LA NOTTE DEL 12 di Dominik MollIn un paesino di fondo valle, nel distretto di Grenoble, qualcuno aspetta una ragazza che sta rientrando a casa in piena notte, le getta addosso del liquido infiammabile e le dà fuoco provocandone la morte. Chi può aver perpetrato un crimine così atroce? E perché? Ad indagare è la squadra di polizia del capoluogo, che comincia a scavare nella vita e dell’amicizia della ragazza. Una ragazza apparentemente semplice, dalle molte amicizie (alcune anche sbagliate) e dalle molto relazioni sessuali. Sull’interrogativo su chi sia l’autore del suo assassinio e su quali motivazioni lo abbiano spinto si impernia la narrazione, seguendo puntualmente l’indagine che si snoda nell’arco di diversi anni e la cui conclusione non è scontata (se non fosse per un improvvido cartello posto prima dell’inizio del film, che purtroppo dà un’inopportuna indicazione sullo scioglimento finale: tenete gli occhi rigorosamente chiusi prima che inizino a scorrere le immagini). Se la prima parte del film ha un impianto corale, dove l’attenzione si distribuisce tra la squadra di sei investigatori alle prese con il caso, la miglior amica della vittima (quella che la conosceva meglio e l’ultima ad averla vista a parte il suo assassino), i suoi genitori, i suoi amici ed ex-fidanzati, mano a mano l’attenzione si focalizza sul giovane ufficiale di polizia Yohan (Bastien Bouillon), per il quale la soluzione del caso diventa gradualmente una vera e propria ossessione. Alcuni personaggi rimangono indietro - i sospettati via via esclusi ma perfino il collega Marceau (Bouli Lanners), il più vicino al protagonista -, ed altri ne compaiono via via: nuovi sospetti, un combattivo giudice istruttore, una nuova collega. E’ forse la comparsa di questi ultimi due personaggi femminili ad aiutare il poliziotto a riconciliarsi con se stesso e con le proprie ossessioni, a farlo uscire dal proprio isolamento venato di moralismo (simboleggiato dai solitari giri notturni in loop su una pista ciclistica) per aprirsi a una prospettiva futura (nelle ultime immagini Yohan corre in bici all’aria aperta, di giorno, tra il cielo e le montagne). Il film, tra polar e noir, con una sensibilità molto francese per le dinamiche di gruppo e i rapporti interpersonali, racconta molto efficacemente il lavoro di indagine e di scavo dei poliziotti, costretti a gettare lo sguardo dove non vorrebbero, costantemente frustrati dalla mancanza di risultati e dalla sensazione di essere beffati dal male e dall’assenza di senso che rischiano di avere la meglio sui loro sforzi e sul mondo. Partendo da uno spunto poliziesco, la morte di una donna - come il Maigret che esce sui nostri schermi quasi contemporaneamente, ma anche come il precedente film di Moll, Only the Animals, dove l'involuto mistero di una scomparsa veniva sviscerato attraverso punti di vista differenti -, La notte del 12 finisce per costruire un ritratto di provincia in chiaroscuro (ma dove lo scuro prevale decisamente sul chiaro, come in Roubaix – Una luce nell’ombra), in cui entrano in gioco la promiscuità sessuale giovanile, sempre passibile di essere interpretata come una colpa in sé (come nel recente e anch'esso francese La ragazza con il braccialetto) ma anche una galleria di giovani maschi all’interno della quale molti (tra linguaggio violento, cinismo, indifferenza, atteggiamenti prevaricatori, gelosia, disagio psicologico) avrebbero potuto legittimamente vestire i panni dell’assassino. Il giovane Yohan vive la scoperta sconvolgente della latenza del male all’interno di ciascuno di noi letteralmente sulla propria pelle, quando sul suo volto disteso insonne la regia sovrappone le fisionomie e le parole dei tanti potenziali assassini. Quasi l’unico “effetto” che Moll si concede in una narrazione sobria e dimessa, efficacemente lineare, dove la tensione cresce malgrado l'assenza di veri e propri colpi di scena, dominata, indipendentemente dalla quantità di sequenze effettivamente ambientate di notte, dalle tonalità cupe del buio della ragione e dell'umanità.
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MAIGRET di Patrice LeconteHo l'impressione che Maigret non abbia avuto fortuna nelle ultime trasposizioni che l'hanno visto protagonista. Si va dall'esagitato visionario – inguardabile - di Castellitto (in una serie tv subito abortita), allo smilzo Rowan Atkinson, che decisamente non possiede il fisico del ruolo. Proprio quello che ormai si ritrova ad avere Gerard Depardieu, trasformato dall'agile e robusto contadino di un film “rivoluzionario” come Novecento alla corpulenza fin eccessiva ma adeguata ad incarnare in un film de papa la figura del più celebre commissario della letteratura francese, già portato sugli schermi da Jean Gabin, Gino Cervi, Bruno Cremer. Proprio qui, nella materializzazione del celebre investigatore nella massiccia corporeità del carismatico attore risiede molta parte dell'interesse del film, della curiosità del pubblico e probabilmente delle ragioni produttive che hanno portato alla sua realizzazione. Diciamo subito che la prova interprete è pienamente superata: Depardieu è un Maigret credibile, corpulento, torpido, che nasconde la sua sagacia, il suo acume, la sua capacità di penetrazione psicologica e la sua sensibilità umana dietro una maschera di ottusità quasi bovina. Altrettanto convincente è il disegno del personaggio, cui vengono assegnate alcune battute che ne delineano il carattere psicologico e morale. Maigret è un implacabile segugio che persegue l'accertamento della verità entrando fisicamente e mentalmente negli ambienti, nelle psicologie dei personaggi, nelle loro storie; ma non si erge mai a giudice né delle vittime e delle loro eventuali debolezze né degli assassini che assicura alla giustizia. Pur dotato di un solido e istintivo senso morale, Maigret non giudica mai, evita le condanne moralistiche, nel nome di un implicito umanesimo che compone ogni volta i puzzle delle storie su cui si trova ad indagare come a comporre i quadri di una gigantesca e variegata commedia umana, o come un romanziere che annoda i fili di una narrazione. Nel film il commissario accenna anche al suo metodo investigativo (smentito purtroppo dal film stesso), che non è fatto di trappole, di minacce, di azioni, ma che è basato essenzialmente sull'ascolto. Comprensibilmente, il film tenta di dare anche uno spessore esistenziale al personaggio che Simenon ha costruito nell'arco di decine di romanzi scritti e pubblicati nel corso di decenni, mentre il film deve giocare tutte le proprie carte nel limitato tempo di svolgimento di un lungometraggio: Maigret soffre pertanto una temporanea debolezza – un sospetto sul suo stato di salute che gli impedisce per qualche giorno di fumare le amate pipe – ma soprattutto rievoca la perdita di una figlia morta neonata, che se fosse sopravvissuta avrebbe avuto l'età della giovane morta, in modo da dare al protagonista un motivo più intimo e personale per indagare sulla morte della piccola provinciale arrivata a Parigi in cerca di fortuna. Ma le note dolenti iniziano quando gli sceneggiatori, lo stesso Leconte e Jerome Tonnerre, decidono di allontanarsi (moltissimo) dal testo originale del romanzo Maigret e la giovane morta (1954) per arricchire e speziare una storia sulla carta in sé abbastanza semplice e lineare, priva di colpi di scena e dal finale piuttosto affrettato. Un regista/sceneggiatore come Leconte, che aveva già portato sullo schermo il romanzo di Simenon Les fiancailles de M. Hire nel 1989, faceva ben sperare, e l'adattamento non ha necessariamente obblighi di fedeltà alla fonte letteraria. Ma il problema è che la sceneggiatura prende dal romanzo semplicemente lo spunto iniziale e qualche personaggio, ne elimina altri e ne inventa di nuovi, reinventa l'intreccio ma soprattutto accumula molti elementi (tra rapporti a trois e lesbici, vestiti inzuppati di sangue, comportamenti illogici dei personaggi, trappole a base di apparizioni fantasmatiche, e così via), che poco o nulla hanno a che fare con la lettera e lo spirito delle opere di Maigret, e che - quel che è peggio - sono zeppi di evidenti incongruenze narrative che rischiano di screditare la credibilità dello scrittore, addirittura citato – in modo del tutto indebito – tra gli autori della sceneggiatura, sulla quale avrebbe avuto molto probabilmente qualcosa da obiettare. Che qualcosa non vada per il verso giusto si capisce d'altra parte già nei primissimi minuti, in un prologo gratuito che non solo costituisce un inammissibile spoiler sulla spiegazione degli avvenimenti, violando la più elementare di qualsiasi giallista che si rispetti, ma è del tutto estraneo alla logica simenoniana, che vuole che personaggi, situazioni, ambienti e fatti emergano dal nulla, gradualmente, solo grazie alle pazienti ma testarde investigazioni di Maigret. Il tutto non è aiutato da una regia televisiva e piuttosto fiacca, con movimenti di macchina stranamente poco fluidi e una penuria di riprese in esterni che testimonia anche di una parsimonia produttiva, che nulla concede al potenziale fascino dell'ambientazione d'epoca parigina. BRIAN E CHARLES di Jim ArcherLa narrativa inglese è ricca di racconti che hanno per tema la creazione di una Creatura, un uomo artificiale generato dall'ingegno umano anziché dall'unione tra un uomo e una donna, dal Frankenstein di Mary Shelley agli androidi domestici di Macchine come me di Ian McEwan. Alla galleria di narrazioni si aggiunge ora Brian e Charles, diretto da Jim Archer ma in realtà coideato dagli sceneggiatori Chris Hayward (che recita restando invisibile sotto le spoglie del robot Charles) e David Earl, già inventore del personaggio per il palcoscenico e la radio. Stavolta al posto del dotto professor Frankenstein o delle multinazionali della robotica c'è un dropout di campagna, un inventore strampalato, che assembla un essere artificiale con materiali prese dalle discariche, come pezzi di manichino, lavatrici, guanti di gomma e così via. Ma che qualcosa non funzioni è evidente fin dall'incipit, quando la presentazioni slapstick delle strampalate invenzioni, fatte dallo stesso Brian, che si rivolge direttamente allo spettatore, non fanno ridere e nemmeno sorridere. Eppure era la parte più semplice e meno impegnata del film. Le cose infatti peggiorano con l'entrata in scena del robot allampanato e capriccioso che si autobattezza – chissà perché – Charles Petrescu, che impara ad esprimersi in inglese in una notte leggendo il dizionario (sic) e che si appassiona ai posti esotici e avventurosi che vede in tv. Siamo nell'ambito della fiaba, e sarebbe sbagliato avanzare pretese di realismo, di credibilità o di verosimiglianza, ma qui la scelta di un genere libero e giocoso sembra il pretesto per trascurare qualsiasi coerenza anche solo poetica o umoristica della storia, con una messa in scena trasandata in cui lo spirito di patata cerca di essere fatto passare per comicità puerile e naïf. Siamo al livello in cui il robot si agghinda grottescamente da vecchia signora inglese affermando di sentirsi “molto figo” o si imbastisce un gonnellino di paglia per imitare le hawaiane viste in tv, e vi assicuro che è più divertente a raccontarlo che a vederlo. Almeno per quanto mi riguarda, nulla funziona, il film non diverte, non appassiona, non commuove, non trasmette. Anche sul piano metaforico (ogni robot è sempre una metafora), Brian e Charles si limita a imbastire la solita storiella sul diverso che ha un'anima, sulla possibilità che anche l'ultimo degli sfigati possa trovare l'amore, e sul riscatto del debole e sottomesso contro le prepotenze dei bulli di turno. Esteticamente Brian e Charles persegue la sua impostazione pauperistica adottando uno stile visivo, paesaggistico e sonoro (anche il personaggio femminile sembra ispirato alla Bess del film di von Trier) che mi è parso debitore nei confronti de Le onde del destino (film con il quale ha ben poco a che fare, sia in termini tematici che di resa), mentre il bric-a-brac della messa in scena ricorda il cinema infantile e naïf di Gondry (senza a sua volta possederne la forza poetica). Complessivamente, sembra esserci una corrispondenza tra la Creatura di Brian e quella degli autori del film, ma in questo caso non si tratta di un pregio né di un complimento: e Brian e Charles il film finisce per essere altrettanto sgraziato, goffo, poco credibile e povero di spirito quanto il Charles messo insieme con rottami inservibili dal velleitario e inconcludente Brian. A lui alla fine gli autori concedono di trovare amore e dignità; non so se gli spettatori saranno altrettanto generosi nei confronti del film. I TUTTOFARE (Seis dies corrents) di Neus BallùsIl cinema di quest'anno è stato piuttosto prodigo (il Labour Film Festival che si tiene a settembre-ottobre a Sesto San Giovanni ne è una dimostrazione) di racconti legati al mondo del lavoro oggi: dai riders alle donne delle pulizie, dalle lavoratrici d'albergo a quelle degli aerei, dai manager agli imprenditori. Mancavano loro all'appello, idraulici ed elettricisti, e ci ha pensato la catalana Neu Ballùs a metterli in scena. Idraulici ed elettricisti veri, scelti dalla regista, preparati e lanciati in un film che offre molto spazio all'improvvisazione. E i protagonisti, il catalano burbero e un po' razzista di Valero Escolar e il marocchino timido e serio di Mohamed Mellali, se la sono cavata talmente bene da meritarsi il premio come migliori attori al Festival di Locarno 2021. La Ballùs, nell'arco dei sei giorni in cui si svolge la narrazione e che sono citati nel titolo originale, manda i suoi uomini a lavorare in diverse case, da quella dell'anziano dove non funzionano gli scarichi a quella ricchissima che sta istallando tutti gli impianti di domotica possibile, e la voce fuori campo insiste su quest'aspetto di vedere di scorcio “la vita degli altri”, come anche sui discorsi sulla natura e sull'etica del lavoro; eppure si direbbe che all'autrice non interessi tanto né offrire uno spaccato della società catalana attuale, e nemmeno imbastire un discorso sulle condizioni di lavoro nel mondo di oggi. Piuttosto, la sua attenzione è tutta presa dai rapporti tra i tre personaggi principali: il veterano Valero, amareggiato dal suo corpo che aumenta di stazza e peso, che vede con fastidio e diffidenza l'affiancamento del più giovane Moha, che oltre ad essere straniero (ma con tanta voglia di integrarsi: oltre allo spagnolo sta seguendo anche dei corsi di catalano) è anche più snello; e l'anziano e pragmatico Pep, che ha deciso di andare in pensione e cerca di mediare tra i due, per ammansire il carattere scontroso di Valero e lasciare dietro di sé un nuovo affiatato o per lo meno compatibile gruppo di lavoro. Quello che è interessante, e che costituisce insieme il pregio e il difetto del film, è il metodo della Ballùs, che mette i suoi non-attori in situazioni potenzialmente umoristiche – e qualche volta drammatiche, come in occasione degli screzi interni al gruppo o della lite con i muratori e piastrellisti – per poi abbandonarli a se stessi e ai rischi dell'improvvisazione. C'è una evidente costruzione delle situazioni di base (il sedicente centenario che spiega i suoi segreti a Moha; le gemelline terribili e Valero e Moha che rimangono chiusi sul balcone; Moha convinto a posare seminudo nello studio di una fotografa; l'intervento a casa dello psicoanalista e le bizze della casa domotica), che sembrano però dei semplici canovacci di partenza in cui la regista sta poi a guardare cosa succede. L'impressione è da una parte di naturalezza e di spontaneità, dall'altra di incompiutezza e inconcludenza. Alla fine però la morale è salva – e si può formulare come “ciascuno è uno straniero solo fino a quando non lo conosci” - e così pure la simpatia che si finisce per provare per i personaggi, “odioso” Valero compreso. AFTER LOVE di Aleem KhanAfter Love ha fatto incetta di premi ai British Indipendent Film Award e ha avuto diverse nomination ai Bafta (l'Oscar del cinema inglese), dove ha vinto il premio per la miglior interpretazione; quindi sarà senz'altro un bel film. E' stata molto lodata l'interpretazione della protagonista Joanna Scanlan (non farlo sarebbe stato politicamente scorretto, vista la fisicità eterodossa dell'attrice), ma anche l'accorta regia di Aleem Khan, regista di origini pakistane. Eppure c'è qualcosa che non mi ha convinto. Tento di spiegarmi. La storia si impernia su Mary, una corpulenta signora inglese di Dover, sposata con Ahmed, di origini pakistane, impiegato sulle navi che fanno la spola tra una sponda e l'altra della Manica, per amore del quale si è convertita all'Islam. Quando lui muore improvvisamente (pudicamente, in un piano sequenza che lo tiene distante e fuori scena), la sua vita entra in crisi, e si sconvolge ancora di più quando lei scopre che il marito aveva una relazione con una donna francese a Calais, sull'altro lato del Canale. Il film accompagna quindi Mary sulla costa francese e racconta il rapporto che si sviluppa tra Mary, Genevieve, l'amante francese, e Solomon, figlio adolescente di Genevieve e Ahmed. Khan racconta con delicatezza l'evoluzione di Mary, che passa dal dolore allo stupore, poi alla curiosità e infine al risvegliarsi di un'affettività che fa parte della sua natura buona e materna (il suo bambino è morto neonato). La macchina da presa la segue da vicino, con riprese che sono insieme di scabrosa intimità eppure rispettose e compassionevoli. Il racconto procede senza bisogno di molte parole, seguendo il torpido risveglio dell'attonita Mary, costellato da simbologie immediate e trasparenti ma efficaci, tutte intese a illustrare icasticamente il venir meno delle certezze di Mary e lo sgretolarsi della sua vita e della sua identità: la frana lungo le scogliere di Dover (bianche come il monumentale vestito a lutto che Mary indossa nella sequenza precedente), il soffitto che si crepa e si sfarina sopra di lei, il suo abbandonarsi alle onde del mare che la percuotono e la sballottano, l'immagine appannata del proprio volto da cercare di far riemergere con l'asciugacapelli al di sotto della patina di vapore che offusca lo specchio. La scoperta post mortem del tradimento di Ahmed non è difficile: l'uomo – chissà perché – aveva in tasca addirittura un documento dell'amante, con foto, indirizzo e tutto, e il suo cellulare rivela subito messaggi piuttosto espliciti e compromettenti. Ma la sospensione dell'incredulità si incrina (proprio come il soffitto di Mary), quando la donna si presenta in Francia alla porta dell'amante del marito, viene scambiata da questa per la donne delle pulizie (probabilmente anche per il suo apetto infagottato, velato e dimesso) e, senza rivelare la sua identità, senza quasi proferire verbo, senza alcuna resistenza, si lascia assumere passivamente e si mette al servizio della donna che per una ventina d'anni (!) ha condiviso part time, a sua insaputa, nel letto e nelle gioie famigliari il suo amato marito, dal quale ha avuto perfino quel figlio che a lei invece la sorte ha negato. E' vero che non battiamo ciglio se Peter Parker spara ragnatele dai polsi, ma accettare che una donna si metta a rassettare coscienziosamente la casa dell'amante del marito mi riesce quasi ancora più difficile. Eppure Kahn gestisce abilmente la situazione grazie alle ellissi, ai silenzi, alla triangolazione linguistica tra i personaggi (Mary parla con Genevieve in inglese, Genevieve con Solomon in francese, Solomon con Mary in pakistano), spesso chiusi negli ambienti domestici. Il fatto che Ahmed avesse una seconda donna (la poligamia in Pakistan è accettata, ma almeno la moglie precedente deve dare il proprio consenso al nuovo matrimonio del marito) e un figlio segreto, che la ingannasse da decenni vivendo una vita parallela e a lei ignota e preclusa, che trasgredisse ai precetti dell'Islam bevendo birra a garganella (lo si vede in un video in cui Ahmed si gode la sua second family), sembra passare in secondo piano per Mary, che forse ha trovato a sua volta una nuova famiglia. In fondo tutti amavano e continuano ad amare il buon Ahmed: Mary che ha vissuto con lui anni si suppone sereni benché fondati sulla falsità; Genevieve che ha avuto un compagno e una famiglia all'interno di un rapporto appagante ma basato sull'ipocrisia; Solomon che compensa forse con l'omosessualità l'aver avuto un padre ammirato e desiderato ma a mezzo servizio, e che mal sopporta la libertà sessuale – reale o presunta – della madre. Nell'ultima scena tutti e tre sono in cima alla scogliera, proprio sopra la frana che avevamo visto verificarsi all'inizio. Ma guardando verso quel mare che Ahmed era solito solcare quotidianamente o quasi, dove, su una sponda e sull'altra, era salutato e atteso, quasi nella speranza di vederlo ricomparire nella sua bianca divisa di ufficiale e gentiluomo. Quasi a volerci dire insomma che la vita continua, che gli affetti si riconfigurano, che una nuova strana famiglia può riformarsi, ma sotto l'egida maschile e patriarcale dell'uomo che ha elargito amore mentendo e dissimulando. Le loro vite si sono incrociate grazie all'ubiquo (onnipresente sulle due sponde della Manica), amorevole, ecumenico Ahmed, capace di soddisfare due famiglie contemporaneamente. E ora, a tenerli uniti, è il ricordo di Ahmed. Dopo l'amore, quindi, tanto amore per Ahmed. SPENCER di Pablo LarrainPablo Larrain ha lasciato le sue asperrime rappresentazioni della società e della storia cilena (Tony Manero, Post Mortem, No – I giorni dell'arcobaleno) per dedicarsi a biopic di personalità famose del '900, con produzioni internazionali e attori di richiamo hollywoodiano. Dopo Neruda e la Jacqueline Onassis interpretata da Natalie Portman (candidata all'Oscar) in Jackie, tocca ora alla Lady Diana incarnata per lo schermo da Kristen Stewart (anche lei candidata all'Oscar, con un'interpretazione vibratile e trepidante). Ma sarebbe sbagliato pensare ad una resa allo show business, a gusti e temi più popolari; il cinema di Larrain resta un cinema di ricerca, di analisi del personaggio e della rispettiva icona, e anche di riflessione politica sull'essere e l'apparire. La scelta stessa dei titoli, che sembra limitarsi a enunciare i nomi dei personaggi, rivela invece già un indizio del tipo di lettura a ciascuno dedicato: il semplice cognome per il poeta-icona, un diminutivo per la donna che all'interno di un cosmo tutto politico si trova a vivere una tragedia tutta privata, ancora il cognome per Diana, ma in una chiave completamente differente da Neruda: Spencer, nel biopic su Lady Diana, è una rivendicazione d'identità (in quanti sentendo nominare il cognome avrebbero pensato di primo acchito alla consorte di Carlo d'Inghilterra?) e insieme di distanza dalla Casa Reale e dalla dinastia dei Windsor. L'esergo italiano di Spencer dice “Una fiaba basata su una tragedia vera”, ma forse a maggior ragione avrebbe potuto recitare “Una tragedia basata su una favola falsa”; la favola data in pasto alla folla e ai media di una principessa buona e triste stritolata dentro un sistema ferreo e a suo modo crudele. Il film, concentrato in tre giorni intorno al Natale 1991, nella residenza reale di Sandringham nel nebbioso Norfolk, racconta di una prigionia. Diana, costretta a passare i giorni natalizi insieme al marito e alla famiglia, è ingabbiata in una prigione nemmeno poi tanto dorata (continui sono i richiami al freddo sofferto nella dimora, specchio del gelo affettivo che la circonda), dove la vita è regolata secondo principi militareschi e concentrazionari. Innumerevoli sono i dispositivi visivi e narrativi messi in scena da Larrain per ribadire il senso di costrizione e di detenzione. Nell'incipit assistiamo ad un'operazione militare in piena regola, che si scopre concepita solo per consegnare le casse con gli alimenti per i pranzi natalizi degli ospiti; simili dispiegamento militare assume la brigata dei cuochi, schierata in una cucina dove bisogna lavorare in sordina per non disturbare le nobili orecchie regali; Diana compare invece sulla scena come un'ingenua portatrice di disordine, letteralmente perduta, disorientata in una campagna che dovrebbe esserle familiare ma in cui non trova più punti di riferimento. Inquadrata dall'alto da un punto di vista zenitale, la sua auto arriva infine nei giardini all'italiana della residenza, un'ordinatissima impeccabile gabbia di aiuole e vialetti. E' la rappresentazione della gabbia del passato, di tradizioni insulse e astratte che gravano come una condanna, da scontare in un presente infelice e che tolgono qualsiasi respiro al futuro. Di Diana viene controllato tutto: il peso (costretta a salire su una bilancia all'entrata e all'uscita della residenza), l'alimentazione, gli abiti, rigorosamente etichettati occasione per occasione e ora per ora, i movimenti, confinati in uno spazio delimitato dal filo spinato. E da tutto Diana tenta vie di fuga (in spazi che sono costantemente alternativi ai saloni della vita “ufficiale” del palazzo: toilet, dispense, case abbandonate), con piccole sterili trasgressioni: indisciplinati cambi d'abito, vomito per rigurgitare i cibi reali per poi ingozzarsi di notte quando nessuno la vede, corse a perdifiato e uscite notturne, sogni e incubi, visioni, colloqui appartati con i suoi due bambini, gli unici a non sembrarle ostili e giudicanti. La principessa è palesemente incapace di esercitare quella schizofrenia utilitaristica che le consiglia il principe consorte, di avere una personalità “vera” e un'altra “cui far fare le foto”. Non è capace di fingere “per il bene della nazione”, di nascondere il dolore di non essere amata, di sentirsi rifiutata e giudicata; la vittima di un tradimento coniugale che non sa comportarsi in società facendo buon gioco alla cattiva sorte di aver sposato un principe azzurro, come nelle fiabe, che però non la ama, non la desidera e non la protegge. Diana ha il cattivo gusto di presentarsi agli occhi del mondo, dei sudditi, dei fotografi, dei media, come appunto una principessa triste, che non sa accontentarsi della sua favola fittizia e amara. E alla fine sarà una fuga reale, verso un mondo più cheap ma meno rigido, con una canzone pop alla radio e un fast food al posto di una salone reale, lasciandosi dietro come una lucertola la vecchia pelle (i suoi lussuoso abiti addosso ad uno spaventapasseri) per tentare di farsene crescere una nuova. Larrain filma una fiaba agra onirica e claustrofobica, e imprigiona a sua volta Diana in spazi e ambienti narrativi che sembrano citare esplicitamente l'Overlook Hotel di Shining, con tra corridoi coperti di tappeti, dispense e gabinetti, cucine e saloni, visioni e fantasmi (forse le apparizioni di Anna Bolena, moglie e vittima di Enrico VIII, sono nella sua letteralità metaforica l'espediente meno riuscito del film). E in un film che delle regole sociali e dell'infelicità che esse possono procurare fa il proprio tema, collocandosi in un ambiente che è l'apoteosi della sclerotizzazione di regole grottesche ma inviolabili, la sequenza del tiro al fagiano, con la sua gratuita crudeltà verso gli animali vivi e verso il ragazzino obbligato ad uccidere, non può non rimandare all'analoga sequenza del massacro ludico di lepri e fagiani ne La regola del gioco, il film girato da Jean Renoir alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, ambientato tra la nobiltà e l'alta borghesia francese, dove anche un omicidio - “Mi uccideranno? chiede Diana - può venire riassorbito nelle convenzioni di una società convinta di poter rimanere per sempre uguale a se stessa. ASSASSINIO SUL NILO (Death On the Nile) di Kenneth BranaghNon sempre è facile aggiornare storie e personaggi che hanno una loro storia, magari in altri media che non siano il cinema. Ne parlavo qualche giorno fa a proposito di The Batman, e qualche tempo addietro a proposito dell'azzardo vintage-filologico dei Manetti Bros con Diabolik. Branagh ci ritenta riportando per la seconda volta sullo schermo, con Assassinio sul Nilo dopo quello sull'Orien Express, i suoi tentativi di rinverdire i fasti del Poirot creato da Agatha Christie. Non è facile, si diceva, in particolare in un caso come questo, in cui il personaggio è fortemente formalizzato (ai limiti del macchiettismo, con la sua testa d'uovo, i suoi baffi impomatati, la sua presuntuosa arroganza, il suo acume prodigioso, e tutta una scia di peculiari idiosincrasie), l'ambiente precisamente localizzato, l'epoca altrettanto ben definita, l'impianto narrativo schematizzato (ai limiti della sclerotizzazione, con entrata in scena dell'investigatore, presentazione dei personaggi, omicidio, indagini, interrogatori, scoperta di vari segreti, riunione finale dei molti sospettabili e rivelazione/ricostruzione degli accadimenti e dei colpevoli). Se negli anni '70, con gli analoghi film interpretati rispettivamente da Finney e Ustinov, il tentativo era quello di offrire alle platee scombussolate dalle produzioni della New Hollywood e delle varie “nuove ondate” del cinema europeo un prodotto più convenzionale e rassicurante, basandosi soprattutto su richiamo letterario, cast sontuosi e ambientazioni esotiche, Branagh mette in scena i suoi esercizi di stile cercando di adeguare il modello, per quanto possibile, alle sensibilità dei nuovi pubblici. L'intento di stupire di Branagh (di cui è uscito nelle sale italiane pressoché in contemporanea il molto diverso e in buona parte autobiografico Belfast) è dichiarato fin dalle prime sequenze, quando, venuto a vedere un film che si svolge sulle acque del Nilo, tra paesaggi solari ed esotici, lo spettatore si trova invece catapultato nella campagna europea devastata dalla Grande Guerra, in tetri e scheletrici paesaggi bicromi, a percorrere in piano-sequenza asfittiche trincee fangose come in 1917. Paesaggi e luci sono sostenuti, spinti, e ricreati grazie alla cgi, tra luci ambrate e scenografie maestose (ma l'ambientazione posticcia è un po' appiccicosa), tra riprese subacquee e altre aeree. E' evidente poi il lavoro fatto sulla definizione dei personaggi, dove ci sono vari cambiamenti rispetto agli originali romanzeschi: la spia italiana (siamo negli anni '30) sparisce, una coppia di personaggi vira verso l'omosessualità, un'altra cambia colore di pelle in nome dell'inclusione, una scrittrice di romanzi rosa-peperoncino diventa una cantante blues (con una determinante influenza black american sulla colonna sonora) e la sua dolce e riservata nipote un'agguerrita road manager; e per sovrammercato l'equipaggio della nave è formato da giovani donne in pantaloncini che devono più volte improvvisarsi in compassati becchini. Se anche i balli e i comportamenti sono spregiudicatamente sensuali, il lavoro di ridefinizione viene però compiuto soprattutto sul personaggio protagonista, cercando di intaccarne la plasticità statuaria conferitagli dai romanzi della scrittrice inglese. Nel nuovo film scopriamo infatti che il celeberrimo investigatore belga voleva fare il contadino (non il poliziotto quindi), che ha il viso orrendamente sfigurato (a nascondere lo sfregio delle cicatrici servono dunque i suoi enormi baffoni), e soprattutto che ha un animo romantico, che rimpiange il suo amico amore (che compare nel film in una sola sequenza, per essere poi spazzata via da un colpo di mortaio nel racconto postumo del detective), ma è platonicamente sensibile alle grazie di un'attempata signora di colore in crociera. Molto per i lettori conservatori, poco per rendere veramente moderno e dare carne, sangue e anima ad un personaggio già in partenza molto stilizzato. Nel cast funzionale che circonda l'ego al quadrato di Branagh e di Poirot, si distingue Emma Mackey, con un ruolo più tormentato e febbricitante. Branagh, a bordo della motonave Karnak, si invaghisce delle sfaccettature delle finestre che danno alla realtà un'ambiguità e una doppiezza prismatica, e si trova a suo agio soprattutto nel gioco teatrale delle porte che si aprono e si chiudono, ma il film complessivamente lascia il sapore di un'operazione fine esclusivamente a se stessa. STORIA DI MIA MOGLIE (A feleségem története) di Ildikó EnyediUn capitano di marina sposa la prima donna che entra nel caffè in cui lui si trova. Lei forse lo tradisce, forse no. E' questa in sostanza la trama di Storia di mia moglie: una riga di testo per tre ore di film. Confesso che non ho letto il libro di Milan Füst (uscito in Ungheria nel 1942 e pubblicato in Italia da Adelphi in un'edizione che conta oltre 400 pagine), per cui non posso fare confronti diretti. Apparentemente, ad accomunare le due opere è l'indifferenza al contesto storico e sociopolitico in cui sono state prodotte: ci dicono altrettanto poco dell'Europa e dei rispettivi tempi tanto il libro, scritto nell'immediata imminenza della Seconda Guerra Mondiale, che il film che esce oggi sui nostri schermi, ambientato tra Malta, Parigi, Amburgo e i mari aperti in una qualche vaga belle epoque. Avevo visto invece Corpo e anima, il precedente film di Ildiko Enyedi. Un film vincitore dell'Orso d'oro a Berlino, molto apprezzato dalla critica e dal pubblico, ma che non era riuscito a conquistarmi. Ero quindi di vedere il nuovo film della regista ungherese per mettere nuovamente alla prova il mio giudizio con una sua realizzazione, e auspicabilmente correggerne la tepidità. Ahimè, il film ha deluso le mie speranze come raramente accade. Se il film precedente metteva in scena la storia di lento avvicinamento di due anime apparentemente inconciliabili nella cruda realtà di un mattatoio, ma unite in una dimensione onirica e poetica, questo racconta di due persone unite in matrimonio quasi per caso, ma mai veramente in reciproca sintonia di sentimenti. L'amore, se così si può chiamare, tra il capitano Storr, uomo “tutto d'un pezzo” e la frivola Lizzie, si consuma senza passione (i due si sposano all'inizio del film ma il primo e unico amplesso ci viene mostrato dopo un'ora di mezzo di film), senza una reale comunione, e forse senza un vero perché. A dominare è solo l'ossessione di Storr, perennemente roso dal dubbio, difficile da dimostrare, dell'infedeltà della sua enigmatica ed elusiva consorte. La Enyedi riallinea in una sostanziale continuità cronologica (anche se “bucata” continuamente da ellissi narrative che rendono poco semplice orizzontarsi nella quantità di tempo trascorsa e scandita da inutili titoli di capitoli) la narrazione, che nel romanzo è invece frammentaria e si sposta avanti e indietro nel tempo; ma gestisce in modo maldestro la consecutio temporis, il punto di vista e le motivazioni dei personaggi, e malgrado il metraggio a disposizione perde per strada qualche personaggio, consumando in una durata aberrante la storia, l'amore dei protagonisti e la pazienza dello spettatore. Come nel film precedente, la narrazione dell'umana vicenda è intervallata da immagini della natura. Si tratta questa volta soprattutto di immagini sottomarine, con il mare assunto come metafora della condizione umana e del vano tentativo di controllare ciò che è per sua natura incontrollabile, come le onde imprevedibili. Qui, nello specifico, a risultare gnoseologicamente incontrollabile è essenzialmente la maniera in cui passa le proprie giornate l'oziosa Lizzie, durante le assenze del marito afflitto da gelosia patologica; un tipo che, piuttosto che chiedere aiuto agli altri (come gli succede durante un incidente in mare), preferisce sperare nella pioggia che spenga l'incendio, e forse le passioni. Gijs Naber rende bene le oscillazioni del suo personaggio, che cerca di corazzarsi nella propria ottusa virilità, ma è roso dal tarlo del dubbio, scosso da impulsi collerici e insidiato dalla tentazione di arrendersi ad un modo differente di relazionarsi con la moglie e con il mondo; mentre ad una brava attrice come la Seydoux è chiesto poco altro che una gamma espressiva che alterna sorrisi maliziosi, bronci e lacrimucce. Poiché si tratta inoltre di una coproduzione internazionale magiaro-italo-teutonica, c'era anche purtroppo la necessità di inserire qualche attore nostrano: così ci sono pure Jasmine Trinca, in un ruolo trascurabile, e Sergio Rubini, un losco faccendiere ungherese che esibisce però incongruamente una gestualità eccessiva tutta italiana. Ah, non è tutto negativo. Belli la fotografia e i costumi. FULL TIME - AL CENTO PER CENTO (A plein temps) di Eric GravelStrano che i distributori italiani si siano persi l'occasione e l'opportunità di fa uscire il film in tempo per la Giornata internazionale della Donna (il film è già stato presentato e premiato per la regia e l'interpretazione al Festival di Venezia 2021, Sezione Orizzonti). Perché A tempo pieno (a proposito, perché non tradurre semplicemente e letteralmente il titolo francese, così preciso, invece di adottare l'inglesismo di Full Time e il superfluo sottotitolo Al cento per cento? Ah già, perché il titolo era già stato sprecato traslando malamente l'originale L'emploi du temps, altro film capitale sul mondo del lavoro contemporaneo) rappresenta bene la condizione, o una condizione, della donna della società occidentale contemporanea, impegnata sia sul fronte della famiglia che su quello del lavoro, un'equilibrista costretta ad essere multitasking in ogni ambito, spesso con inadeguati sostegni all'interno della famiglia o dal sistema del welfare... La mia recensione del film sarà pubblicata sul numero di Maggio di SegnoCinema. FLEE (Flugt) di Jonas Poher RasmussenE' purtroppo di drammatica attualità Flee (fuggire) che esce in Italia a ridosso dell'assegnazione degli Oscar (dove il film vanta il primato di tre candidature in categorie differenti: miglior film internazionale, miglior film d'animazione, miglior documentario), ma soprattutto nel momento storico in cui la guerra che sconvolge l'Europa causa un immane movimento di profughi all'interno del continente e ne ripropone quotidianamente le tragiche vicende. Quella di Flee è infatti la storia (vera) di un profugo: un afgano costretto a lasciare la casa e la patria da bambino negli anni '80, dopo la vittoria dei mujaheddin e la scomparsa del padre, di cui la famiglia non avrà mai più notizie. Il percorso di Amin è costellato di abbandoni, di fughe, di viaggi (spesso in vicoli ciechi), di prigionie, di soperchierie subite, di occultamento, di menzogne per la sopravvivenza, di solitudine, di paura, di vergogna e di rimorso. L'abbandono della casa e l'addio all'infanzia spensierata, dopo il ritiro dei Russi dall'Afghanistan e l'approdo in una Russia inospitale; l'addio a fratelli e sorelle che intraprendono viaggi costosi mettendo la loro vita nelle mani di trafficanti senza scrupoli, per cercare fortuna all'estero; i lunghi mesi passati chiusi nel claustrofobico rifugio di una stanza, senza prospettive, per evitare l'ostilità del mondo esterno; i furti e le angherie subite dalla polizia russa, che approfitta di ogni occasione per depredare profughi senza diritti e senza difesa (fino a predare sessualmente le donne se non hanno nient'altro di cui essere derubate); i viaggi perigliosi, rischiando di morire come topi in mare, nella stiva di una nave, o di beccarsi una pallottola in testa dai trafficanti se si cammina troppo lentamente nella neve e si rischia di rallentare il gruppo; il sequestro e la detenzione in Estonia dopo essere finalmente riusciti a lasciare fortunosamente la Russia e la deportazione al punto di partenza dopo mesi di prigionia; l'abbandono della madre e del resto della famiglia, quando Amin è prescelto per un nuovo tentativo di raggiungere l'Europa, l'unico per cui si riesce a pagare un nuovo tentativo di espatrio illegale; le menzogne raccontate alle autorità svedesi, alle quali Amin racconta che tutti i suoi famigliari sono stati uccisi, per poter accedere allo status di rifugiato; la solitudine in un Paese straniero, solo con il rimpianto e il rimorso. E non basta ancora, perché Amin, che fin da piccolo amava indossare i vestiti delle sorelle, deve fare i conti anche con la scoperta della propria omosessualità, con il timore di venire rifiutato e rinnegato anche dai suoi stessi famigliari. Il regista danese Jonas Poher Rasmussen racconta una storia di sradicamento, di memoria, di identità labile e minacciata, attraverso le parole dello stesso Amin Nawabi (spesso inquadrato in modo da sottolinearne il senso di blocco, di imprigionamento, reale o psicologico che sia), che, raggiunta finalmente una condizione di stabilità socioeconomica, e sul punto di raggiungerla anche sul piano sentimentale, accetta di raccontare la sua storia, rivelare le sue verità e i suoi sentimenti, svelare le menzogne cui da anni ha dovuto fare ricorso per proteggersi. Nello stesso tempo le narra attraverso il linguaggio del cinema di animazione (un po' strana quindi a mio parere l'inclusione nella categoria “documentario”, visto che la realtà viene filtrata non solo dal mezzo cinematografico in sé, ma dalla vera e propria reinvenzione visiva del racconto attraverso il disegno e l'animazione), alternandolo in modo suggestivo con le riprese d'epoca, chiuse queste ultime in una dimensione ristretta dell'inquadratura, quasi per pudore o per sottolinearne la dimensione di miniature della memoria, in secondo piano rispetto alla vicenda “a tutto schermo” del protagonista. A sua volta la scelta dell'animazione sembra porre un filtro di pudore tra il racconto cinematografico e il suo contenuto, che è intimo, personale e sofferto. Se la narrazione e le tematiche sono suggestive, coinvolgenti ed efficaci, lo stile grafico-figurativo si mantiene su un piano illustrativo molto semplice, senza molte invenzioni, a parte i momenti più concitati o emotivi della storia, in cui i disegni perdono la loro nitidezza per farsi indefiniti e convulsi, fantasmi di sensazioni e di sentimenti che non possono trovare una forma compiuta e descrivibile con l'oggettività del fotorealismo. Proprio in questa alternanza tra filmati d'epoca, disegno realistico e momenti più astratti va ricercato il pregio stilistico del film, più appunto che per lo stile iperclassico riservato alla narrazione principale. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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