TOP GUN: MAVERICK (Usa) di Joseph KosinskiSono io che invecchiando sono diventato schizzinoso? Perché mi succede di vedere film che sugli altri siti hanno avuto 4 stellette su 5 quando io farei fatica ad elargire la seconda? Mi è capitato recentemente con Ambulance di Michael Bay, e ora di nuovo con Top Gun – Maverick. O forse sono troppo giovane e con me il ricatto della nostalgia non funziona. Non mi eccita l'aura vintage, non mi commuovo se vengono usate le immagini, le situazioni, i controluce del film di Toni Scott dell'86, non mi suscita niente rivedere i vecchi personaggi. E mi sembra di vedere ad occhi asciutti il film per quello che è: un'americanata fuori tempo massimo, con le bandiere, l'ideologia di chi ritiene di essere sempre nel giusto senza avere mai un dubbio, la galleria di personaggi stereotipati, la ripetitività dell'azione (prodromi, preparazione e realizzazione dell'ennesima mission impossible). Maverick, da cavaliere rampante, torna dopo 36 anni con stimmate da eroe da western crepuscolare, di quelli che sembrano aver fatto il loro tempo, sopravanzati dalla tecnologia e dalla gioventù. E invece no, anzi: che sarà anche capace di battere gli aerei più moderni e sofisticati con un reperto da museo dell'aviazione. Intorno a lui, al di fuori dell'ambiente strettamente militare troviamo solo, al bancone del bar, la Vecchia Fiamma, ovviamente single e disponibile a riammetterlo subito nel suo letto; mentre nella scala gerarchica militare troviamo tutte le figure come avremmo potuto immaginarcele: il Vecchio Amico, che solo lo conosce a fondo e lo richiama in missione perché sa – a ragione - che è l'unico che potrà portarla a termine; il Superiore Ostile che tenta di mettergli i bastoni tra le ruote Ma Alla Fine Si Dovrà Ricredere; il Giovane Ribelle e rancoroso che però alla fine si dimostrerà un Figliol Prodigo; il Giovane Arrogante e strafottente, che però alla fine si dimostrerà un Bravo Ragazzo e un Compagno Leale; la Donna, Che Non Ha Nessun Aggettivo Speciale, ma ha la sola caratteristica di avere le palle come e forse più dei suoi compagni Veri Uomini. In questo war games dove ogni cosa va come si poteva prevedere potesse andare (e gli aerei intanto zigzagano, salgono, scendono, bombardano si rialzano, tornano alla base e poi via da capo), tutto è talmente stilizzato che non ci si preoccupa nemmeno (o, al contrario, ci si preoccupa fin troppo) di nominare il Nemico, indicato semplicemente come un anonimo Paese Canaglia senza nome, con centrali nucleari senza uranio, piloti senza volto (il casco - a differenza di quelli americani che, trasparenti, mostrano tutte le umanissime emozioni - è totalmente coprente), e poi silhouette di aerei, silhouette di batterie antiaeree (ma perché non tentare di neutralizzarle preventivamente con qualche lancio di Tomahawk per favorire la fuga dei nostri eroi?), scie di missili nel cielo. Alla fine sventolio di bandiere, sorrisi e abbracci, ravvedimenti e riconciliazioni, gloria e onore. E al centro di tutto, per tutto il tempo, c'è stato lui: Tom Cruise con il suo sorriso smagliante senza una scalfittura, il suo corpo inossidabile e cinetico (ne avevo già parlato qui), che vola, resiste ad accelerazioni inumane, naviga a vela, corre in moto, gioca a palla, va a letto con la bella (si sarà accorto che gli hanno scambiato Kelly McGillis con Jennifer Connelly? - non che gli sia andata male). Continuerà così per sempre? Con tutto il cuore glielo auguriamo e un po' lo invidiamo.
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AMBULANCE di Michael BayNo, ma davvero? Parliamone.
Ambulance di Michael Bay inanella personaggi e situazioni stereotipati fin dalla prima sequenza, con la moglie malata con bimbo in braccio e marito amorevole e musica melensa, poi l'innocente coinvolto suo malgrado nell'azione delittuosa dal fratello dall'anima nera, quei brutti ceffi dei complici, la rapina progettata nei minimi dettagli che ovviamente va a catafascio, gli infermieri già intravisti che verranno ovviamente coinvolti nella fuga (il film d'altra parte si intitola Ambulance) e così via. Così via: la sparatoria alla Heat, gli inseguimenti da sfasciacarrozze, la fuga contromano, la sequenza nel LA River come in Vivere e morire a Los Angeles, qualcosa alla Tony Scott, l'infermiera eroica, i cattivi redenti, i poliziotti stupidi, i gangster fuori di testa, Los Angeles sfondo e protagonista, Grand Theft Auto come navigatore, i flashback sui tempi innocenti dell'infanzia, le bancarelle rovesciate dalle auto in fuga, le macchine della polizia che deragliano come nei Blues Brothers, l'unità di tempo e azione come in Speed, (con tanto di operazione chirurgica con mani e fermacapelli su ambulanza in corsa; qui la battuta migliore del film, quando in risposta agli inviti a rallentare il rapinatore alla guida chiede se vogliono fare l'inseguimento più lento del mondo) e poi via così e via così. Senza che in tutto il film non ci sia uno ma dico un personaggio che si comporti mai con un minimo di logica o di banale buon senso. Allestire una sagra dello stereotipo e dell'illogicità non è senza conseguenze; e il grande gioco ludico e adrenalinico (corre l'obbligo di definirlo così), impegna tempo e pazienza dello spettatore per la durata abnorme di due ore e un quarto (l'originale danese di cui è il remake arrivava alla meta in 76 sani minuti), dopo che interesse e credibilità si sono già azzerate in pochi minuti. A togliere qualsiasi illusione c'è il rapinatore che invita il poliziotto ad entrare in banca durante la rapina, e poi l'interminabile sbobba manniana della sparatoria e della fuga dalla banca. Poi tutto scorre senza pathos, senza emozione, senza thrilling, senza interesse per il destino dei personaggi. I quali tutti, in ogni occasione, si comportano in modo demenziale, perché in modo demenziale è stata scritta la sceneggiatura e in modo demenziale la asseconda la regia di Bay, che cerca di renderla pirotecnica muovendo la macchina da presa sempre, dovunque e in qualsiasi situazione, con giravolte, riprese aeree, zoomate, tutto quanto può servire a cercare di frastornare lo spettatore e fargli dimenticare l'assoluta mancanza di senso e di coerenza del tutto. Le energie le assorbe tutte il montaggio (dell'italiano Pietro Scalia cha un paio di Oscar all'attivo); la musica è prevedibile e di servizio, l'epilogo, come si poteva prevedere, bassamente moralistico. L'unico che pare divertirsi è Jake Gyllenhaal, che può andare sopra tutte le righe che vuole; Yahya Abdul Maaten II deve ingessarsi (pur nel ritmo frenetico che gli gira intorno) nel ruolo del bravo padre di famiglia che è stato coinvolto anche se lui non voleva, e Eiza Gonzalez è un'infermiera patinatissima anche con la faccia schizzata di sangue. Se Bay pensa che basti autocitare i suoi primi film per diventare un autore, si sbaglia. Se c'è qualche ragazzino che si diverte sulla sua giostra imbizzarrita, buon per lui. Per quanto mi riguarda, ambulanza per ambulanza, mille e mille volte meglio l'esordio italo-belga e low budget del The Shift (leggi la recensione) di Alessandro Tonda. Analogie a non finire (unità di luogo, tempo e azione a bordo dell'ambulanza, paramedici ostaggi, il ferito a bordo, la polizia in azione). Ma lì, a dispetto del budget limitato e dell'assenza di divi, c'erano personaggi, pensiero, contemporaneità, etica, credibilità, tensione, fiato in gola, respiro sospeso, umanità: tutte cose di cui nell'Ambulance di Bay non ho trovato traccia. ASSASSINIO SUL NILO (Death On the Nile) di Kenneth BranaghNon sempre è facile aggiornare storie e personaggi che hanno una loro storia, magari in altri media che non siano il cinema. Ne parlavo qualche giorno fa a proposito di The Batman, e qualche tempo addietro a proposito dell'azzardo vintage-filologico dei Manetti Bros con Diabolik. Branagh ci ritenta riportando per la seconda volta sullo schermo, con Assassinio sul Nilo dopo quello sull'Orien Express, i suoi tentativi di rinverdire i fasti del Poirot creato da Agatha Christie. Non è facile, si diceva, in particolare in un caso come questo, in cui il personaggio è fortemente formalizzato (ai limiti del macchiettismo, con la sua testa d'uovo, i suoi baffi impomatati, la sua presuntuosa arroganza, il suo acume prodigioso, e tutta una scia di peculiari idiosincrasie), l'ambiente precisamente localizzato, l'epoca altrettanto ben definita, l'impianto narrativo schematizzato (ai limiti della sclerotizzazione, con entrata in scena dell'investigatore, presentazione dei personaggi, omicidio, indagini, interrogatori, scoperta di vari segreti, riunione finale dei molti sospettabili e rivelazione/ricostruzione degli accadimenti e dei colpevoli). Se negli anni '70, con gli analoghi film interpretati rispettivamente da Finney e Ustinov, il tentativo era quello di offrire alle platee scombussolate dalle produzioni della New Hollywood e delle varie “nuove ondate” del cinema europeo un prodotto più convenzionale e rassicurante, basandosi soprattutto su richiamo letterario, cast sontuosi e ambientazioni esotiche, Branagh mette in scena i suoi esercizi di stile cercando di adeguare il modello, per quanto possibile, alle sensibilità dei nuovi pubblici. L'intento di stupire di Branagh (di cui è uscito nelle sale italiane pressoché in contemporanea il molto diverso e in buona parte autobiografico Belfast) è dichiarato fin dalle prime sequenze, quando, venuto a vedere un film che si svolge sulle acque del Nilo, tra paesaggi solari ed esotici, lo spettatore si trova invece catapultato nella campagna europea devastata dalla Grande Guerra, in tetri e scheletrici paesaggi bicromi, a percorrere in piano-sequenza asfittiche trincee fangose come in 1917. Paesaggi e luci sono sostenuti, spinti, e ricreati grazie alla cgi, tra luci ambrate e scenografie maestose (ma l'ambientazione posticcia è un po' appiccicosa), tra riprese subacquee e altre aeree. E' evidente poi il lavoro fatto sulla definizione dei personaggi, dove ci sono vari cambiamenti rispetto agli originali romanzeschi: la spia italiana (siamo negli anni '30) sparisce, una coppia di personaggi vira verso l'omosessualità, un'altra cambia colore di pelle in nome dell'inclusione, una scrittrice di romanzi rosa-peperoncino diventa una cantante blues (con una determinante influenza black american sulla colonna sonora) e la sua dolce e riservata nipote un'agguerrita road manager; e per sovrammercato l'equipaggio della nave è formato da giovani donne in pantaloncini che devono più volte improvvisarsi in compassati becchini. Se anche i balli e i comportamenti sono spregiudicatamente sensuali, il lavoro di ridefinizione viene però compiuto soprattutto sul personaggio protagonista, cercando di intaccarne la plasticità statuaria conferitagli dai romanzi della scrittrice inglese. Nel nuovo film scopriamo infatti che il celeberrimo investigatore belga voleva fare il contadino (non il poliziotto quindi), che ha il viso orrendamente sfigurato (a nascondere lo sfregio delle cicatrici servono dunque i suoi enormi baffoni), e soprattutto che ha un animo romantico, che rimpiange il suo amico amore (che compare nel film in una sola sequenza, per essere poi spazzata via da un colpo di mortaio nel racconto postumo del detective), ma è platonicamente sensibile alle grazie di un'attempata signora di colore in crociera. Molto per i lettori conservatori, poco per rendere veramente moderno e dare carne, sangue e anima ad un personaggio già in partenza molto stilizzato. Nel cast funzionale che circonda l'ego al quadrato di Branagh e di Poirot, si distingue Emma Mackey, con un ruolo più tormentato e febbricitante. Branagh, a bordo della motonave Karnak, si invaghisce delle sfaccettature delle finestre che danno alla realtà un'ambiguità e una doppiezza prismatica, e si trova a suo agio soprattutto nel gioco teatrale delle porte che si aprono e si chiudono, ma il film complessivamente lascia il sapore di un'operazione fine esclusivamente a se stessa. THE BATMAN di Matt ReevesNelle saghe cinematografiche (e in caso particolare nei reboot, come in questo caso), molto del gradimento nella ricezione da parte del pubblico, e in particolare dei fan, dipende dall'equilibrio che si riesce a conseguire tra canone e innovazione. Per non scontentare lo zoccolo duro dei seguaci più puristi, devono infatti essere rispettati i caratteri essenziali del personaggio, della tipologia di ambientazioni, dei personaggi secondari (aiutanti, antagonisti, partner di avventura e/o sentimentali, ecc.) e delle “regole” che disciplinano l'universo finzionale. Ma, nello stesso tempo, devono essere inseriti degli elementi innovativi che scongiurino il pericolo di ripetitività e di assuefazione da parte degli spettatori. Quest'ultimo aspetto è particolarmente importante (come qualunque showrunner di serie televisive sa bene) quando gli episodi filmici siano molteplici (come nelle serie, che si sviluppano spesso in più stagioni) e distribuiti in un lungo arco di anni, com'è il caso del personaggio di Batman. A mio parere il film di Matt Reeves raggiunge un accettabile compromesso tra i due elementi: in The Batman c'è il personaggio principale con la sua iconografia ormai consolidata, ci sono i personaggi di aiuto o alleati (il maggiordomo Alfred, il commissario Gordon, la sexy amica-nemica Catwoman), ci sono i principali nemici storici (l'Enigmista, il Pinguino, il Joker in un cameo), c'è la classica ambientazione (una Gotham City in cui si mescola l'architettura newyorkese e il neogotico, lo squallido Arkham Asylum), ci sono i gadget batmaniani (la bat-caverna – con tanto di pipistrelli, la bat-mobile, il bat-richiamo), e così via; e ci sono anche le grandi tematiche (il tormento del personaggio, diviso tra vendetta e giustizia, il tema della maschera e del doppio, la specularità deviante tra l'eroe positivo e gli antagonisti). L’innovazione ha invece aspetti più problematici, dovendosi misurare con un prodotto narrativo transmediale già oggetto di innumerevoli reboot, spin off, variazioni sul tema. Tra le varie scelte possibili, The Batman si inserisce decisamente nell'evoluzione che conduce dal personaggio originale e naïf creato alla fine degli anni ‘30 da Bob Kane alla variante problematica e “politica” della graphic novel Il cavaliere oscuro, di Frank Miller, e ai toni sempre più cupi assunti dal personaggio (e dai suoi nemici) nei film girati da Cristopher Nolan, che all’opera di Miller direttamente si ispirano. Da Nolan e Fincher derivano certi aspetti narrativi, figurativi e “atmosferici”, con un Cavaliere Oscuro che diventa detective oltre che giustiziere, in una sorta di incrocio tra Sherlock Holmes e Seven. Se la parte di detection costituisce la parte più debole del film (le soluzioni che “il più grande detective del mondo” dà ai macabri indovinelli dell’Enigmista non sono sempre così limpide, e, se si guarda con un minimo di distacco, i sopralluoghi dell’eroe sulle scene del crimine, mentre si aggira legnoso dentro un ingombrante costume da pipistrello, sono piuttosto grottesche), è d’altra parte anche una delle novità principali del film, in cui il superhero movie si sposa al crime. Batman combatte stavolta da una parte contro l’Enigmista, autore di alcuni efferati e scenografici delitti, ma anche contro la più prosaica mafia italo-americana, alleata e collusa con le principali istituzioni di Gotham City, dal procuratore distrettuale ai dirigenti di polizia fino allo stesso Sindaco. Si aggrovigliano così diverse linee narrative: da una parte l’esigenza di interpretare gli indizi beffardi dell’Enigmista per prevenire ulteriori crimini; dall’altra l’indagine tra mafia e istituzioni, tra talpe, doppi giochi e la scoperta di una corruzione di proporzioni inimmaginabili; da un’altra ancora il lato più propriamente action con lotte, inseguimenti, fino all’apoteosi dello scontro finale in un contesto quasi apocalittico. Il tutto disseminato di ulteriori sottotrame, dove molti sono in cerca di giustizia o di vendetta, come gli stessi antagonisti principali (Selina Kyle, alias Catwoman, è addirittura impegnata in una vendetta plurima); e dove l’indagine di Bruce Wayne sulla corruzione lo porterà a scoperte assai poco edificanti sulla propria famiglia, “sporcando” perfino l’elegiaca immagine dei suoi genitori che qualsiasi lettore o spettatore di Batman ha sempre avuto. In un film dalla durata fluviale di tre ore, d’altra parte, prestiti, rimandi e riferimenti ad altri film sono innumerevoli, e la sceneggiatura stessa si impone una notevole e poco motivata torsione facendo scivolare l’Enigmista dal ruolo di giustiziere e di fustigatore della corruzione, qual è stato per tutto il film, sia pur con metodi poco ortodossi, a quello del pazzo terrorista che vuole distruggere la città, ponendo le condizioni per un finale spettacolare e apocalittico. Apocalittico e insieme politico: mentre si profila, dopo una punizione quasi biblica, una problematica palingenesi per l’umanità di Gotham, è lo stesso Batman a maturare un cambiamento, in mezzo alle macerie e alle vittime, scoprendo una vocazione umanista che dovrebbe temperare quella di inesorabile giustiziere o addirittura quella di vendicatore. In effetti, politicamente The Batman è un film molto problematico: dando un seguito alla rappresentazione del rancore e dell'esplosiva rabbia sociale vista nel Joker di Phillips, raramente il cinema d’intrattenimento aveva espresso una così cupa sfiducia nelle istituzioni che dovrebbero difendere il vivere civile e democratico: sindaci, giudici, tutori dell’ordine, (quasi) tutti sono marci, corrotti da vizi privati e da collusioni con la peggiore criminalità. Alla cupezza ideologica e morale (Pattinson, il cui volto senza maschera si vede in realtà pochissimo, non sorride mai e ha gli occhi anneriti da occhiaie profonde a indicare il suo tormento interiore) si sposa quella visiva, in un film che inizia nella notte di Halloween, tra derelitti criminali mascherati, e che si svolge quasi totalmente in notturna, in esterni pieni di buio e di pioggia, o in interni altrettanto poco illuminati fotografati da Greig Fraser, che ha già firmato le luci di Dune. The Batman è infatti in definitiva un noir, dove gli elementi fantastici sono ridotti al minimo (la presenza di un paio di personaggi mascherati, la tuta antiproiettile di Batman e i suoi accessori), a favore di un sostanziale realismo incupito e stilizzato, dove ad esempio il Pinguino è solo il soprannome di un mafioso corpulento e goffo dalla faccia deturpata dalle cicatrici. In Italia la classificazione del film è +6 (negli Usa +13), ma sconsiglierei di portarci i bambini, a meno che non gli abbiate già fatto vedere film come Seven o simili, perché il personaggio dell’Enigmista è davvero inquietante, il finale catastrofico piuttosto angosciante e le scene del prologo, in cui si aspetta insieme ai criminali di turno che il vendicatore-pipistrello emerga dalle tenebre, fanno veramente paura, anche nel caso in cui aveste la coscienza pulita (e d’altra parte chi ce l’ha veramente? considerato che Batman terrorizza anche dei writers, che nella scala del crimine feroce non si collocano esattamente ai primissimi posti). Efficaci le scelte di cast: Robert Pattinson nasconde per la maggior parte del tempo il viso emaciato e i capelli spettinati sotto l'elmo con le orecchiette a punta; Zoe Kravitz è piccola, scattante e sexy quanto basta per una donna-gatto; Turturro da bravo italo-americano finisce nel ruolo del capo-mafia; Paul Dano ha già dimostrato in Prisoners di avere una faccia sufficientemente inquietante per interpretare l'Enigmista; Colin Farrell è assolutamente irriconoscibile sotto il mascherone del Pinguino mentre all'opposto Andrew Serkis (il Gollum de Il signore degli anelli e il Cesare de Il pianeta delle scimmie) si spoglia di ogni mascheratura e della gestualità animalesca che l'hanno reso famoso per interpretare l'impettito Alfred. Personaggi principali alla fine (quasi) tutti vivi e già pronti per il sequel. D’altra parte, come dice uno dei personaggi stessi del film, “questa città ama i ritorni”. LA FIERA DELLE ILLUSIONI (Nightmare Alley) di Guillermo Del ToroSin dalle prime immagini La fiera delle illusioni ci immerge nel mondo del noir anni '30, quello de Il postino suona sempre due volte, per intenderci, immerso nei brulli paesaggi immortalati dalla pittura di Andrew Wyeth (cfr. l'immagine al fondo dell'articolo). Il vagabondo con un passato oscuro alle spalle (una casa in fiamme, un grosso involto nascosto in un buco nel pavimento) e in cerca di fortuna, il lavoro avventizio in un'America randagia che si sta risollevando dalla Grande Depressione, una coppia in cui insinuarsi, un libretto pieno di segreti, una cassa piena di veleno. Ma il film (tratto dal romanzo di William Lindsay Gresham, che aveva già avuto una traduzione per lo schermo nel 1947, con Tyrone Power protagonista, cui il film di oggi è sostanzialmente fedele dal punto di vista della struttura narrativa) è diretto e scritto da Guillermo Del Toro, un autore che ha una visione teratologica delle storie e della Storia, per cui tutta la prima parte del film è immersa in atmosfere dove al realismo della narrazione si mescola l'onirismo concreto dell'ambientazione, una fiera delle meraviglie piena di freaks (reali o prodotti con arte e cinismo), di fenomeni di natura, di trucchi escogitati per stupire il pubblico campagnolo, tra donne barbute e donne elettriche, nani e forzuti, uomini-bestia e feti deformi conservati sotto spirito. Ma è nel secondo atto che si rivela appieno la morale del film: quando tra ciarlatani e truffatori, maghi e illusionisti, spiritisti e mentalisti, dottori e psichiatri, sia che ci si trovi in una ruspante fiera di campagna che negli ambienti freddi ed eleganti dell'alta borghesia, si scopre che il mondo si divide sempre e solo tra ingannatori e ingannati. E a volte le due categorie possono anche coincidere, visto che ognuno nasconde in sé fragilità, debolezze e segreti rimossi che lo rendono indifeso davanti al fascino della seduzione e della costruzione (a volte innocua, a volte pericolosa) di una rappresentazione fittizia, prodotta a suo esclusivo uso e consumo, almeno finché l'impatto con la realtà farà esplodere la bolla dell'illusione. Del Toro allestisce un noir in purezza, preciso nelle atmosfere e avvolgente, di grande eleganza figurativa, immerso in atmosfere plumbee e invernali fotografate dal danese Dan Laustsen (già collaboratore in precedenza del regista spagnolo), diviso in due parti (con molti esterni nella parte rurale e una prevalenza di interni in quella urbana), raccontando in realtà una vicenda circolare di ascesa e caduta. I personaggi sono spesso inquadrati dal basso, non per esaltarne il titanismo, ma al contrario per ridimensionarli in una realtà più grande di loro, anche quando credono di dominarla. Gli attori del ricco cast (Bradley Cooper, Cate Blanchett, Rooney Mara, Toni Colette, Willem Dafoe) rispondono ad un progetto di stilizzazione, per cui sono utilizzati in funzione della caratterizzazione fisica e della loro storia di interpreti; tra tutti spicca per fascino ed efficacia la dark lady di Cate Blanchett, sinuosa e incantatrice come un serpente dalla pelle pallida, i capelli biondi e la bocca scarlatta. Il tema dell'illusione, o meglio della consapevole e pianificata fabbricazione dell'illusione, ha fatto pensare a molti che in realtà il film parli (anche) del potere affabulatorio e fascinatorio del cinema. La natura magico-illusionistico del cinema fu tematizzata da Orson Welles, che ad essa dedicò un film metatestuale come F for Fake (e che fece la sua ultima apparizione in tv, il giorno prima di morire, nei panni di un prestigiatore). Ma in questo caso il film parla, forse più che del cinema come linguaggio dell'illusione, del cinema come fabbrica delle illusioni. La molla che spinge i personaggi del film non è mai quella del desiderio di narrare una favola, di costruire una realtà estetica e morale alternativa: protagonisti e comprimari de La fiera delle illusioni sono mossi sempre da moventi utilitaristici: i loro inganni sono finalizzati a procurarsi prima di tutto denaro, e poi fama e potere, dal desiderio di affermazione, di rivalsa, di sopraffazione, di vendetta. Gli illusionisti del film vogliono dare ai loro clienti - usando strumentalmente a questo scopo tecniche psicologiche rudimentali o più raffinate - quello che loro desiderano vedere, che sia un bruto che stacca a morsi la testa di una gallina o che una ragazza morta che resuscita dall'oltretomba. Un po' registi che evocano ad arte una realtà fittizia, insomma, e un po' esperti di marketing che quella realtà la disegnano sulla misura dei bisogni dei loro spettatori/vittime. UNA FAMIGLIA VINCENTE - KING RICHARD di Reinaldo Marcus GreenUna famiglia vincente – King Richard è un film ben fatto, che non annoia, ben recitato (a me sono piaciuti di più i comprimari, Aunjanue Ellis nel ruolo della moglie, Toni Goldwyn e John Bernthal nel ruolo degli allenatori, rispetto a un Will Smith alle prese con un personaggio non troppo simpatico e un po' manierista, forse per responsabilità del trucco – ma comunque premiato con Golden Globe). Con alle spalle una storia e dei personaggi reali e ben documentati (si vedano gli inevitabili filmati con i veri protagonisti posti sui titoli di coda), il film è l'ennesima versione sull'americanissimo tema della scalata al successo; con la variabile che stavolta il protagonista non è il o la giovane talentuosa ma di umili origini che scala le vette della propria ambizione sgominando competitori e avversità, bensì il loro padre. Il King Richard del film è infatti Richard Williams, padre di Serena e Venus Williams, due delle tenniste più grandi di tutti i tempi, spesso in competizione tra loro per contendersi il primo e il secondo posto sul podio della medesima gara. Reinaldo Marcus Green (su una sceneggiatura scritta da Zach Baylin), racconta le origini del mito delle sorelle Williams, quando sono ancora delle ragazzine che vivono con mamma, papà e le tre sorellastre. A trascinarle verso un futuro di gloria e di vittorie da record è il padre Richard, che resosi conto del loro talento, pianifica sin dall'inizio il loro futuro, sottoponendole a durissimi allenamenti, promuovendole con insistente petulanza presso agenti e allenatori, facendo lo slalom tra proposte sempre più allettanti, tenendo sempre ben fisso l'obiettivo finale, che è il massimo raggiungibile, spingendole e trattenendole quando reputa sia necessario, fino all'apoteosi dei successi planetari. Williams è consapevole della difficoltà del progetto che ha elaborato, che richiede un doppio salto mortale: prima strappare le figlie dal proprio ambiente e soprattutto dalla strada e dai pericoli che vi si trovano (tra bullismo, sessismo, droga, violenza); e quindi portare non una ma ben due ragazze ai vertici del tennis mondiale; e due afroamericane poi, cosa inaudita allora nell'ambito di uno sport tradizionalmente appannaggio delle élites bianche che mandano sui campi in terra rossa le proprie figlie esili, bionde e aggraziate. Serena e Venus sono invece nere e robuste, due piccole e tostissime macchine da guerra capaci di sgominare qualsiasi stereotipo e qualsiasi pronostico a colpi di potenza fisica e tecnica micidiale. Tutto bene, quindi? Forse, non fosse che il racconto e la relativa retorica del successo a tutti i costi (con quanto di stucchevole può portare con sé) hanno il vantaggio della prospettiva a posteriori. Richard, e il film non lo nasconde affatto, è una sorta di mitomane monomaniaco, arrogante e presuntuoso, un autocrate che tiene poco in considerazione il parere della moglie e che sottopone le sue allieve a prove estenuanti (tanto che i vicini di casa chiameranno addirittura la polizia per cercare di proteggere le ragazze) sprezzante verso tutti (compresi allenatori di altissimo livello, agenti, sponsor), capace di rifiutare proposte milionarie scommettendo d'azzardo sull'imbattibilità delle proprie campionesse; lo vediamo seguire le partite cruciali dai corridoi delle palestre, rigirandosi in bocca uno stuzzicadenti e lanciando intorno frecciatine sprezzanti. Sbagliando (il film insolitamente si conclude con una sconfitta anziché con un trionfo), ma indovinando (la carriera di Serena e Venus è appena iniziata e in breve travolgerà tutto e tutte). Abituato a subire una vita di discriminazione e di prevaricazione (anche da parte dei suoi stessi compagni afroamericani), Richard si piega (menato dai bulli di quartiere) ma non si spezza mai, inseguendo per interposte figlie un'emancipazione sociale ed economica e una rivalsa bruciante su tutte le umiliazioni subite, con gli occhi fissi al proprio miraggio. La storia (e il film) ci dice che aveva ragione, e che raggiungere il successo è una questione di talento ma soprattutto di tenacia, di volontà e di confidenza in se stessi; ma se Serena e Venus ce l'hanno fatta e sono entrate di diritto e di prepotenza nella storia dello sport, tante altre (e altri) come loro sono cadute lungo il percorso, per mancanza di quell'indefinibile quid che distingue un campione da un ottimo giocatore, di tenuta psicologica e nervosa, vittime delle ambizioni smodate di genitori che cercano di realizzarsi sacrificando la giovinezza dei propri figli ai sogni di riscatto delle proprie frustrazioni. King Richard racconta insomma la storia di un vincente, ma avrebbe facilmente potuto essere invece la storia di un simpatico aguzzino. FIRST REFORMED - LA CREAZIONE A RISCHIO (2018) di Paul SchraderSiamo arrivati al momento in cui diversi registi, di differenti generazioni, hanno stilato con le proprie opere più recenti una sorta di bilancio della propria esistenza e della propria carriera cinematografica. E' il caso di Woody Allen, che con il suo Festival ripropone in forma definitiva la propria visione del Cinema e della Vita (e della Morte) con il consueto garbo e humor; di Martin Scorsese, che con The Irishman ricapitola e sigilla con lucidità l'epopea del proprio cinema sullo sfondo della Storia americana; di Pedro Almodovar, che con Dolor y Gloria mostra limpidamente il processo con cui l'autobiografia si fa cinema (e viceversa). Lo stesso discorso si potrebbe fare per Paul Schrader, che, alle soglie dei 75 anni, con First Reformed (disponibile su Netflix), nel 2017 torna alle fonti del proprio cinema e le rievoca intrecciandole alle reminiscenze del cinema più amato. Interessato fin dalla tesi di laurea (dedicata a Ozu, Bresson e Dreyer) alle tematiche della trascendenza e a quelle dell'innocenza e della colpevolezza dell'essere umano, Schrader pone direttamente al centro del suo film la figura di un sacerdote. Toller (letteralmente, colui che riscuote il pedaggio, ma anche colui che suona le campane della chiesa) è un pastore di mezza età (interpretato da Ethan Hawke che mette a disposizione il suo sofferente volto di ex-ragazzo sciupato), di una piccola chiesa storica di una città di provincia, tormentato dai sensi di colpa per aver spinto ad arruolarsi il figlio che ha poi trovato la morte in Iraq, morte che ha decretato anche la fine del suo matrimonio. Toller beve, scrive un diario in cui riflette sul proprio operato, i propri dubbi, e quelli che ritiene i propri peccati di orgoglio, e intanto tenta di prendersi cura delle anime della propria comunità. Il suicidio di un parrocchiano che gli aveva confessato la propria angoscia per il precipitare della crisi ecologica e la sorte della Terra, e che non vuole vedere il proprio figlio nascituro crescere in un mondo devastato dall'inquinamento e dai cambiamenti climatici, e il rapporto con la sua giovane vedova (che nel garage di casa ha trovato tra le cose abbandonate dal marito anche un giubbotto esplosivo), finirà per sconvolgere definitivamente il suo fragile equilibrio. Anche se può non sembrare a prima vista, First Reformed riprende il nucleo tematico e le figure simboliche di Taxi Driver (già replicate in un'altra variante, ad esempio, ne Lo spacciatore), la sceneggiatura di Schrader portata magistralmente sullo schermo nel 1975 dallo stesso Martin Scorsese, in un film epocale e seminale. C'è il Moralista, che ha conosciuto il Male del mondo (Bickle in prima persona nella guerra del Vietnam, Toller con la morte del figlio in – un'altra – guerra “senza giustificazione morale”, in Iraq); un mondo corrotto e degradato (in un caso la New York violenta e sporca piena di prostitute, e pornografia, spacciatori di droga e violenza; nell'altro l'intero pianeta, portato sulle soglie della distruzione totale dall'azione sconsiderata dell'umanità, animata solo dalla fame di profitto); l'Innocenza corrotta (la baby-prostituta in Taxi Driver; il povero Michael portato a concepire atti di violenza dalla propria disperazione morale, e ancor più la sua vedova lasciata da sola ad attendere la vita che verrà – il cognome dei personaggi è Mensana, il cui significato latino di certo non sfugge a Schrader); l'individuazione nel Potere costituito dei mali della società (il senatore Palantine da una parte; il sindaco, il governatore, i membri della congregazione religiosa, l'industriale inquinatore sponsor della Chiesa dall'altra); l'Azione di giustizia concepita dai protagonisti sotto forma di strage cruenta (con tanto di vestizione rituale preparatoria): nello stesso tempo punizione simbolica dei malvagi e dei corrotti e testimonianza attraverso il proprio sacrificio del male del mondo e del rifiuto etico di essere conniventi con esso. Il ritorno alle origini del proprio peculiare nucleo tematico e narrativo si intreccia però strettamente, come dicevo all'inizio, all'omaggio non certo gratuito al cinema da Schrader più amato. Adeguandosi anche nello stile severo e sobrio della narrazione (con l'importante eccezione dell'incongrua sequenza onirica, in cui Toller e Mary Mensana, sdraiati uno sopra l'altro come in una doppia crocifissione, sorvolano prima meravigliosi panorami naturali, e poi paesaggi sconvolti dalla devastazione portata dall'azione dell'uomo), Schrader cita alcuni dei suoi Maestri attraverso opere che avevano per protagonisti figure di religiosi. Innanzitutto naturalmente Il diario di un curato di campagna, citazione lampante in quanto anche in First Reformed la cornice narrativa è fornita dal diario che il protagonista decide di tenere e che lo vediamo spesso intento a scrivere (lo stesso Bickle di Taxi Driver ne teneva a sua volta uno). La questione dell'etilismo, la malattia, l'esame di coscienza attraverso la scrittura, il rapporto con un altro religioso più realista e pragmatico, le immagini del prete che scrive o corre in bicicletta sono tutti elementi che derivano dall'opera di Bresson. Ma una terza opera completa il quadro dei riferimenti: si tratta di Luci d'inverno, di Ingmar Bergman, di cui ritroviamo i paesaggi invernali, il parrocchiano in attesa di un figlio e ossessionato dai timori per il futuro dell'umanità, l'appuntamento rinviato, il suicidio con un colpo di fucile, la donna innamorata del prete e da questi rifiutata. First Reformed appare quindi in definitiva come un canovaccio con la struttura di Taxi Driver, sul quale Schrader intesse e disegna le figure ispirate dal cinema amato di Bresson e di Bergman. Se Schrader aveva scritto la sua sceneggiatura capolavoro in gioventù, in un momento di depressione e di solitudine, a 70 anni suonati lo troviamo a firmare un film altrettanto se non più desolato e insoddisfatto (forse anche di se stesso), dove il malessere esistenziale di Travis Bickle si espande ad una dimensione cosmica ed escatologica, e dove ancora forte è l'ambizione di trascendere le brutture del mondo, o di ribellarglisi, rinfacciandogli con violenza i suoi peccati ed espiando i propri in un martirio cruento. FIRST COW di Kelly ReichardtNel prologo ambientato ai nostri giorni una donna in giro con il proprio cane scopre due scheletri affiancati, sepolti superficialmente in un terreno incolto. Alla fine, i due protagonisti, in fuga nelle terre selvagge dell'America dell'800, si sdraiano uno accanto all'altro per riposarsi, chiudendo il lasco cerchio narrativo. Kelly Reichardt sceglie di raccontare con uno sguardo femminile (anche se le donne sono quasi del tutto assenti o inessenziali allo sviluppo della storia) un altro western minimalista e marginale, assemblando una strana coppia di antieroi. “Cookie” svolge con difficoltà le funzioni di cuoco nelle spedizioni di cacciatori di pellicce, bistrattato da compagni rudi e affamati. Eppure riesce ad aiutare e salvare un fuggiasco, King-Lu, di origine cinese e braccato da cacciatori russi, trovato nudo e a sua volta affamato nella foresta. I due si ritroveranno in un avamposto sgangherato ma dal nome pomposo (Royal West Trade Post), dove l'intraprendenza di King-Lu e le abilità culinarie di Cookie daranno vita ad un bizzarro sodalizio imprenditoriale. Mungendo nottetempo la prima e unica mucca presente nei territori, fatta arrivare da lontano dal Luogotenente che amministra l'avamposto, i due si procurano quel po' di latte necessario a preparare gustose frittelle, molto apprezzate dai frequentatori dell'avamposto e dal Luogotenente stesso, ignaro che le leccornie siano preparate con il suo stesso latte sottrattogli fraudolentemente. King-Lu ad un certo punto pronuncia una frase che fa sorridere - qualcosa come “Ci siamo messi in un gioco troppo rischioso” - considerando che l'impresa criminale consiste nella mungitura di nascosto di qualche ciotola di latte, ma le conseguenze delle loro azioni avranno in effetti un esito più drammatico del prevedibile. La Reichardt racconta una storia di improbabile amicizia, racconta il melting pot seminale della nascita della nazione americana (dove si mescolano anglosassoni, russi, cinesi, indigeni vestiti di paglia e avventori di ogni parte del Vecchio Mondo), e ancora il Sogno americano dei self-made-men, la capacità di immaginare un futuro di successo partendo dalla sola forza della volontà e dalle proprie capacità. Ma il racconto si mantiene umile, radente la superficie di fatti e gesti minimali, dilatando per oltre due ore (una durata a mio parere eccessiva) una storia molto semplice e priva della preoccupazione di approfondire o esplorare i retroterra (anche l'amicizia dei due protagonisti è laconica e fondata più sulla concretezza della convivenza e del lavoro comune che sulle parole o sull'espressione di sentimenti). Se la concezione delle scenografie e dei costumi sembra frutto di una seria ricerca filologica, la regista sceglie ancora una volta il formato 1:1.33, costringendo i paesaggi naturali della Frontiera dentro uno schermo angusto, quasi quadrato, alla ricerca di una dimensione intima anziché scenografica. Se l'accento posto sullo spirito imprenditoriale e pionieristico ricorda altri western anomali come La ballata di Cable Hogue (1970) di Peckinpah e I compari (1971) di Altman, al contrario di questi, ambientati già nel crepuscolo del West e della Frontiera, la Reichardt (che mette in immagini il romanzo di Jonathan Raymond che firma anche la sceneggiatura) colloca i due antieroi agli albori della conquista del West, dove “la Storia non è ancora arrivata” ed è ancora possibile giocare d'anticipo per chi ha la testa e le mani per inventarsi un futuro. Mubi ha investito molto sulla promozione del film dell'autrice di Meek's Cutoff, che richiede però uno sguardo decisamente predisposto ad accettare un racconto pacato e un po' inerte, dai ritmi lenti e dai limitati sviluppi drammatici. SOUND OF METAL di Darius MarderE' forse il segno dei tempi il fatto che alla candidatura agli Oscar siano arrivate storie a volte minimaliste di personaggi dimessi, il cui scopo non è vincere, ma semmai trovare il modo con cui arrendersi, alla malattia, come in The Father, all'handicap come in Sound of Metal, alla perdita della casa, del lavoro, del contatto con la società come in Nomadland, allo scacco delle proprie modeste ambizioni, come in Minari. Sound of Metal racconta del cammino di un giovane batterista verso la sordità. Ruben, dai corti capelli ossigenati, martella spietatamente il suo strumento mentre la sua ragazza Lou sputa versi rabbiosi come una Janis Joplin punk maltrattando la propria chitarra sulle pedane dei live club. I due si spostano sulle strade degli States lungo le tappe del loro tour con un enorme caravan. Si amano, si sono salvati dalla tossicodipendenza, e nell'intimità ascoltano vecchie cantanti jazz molto lontane dalla rabbia nichilista delle loro esibizioni. Ma tutto è destinato a finire, quasi all'improvviso. L'udito di Ruben ha un crollo; in breve non è più in grado di sentire e capire quanto gli viene detto. Entrare in una comunità per non udenti, dove sono ospitate persone di ogni età, vuol dire perdere i contatti con la vita di prima, con Lou, con la musica, con la sua vita nomade, con i suoi progetti. Dapprima riluttante, Ruben trova ad un certo punto nella comunità un nuovo modo di costruire rapporti sociali, di aiutare gli altri e di farsene aiutare, di trovare nuove forme di comunicazione. Ma il desiderio di tentare a tornare ad essere quello che era, lo spinge a farsi esiliare dalla propria nuova famiglia, a sottoporsi ad una costosa dai risultati parzialmente deludenti, a imbarcarsi per un viaggio verso il Belgio alla ricerca di una Lou molto diversa, solo per scoprire che nulla potrà più essere come prima. Sound of Metal è una dolente discesa nel regno del silenzio e della solitudine, in cui Ruben si sente estraneo tanto tra le persone tra cui si ritrova dopo essere stato colpito dal loro stesso handicap che verso le persone “normali”, che ormai sono a loro volta differenti da lui. Il film è l'opera prima di Darius Marder, che ha sceneggiato insieme al fratello Abraham un soggetto di Derek Cianfrance, per il quale aveva già scritto la sceneggiatura di Come un tuono. In effetti Cianfrance ha messo nella storia di Ruben una parte della sua esperienza di batterista a sua volta affetto da acufene, e la cifra dei suoi giovani antieroi laconici, coi capelli tinti, e sfortunati. Troppo lungo, e con alcuni momenti di calo dell'interesse, Sound of Metal cerca ovviamente nella dimensione sonora una caratterizzazione che è insieme narrativa, psicologica e suggestiva. Il disagio di Ruben viene fatto “sentire” allo spettatore attraverso delle soggettive acustiche con cui percepiamo i suoni attraverso le sue orecchie e la sua frustrazione, attutiti, smozzicati, incomprensibili, quando non addirittura inudibili. Le prospettive soggettive e distorte si alternano a quelle oggettive, in genere con riprese più distanziate rispetto ai soggetti: per lo spettatore l'effetto è come immergersi nell'acquario della sordità del protagonista e riemergere per riprendere aria. Riz Ahmed funziona nel rendere lo spaesamento di Ruben, la sua frustrazione sia di fronte alla propria disfunzionalità sia nei confronti di chi ha trovato un altro modo di affrontarla e, se non di vincerla, perlomeno di aggirarla in una convivenza che non esclude la possibilità di continuare a vivere in mezzo agli altri. Molto apprezzata è stata anche l'interpretazione di Paul Rauci (che a 72 anni ha avuto si può dire la sua prima occasione di rilievo), figlio di genitori sordi e pertanto pratico del linguaggio dei segni, nei panni di un reduce dal Vietnam, dove ha perso l'udito, che si è reinventato come capo di una comune di non udenti e per Ruben assume il ruolo di mentore nella sua nuova dimensione di vita. Sia Ahmed che Rauci hanno ottenuto candidature e premi; con ben sei candidature all'Academy (tra cui quelle per film, attori, sceneggiatura) Sound of Metal vince due Oscar: per il miglior montaggio e, naturalmente, per il miglior sonoro. LA DONNA ALLA FINESTRA (The Woman in the Window) di Joe WrightIl personaggio protagonista bloccato in casa; la finestra attraverso la quale spiare la vita dei dirimpettai; un femminicidio involontariamente osservato nella casa di fronte; la macchina fotografica con il teleobiettivo per vedere meglio e di più; l'irruzione dell'assassino nell'appartamento del testimone: il film di Joe Wright (tratto dal romanzo omonimo di A.J. Finn sceneggiato per lo schermo da Tracy Letts) potrebbe legittimamente intitolarsi con una crasi La donna alla finestra sul cortile, e il regista non fa nulla per nascondere la sua natura derivativa. Anzi, la esplicita fin dall'inizio, citando direttamente le immagini del capolavoro di Hitchcock; e rincara la dose facendo guardare alla protagonista Anna Fox Io ti salverò e altri noir che passano in televisione, con donne vulnerabili e in pericolo. A voler ben guardare si sentono altri echi: il salvatore sbrigativamente liquidato sulle scale come in Psyco, certi colori che sembrano usciti dalla tavolozza de La donna che visse due volte.
Ma altre suggestioni sembrano provenire direttamente dalla filmografia di Wright. La sua antieroina rivela da subito aspetti oscuri e problematici. Beve troppo, si trascura, non esce mai di casa e cerca di evitare qualsiasi contatto con l'esterno. Nel suo passato c'è un'ombra, e i fantasmi di morte che vede nella casa di fronte potrebbero essere in fondo proiezioni della sua psiche perturbata. L'eroina di Wright si chiama di nuovo Anna. In un cortocircuito metafilmico, Anna Fox potrebbe allora essere quasi una reincarnazione di Anna Karenina, in una storia rovesciata dove è l'adultera ad essere sopravvissuta al viaggio fatale nel panorama innevato, e sono invece il marito tradito e il figlio/figlia innocente ad essere morti. Anna Fox è una Karenina dei nostri giorni, superstite involontaria imprigionata nel proprio senso di colpa, ovvero un'Anna Karenina che dall'oltretomba assiste al film della propria impossibile sopravvivenza. Dopo la sublime vertigine stilistica e claustrofobica di quello che potrebbe essere il suo capolavoro, Wright trova di nuovo un pretesto per girare tutta la storia in interni, in un labirinto psichico dove il rottame di una macchina capovolta e innevata può finire nel salotto di casa come il cavallo bianco di Vronskij rovinava giù dal palcoscenico dopo una sfrenata corsa tra quinte teatrali. Purtroppo La donna alla finestra però non trova una ragion d'essere sufficiente a corroborare queste premesse e a valorizzare queste suggestioni. La storia della testimone non così innocente che indulge al solitario piacere voyeuristico, metafora dello spettatore cinematografico immobile nella propria poltrona, turbato e insieme compiaciuto dalle immagini che vede sullo schermo, non aggiunge molto alla geniale intuizione di Hitchcock (il fatto che il suo film sia ispirato ad un racconto di Cornell Woolrich non toglie nulla all'intuizione del regista inglese: è precisamente nella dimensione cinematografica che Rear Window fa esplodere tutto il proprio senso potenziale). Così come l'ambientazione in interni, con una stratificazione verticale degli ambienti, dalla cantina abitata dall'inquilino al tetto con lucernario fatale, attraverso lunghe rampe di scale, non riesce a generare un senso simbolico. Allo stesso modo Wright enfatizza l'aspetto teatrale della narrazione, schierando i personaggi davanti alla macchina da presa, ma, ben lontani dal fascino visivo e dalla dimensione metaforica della sua versione del capolavoro tolstojano. l'impianto visivo appare piuttosto gratuito e forzato. Così altri elementi potenzialmente interessanti, come il rapporto materno vicario appena abbozzato che si sviluppa tra Anna e il figlio adolescente dei vicini, o il possibile rapporto amicale e speculare che si potrebbe sviluppare tra le due donne-madri insoddisfatte – Anna e la sua vicina dalla dubbia identità – rimangono a livello latente e non trovano sviluppo; così come anche, ancora, il trauma nascosto nel suo passato, a parte l'esser causa dell'agorafobia e della sociopatia di partenza, non sviluppa un rapporto di necessità con le vicende successive del film. Gli stessi agganci da thriller psicologico, con le domande prima sulla realtà delle percezioni di Anna, che sostiene di avere assistito ad un omicidio quando la presunta vittima è ancora viva – per quanto con un'altra identità - e poi sull'identità del possibile colpevole, non riescono a tenere la presa sull'interesse dello spettatore. Amy Adams è una protagonista programmaticamente scialba e incolore, e questo gioca a suo danno, e Gary Oldman fornisce un'interpretazione piuttosto schematica; l'unica vera fiammata dal punto di vista attoriale è accesa dall'intrusione in casa di Anna da parte dell'ambiguo personaggio interpretato dalla sulfurea Julianne Moore. In gestazione da molto tempo, ma uscito durante la pandemia, La donna alla finestra suscita un involontario rispecchiamento con le situazioni vissute dallo spettatore durante i lockdown, bloccato in casa in una dimensione malsana e irreale, a guardare da una posizione domestica ma anomala e impotente la realtà esterna. Tuttavia rimane infine un film irrisolto e apparentemente poco sentito dal suo autore, che sembra giocare su terreni già frequentati da sé e da altri, ma senza la scintilla di una nuova ispirazione che consenta al film di spiccare il volo al di sopra del panorama già noto del thriller psicologico d'interni. Un elemento di pregio visivo è costituito dall'ottimo lavoro, tutto con luci artificiali, del direttore della fotografia francese Bruno Delbonnel, già cinque volte candidato all'Oscar. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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