TITANE di Julia DucorneauUna bambina molesta viaggia in macchina con il padre esasperato. Quando lei si slaccia la cintura di sicurezza e lui si volta stizzito per sgridarla, perde il controllo dell'auto che finisce fuori strada. La bambina si spacca la testa contro il finestrino; vediamo i chirurghi aprirle il cranio e inserire una piastra di titanio. Viene imbragata in una struttura di metallo e rieducata al movimento. Quando esce dall'ospedale con una terribile cicatrice sulla tempia abbraccia la macchina e la bacia amorevolmente. Qualche anno dopo si esibisce in un motor show in un ballo lascivo, strusciandosi sulla carrozzeria di un'auto coperta di fiamme. Quando esce viene abbordata da un ammiratore; mentre si baciano attraverso il finestrino dell'auto lei si sfila dai capelli uno stiletto e glielo pianta in un orecchio. Lui muore tra le convulsioni vomitandole bava su una spalla. Lei va a casa e si fa una doccia. Quando sente dei tonfi che fanno tremare le pareti della casa, esce nuda in garage e si fa scopare da una grossa Cadillac rombante e abbagliante che la mette incinta. Sto spoilerando? Un pochino sì, ma questo è solo quello che accade nei primissimi minuti del film, in un triplice prologo, a seguito del quale sorgono nello spettatore una constatazione e una domanda: la prima è che Titane non è un film per tutti i gusti; la seconda riguarda cos'altro la regista Julia Ducornau ha intenzione di farci vedere per il resto delle quasi due ore di durata del film. La risposta, non esaustiva, comprende rapporti sessuali lesbici e para-incestuosi, aborti e parti non ortodossi, scambi di genere e di identità, omicidi raccapriccianti e atti di autolesionismo, corpi nudi gonfiati dagli steroidi o da gravidanze mostruose, volti sfigurati e corpi bendati e mortificati, danze tra pompieri maschi e una colonna sonora eclettica e pervasiva (una delle scene più cruente – se è possibile fare una classifica – ha per sottofondo sonoro Nessuno mi può giudicare cantata da Caterina Caselli; nel precedente Raw – un horror alimentare – la rappresentanza della canzone italiana toccava invece a Nada). Quando la Ducornau pensava a come sarebbe stato definito Titane e il suo cinema, le venivano probabilmente in mente aggettivi come “disturbante” e “fiammeggiante”; in preda ad una sorta di horror vacui quindi aspira a riempire ogni inquadratura con gesti violenti o immagini repulsive - a cominciare dal volto maschile e deturpato della protagonista Agathe Rousselle o dal corpo gonfio e illividito di Vincent Lindon – e infarcendo la colonna sonora di inquietante sound design, della musica di Jim Williams, di canzoni pop e folk, di solenni echi barocchi. Titane discende evidentemente, in una prospettiva che possiamo definire approssimativamente come femminile, dal cinema di David Cronenberg, ma anche in questo caso l'effetto di accumulo e di saturazione prende alla gola: l'impressione è che la regista, tra gravidanze mostruose, confusioni gender, Nuova Carne e erotismo per le macchine abbia voluto versare tutti i film dell'autore canadese (da Brood a Inseparabili o a M Butterfly, da Videodrome a Crash), nel contenitore turgido di un'unica opera mutante. La sceneggiatura infatti non si accontenta di seguire una linea narrativa paradossale e grottesca, ma le moltiplica, intrecciandone diverse tra loro, e pretendendo inoltre di coinvolgerci pure in un melodramma psicologico tra padri e figli, facendo incontrare due personaggi che trovano l'uno nell'altra la compensazione alle proprie lacune esistenziali. Ma se il coinvolgimento emotivo, volenti o nolenti, è assicurato dal bombardamento audio-visivo che lascia poco respiro, la richiesta di immedesimazione deve superare, oltre che una gigantesca sospensione dell'incredulità, vista l'improbabilità estrema delle situazioni, anche la repulsione suscitata dai due protagonisti, sia fisica – il volto antipatico della Rousselle è ulteriormente e variamente sfigurato dai danni subiti e il corpo di Lindon è deturpato dai lividi delle iniezioni e da una muscolatura ipertrofica – che morale – alle prese con una psicopatica assassina non precisamente simpatica e con un uomo che vuole credere a ciò la cui incredibilità salta agli occhi, spingendo il povero Lindon in situazioni alle soglie del ridicolo. Un cinema che indubbiamente varca i confini: della logica, del buon gusto, della credibilità, della coerenza, delle identità, dei generi sessuali, delle differenze tra uomo e donna, tra corpo e psiche, tra carne e metallo, tra organismo e meccanismo, tra naturale e artificiale. E' la nascita (letterale) del nuovo cinema ibrido, fluido e mutante del futuro? Alcuni, tra cui i giurati del Festival di Cannes, l'hanno visto così. O è un film fatto per épater le bourgeois, fino alla sazietà e alla nausea, con un'operazione cyberpunk dal forte retrogusto anni '80? C'è chi dice no: leggi in Face/Off perché invece secondo Oruam Norac TITANE prefigura (?) il cinema del futuro. Mettete un like o un commento per farmi capire quale vi convince di più?
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BECKETT di Ferdinando Cito FilomarinoE' sorprendente trovare la firma di Ferdinando Cito Filomarino in calce a questo action-movie pieno di lotte e inseguimenti nel catalogo Netflix. Il regista ha infatti diretto in precedenza un unico film, Antonia, un ritratto prezioso e delicato della poetessa Antonia Pozzi suicidatasi negli anni '30 in giovane età. E non si tratta del solito caso del regista europeo rapito da Hollywood e messo ai remi di qualche galera-blockbuster: Beckett è infatti un progetto europeo concepito da cineasti milanesi, scritto e diretto dallo stesso Cito Filomarino, prodotto dall'amico Luca Guadagnino (con dovizia di mezzi: cast internazionale, varietà di location, molte riprese in esterni), girato in Grecia, con una struttura narrativa all'americana ma un afflato politico più europeo. Il canovaccio è schiettamente hitchcokiano, con un uomo comune americano (come in Intrigo internazionale) invischiato (all'estero, come ne L'uomo che sapeva troppo) in intrighi criminosi e costretto a fuggire e a svelare le oscure macchinazioni in cui è rimasto suo malgrado coinvolto; situazioni già ampiamente citate e omaggiate nel Frantic di Polanski. Stavolta si tratta di un turista americano che, dopo un grave incidente d'auto avvenuto per colpa sua, e in cui ha trovato la morte la sua compagna, sul punto di togliersi la vita per il rimorso, si trova paradossalmente a lottare con le unghie e i denti per conservarla, inseguito da spietati assassini, alcuni dei quali vestono le divise della polizia. Dal paesino dell'entroterra montuoso greco in cui si trova comincerà una lunga e affannosa fuga fino ad Atene. Ma raggiunta l'ambasciata americana le sue peripezie sono tutt'altro che finite. Siamo in una Grecia in piena crisi economica, assoggettata alle pesantissime condizioni della Ue e del Fmi, scossa dalla nascita di movimenti di sinistra (v. Syriza) e dal tramare nell'ombra di movimenti di estrema destra (v. Alba Dorata). Il thriller si tinge ben presto di tinte politiche, richiamando alla memoria i film di Pollack (I tre giorni del condor) o di Pakula (Tutti gli uomini del Presidente) della New Hollywood degli anni '70. Il film ha ricevuto sugli aggregatori di giudizi opinioni tiepide o contrastanti. Troppo americano? Troppo europeo? In realtà Cito Filomarino gestisce bene le sue ambizioni, dosa saggiamente spettacolo e discorso politico, pieni e vuoti narrativi, senza mai far calare la tensione, inanellando abilmente in corsa personaggi e situazioni, con uno sguardo sulla Grecia, i suoi abitanti e i suoi paesaggi, che non cade mai nello stereotipo all'americana. Dall'inizio alla fine il film non abbandona mai il suo personaggio, imponendo a John David Washington (già campione di football - e ai suoi eventuali stuntmen) un notevole tour de force fisico e interpretativo. Un corpo non a caso “nero” e sempre più trasandato, inseguito da uomini in divisa sulle rotte percorse da tanti immigrati, ma anche aiutato da tante persone generose incontrate sul suo cammino. La sceneggiatura offre qualche ambiguità e riserva nel finale qualche prodezza di troppo al suo eroe per caso e per forza; ma Beckett traccia comunque con bella disinvoltura ed autorevolezza una via italiana ed europea al thriller d'autore. ESTATE 85 (Eté 85) di Francois OzonAlexisOzon è un regista discontinuo che ha girato film improntati ad uno stretto realismo e altri estremamente stilizzati o decisamente metaforici, drammi contemporanei e film in costume, film liberi e assoluti e altri che corteggiavano i generi cinematografici codificati. Estate 85 è uno strano prodotto, abbastanza difficile da definire. Si tratterebbe di una classica storia boy meets girl, ma nella variante omofila boy meets boy: di fronte alle scogliere bianche di Le Tréport, in Normandia, Alexis è infatti salvato dalle acque, dove è naufragato con una barchetta a vela, da David, che non ci mette molto a sedurlo. David è più grande di lui, più temerario e sfrontato, più ricco (aiuta la madre in un negozio di articoli – metafora – da pesca), più affamato di vita e di avventura. Insieme vivranno nello spazio di un'estate una breve ma intensissima storia d'amore, che attraversa in un lampo bruciante tutte le tappe: conoscenza, attrazione, seduzione, innamoramento, desiderio, sesso, amore, avventura, libertà, assuefazione, tradimento, abbandono, fino ad un epilogo tragico. Che però è solo metà della storia, perché noi ne ripercorriamo le vicende a posteriori, attraverso la rielaborazione di Alexis, intento a scrivere un diario chiarificatore per sé e per gli altri, e per l'assistente sociale e un suo ex-insegnante che indagano sull'accaduto in visto di un processo che si dovrà celebrare. Il gioco con i generi è ambiguo: si ha l'impressione Ozon giochi a raccontare il suo film come se fosse Il tempo delle mele (uscito 5 anni prima) in versione omo, quando le carte si scoprono con una citazione eclatante (in colonna sonora stavolta, viste anche le circostanze del primo incontro e il valore metaforico del testo, c'è Sailing di Rod Stewart). Ma fin dal prologo si sono poste delle premesse noir (con la passione necrofila del protagonista, la prefigurazione di una morte e della presenza di un cadavere), che dovrebbero dare una svolta al tono del racconto. Ma non siamo dalle parti del quasi contemporaneo dramma pure francese de La ragazza con il braccialetto; a sorpresa, il noir si stempera (nella fedeltà al titolo del libro di Adam Chambers da cui è tratto, Danza sulla mia tomba), riprende vigore il melodramma giovanile (non senza divertimento) e lo scioglimento sfiora un inaspettato happy end. Eppure la morte (quella narrata nel film è quasi un'anticipazione) incombe dietro la scogliera di questa estate luminosa, piena di salsedine, di vele al vento, di corpi nudi, di sfrenate corse in moto: poche settimane dopo i fatti narrati, mentre Ozon sta per compiere 18 anni, Rock Hudson è uno dei primi personaggi pubblici a morire di Aids e l'avvento funesto della malattia cambierà per sempre il modo di vivere la sessualità, in particolare quella omosessuale. Le aspettative dello spettatore vengono spiazzate e deluse quasi quanto quelle di Alex, che ha un modo di vivere la propria storia d'amore tutto differente da quello del suo compagno. Cosa abbiamo visto/vissuto, insomma? Probabilmente null'altro che questo: la rievocazione di un tempo dell'innocenza, già pronto a trasformarsi in dolore. E' lecito chiedersi come sarebbe stata accolta criticamente (e quanto sarebbe stata tollerabile) una narrazione con un analogo tasso di convenzionalità se si fosse trattato della storia d'amore tra un ragazzo e una ragazza anziché tra due ragazzi maschi? Difficile dirlo; certo Ozon dissemina il film dei propri temi delle proprie predilezioni, come il tema della scrittura già presente Nella casa, o quello del travestitismo in Una nuova amica, o quelli già più volte trattati del lutto o dell'omosessualità Efficaci i due giovani protagonisti, Benjamin Voisin e Félix Lefebvre, entrambi insigniti del premio Lumiere e candidati al Cesar; le madri dei protagonisti sono Isabelle Nanty (già vista ne Il favoloso mondo di Amelie) e l'ineffabile Valeria Bruni Tedeschi, a proposito della quale persiste l'eterno dilemma: non sa recitare o recita con sublime arguzia la vita delle persone che nella vita reale non sanno di dover ben recitare? LA RAGAZZA CON IL BRACCIALETTO (La fille au bracelet) di Stéphane DemoustierIn questi tempi pandemici è difficile stilare un ordine cronologico delle produzioni cinematografiche, tra ciak, riprese interrotte, uscite sospese o rimandate, sortite fulminee e sfortunate. La ragazza col braccialetto, comunque, rimanda per assonanza ad un film quasi contemporaneo, Roubaix, une lumière (che ho recensito qui) per ragioni di cast e di assonanze tematiche. Il primo eclatante elemento è la carismatica presenza in entrambi i film di Roschdy Zem quale protagonista maschile; il secondo è quello della situazione e della struttura drammaturgica. Nell'uno e nell'altro caso ci sono al centro della narrazione giovani donne accusate di un efferato delitto; e se il film di Desplechin è occupato in gran parte dagli interrogatori dell'ispettore (interpretato appunto da Zem) alle due sospettate, in un'indagine che si fa quasi dostoevskiana, quello di Demoustier è ambientato in grandissima parte nelle aule del tribunale dove si svolge il processo ad un'adolescente accusata di aver ucciso a pugnalate la sua miglior amica. Nell'uno e nell'altro caso i personaggi interpretati da Zem sono impegnati in una terribile battaglia per comprendere la verità e le origini del male, ma mentre in Roubaix a condurre l'inchiesta è un ispettore di polizia, ne La ragazza è un padre sconvolto a dover cercare nel vissuto della propria stessa figlia le radici della possibilità o dell'impossibilità di un male insospettabile e devastante. Il contesto è differente; ne La ragazza con il braccialetto siamo lontani dal disordine e dalla marginalità sociale descritti in Roubaix. I Bataille sono una famiglia agiata e tranquilla; una coppia di professionisti, una figlia adolescente al liceo e un fratellino più piccolo; una bella casa, un'altra casa per le vacanze al mare. Una famiglia (che potrebbe essere) felice come tante. Ma da due anni, dopo che la sedicenne Lise è stata arrestata durante una giornata in spiaggia con la famiglia, la loro vita ha preso un corso completamente diverso. Lise ora porta un braccialetto alla caviglia ed è sotto processo per l'assassinio di una sua coetanea, l'amica del cuore. Aveva il movente e l'occasione per uccidere. Lo ha fatto veramente? Al processo Lise si trincera dietro un'espressione imperturbabile e impenetrabile, appena increspata a volte da un'ombra di nervosismo o di fastidio; le sue risposte sono secche, taglienti, ma i suoi frequenti silenzi sono impossibili da penetrare e da interpretare. I suoi genitori (Zem e la riluttante madre interpretata dalla Mastroianni) vedono dipanarsi lungo le ricostruzioni processuali e le ammissioni della ragazza un ritratto della propria figlia completamente differente da quello che pensavano di conoscere molto bene, un insospettabile vissuto fatto di promiscuità sessuale, di rancori profondi, di esperienze pericolose, di sentimenti insondabili. La ragazza con il braccialetto non ha nulla del romanticismo della ragazza con l'orecchino di perla; il suo “gioiello” non è un ornamento di bellezza, ma un marchio di sospetto e di infamia; è un braccialetto elettronico alla caviglia, per scongiurare i rischi di fuga, e la catenina con cui lo sostituisce nell'ultima sequenza è l'ultimo sigillo di un enigma tremendo e indecidibile. Demoustier si ispira al film argentino Acusada, del 2018, diretto da Gonzalo Tobal, scritto con Ulises Porra e presentato alla Mostra di Venezia, ma lo asciuga fino ad ottenere un dramma processuale freddo e rigoroso. Pochissima musica in colonna sonora, larghissima prevalenza dei primi piani, economia delle ambientazioni (la casa, l'aula del tribunale), parsimonia dei movimenti di macchina, rigido controllo espressivo degli interpreti, con un tour de force di indecifrabile impassibilità e di sfumature sottili imposto all'esordiente Melissa Guers, spesso inquadrata frontalmente, con lo sfondo rosso intenso delle pareti dell'aula processuale alle sue spalle. Demoustier, mentre mostra il duello formale tra un determinato Pubblico Ministero (interpretato dalla propria sorella) e un'avvocato che cerca di scongiurare il pericolo che Lise venga condannata per la propria amoralità percepita, anziché per il delitto ascrittole, lascia che l'incandescenza, che pure si percepisce benissimo, sia tutta interna ai personaggi familiari; nel mistero dell'animo di Lise e della sua verità; nello sgomento del padre Bruno che ha perso ogni certezza e non sa più a cosa credere; nell'inutile tentativo di sfuggire alla realtà della madre Cèline, alla fine costretta a costruirsi una propria intima presunzione d'innocenza e a perorarla in aula davanti alla madre della vittima. E' difficile stabilire chi ha ucciso l'amica di Lise; ma è impossibile comprendere davvero l'animo umano, anche delle persone che ci stanno più vicino. THE FATHER - NULLA E' COME SEMBRA di Florian ZellerIl sottotitolo italiano, Nulla è come sembra, è veramente infelice. Primo perché rivela già quello che bisogna aspettarsi e indebolisce il mistero del film, e poi perché lo fa assomigliare ad un dozzinale film di truffe, illusionismi o sorprendenti colpi di scena. E' vero, si rimane spiazzati guardando il film. Già nei primi cambi di sequenza ci si accorge che c'è qualcosa che non va. In una sostanziale unità di luogo (il film deriva dal testo teatrale di Florian Zeller, che debutta alla regia dirigendo anche l'adattamento cinematografico scritto insieme a Cristopher Hampton – che a sua volta aveva già scritto nel 1985 The Good Father, la storia di un padre interpretato da Hopkins), ci troviamo a che fare con un tempo disomogeneo e indecidibile, con un'azione dove i fatti e le parole dette si trovano ad essere smentiti o falsificati pochi minuti dopo. Uno stesso personaggio sembra avere volti, o addirittura nomi, diversi. E' difficile dire quanto tempo passa tra una sequenza e l'altra, decidere se quello che abbiamo visto è realtà o allucinazione, se una sequenza è successiva alle altre o se stiamo assistendo alla medesima scena da un punto di vista differente. La situazione è in parte analoga a quella di film come Mother! (che ha guarda a caso un titolo a specchio rispetto a quello di cui ci stiamo occupando) o Sto pensando di finirla qui, anch'essi ambientati - o meglio perduti - all'interno di labirinti onirici e mentali. Ma in questo caso la storia, pur all'interno di un'entropia narrativa e percettiva, è paradossalmente molto semplice e lineare. Anne si occupa del padre Anthony, affetto da demenza senile, e cerca di convincerlo ad accettare l'assistenza di una badante. Suo marito comincia a vivere con insofferenza la dedizione con cui la moglie si fa carico di questo fardello e propende per un ricovero in una casa di cura. Una situazione dolorosa ma banale, probabilmente presente nell'esperienza di vita o comunque conosciuta da molti spettatori. Null'altro. Nel film non ci sono trucchi, non ci sono inganni, non ci sono colpi di scena clamorosi. La storia non fa altro, purtroppo, che fare il suo corso. Quello che è rende particolare il film è il punto di vista adottato, che gli conferisce a volte quasi le cadenze di un horror psicologico. Noi vediamo le cose attraverso la percezione di Anthony alterata dalla malattia. La nostra confusione di spettatori è radicata nella sua confusione mentale, che non gli permette più di dare un ordine al mondo, di serbare ricordi precisi di quanto accade, di riconoscere le persone e di interagire con loro. La narrazione, apparentemente così oggettiva, limpida e domestica, è corrotta e viziata all'origine dal decadimento mentale del protagonista, che non si rende conto della propria malattia e che cerca inutilmente di combattere in difesa della propria autonomia e della propria dignità. Olivia Colman, già apprezzata ne La favorita di Lanthimos, è brava nel ruolo della figlia che vede il padre soccombere alla malattia e pronunciare inconsapevolmente verità dolorose, ma Zeller ha trovato in Anthony Hopkins l'interprete perfetto. Hopkins costruisce il suo Anthony (attore e personaggio hanno lo stesso nome) con i mattoni del suo mestiere e della sua storia d'attore: quel carattere freddo, di intelligenza sopraffina, arguto, aristocratico e un po' sprezzante che appartiene a tante delle sue interpretazioni; ma accetta poi di lasciarli sgretolare corrosi e aggrediti dalla malattia, dall'incertezza, da un'umana debolezza senza rimedio. Anthony appare ridicolo e buffo quando lo vediamo tentare di dominare con l'astuzia e la forza di carattere una realtà e degli antagonisti che ormai sono del tutto al di fuori del suo controllo, ribaltando quegli equilibri di potere e di superiorità cui era abituato; ma è degno di compassione quando ci identifichiamo nel suo disorientamento, nella larvata consapevolezza di essere parte di un mondo sul quale non può più esercitare alcun potere e del naufragio della propria personalità e delle proprie facoltà; e degno di pietà quando infine si abbandona ad un irrefrenabile pianto di disperato, irrimediabile smarrimento. Sia agli Oscar che ai Bafta insindacabili premi alla sceneggiatura non originale e all'interprete protagonista. Leggi anche la recensione de IL FIGLIO, di Florian Zeller, nella messa in scena di Piero Maccarinelli, in cartellone al Teatro Franco Parenti di Milano fino al 3 marzo 2024. COLLECTIVE di Alexander Nanau |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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