le lastre del pavimento di cemento estraggono una bambina piangente, nuda e sporca come la stanza, ma viva. In un apparente piano sequenza ininterrotto che si fa sempre più vertiginoso, gli uomini escono dalla stanza con la bambina in braccio ed emergono nell'esterno luminoso e freddo di un campo di concentramento in smantellamento, coperto di neve sporca. La bambina viene affidata ad un soldato con la stella rossa sul berretto e comincia la sua corsa verso il futuro, seguita ancora da una mdp che li segue da vicino, ancora senza stacchi apparenti, per librarsi alla fine nell'alto del cielo bianco, sopra la distesa delle baracche del campo di sterminio. Si chiude così Eva, il primo episodio, quasi muto, con la ri-nascita di una bambina direttamente partorita dal buco nero del basso ventre dell'orrore più sporco e profondo immaginabile. In Pieces of a Woman una donna, discendente da una stirpe che aveva conosciuto gli orrori del lager, elaborava un terribile lutto personale fino a trovare un nuovo motivo di consolazione e di speranza; in Quel giorno tu sarai (Evolution è il titolo originale del film, scritto ancora una volta con Kata Wéber e prodotto da Martin Scorsese) l'elaborazione del trauma si ripercuote attraverso le generazioni, in cerca di una via di fuga dall'odio, dalla violenza e dall'orrore. Se il film precedente iniziava con un parto e con una bambina morta in una casa pronta ad accoglierla e terminava con una nuova bambina arrampicata su un albero in mezzo a nuovi frutti, stavolta il film inizia con una bambina viva partorita dalla pancia degli inferi e finisce con un bacio. Da Eva, la prima donna - che anziché essere cacciata dal paradiso viene estratta dall'inferno - si passa a Lena, la figlia che si occupa dell'anziana madre nel secondo episodio a lei intitolato. Il conferimento di una benemerenza a Eva (ma lei deve trovare i documenti per provare di essere veramente ebrea, come una volta doveva invece nasconderlo per sopravvivere) diventa un'occasione per un confronto tra madre e figlia (come, al maschile, nel Maus di Spiegelman) sul peso dei ricordi e della memoria, sull'appartenenza, sull'eredità terribile di chi è sfuggito ad una condanna infondata e inspiegabile che ancora rimbomba nelle orecchie dei sopravvissuti e dei loro discendenti. Mundruczó introduce altre metafore (la scarica diarroica che fa dire dalla madre alla figlia, impegnata – di nuovo – a pulire il pavimento “abbiamo una vita di merda; tu in senso metaforico, io letterale”; la cascata d'acqua inarrestabile che irrompe nella casa a scompigliare l'ordine e i ricordi) e insiste ancora nel partito preso del piano sequenza, con virtuosismi (la mdp ad un certo punto esce dall'appartamento attraverso una finestra aperta e rimane sospesa nel vuoto ad osservare la scena dall'esterno) che rischiano di far prendere il sopravvento alla prodigiosa abilità tecnica a scapito del senso. Il terzo episodio è imperniato su Jonas, il figlio di Lena, studente liceale che malgrado voglia prendere le distanze da un passato ingombro di ricordi e tradizioni che non sente come propri, si trova ancora una volta esposto alle angherie di bulli che prendono a pretesto la sua razza per sfogare la propria ottusa e ignorante brutalità. Un apparente ininterrotto piano sequenza ci fa seguire le peregrinazioni di Jonas, che cerca evidentemente una sua strada per il futuro, tra la casa abitata da una madre imbrigliata suo malgrado in un passato che a lui non dice più nulla e il presente di una scuola dove essere un ebreo è sempre una colpa da scontare nell'umiliazione. Jonas si balocca truccandosi con piaghe e ferite che lui non ha mai conosciuto, e nel frattempo cerca con la forza dell'istinto una via d'uscita alle strettoie della vita. La trova in una ragazza; che arriva da un Paese, da una cultura, da una religione diversa dalla sua; e che è senza capelli (suo padre l'ha rapata perché non gli piacevano i capelli blu - e di che colore gli piacciono? le chiede lui – ma intanto vengono in mente quei capelli estorti rifugiatisi ostinati nelle fessure del lager nel primo episodio). In Pieces of a Woman il mondo e la speranza rinascevano con una bambina appollaiata tra i rami di un melo carico di frutti; qui il mondo rinasce nel bacio di due ragazzini appartati dal mondo, sulle rive di un fiume che scorre. BENEDETTA di Paul VerhoevenA Verhoeven non interessa tanto la Storia (lo si era già visto in Black Book); gli interessano molto di più le storie, gli intrecci, i destini dei suoi personaggi. E gli interessano forse ancora di più, moltissimo, le sue donne protagoniste, che al variare dei contesti storici, dei Paesi, delle epoche, delle età, delle professioni, delle classi sociali, mantengono costanti alcune caratteristiche. Sono donne forti, volitive, padrone del proprio destino, pulsionali, assetate di piacere, abili dissimulatrici, manipolatrici, perfino ciniche. Fanno parte della galleria, ad esempio, la Catherine di Basic Instinct, che cerca il proprio piacere attraverso il sesso e la morte, dotata di un'abbagliante sensualità capace di accecare i detective incaricati di indagare su di lui; la Rachel di Black Book, che combatte la sua personale Resistenza contro il nazismo con le armi della dissimulazione e della seduzione; la Michèle di Elle, inflessibile manager capace di gestire tra sesso e potere anche l'economia libidica delle proprie pulsioni e perfino uno stupro subito. Il regista olandese si trova quindi perfettamente a suo agio nel raccontare (basandosi liberamente sul saggio di Judith C. Brown Atti impuri – Vita di una monaca lesbica nell'Italia del Rinascimento) la vicenda di Benedetta, entrata giovanissima in un esclusivo convento femminile di Pescia (per essere ammesse le fanciulle devono avere alle spalle una famiglia in grado di pagare una lauta dote alla badessa). La tranquilla vita di Benedetta viene sconvolta quando arriva in convento la giovane Bartolomea, sfuggita alle angherie paterne e famigliari, ma che rivelerà ben presto una condotta sessuale spregiudicata, capace di risvegliare gli istinti segreti di Benedetta. Benedetta in preda alle tentazioni e all'irrompere della pulsioni comincia ad avere crisi isteriche, visioni mistiche in cui un Gesù aitante e armato di spada viene a salvarla dai pericoli di un mondo fantasticamente sessualizzato, e a manifestare ferite alle mani, ai piedi e al costato analoghe a quelle di Cristo. Mentre la sua frenesia trova appagamento con la scoperta dell'erotismo insieme all'intraprendente Benedetta, le sue crisi mistiche le fanno guadagnare il titolo di badessa, sia grazie all'odore di santità che emana dalle sue piaghe autoindotte, che in base ai calcoli utilitaristici della gerarchia del monastero, che fiuta i vantaggi di avere a disposizione una sposa di Cristo così attraente per la fede popolare. Se Benedetta è più folle e isterica, o più astuta simulatrice e calcolatrice; più mistica, o più assetata di potere e di sesso, è difficile dirlo, e Verhoven si diverte a non sciogliere del tutto i nodi di una personalità ambigua e contraddittoria, ma che appare comunque volitiva e consapevole. Intanto, mette in scena un Rinascimento un po' da operetta, con interni ben illuminati, esterni al risparmio e strade che sembrano asfaltate, e in cui non si fa mancare nulla in termini di stereotipi: dalle suore lussuriose ai perfidi nunzi vaticani, dai boia alle ciniche badesse, dalle camere di tortura ai roghi in piazza, dalla peste nera alle comete fiammeggianti; immergendo il tutto (lui che si dichiara ateo di formazione protestante) nel calderone dell'amata/odiata iconografia cattolica, spesso presente nella sua filmografia, sempre sbeffeggiata e generosamente sessualizzata. Verhoeven rappresenta quindi il mondo della religione cattolica a modo suo, che è il modo spregiudicato e spudoratamente provocatorio che era già ne Il quarto uomo (anche lì una cinica vedova nera, una Madonna che parla, crocifissi ed erotismo) e che tornava ancora nel recente Elle: in Benedetta, tanto per dire, un Gesù crocifisso invita la monaca vogliosa a denudarsi e a togliergli quel cencio che porta sui lombi e che è la sola cosa che ormai li divide, e una statuetta della Santa Vergine opportunamente ritoccata può diventare un funzionale godemiché. Tra versione erotica de Il nome della rosa e epigono elegante e tardivo del filone decamerotico, tra gli interni di convento di Borowczyk e l'indiscreto fascino del peccato di Almodovar, Benedetta può divertire con la sua scanzonata blasfemia o destare insofferenza, anche perché Virginie Efira e Daphne Patakia, benché generose delle loro nudità, non hanno né l'imperioso sex appeal di Sharon Stone né la sublime e ardente algidezza di Isabelle Huppert. Ma il vedere la conclusione affidata alle due giovani protagoniste completamente nude, che discutono animatamente sullo sfondo del paesaggio toscano dopo la catastrofe che hanno involontariamente scatenato, suscita comunque una disarmata simpatia. PETITE MAMAN di Céline SciammaUna delle ragioni della riuscita e dell'incanto di Petite maman risiede nella sua semplicità. Che non è superficialità dei temi, né banalità dell'apparato simbolico. Tutt'altro. Ad essere semplice è innanzitutto la messa in scena. A parte il prologo, il set è costituito solo da una casa (anche se “doppia”) e dall'ambiente naturale circostante e ci sono solo cinque (o meglio quattro) personaggi. Semplicissima è la trama: la nonna di Nelly, una bambina di otto anni, muore in una casa di riposo. La bambina segue la madre nella casa della nonna, isolata in mezzo a un bosco. Ma la mamma non regge al peso del dolore e dei ricordi e lascia Nelly sola col papà, che deve svuotare la casa. Nelly gioca da sola, esplora i boschi, conosce una bambina che abita lì vicino. Quando finalmente la mamma torna, è ora di tornare a casa e di superare i giorni del lutto. Tutto semplice, non fosse che rapidamente si accumulano le coincidenze: la bambina conosciuta da Nelly nel bosco le assomiglia come una goccia d'acqua; ha 8 anni come lei; come sua mamma da piccola sta costruendo una capanna di rami nel bosco; come sua mamma da piccola si sta preparando a subire un intervento; compie gli anni lo stesso giorno di sua mamma, e la casa dove vive è identica alla casa della nonna in cui Nelly passa i suoi giorni. E il suo nome, Marion, è lo stesso nome della mamma di Nelly. Nelly è appena turbata da queste scoperte; e altrettanto contenuto è lo stupore di Marion nell'apprendere che nel futuro sarà la madre di Nelly. Marion rivela a Nelly il mondo di sua mamma quando aveva la sua età; Nelly racconta a Marion il suo futuro. Semplicemente, il tempo sembra essere diventata una membrana osmotica e permeabile attraverso il quale le due bambine possono conoscersi e comunicare. Il rimpianto di Nelly di non aver dato un adeguato addio finale alla nonna, la solitudine per l'assenza della mamma e per l'isolamento, la paura per un futuro che si è rivelato all'improvviso imprevedibile, destabilizzante e crudele, producono in qualche modo l'incontro fantastico con la propria petite maman sorta dai boschi. La materializzazione della piccola Marion, proiezione del desiderio e della fantasia di Nelly, si realizza infatti nel bosco, spazio magico-fiabesco per eccellenza, ma permea e va ad abitare in maniera perturbante anche lo spazio domestico della casa, insieme uguale e diversa, sia che sia abitata da Marion e sua madre o da Nelly e suo padre. Tuttavia anche lo spazio partecipa di una dimensione onirica e realistica insieme, e accade quindi che le due bambine siano reali e visibili tanto alla presenza del papà di Nelly che alla mamma fantasmatica di Marion (ovvero la nonna già deceduta di Nelly). Lo spazio è di nuovo reale e simbolico: le due bambine insieme costruiscono una capanna di rami e visitano in canotto la piramide di pietra posta al centro del lago: luoghi-ricettacolo che sono insieme rifugi dal mondo, uteri materni, spazi mentali inesplorati. La Sciamma (una delle registe che incarna al più alto grado la specificità di uno sguardo cinematografico di genere) prosegue con linearità e coerenza tematica e stilistica la sua esplorazione dell'identità femminile, e dei suoi confini e sconfinamenti, riecheggiando molti dei suoi temi e situazioni (presenti sia nei film da lei diretti che nelle sceneggiature di film diretti da altri registi), come ad esempio il rapporto tra madri e figlie, la dislocazione (le sue protagoniste si trasferiscono spesso a vivere in luoghi diversi da quelli abituali), la doppia identità o il bosco come luogo delle rivelazioni già presenti in Tomboy. Petite maman potrebbe poi essere considerato quasi una riduzione in sedicesimo del Ritratto di una giovane in fiamme: anche qui ci sono l'arrivo in un luogo sconosciuto, due giovani o “piccole” donne alla scoperta di se stesse attraverso il rispecchiamento, la presenza ai margini di una figura materna, il rapporto tra dimensione domestica e natura, una soglia nel futuro che segnerà una separazione. Se là era l'arte a fare da tramite alla scoperta del proprio io, qui è la fantasia e il gioco. Ma se nel Ritratto l'esito era una separazione (nel mondo della vita ma non in quello del sentimento), qui la storia si chiude con una ricongiunzione che non è solo fisica, ma di affetti riconciliati nell'accettazione del dolore e dell'ineluttabile e nel superamento del lutto e delle paure dell'infanzia. MADRES PARALELAS di Pedro AlmodovarMadres paralelas (anche se sulla locandina ne rappresenta uno in atto, intenso e geometrico), è pieno di abbracci spezzati. Le madri partorienti sono separate (e il montaggio alternato si sofferma a mostrare il dolore fisico della separazione) dai loro nascituri; poi dai loro neonati; poi ciascuna dal proprio figlio; poi ancora dal bambino che una sorte maligna ha loro assegnato. E le madri sono state separate dalle proprie madri (a causa della morte, o del semplice egoismo quando la madre di Ana si invola per inseguire narcisisticamente la propria realizzazione individuale come attrice nel ruolo della Dona Rosita descritta da Garcia Lorca, una donna condannata – e autocondannatasi – alla solitudine e alla sterilità), e queste dai propri avi, in una catena dolorosa che risale di generazione in generazione. Una condizione esistenziale e antropologica tragica che segna la storia di ognuno, e che diventa Storia con la S maiuscola quando incontra la grande frattura, quella faglia storica, politica, familiare rappresentata dalla Guerra Civile. La guerra fratricida è stata ed è il grande rimosso non solo del cinema di Almodovar, che non ne aveva mai fatto cenno nei suoi film precedenti, ma della stessa Spagna democratica: la legge sulla “Memoria historica” viene approvata solo nel 2007, dal governo Zapatero, ma poi svuotata e di fatto azzerata dal Popolare Rajoy negli anni 2013-14. E' purtroppo una situazione che non riguarda la sola Spagna: da uno spunto assai simile (l'indagine di un giovane antropologo forense che indaga sui desaparecidos eliminati dalla dittatura) si muove anche un film recente come Nuestras madres, ambientato in Guatemala e che parla di tragedie molto più vicine ai nostri tempi. Si è sottolineato molto il ruolo dell'importanza della memoria celebrato da Madres paralelas, più volte ribadito nel corso del film dagli stessi personaggi ed esplicitata nella citazione finale dalle parole dello scrittore uruguayano Eduardo Galeno: “Per quanto si tenti di ridurla al silenzio, la storia umana si rifiuta di tacere”. Ma se la tragedia che mina le possibilità di felicità dell'essere umano è rappresentata dalla frattura e dalla separazione, e se la memoria è lo strumento per sanare questa frattura per così dire in verticale, nella dimensione della storia individuale e collettiva, è ancora una volta lo stare insieme il mezzo per combattere nel qui e ora la minaccia della lacerazione. Accanto alla fossa nel terreno (piena alla fine non più di scheletri, ma di persone), si riuniscono i vivi, avvinti da legami comuni di memorie e di affetto; si riunisce una collettività. Non contano (solo) i legami di sangue; in quella inquadrata nelle sequenze finali, a rendere omaggio agli avi, è una strana e nuova famiglia allargata composta da vedove, da donne di differente età, sole o con un nuovo compagno, con figli reali o putativi. Il passato si salda con il presente e le persone si stringono insieme per ricucire le ferite e trovare i modi e la forza per affrontare la fatica di vivere. Pedro Almodovar gira intorno a temi a lui consueti (il rapporto con le madri e la maternità, la formazione di “famiglie” anomale e allargate; il gioco del caso e del destino; il rapporto con la morte e con chi non c'è più), ma con l'avanzare degli anni sembra avere sempre più occhi e interesse per il dolor dell'esistenza - comunque esso si possa manifestare e qualunque origine abbia - più che per la sua gloria effimera (l'unico suo tentativo recente di tornare alla spensieratezza e al cinema sregolato e grottesco delle origini, con Gli amanti passeggeri, è stato un vero e proprio inatteso e inattuale disastro). La stessa scelta dell'espressione artistica, che nel precedente Dolor y Gloria sembrava offrire all'autobiografico protagonista un risarcimento attraverso il cinema per i dolori dell'esistenza, diventa qui, nella figura della madre di Ana, che antepone il teatro alla figlia, una scelta egoistica e crudele. La fotografia, protagonista dei titoli di testa – bellissimi come in tutti i film di Almodovar – compare più volte nel corso del film: è la professione di Janis, che all'inizio cerca di cogliere durante uno shooting fotografico la personalità di Arturo, di cui presto si invaghirà (ma rifiutandosi di fotografarlo con un teschio, simbolo della sua professione di antropologo forense); si degrada poi ponendosi al servizio dello spettacolo delle merci, quando Janis accetterà di prestarsi a conferire glamour e appetibilità a degli accessori di abbigliamento; si riafferma alla fine con una funzione nobile quando Arturo fotografa i resti nella fossa comune, restituendoli alla dignità della memoria. Dignità che non è toccata a Garcia Lorca, citato a più riprese nel film, il più famoso desaparecido della storia spagnola secondo Almodovar, fucilato di nascosto dai franchisti nel 1936, e il cui cadavere non verrà mai rintracciato, malgrado le ricerche effettuate tra il 2009 e il 2012. Penelope Cruz, al suo settimo incontro con Almodovar e vincitrice della Coppa Volpi a Venezia, è ammirevole per naturalezza e credibilità; ma anche la giovane Milena Smit, già notata nel notevole No mataras, è un'attrice da tenere d'occhio. ANNETTE di Leos Caraxl mio colpo di fulmine per Leos Carax è arrivato con Rosso sangue (ma in originale il sangue era mauvais, cattivo): con una Juliette Binoche poco più che ventenne, la faccia incredibile di Denis Lavant, la fisica presenza carismatica di Hugo Pratt, la poesia, la furia, la follia, la corsa fino all'ultimo respiro, disperata, liberatoria e disarticolata, con Bowie che dà la spinta cantando Modern Love. Dopo ho recuperato il suo primo film, Boy Meets Girl, e ho continuato ad attenderlo fiducioso a tutte le sue uscite successive. Non è stato difficile: nei 35 anni che sono seguiti a Rosso sangue Carax ha diretto solo quattro lungometraggi, appuntamenti ogni volta attesi e ogni volta disattesi, dal disastro de Gli amanti del Pont-Neuf (come mandare in fallimento una produzione per un film con due attori e un solo set), al dimenticato Pola X, all'enigma caotico di Holy Motors, fino alla cupa caverna musicale rappresentata di Annette (premio per la regia a Cannes 2021). Nel nuovo film, Henry è uno stand-up comedian in crisi esistenziale e d'ispirazione, che anziché divertirli ormai si limita a provocare i suoi sempre più perplessi spettatori proponendo nei suoi spettacoli le proprie angosce disturbanti. Mal sopporta di contro il successo e l'affetto che il pubblico continua a tributare a sua moglie Ann, amata e apprezzata cantante lirica. La nascita della loro figlia Annette (che in realtà viene impersonata da un'inquietante marionetta - il secondo bambino-mostro di Cannes, insieme a quello di Titane) non migliora le cose. La storia tra i due divi, uno in discesa e l'altra in ascesa, si deteriora sempre di più (puntualmente scandita dai resoconti di tabloid e giornali scandalistici) e culmina in una notte di tregenda, in cui Ann scompare nel mare in tempesta. Henry rimane solo con Annette e con la maledizione scagliata da Ann: la bambina si esprime solo cantando e con le sue performance raggiunge una fama planetaria che getta un definitivo cono d'ombra su Henry. Il film è introdotto da un prologo in cui viene prescritto agli spettatori come comportarsi nel seguire il film, e concluso da un epilogo in cui gli interpreti di personaggi vivi e morti sfilano in un corteo notturno e cantando prendono congedo dal pubblico in sala. Non l'ho ancora detto, ma senz'altro già lo saprete: Annette è un musical, e tutti i dialoghi sono cantati dagli attori sulle musiche appositamente composte dagli Sparks, l'eccentrico duo dei fratelli Mael, prossimo ai 50 anni di attività e recentemente celebrato in un film dedicatogli da Edgar Wright, il regista di Ultima notte a Soho. Annette impone le sue due ore e venti di racconto musicale, su atmosfere costantemente cupe, claustrofobiche, soffocanti (anche quando sono ambientate in spazi ampi come teatri e palazzetti o in mare aperto) e spesso funeree, nelle quali personalmente non ho riscontrato quelle invenzioni visive che mi aspettavo e di cui invece altri parlano. Abitato oltre che dalla marionetta da soli due/tre personaggi protagonisti, il film spreca la presenza di Marion Cotillard, eliminata a metà film, lascia sullo sfondo il deuteragonista interpretato da Simon Helberg (l'Howard Wolowitz di The Big Bang Theory), concentrandosi completamente sul protagonismo assoluto di Adam Driver (coproduttore del film) e sulle angosce di Henry. Nelle quali non è difficile intravedere quelle di Carax, cineasta alla costante ricerca di un cinema “altro” e che si fa un punto d'orgoglio nel confondere, stupire e irritare il proprio pubblico. E nelle quali risuonano gli echi di vicende personali, come il suicidio nel 2011 della compagna Katerina Gobuleva (che ha lasciato “vedovo” anche un altro regista, il lituano Sharunas Bartas, che alla sua memoria ha dedicato nel 2015 il film Peace To Us In Our Dreams). Il manifesto, con i due protagonisti abbracciati che sfidano onde immani e tumultuose che torreggiano su di loro, fa pensare ad un romanticismo dark che è invece assente nel film, interamente occupato dalla espansione narcisistica anche se autopunitiva del personaggio maschile; che ha inoltre l'imperdonabile difetto di impersonare un comico che, durante le lunghe sequenze che lo vedono sul palcoscenico, non fa mai una volta ridere il suo pubblico (o noi pubblico), nemmeno per distrazione, per deformazione professionale o per riflesso condizionato. Se il film è totalmente privo di umorismo, accumula invece diversi elementi spiazzanti: dal modo assolutamente anomalo con cui affronta un genere come il musical (le più riuscite a mio parere sono le scene in cui il cantato si applica al linguaggio ordinario o addirittura tecnico o burocratico, come in un ospedale o in una stazione di polizia); la messa in scena che riesce ad essere insieme minimalista e barocca, intrisa di oscurità; il tono generale che sommerge il realismo con la fiaba nera e il melodramma; la presenza freudianamente perturbante della marionetta al posto della bambina, che diventerà tale solo quando suo padre pentito riuscirà a stabilire con lei un primo vero rapporto umano e affettivo. Un rapporto umano e affettivo che stentiamo a provare verso e il film e il suo autore; forse sarebbe ora che qualcuno consigliasse a Leos Carax (uno che mescolando e anagrammando il proprio nome, Alex, e quello del premio Oscar si è composto un nome d'arte che suona anche come Le Oscar a X...) di scendere dal suo appartato piedistallo, di avvicinarsi a noi spettatori, e di guardarci per una volta negli occhi. LA PEGGIOR PERSONA DEL MONDO (Verdens verste menneske) di Joachim TrierC'è una voce (femminile) off a presentarci il personaggio, una giovane donna irrisolta che passa dall'interesse per la medicina a quello per la psicologia a quello per la fotografia, senza trovare mai soddisfazione né realizzazione. Julie cerca la sua strada nella vita anche in campo sentimentale: cerca un rapporto ma ha paura di legarsi; diffida dell'istituzione familiare e non ha alcun desiderio di maternità; sembra acquietarsi in un legame fisso (con un disegnatore di fumetti più vecchio di lei) ma poi ne fugge alla prima occasione, senza trovare soddisfazione neppure nella nuova situazione. Salvo trovarsi ad un certo punto della sua vita, ancora giovane, a far conto con il passato, con le occasioni perdute, con ciò che non può più ritornare. Diviso in capitoli, con voce fuori campo e parte di una trilogia (dedicata a Oslo) come sarebbe piaciuto al quasi conterraneo e quasi omonimo Lars von Trier (Joachim è nato in Danimarca ma vive e opera in Norvegia); tentato dalla frammentarietà del racconto e del formato narrativo (c'è anche un inserto lisergico in animazione e una sequenza poetica dove la sola protagonista è in corsa in un mondo immobilizzato) come il modello americano 500 giorni insieme (ma senza possederne pari agilità, umorismo e grazia); aggiornato a moderni temi di dibattito (femminismo, sessualità, correttezza politica in campo artistico), il film piacerà forse più alle donne che agli uomini, pur essendo scritto interamente da mani maschili, quelle dello stesso regista e del suo abituale cosceneggiatore, Eskil Vogt. La persona peggiore del mondo (ma l'espressione usata nel film non si riferisce in realtà alla protagonista, come chiunque è portato a credere) racconta una donna d'oggi, un carattere fluido, indipendente, non incasellabile in un ruolo, in un legame, e neppure in una professione, in un racconto che è un po' amaro e un po' romantico, e che come la vita è parte commedia e parte dramma. Si parla tuttavia di commedia nordica, per cui non aspettatevi brillantezza da screwball comedy né battute memorabili alla Woody Allen; e di un dramma comunque temperato che non indulge al pathos. Diciamo che si tratta di un ritratto femminile non convenzionale e di una tranche de vie contemporanea, anche se a proposito dell'eroina protagonista rimane il dubbio: è una donna curiosa e libera o non piuttosto fondamentalmente egoista e velleitaria? L'attrice Renate Reinsve, già presente nel precedente Oslo, 31 august di Trier, ha una faccia aperta e simpatica. Di qui ad assegnarle il premio per la miglior interpretazione femminile a Cannes, però... ULTIMA NOTTE A SOHO (Last Night in Soho) di Edgar WrightEdgar Wright ha una predilezione e una predisposizione per l'ibridazione dei generi e dei toni. L'alba dei morti dementi (benchè si tratti della traduzione italiana dell'originale Shaun of the Dead, che è comunque una storpiatura del romeriano Dawn of the Dead – L'alba dei morti viventi), è un titolo che è già un manifesto d'intenti. Alla vocazione per l'ibrido è dedicato anima e corpo Last Night in Soho, già sdoppiato in una duplice protagonista e in una sfasatura storica: ambientato parte ai giorni nostri (ma ci vuole qualche minuto per rendersene conto) e parte nei favolosi anni '60 della swinging London (nel 1965, per la precisione, a giudicare dal cartellone pubblicitario che pubblicizza 007 – Operazione Tuono), in cui c'è già la fucina di musica, moda e cultura giovanile che ha per epicentro Carnaby Street (ma in cui, almeno nel film, non si ascoltano i Beatles). Seguendo la sua eroina Eloise, aspirante stilista e appassionata di vintage e di anni '60, Wright sembra impostare una storia di conquista del successo creativo e di emancipazione personale, famigliare (c'è già il fantasma di una madre finita stritolata nella morsa spietata della metropoli londinese) e sociale, per poi deviare apparentemente verso una storia di bullismo femminile; ma per scartare poi improvvisamente verso una discesa onirica nella Londra degli anni '60 (un po' come succedeva al protagonista di Midnight in Paris, che si trovava come per incanto nella vagheggiata e frizzante Parigi degli anni '20, ma anche ad Alice che si perdeva nel paese delle meraviglie...), dove la protagonista si sdoppia misteriosamente in una duplice identità; ma per virare verso una critica della società del tempo, che sotto la superficie patinata nasconde la violenza e lo squallore della rapacità sessuale maschile; che trasforma ben presto non solo il sogno in incubo ma anche la commedia fantastica della prima parte in un horror psicologico prima, in uno zombi movie poi, per sfociare in un finale giallo-thrilling grand guignol che tira fuori gli scheletri dagli armadi (quasi letteralmente) e rimette ordine nella confusione onirica, nelle colpe e nelle identità scambiate. Carte forse interessanti nelle mani del regista-sceneggiatore-produttore, e che sarebbero state sufficienti per almeno un paio di film, non fosse che lui decide di giocarsele tutte in un'unica medesima partita, una dopo l'altra e rimescolando continuamente il mazzo. Per apprezzarlo (non nego sia possibile) bisogna lasciarsi andare al flusso del film, lasciandosi divertire e sorprendere dalla girandola caleidoscopica dei salti di genere. Ma in un'operazione in cui lo stile dovrebbe essere ragion d'essere e fulcro centrale, Wright ne sceglie forse troppi. Lo sdoppiamento della sua eroina, soprattutto all'inizio - quando non sappiamo ancora se si tratta di un alter ego della protagonista, di una sua proiezione onirica, di una sua antenata, di un'altra persona vissuta nel passato -, grazie al quale la sbarazzina ragazzina contemporanea (interpretata dalla Thomasine McKenzie che si era già fatta apprezzare in Senza lasciare traccia e in JoJo Rabbit) si rispecchia – letteralmente - nella sofisticata e diversissima aspirante cantante degli anni '60 (la Anya Taylor Joy già magnetica Regina degli scacchi), suona abbastanza stridente. Sembra che a Wright interessi soprattutto disegnare, tessere e far ricadere le pieghe (per rimanere in tema con le aspirazioni della giovane protagonista) di un trip psichedelico (che diventa presto un bad trip) attraverso un'epoca mitica e mitizzata (in cui lui in realtà non era ancora nato), distribuendo omaggi al cinema del passato: dal Repulsion di Polanski (con la giovane bionda e sessuofobica che vaga nella wonderland alla rovescia di una Londra 1965, tanto effervescente quanto inquietante e rapace), da cui vengono tra l'altro le mani che fuoriescono dai muri e dal letto per ghermire l'eroina terrorizzata; ai profondi rossi alla Dario Argento e allo Psyco di sir Alfred Hitchcock (tra scale, soccorritori accoltellati e un'inquietante anziana signora, a sua volta doppio demoniaco del fantasma-angelo custode della madre reale), cui è debitore gran parte del finale del film. A far da testimonial sono due autentiche icone degli anni '60: Terence Stamp, seducente protagonista di tanto cinema d'autore di quel periodo, e Diana Rigg, l'indimenticata Emma Peel della serie tv Agente speciale (The Avengers), alla quale offriva un fondamentale apporto in termini di sex appeal e ironia (anche se i più giovani la conosceranno di più per la sua partecipazione al Trono di spade...). LA SCELTA DI ANNE (L’événement) di Audrey DiwanA Cannes ha vinto l’überfrau oltre la morale, oltre il genere sessuale e oltre l’umano di Titane; a Venezia l’Anne protagonista umanissima di un film umanistico giocato sui toni del realismo sociale. In entrambi i casi donne registe raccontano di gravidanze indesiderate, e mostrano gli sforzi delle protagoniste per liberarsi di un peso né scelto né voluto. Titane guarda ad un futuro da fantascienza (ma attraverso il filtro di una poetica cyberpunk già vista negli anni ‘80), raccontando di un’antieroina ingravidata da una Cadillac - sì, intesa proprio come automobile -, L’événement ad un passato in cui l’aborto era proibito e punito e il solo parlarne destava scandalo. E’ il 1963 e Anne si sorprende incinta, senza neppure aver realizzato pienamente che un rapporto sessuale occasionale con un coetaneo potesse condurre a questa conseguenza. La sua decisione è immediata: Anne non vuole trovarsi prigioniera di una maternità non prevista né voluta, insieme ad un ragazzo che non ama, non stima e che d’altra parte rifiuta ogni responsabilità chiudendosi a riccio in difesa della propria rispettabilità borghese e della propria egoistica libertà. Al contrario, Anne vuole istintivamente ma volitivamente uscire dall’ambiente proletario della sua famiglia, studiare, sostenere gli esami imminenti, leggere libri e magari scriverne; e la sua vita affettiva fa parte di un progetto futuro ancora nascosto e nebuloso dietro questo orizzonte. Scandito inesorabilmente dal trascorrere delle settimane dall’inizio della gravidanza, L’événement racconta del percorso tortuoso nel quale Anne si dibatte, in modo sempre più convulso e disperato, per interrompere la corsa del tempo che scandisce il suo destino. I medici, le amiche, gli amici e il padre del bambino che porta in grembo, le mammane che praticano aborti in clandestinità: Anne rimbalza come una pallina impazzita da uno all’altro, con angoscia sempre crescente, trovandosi spesso in vicoli ciechi e in situazioni sempre più pericolose. Il corpo di Anne perde da subito nel film l’attrattività sessuale, per diventare il campo di battaglia di una lotta che è individuale ma anche politica e sociale. La macchina da presa della Diwan pedina costantemente la sua protagonista - un’Anamaria Vartolomei costretta ad un notevole e riuscitissimo tour de force interpretativo - penetrando nella sua intimità, seguendola nelle visite ginecologiche, nei tentativi maldestri di procurarsi un aborto con le proprie mani, fin dentro le mutande sporche di sangue. Ma non c’è voyeurismo, non c’è morbosità, bensì un sentimento di vicinanza, di rispetto e di pietà nei confronti di una ragazza lasciata completamente sola alle prese con il proprio corpo improvvisamente nemico e con un destino ostile e indesiderato. Come in un altro film al femminile - ma questa volta scritto e diretto da un uomo - premiato a Venezia sempre nel 2021 nella sezione Orizzonti, A plein temps, la vita delle donne viene efficacemente raccontata con cadenze sincopate e quasi ansiogene; ma il film che forse si avvicina di più a L’événement, per tematiche, toni e drammaticità della narrazione, è 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni (anche per La scelta di Anne si era pensato per il titolo italiano a 12 settimane), del rumeno Cristian Mungiu (Palma d’Oro al Festival di Cannes 2007), l’intenso racconto di un aborto clandestino nella cupa Romania di Ceasescu. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
|