UNA DONNA PROMETTENTE (Promising Youn Woman) di Emerald FennellCome la sua protagonista, Una donna promettente ha diverse personalità. Le prime immagini scorrono su bacini e anche maschili che si agitano in discoteca, in immagini dalla fotografia un po' vintage. Poi vediamo un gruppo di uomini che adocchiano una possibile preda, una giovane donna stravaccata su un divano, apparentemente ubriaca persa. Quando uno di loro la porta a casa, la stende sul letto e tanta di farsela, lei risorge con uno jump scare, improvvisamente lucida e inquietante. Nella scena successiva, la donna cammina per strada, scalza, nelle prime luci dell'alba, mentre schizzi rossi le imbrattano il polpaccio e la camicetta e colano lungo il suo avambraccio. Anche dal titolo, che compare dopo un effetto caleidoscopico e psichedelico stile anni '70, grondano gocce, come grondano di rosso le labbra femminili giganti che nel manifesto del film sostengono una figura di donna a testa in giù e in posizione di croce. Già nel prologo, insomma, siamo passati da una sorta di sguardo antropologico sulla guerra dei sessi, e su una società dove ancora sopravvive un'ideologia machista, a toni decisamente ma forse ironicamente horror. Quello che cola lungo il braccio, in effetti, scopriamo subito, non è sangue ma la salsa ketchup che cola dal panino che la donna affamata dopo una donna insonne sta addentando famelicamente. Il gioco dei generi, spruzzato qua e là di spunti ironici, prosegue lungo il film, passando dagli scorci di ritratto famigliare ai cenni sulla biografia psicologica di una donna un tempo promettente futuro medico e ora umile cameriera, dalle scene da smaccata commedia romantica (il corteggiamento di Brian che culmina con la scena in farmacia) al revenge movie con un meditato piano di vendetta seriale; poi di nuovo all'horror con un'infermiera sexy ed inquietante, fino alla tragedia e al finale poliziesco con investigazioni e arresti. Anche Cassie cambia via via aspetto e comportamenti. Si veste da business woman abbrutita dall'alcol per accalappiare yuppies arrapati, e poi da brava ragazza tutta treccia bionda e roselline sulla maglietta, che legge prudentemente un libro che si intitola Careful How You Go (anche se in realtà si tratta del titolo del cortometraggio girato qualche anno fa dalla stessa Fennell), per truccarsi immediatamente dopo seguendo un tutorial che insegna a disegnarsi con il rossetto “blow job lips” (“labbra da pompini”); si veste con abitini floreali quando Brian mostra i suoi interessi sentimentali nei suoi confronti, ma torna ad abiti sobri per andare al college a “punirne” la direttrice; ancora alterna tenute da predatrice sessuale notturna a soffici e ingenui maglioncini color pastello; per finire mascherata da infermiera sexy e cattiva con capelli multicolori per l'apoteosi della vendetta finale. Cassie è (un'altra) donna a pezzi, frammentata tra il ricordo di una gioventù felice, un trauma incancellabile, il desiderio di normalità, l'istinto di rivalsa verso la viltà maschile, la sete di vendetta che si ridesta impetuosamente, la tentazione di rinunciare a tutto per tornare ad essere una giovane donna alle prese con un amore promettente. Tornano alla mente il personaggio e gli ambienti di In cerca di Mr. Goodbar, quando (eravamo nel 1977) una giovane donna si divideva tra le giornate spese ad aiutare bambini sordomuti e le notti trascorse a caccia di avventure sessuali nella zona oscura di una città dura e rapace. Ma mentre Theresa nel film firmato da Richard Brooks era alla ricerca della difficile identificazione di una donna scissa tra due aspetti della propria personalità difficilmente conciliabili, almeno dal punto di vista sociale, Cassie appare invece dominata da un'ossessione incoercibile. Prima ancora che al proprio interno, la linea di frattura passa tra lei e l'amica del cuore (come esprime il ciondolo, spezzato in due, che reca incisi i nomi di Cassie e di Nina), tra il prima e il dopo. L'adorata Nina, una giovane donna molto promettente, è stata violentata mentre era incosciente in stato di ebbrezza. Il video della violenza è circolato nell'ambiente scolastico, distruggendo la sua reputazione e la sua vita. E devastando la vita di Cassie, che per reazione sta dedicando le sue notti a punire gli uomini, rievocando - con se stessa nella parte della vittima e degli perfetti sconosciuti dragati nei locali notturni in quella degli aggressori - quella scena primaria indelebile e replicabile all'infinito in una società vigliaccamente maschilista. Ma la comparsa inattesa e casuale di Brian, un ex-compagno di corso degli studi di Medicina, oltre a far balenare nella giovane donna amareggiata la prospettiva pacificatrice di sviluppi sentimentali, ridesta insieme anche la sete di vendetta, indirizzata e finalizzata però stavolta alle persone effettivamente coinvolte nell'episodio che portò alla morte dell'amica: la compagna che minimizzò, la direttrice di college che si rifiutò di indagare, l'uomo che infangò Nina per trarre d'impaccio il suo facoltoso cliente, e infine Al, il protagonista negativo stesso di quell'episodio. Come un'Amélie in versione dark, Cassie escogita elaborati piani di vendetta. “Angelo e demone”, come la protagonista della canzone di Paris Hilton Stars Are Blind, che accompagna la scena romantica e scanzonata della farmacia, Cassie anche nel suo ruolo di vendicatrice non è monodimensionale: è capace di imporre le mani e concedere il perdono e il beneficio del sonno perduto al pentito Jordan Green, come di amministrare una blasfema eucarestia narcotica agli amici di Al; di sconvolgere la vita dell'ex-amica Madison e poi di offrirle il dono della tranquillità; di meditare vendette sanguinose e di lasciarsi tentare dall'abbandono alla possibilità di un nuovo (e forse primo) amore. La Fennell, al suo esordio nel lungometraggio (ma già sceneggiatrice per la serie tv Killing Eve) imbastisce una trama e visiva e sonora che innerva il film dotandolo di una ricchezza assai maggiore di quella legata ai suoi contenuti (del resto molto al passo con l'atmosfera dei tempi) o alla sceneggiatura scritta (pur vincitrice di molteplici premi, tra cui l'Oscar). Sul numero di luglio di SegnoCinema, mi dedicherò alla disamina degli elementi di senso non verbali di Una donna promettente, andandoli a cercare nella colonna sonora e in un'insospettabile iconografia di carattere religioso disseminata e occultata lungo tutto il film. Se il film vi ha colpito e volete conoscerlo meglio, seguitemi, e spero che non ve ne pentirete.
0 Commenti
NOMADLAND di Chloé ZhaoLa città dalla quale proviene Fern si chiama Empire, cioè “impero”. La crisi globale del 2008 a livello locale colpisce anche la cittadina, dove la chiusura delle miniere di gesso porta al suo spopolamento e alla sua trasformazione in una ghost town della quale, come ricorda la stessa Fern, viene cancellato perfino il codice postale. Una delle tappe principali del vagabondaggio della protagonista - che dopo la crisi e la morte del marito ha scelto la vita nomade, muovendosi lungo le strade e i parcheggi degli Usa con la sua casa-furgone, come una lumaca con il suo guscio (Fern ci tiene a puntualizzare di considerarsi una “senza casa”, non una “senta tetto”) - è nel parco nazionale di Badlands, che letteralmente si traduce “terre cattive”. Uno dei lavori provvisori che permette a Fern di guadagnare quel tanto che basta a sopravvivere, a comprare il carburante e il junk food che divora avidamente direttamente dalle scatolette, è presso un ciclopico centro di smistamento di Amazon, la multinazionale sempre più ricca e potente che spedisce le merci in tutto il globo. E molte sequenze sono girate alla luce del tramonto, e qualcuna di notte, quando Fern deve difendersi dal freddo dal quale la separano solo le sue coperte e le lamiere del furgone. Il minimalismo palese di Nomadland rivela quindi una struttura simbolica e politica nascosta, delineata dalla toponomastica e dall'ambientazione stesse: schematizzando, il film parla quindi del tramonto di un impero, della scomparsa dell'America concreta del lavoro (e di una terra inaridita), sostituito dalla smaterializzazione e dall'omologazione astratta delle merci (trasformate in anonimi pacchi tutti uguali), in un'epoca in cui i luoghi e le strade vengono sostituiti da capannoni giganteschi e dalle traiettorie astratte del commercio globale. Quella di Nomadland è quindi in definitiva una no man's land, un Paese che non solo non è per vecchi, ma non è più forse nemmeno per gli esseri umani. A raccontare il declino dell'american way of life tradizionale, stranamente, è una regista cinese, trasferitasi prima a Londra, poi a Los Angeles, e poi nel Massachussets, una cosmopolita che attraversa praticamente quattro culture diverse prima di approdare al cuore profondo dell'America. I suoi primi due lungometraggi, Songs My Brothers Taught Me e il bel The Rider, uscito fugacemente anche in Italia, erano ambientati tra i Sioux Lakota, divisi tra la cultura tradizionale e il rapporto ancestrale con la natura da una parte e il sistema moderno di vita dall'altro. Se The Rider era l'estrema propaggine del western crepuscolare (una versione etnica, malinconica e minimalista del percorso iniziato da L'ultimo buscadero di Peckinpah), Nomadland porta in una luce crepuscolare e in prossimità del grado zero un altro genere classico del cinema americano, il film on the road. Quello di Fern e dei suoi compagni di strada non è più un viaggio di scoperta, di conoscenza, di avventura, di confronto con l'ignoto, ma è un vagabondaggio dettato dalle necessità, innescato dalle difficoltà della vita - la vedovanza, la perdita del lavoro o di un figlio, la malattia. Eppure qualcosa resiste ancora: un gusto amaro di libertà, la sensazione di essere rimasti padroni di quel che resta del proprio destino e di essere sfuggiti a qualcosa, anche se poi ci si deve sottomettere ai lavori più umili, a padroni temporanei, a pulire il sudiciume dei gabinetti degli altri; l'illusione di essere senza tetto né legge, come suonava il titolo di un film su un'altra donna vagabonda, anch'esso premiato con il Leone d'Oro a Venezia nel cuore degli anni '80. E rimane un senso residuo di solidarietà, il sentirsi affratellati con i provvisori vicini di accampamento o di parcheggio o di lavoro precario da un comune destino di marginalità, cercata o subita. I percorsi apparentemente casuali di Fern sono segnati da una certa ricorsività, che la riportano alle stesse tappe, ad incontri che si replicano a segnare i confini di un essere-nel-mondo che starebbe troppo stretto dentro le mura di una casa convenzionale. Il furgone è il suo mezzo di trasporto e insieme la sua casa, il guscio intimo che la protegge, il bozzolo in cui ha rinchiuso quel che rimane di se stessa; il suo passato è relegato in qualche ricordo e nei pochi oggetti posseduti, investiti dell'affettività rimanente. Nel volto segnato ma forse mai così duttile di Frances McDormand (che dà volto, corpo e anima al film, stabilendo una complicità profonda con la regista del film che lei stessa ha contribuito a produrre) sembrano incise e visibili le linee di frattura di una vita andata in pezzi, come i cocci del piatto che Fern rincolla minuziosamente dopo che si è rotto. Quando ne avrà la possibilità, Fern rinuncerà alla prospettiva di rientrare in una vita più normale e confortevole; ormai sente più vicina la sorella di strada che parte alla volta della fine del proprio viaggio, che la sorella di sangue dalla quale ormai la divide la vita e la strada. E' davvero un segno dei tempi che Nomadland, alla confluenza della tendenza alla political corretecness e dell'atmosfera di mestizia provocata dalla pandemia globale, sia arrivato a conseguire i massimi premi sia ad uno dei massimi festival dedicati al cinema d'autore, sia ai Golden Globe e agli Oscar, in genere votati ad un tipo di cinema più popolare, godibile e consolatorio. Ed è passato un po' inosservato agli occhi degli osservatori, anche professionali - forse distratti dalla candidatura all'Oscar della canzone eseguita da Laura Pausini per La vita davanti a sé - il contributo italiano al film che ha vinto le statuette più importanti e che contiene nella colonna sonora diversi brani di Ludovico Einaudi, perfettamente coerenti con lo stile minimalista della narrazione. RIFKIN'S FESTIVAL di Woody AllenLeggo in un'intervista che Woody Allen ha intenzione di girare a Parigi il suo prossimo film, sul tipo di Match Point. Buona notizia, perché Rifkin's Festival ha tutte le caratteristiche per poter essere considerato il suo film-testamento. Rifkin's è puro Allen, distillato fino all'essenza. E allora il suo gioco mira ai fondamentali: lasciati da parte la grande letteratura, l'arte, la musica, il musical, la televisione, i giochi di prestigio - e chi più ne ha più ne metta - la sua nuova lieve, ironica e affettuosa riflessione filosofica si articola stavolta attraverso i capitoli del cinema puro, il cinema più amato (in massima parte europeo e in gran parte già citato nei suoi film precedenti; probabilmente incomprensibile e ignoto allo spettatore medio Usa, dove peraltro il film non uscirà a causa di un moralismo sempre più mefitico e ottuso). Ci sono tutte le sue grandi componenti, l'amore per il cinema e la metatestualità, le grandi domande esistenziali, l'umorismo intellettuale e le rondes sentimentali, i grandi interrogativi ricorrenti sul senso della vita e sulla morte. E poi c'è tutto il resto dell'amabile arsenale alleniano: l'intellettuale nevrotico, l'ipocondria, la psicoanalisi, il jazz, i titoli sui cartelli in bianco e nero, gli interpreti elencati in ordine alfabetico, ci sono Wallace Shawn (al suo sesto film con Allen) e Vittorio Storaro (che ormai lavora solo con lui). Puro Allen. Così, in mezzo al vaudeville che segue i personaggi al Festival di San Sebastian, dove è ambientato il film, fa capolino il cinema in bianco e nero come in Ombre e nebbia; i personaggi entrano nei film, anziché uscirne come ne La rosa purpurea del Cairo; si ripercorre una stagione dorata del cinema europeo così come in Midnight in Paris si ripercorreva l'age d'or artistica e letteraria nella Parigi degli anni '20; e poi si citano Il settimo sigillo e Persona, come in Amore e morte, Otto e mezzo come in Stardust Memories, Jules e Jim come in Vicky Cristina Barcelona; e si potrebbe continuare così. Tutto per sorridere del nulla che è vita e dei modi per viverla comunque, e affrontare il pensiero della morte in un mondo privo della consolazione di un Dio, di un qualsiasi aldilà, di un'ideologia salvifica, di una scappatoia escatologica. Perché valga la pena vivere, se lo chiedeva già l'Isaac Davis di Manhattan più di quaranta (40!) anni fa. E allora si rispondeva più o meno: “il buon vecchio Groucho Marx tanto per dirne una, e Joe DiMaggio, e il secondo movimento della sinfonia Jupiter; Louis Armstrong, l'incisione di Potato Head Blues; i film svedesi, naturalmente; L'educazione sentimentale di Flaubert... Marlon Brando, Frank Sinatra, quelle incredibili mele e pere dipinte da Cezanne, i granchi di Sam Wo”, prima di scoprire disarmato che la risposta era semplicemente “il viso di Tracy”. Perché se Mort Rifkin - dopo 40 anni e dopo innumerevoli incarnazioni del mai pacificato spirito alleniano - è ancora alle prese con gli “insolubili e terrificanti problemi universali” - si lamenta che la vita è vuota e senza senso, la Morte in persona lo corregge: senza senso sì, ma non vuota, e il compito di riempirla spetta a noi. E' una lezione semplice, e Allen ce l'aveva da poco ripetuta attraverso il giovane Gatsby di Un giorno di pioggia a New York; ma è una grande lezione. E i film di Allen sono un meraviglioso, divertente, affascinante, variegato, illustratissimo libro di testo su cui ripassarla, che, come proponeva Italo Calvino agli autori del nuovo millennio nelle sue Lezioni americane, è leggero, rapido, esatto, visibile, molteplice, coerente. Rifkin's Festival, nella sua forma di eccelso bigino, è un film definitivo; ma Woody Allen non è morto. La sua vita non è stata vuota, e ha reso meno vuota anche la nostra. Viva Woody Allen, forever. MINARI di Lee Isaac ChungMinari era candidato a 6 premi Oscar tra i maggiori: film, regia, sceneggiatura, colonna sonora, attore protagonista, attrice non protagonista. Ha vinto quest'ultimo, assegnato a Yoon Yeo Jeong, ma già prima si era aggiudicato un Golden Globe, il Gran premio della giuria al Sundance e diversi altri premi. Allora sarà un problema mio, perché il film, il secondo visto al cinema dopo la riapertura delle sale, non l'ho proprio “sentito”. Sembra in effetti che un'ondata asiatica – in ritardo di 20-30 anni rispetto a quella che aveva investito i festival di Cannes e di Venezia, che però a differenza degli Oscar sono competizioni internazionali – si sia abbattuta sull'Academy trasfigurata in chiave politically correct: l'anno scorso un film all-korean come Parasite aveva vinto quattro (strameritati) premi, quest'anno la regista di origine cinese Chloé Zhao ha conquistato con Nomadland le statuette per miglior film e miglior regia. Anche Lee Isaac Chung ha origini coreane ma è nato in Colorado e quella che racconta è una storia autobiografica ispirata alla sua infanzia. Negli anni '80, una famiglia composta da una coppia e da due figli, una bambina e un maschietto più piccolo, si trasferisce dalla California all'Arkansas, facendo praticamente all'inverso il percorso dei protagonisti dello steinbeckiano Furore. Lui, un esperto nel riconoscere il sesso dei pulcini (i maschi, privi di valore commerciale, vengono buttati nell'inceneritore) ha un sogno: trovare un pezzo di terra da coltivare e realizzarsi come agricoltore; lei si ritrova a sorpresa a dover vivere in una casa mobile completamente isolata. Per aiutare i bambini (sia la mamma che il papà, oltre a lavorare la terra, lavorano nella fabbrica di polli) i genitori fanno arrivare dalla Corea l'anziana nonna, che non cucina cose buone ma prepara strani intrugli, gioca a carte come una biscazziera incallita, non parla inglese ma dice le parolacce, pianta strani vegetali (il minari del titolo) e “puzza di Corea”. Il Sogno Americano tarda ad avverarsi, un po' per sfortuna (la malattia), un po' per gli errori commessi (l'irrigazione, lo smaltimento dei rifiuti), un po' per il logoramento di un rapporto coniugale che richiede a lei grande spirito di sopportazione. Personalmente non avrei premiato il film, ma non capisco nemmeno i motivi che hanno portato alle candidature. Nessun guizzo e nessuna invenzione né di sceneggiatura (anzi, una piccola invenzione c'è, ed è il lavorante leale e fanatico religioso) né tanto meno di regia; la colonna sonora è brutta, le performance attoriali mi sembrano assolutamente nella norma (la migliore a mio parere è l'interprete della moglie, Yan He-ri, che guarda caso non è stata candidata). Non credo avrei mai premiato l'anziana Yoon Yeo Jeong, che recita secondo gli stilemi di recitazione asiatici la nonna, prima sboccata e poi bloccata dalla malattia. Tra gli altri film candidati per la miglior attrice femminile ho visto solo il non entusiasmante Hillbilly Elegy, e già lì c'era Glenn Close (anche lei nella parte di una nonna alle prese con giovane nipote) che a mio parere era ben più meritevole. Tutto mi è sembrato piatto, semplice, senza particolari note di merito, neppure dal punto di vista tematico o emotivo (non si sorride, non ci si preoccupa, non ci si commuove - e ciò stupisce, avendo un bambino come coprotagonista). Insisto su dei paragoni magari antipatici, ma anche nella selezione del Festival del Cinema africano, d'Asia e America latina di quest'anno, rimanendo su argomenti affini, ho trovato titoli migliori, ad esempio il coreano Scattered Night, sui figli di una coppia in crisi, o il messicano Los lobos, toccante racconto sui figli di una donna immigrata negli Usa... LE STRADE DEL MALE (The Devil All the Time) di Antonio CamposNel presentare Knockemstiff, uno dei paesini sperduti dove si svolge gran parte del film, il narratore dice che si tratta di un paese di circa 400 anime, tutte più o meno imparentate tra loro (vuoi per lussuria, per necessità o semplicemente per ignoranza). Quello al cui interno corrono Le strade del male è quindi un microcosmo chiuso, asfittico, tarato, dove le strade riconducono sempre più o meno allo stesso posto (o nel migliore dei casi oscillano tra i due poli geograficamente equivalenti di Knockemstiff e Coal River). Il piccolo mondo antico è un pozzo nero dove i liquami convergono per defluire verso l'inferno. Nessuno se ne allontana veramente, gli automobilisti come Sandy e Carl si muovono in circoli (letteralmente) viziosi e anche gli autostoppisti che chiedono un passaggio lungo la strada non vanno in nessun altro posto che non sia un boschetto in riva al lago, dall'apparenza idilliaca, che è in realtà un teatro dell'orrore. L'unica dimensione alternativa, collocata alle rispettive estremità dell'arco temporale lungo il quale si svolge la vicenda, l'unico altrove, è quello della guerra, (la Seconda Mondiale, dal quale Willard torna dopo aver sparato alla testa di un commilitone scuoiato e crocifisso dai Giapponesi; e quella del Vietnam che incombe per succhiare altro sangue fresco da un'America già intrisa di violenza): e cioè un altro esotico scenario di morte e di orrore che, come dice un giovane reduce guardando il paesaggio circostante dal finestrino della macchina, in fondo assomiglia a quello di casa. E se il titolo italiano dà una dimensione spaziale alla presenza del male, quello originale, The Devil All the Time, le conferisce invece una dimensione temporale. Il male, la malattia, il destino di morte, la vocazione o la necessità alla violenza, sono completamente pervasive, attraversano le generazioni, si trasmettono dai padri ai figli come una malattia ereditaria, come tare genetiche. Incendi, malattie, turbe psichiche, paranoie, sacrifici cruenti, suicidi, perversioni sessuali, bullismo, ossessioni religiose, omicidi seriali e occasionali, corruzione, lussuria: Le strade del male risparmia ben pochi mezzi per dipingere un bucolico ma nerissimo regno del male e della follia, dove le immagini più truculente sono mostrate attraverso il negativo di una pellicola fotografica. Tra cani crocifissi, teste enfiate dalle punture di ragno, mogli uccise con un cacciavite in gola, ragazze incinta impiccate per sbaglio, giovani evirati e uccisi per un lascivo divertimento, le vicende narrate in questa mostra delle atrocità (che evita però il gore visivo) sono ambientate in paesaggi bucolici, accompagnate dalle allegre canzonette dell'epoca, agite o subite da un gruppo di attori glamour (Holland, Skarsgard, la Keough, la Wasikowska, Pattinson) e soprattutto profondamente, pervicacemente impregnate di un pervertito sentimento religioso, che tenta inutilmente di porre un argine al sentimento del male, all'ignoranza, al senso di impotenza di una vita povera materialmente e spiritualmente, e che invece spesso finisce per essere la maschera o addirittura l'esca per il divampare del maligno. Se sulla terra perfino i tutori della legge e i pastori di anime sono corrotti e corruttori, non sorge nemmeno un dubbio che in cielo possa esserci davvero un Dio ad ascoltare i lamenti, le richieste e le preghiere di quegli uomini e quelle donne abbandonati alla loro vita, terribile quanto il loro destino. Le strade del male è la versione nera dell'elegia hillbilly (dove gli hillbillies sono i campagnoli e montanari della provincia profonda, segnata appunto dalla povertà, dall'alcolismo, dalla miseria morale) che dava il titolo ad un'altra saga americane della scorsa stagione; vicina alla tradizione della letteratura del south gothic di Faulkner o della O'Connor, e epigono di una serie di titoli appartenenti alla migliore storia del cinema americano che hanno indagato i lati oscuri della religiosità e del misticismo americani, come La morte corre sul fiume di Laughton, Il figlio di Giuda di Brooks, o La saggezza nel sangue di Huston. Ma la pervasività del male, la perversione nascosta dietro la bellezza, l'alone malsano, i paesaggi tra i boschi, il peccato e il mistero nascosti nel retro di un bar e celati dietro la tenda, fanno pensare anche al torbido universo di Twin Peaks. Tuttavia Le strade del male non è solo una raccolta di citazioni possibili, né un saggio antropologico sul misticismo e la violenza della provincia profonda americana, e nemmeno un apologo (a)morale e apocalittico. In realtà i narratori (lo scrittore Donald Ray Pollock, cui appartiene la voce fuori campo del narratore onnisciente e ironico, e il regista Antonio Campos, statunitense di origini italo-brasiliane) instaurano una sorta di gioco narrativo con lo spettatore, che sembra sminuire l'autorevolezza del racconto e dell'apologo con un gioco combinatorio che a molti sarà parso eccessivo e stucchevole. Il meccanismo si rivela da subito, nel bar dove il protagonista iniziale, Willard, incontra la donna della sua vita: ma il narratore con la complicità delle immagini ci inganna da subito, indirizzando l'attenzione su una bella ragazza che incontra sì il suo uomo, che però non è Willard; e la voce narrante anticipa già che quella che si sta formando è formata dall'Esca e dal Cacciatore, che semineranno vittime lungo le strade del male. Nel microcosmo asfittico del film, dove, ricordiamolo, tutti (tranne il protagonista Arvin), sono imparentati con tutti, tutti finiscono per incontrare tutti, i carnefici diventano vittime, le vittime volenti o nolenti diventano carnefici, percorrendo un labirinto dai sentieri incrociati dove, ad ogni crocevia, come nelle grandi parabole noir sull'ironia crudele del caso disegnate dai fratelli Coen, la morte è in attesa o (come fossimo in Blood Simple), carica a salve la pistola dell'assassina. Eppure l'artificiosità che emerge gradualmente dall'impianto narrativo non fa in fondo che rafforzare la visione del mondo espressa dal film aggiungendole in sovrappiù un ghigno ironico, aggiungendo alle dimensioni del tempo e dello spazio quella delle relazioni umane. I personaggi si agitano in un gorgo che li sprofonda verso la morte, in circoli viziosi senza via d'uscita. O forse non proprio: uno dei pochi personaggi sopravvissuti alla fine sembra potersi allontanare dal teatro di tanta violenza. Distrutto dalla stanchezza, dalle emozioni, stravolto dagli sbadigli, tenta disperatamente di non addormentarsi, mentre una macchina guidata da uno sconosciuto lo porta (o almeno lo speriamo) lontano. SOUL di Pete Docter e Kemp PowersSoul è brutto. Si può dirlo? So che parlare male di un film Pixar è come bestemmiare. E che si potrebbe dirla in un altro modo. Però “brutto” è più brutale, più diretto, dice più le cose come stanno, le sfumature eventualmente possono venire dopo. Prima di tutto: sarei curioso di sentire un bambino (di qualunque età) che mi racconti Soul dopo averlo visto. Cosa ci avrà capito? Di anime perdute e mai nate, di oltremondi e antemondi, di ectoplasmi tutti con lo stesso nome e Io-seminari, di giovani anime femmine in corpi di maschi adulti, di anime di uomini adulti dentro gatti, di passioni che diventano ossessioni, di scintille che si accendono e si spengono, di pass e di jazz? Mah, forse non è un film per bambini, mi si dirà. I suoi temi esistenziali e filosofici lo dimostrano. E allora? E' un film per adulti? E poi c'è la poetica di Peter Docter, ormai purtroppo direttore artistico della Pixar dopo le dimissioni di John Lasseter. Così legata al tema della morte. In Up (2009) la protagonista femminile, sterile, dopo un prologo vertiginoso che riassume tutta una vita in lampeggianti frammenti, si ammala e muore senza aver mai realizzato il suo desiderio. Sono passati pochi minuti dall'inizio del film e nessun personaggio femminile prenderà il suo posto. In Inside Out (2015) la lezione da imparare per la piccola protagonista (in cui albergano tre emozioni negative, Rabbia, Disgusto e Tristezza e una sola positiva, Gioia), è che deve far morire dentro di sé la dimensione e i ricordi dell'infanzia, così come muore per permetterle di salvarsi l'amico Bing Bong. In Soul, Joe, frustrato insegnante di musica alle scuole medie e aspirante pianista jazz, nel giorno più felice della sua vita, dopo aver superato un'audizione con il suo idolo, una sassofonista dalla voce roca, al colmo della gioia cade in un tombino e muore. E' vero, le morali finali capovolgono o almeno virano in positivo le situazioni di partenza: in Up il vecchio ormai celibatario Carl trova una nuova ragione di vita nell'amicizia paterna con il giovane Russell; in Inside Out Riley trova nel distacco dal passato la forza per crescere; in Soul Joe trova grazie al rapporto paterno che instaura con l'anima 22 la gioia, il senso e il piacere del vivere; in sé, e cioè indipendentemente dai successi, dalle gratificazioni delle proprie passioni o dal raggiungimento di obiettivi (ma si noti che questo è possibile solo grazie all'improbabile concessione di una seconda chance di vita dopo la morte). Ma in realtà non è neppure questo il problema (anche se il costante ritorno di personaggi celibi segnati da un destino di morte in film destinati – continuo a presumerlo – all'infanzia, non è questione da poco): è che in Soul non c'è avventura, non c'è divertimento, non c'è commozione. Le vicende che si susseguono sono episodi piuttosto statici, dove il brivido della velocità, del rischio, della scoperta – insomma dell'avventura – è singolarmente assente. Anzi, una buona (e a mio parere eccessiva) parte della vicenda è ambientata in un Oltremondo di paesaggi indefiniti ed evanescenti, solcato da galeoni rosa con le vele arcobaleno che sembrano usciti direttamente dal corteo di un gay pride e popolato da silhouette senza carattere (infatti si chiamano tutti allo stesso modo) e da anime potenziali ancor più senza carattere (per statuto) che assomigliano notevolmente alle cellule della nota pubblicità di un'acqua minerale. L'umorismo e la comicità latitano in maniera grave; neppure la temporanea presenza dell'animale buffo, consueta spalla comica nei film di animazione, riesce a portare un po' di buonumore, senza contare che il gatto di Soul è uno dei più brutti felini della storia dell'animazione mainstream, in grado di rivaleggiare perfino con l'antipatico Lucifero di Cenerentola. Stesso discorso per l'emozione e la commozione (strano per un autore che aveva tematizzato le emozioni fino al punto da personificarle in Inside Out), che non scatta mai. L'aprirsi della mano di Joe, che lascia necessariamente andare 22 verso il suo destino e la sua vita futura, dovrebbe essere il climax emotivo, ma non riesce nemmeno a sfiorare la commozione suscitata dalle mani che in Toys 3 si serrano invece per tenersi vicine le persone amate, di fronte ad un incombente e apparentemente ineluttabile pericolo di morte. E in definitiva, Soul manca di personaggi. Il “corpo” e la figura centrali sono quelli di Joe Garner (un adulto nero, frustrato, celibe e morto precocemente), abitati però da due personalità differenti. Intorno al questo perno cosa troviamo? Una cellula senza forma dal carattere riottoso (designata non con un nome ma con un numero), un gattaccio temporaneamente posseduto dall'anima di Joe, qualche ectoplasma (tutti di nome Jerry), qualche personaggio di contorno - che hanno funzioni più di esemplificazione morale che narrative (la rude ma talentuosa sassofonista; la madre prima castrante poi finalmente fiduciosa nelle capacità del figlio; un barbiere incarnazione della possibilità di trovare appagamento pur avendo tradito la propria vocazione), e poco altro. Figure funzionali al messaggio, in un film (per bambini?) che mette al primo posto un percorso spirituale e morale a scapito di quello narrativo. Più che scaturire dalle vicende drammaturgiche, il messaggio ne prende il posto, e questo non mi è mai sembrato sano in un'opera di narrazione. Contrariamente alla loffiaggine della rappresentazione dell'Oltremondo, l'ambientazione urbana è realistica e ben riuscita, ma anch'essa sembra relegata in secondo piano, in scorci veloci. A ritmo di jazz? Ah già, perché c'è anche la musica, con le composizioni di Jon Batiste e gli omaggi ai grandi del jazz frammisti alle atmosfere prevedibilmente new age evocate da Trent Reznor e Atticus Ross per l'Oltremondo. Probabilmente un Oscar alla colonna sonora da mettere nel carniere, oltre a quello come miglior film di animazione. Ma ormai io vi ho detto come la penso. NOTIZIE DAL MONDO (News of the World) di Paul GreengrassOkay, tappatevi le orecchi perché sto per usare un termine che non ho mai usato e che detesto: News of the World è un film buonista. D'altra parte c'è Tom Hanks, ed è noto che Hanks è ormai il portabandiera dei buoni valori progressisti americani. In News supera se stesso. E' un ex-tipografo, ex-soldato nella Guerra civile (che prova vergogna per quello che ha visto), che ora si guadagna da vivere girando il West e leggendo a pagamento alle popolazioni ignoranti e illetterate le notizie riportate dai periodici (appunto, le news del titolo). E' un intellettuale, un uomo d'azione, un uomo di buon cuore. Come marito timorato di Dio, a dispetto delle apparenze, non ha nulla da rimproverarsi; ed è chiaro fin dal primo incontro con Cigada-Johanna - una ragazzina rapita prima dagli indiani Kiowa alla sua famiglia di origini tedesche (sterminata), e poi ri-rapita dai soldati alla sua famiglia adottiva indiana (sterminata) – che malgrado gli sforzi benintenzionati per riportarla verso una casa che non le è mai appartenuta, non ci potrà mai essere padre migliori di lui, il capitano Jefferson Kyle Kidd. Perché Kidd è anche antirazzista, neopacifista, progressista, aperto al multiculturalismo, propugnatore del sindacalismo e dei diritti dei lavoratori, difensore della libertà di stampa e di pensiero; ma è ovviamente anche abile a fronteggiare armi in pugno avversari più numerosi ed esageratamente incarogniti. I cattivi invece sono pedofili, trafficanti di bambini, assassini, massacratori di bisonti, schiavisti, prevaricatori, razzisti, despoti ammalati di culto della personalità (l'ombra della presidenza Trump sul vecchio West?). Il film è attento all'equilibrio ideologico tra le parti in campo: Kidd è un confederato, ma è convinto che il Sud debba abbandonare tanto il suo livore revanscista quanto la mentalità razzista e schiavista; il fatto che Cigada sia stata tolta con la violenza sia alla sua famiglia bianca che a quella indiana, entrambe massacrate, racconta di una nazione dove la violenza era imperante, ma serve anche stabilire una sorta di par condicio della brutalità; gli indiani sono delle presenze già fantasmatiche, visti in lontananza durante un loro esodo, o incontrati nel deserto, raminghi dentro una tempesta di sabbia. Sono autori di massacri, ma ora non esitano a regalare un cavallo perfettamente sellato ed equipaggiato ai nostri eroi nel momento del bisogno. Un po' a gesti un po' a parole, Jeffrey e Cigada si raccontano l'un l'altro le filosofie esistenziali dei bianchi e dei pellerossa: i bianchi si muovono in linea retta, perseguendo fini e obiettivi, i pellerossa vivono in un cosmo olistico dove terra, cielo, uomini e animali sono compartecipi di un unico spirito. In fondo Francesco De Gregori ci aveva visto giusto, quando in Buffalo Bill cantava che “Tra bufalo e locomotiva / la differenza salta agli occhi: / la locomotiva ha la strada segnata, / il bufalo può scartare di lato / e cadere”. L'aggiornamento del genere western per quanto riguarda News of the World sta soprattutto qui, in un revisionismo (peraltro iniziato decenni fa con film epocali come Soldato blu, Il piccolo grande uomo, Un uomo chiamato cavallo, Corvo rosso non avrai il mio scalpo, ecc.) piuttosto scolastico e in una piena adesione all'ideologia del politicamente corretto, dove gli aspetti più violenti sono allusi, ma pudicamente sterilizzati. Il film è effettivamente povero di scene d'azione violenta (gli scontri a fuoco sono solo due, episodici, e manca la tipica resa di conti finale con il cattivo di turno), forse perché il romanzo d'origine è scritto da una mano femminile, e Greengrass (autore anche della sceneggiatura insieme a Luke Davies, nei cui script precedenti ci sono già figli e figlie da conquistare o da salvare, o già sulla strada di casa, come in Lion) rinuncia al suo sguardo sulla storia contemporanea (da Bloody Sunday, sulla “domenica di sangue” del 72 a Derry, all'United 93 dell'attacco alle torri gemelle del 2001, alla strage di Utoya del 2011 raccontata in 22 luglio) così come alla sua abilità nel gestire con raffinata perizia i ritmi adrenalici della trilogia di Bourne, impostando invece su toni dilatati una narrazione insieme epica e intimistica. Per il resto, su un canovaccio alla Sentieri selvaggi (citato anche iconograficamente), News non si nega nulla dei topoi del road movie che fa viaggiare insieme due personaggi diversi che imparano a conoscersi ed apprezzarsi nel corso di un viaggio che assume valore esistenziale, né soprattutto del western classico, tra villaggi in costruzione e postazioni militari, inseguimenti e sparatorie tra le rocce, protagonisti appiedati nel deserto e la borraccia che si svuota, tempeste di sabbia e incontri con gli indiani, il nero linciato che penzola dall'albero e le rovine della casa isolata attaccata dagli indiani, il vecchio patriarca dispotico coi suoi sgherri sinistri e ghignanti, e così via. Il film negli States è piaciuto agli addetti ai lavori e vanta parecchie candidature da parte delle varie associazioni di critici, oltre che ai Golden Globes e, con tutta probabilità, agli Oscar. Ne condivido alcune, come quelle alla giovanissima rivelazione Helena Zengel (una kiowa dai capelli biondi e gli occhi cerulei) o quelle alla fotografia (del polacco Dariusz Wolski, alle prese stavolta con luci naturalistiche); mi convincono decisamente meno quelle alla sceneggiatura, che mi è parsa, come già detto, assai prevedibile e troppo preoccupata del politicamente edificante, o quelle alla colonna sonora (confesso che mi ha un po' infastidito il far capolino nelle scene finali dell'Hallelujah di Coen). Kornél Mundruczó nei suoi precedenti film ungheresi (come White Dog o Una luna chiamata Europa) aveva già mescolato la dimensione realistica con quella simbolica, con esiti spinti fino al surrealismo. In Pieces of a Woman, scritto di nuovo con la sua compagna Kata Wéber, imposta le coordinate sia stilistiche che metaforiche della narrazione fin dalle prime due sequenze del film.
La prima è un piano di sequenza di circa un minuto, in cui la mdp segue Sean che lascia il suo turno di lavoro su un ponte in costruzione. Il piano sequenza è in effetti la figura stilistica e retorica che segna tutta la narrazione. Per oltre venti interminabili minuti, senza stacchi di montaggio, con la macchina da presa addosso ai tre personaggi – la madre, il padre, la levatrice – negli spazi della loro casa, seguiamo tutte le fasi del parto in casa di Martha, fino alla drammatica conclusione. Più avanti, attraverso il vano di una porta, seguiremo il tentativo goffo e disperato di Sean di forzare la moglie ad un rapporto sessuale. Più avanti ancora, un altro piano sequenza segue i protagonisti a casa della madre di lei, e alla fine inchioda l'anziana donna (interpretata da Ellen Burstyn) in primo piano – il viso segnato dagli anni e dalle vicissitudini, la pettinatura perfetta di una donna che ha combattuto per sopravvivere e per imporre un ordine alla propria vita – in un monologo di grande intensità e drammaticità. Si direbbe in realtà che il regista non spinga mai a suscitare nelle spettatrici e negli spettatori un sentimento di immedesimazione con Martha (Vanessa Kirby, già premiata con la Coppa Volpi a Venezia per la sua interpretazione, candidata al Golden Globe e all'Oscar), ma piuttosto ci costringa a spiarla da vicino, penetrandone la dimensione più intima, mostrandone i frammenti, disseminati nei singoli giorni nell'arco dei mesi che seguono la tragedia che ha mandato in pezzi la sua vita. Chi guarda si trova spesso in una posizione scomoda, imbarazzante, ad osservare Martha troppo da vicino, al gabinetto, o mentre il latte inutile sgorga dai suoi seni e le bagna i vestiti, o semplicemente mentre il dolore le irrigidisce il volto e annebbia i suoi occhi incapaci di distinguere un futuro. Eppure una tecnica apparentemente naturalistica come il piano sequenza (naturale, intima, domestica, come il parto in casa di Martha) si accompagna a una forte dimensione simbolica. Se già nella prima sequenza vediamo un ponte in costruzione, protagonista in costante crescita nelle didascalie che scandiscono il passare del tempo e dei mesi, nella seconda vediamo Martha ad una festa per la sua prossima maternità. Sulla torta c'è un pupazzetto che rappresenta la sua bambina, in una culla. Ma la torta è destinata ad essere fatta a pezzi e la vediamo in primo piano mentre il coltello affonda per affettarla. Ancora prima della sua nascita, anche la bambina è destinata ad essere fatta a pezzi, e i pieces of a woman del titolo potrebbero riferirsi tanto alla madre che alla neonata. Su una lapide si scrive in modo sbagliato e incompleto il suo nome, mentre si discute se donare i suoi organi a chi ne ha bisogno, o se lasciare l'intero suo corpicino alla scienza. Alla fine sarà ridotta in polvere, e le sue ceneri disperse nelle acque del fiume. Eppure, è come se nel film coesistessero due movimenti opposti. Nel primo, Martha discende nelle profondità del suo lutto e del suo dolore, dal tragico parto sino alla sua consapevole rievocazione nella testimonianza in tribunale (che vede alla sbarra degli imputati la levatrice) passando attraverso il momento in cui la contemporanea risonanza del rispettivo dolore manda in pezzi il matrimonio di Martha e Sean, così come l'omonimo fenomeno fisico è in grado di fare crollare un ponte; ma nell'altro c'è un movimento tutto indirizzato verso la ricomposizione e la rinascita, accompagnato e scandito da diverse linee simboliche. C'è un ponte che si completa; ci sono dei semi che germogliano; ci sono dei negativi in attesa da mesi che alla fine vengono sviluppati; ci sono le mani di due donne – madre e figlia – che finalmente si ricongiungono, dopo essersi evitate per molto tempo; c'è Martha che, dopo aver visto il volto della propria bambina perduta, e dopo aver rivissuto la propria tragedia e averne preso consapevolezza, può finalmente separarsi da quel che rimane della sua piccina. La piccola Yvette è un frutto che non è arrivato a maturazione, ma ha fornito i semi per una nuova fioritura. All'inizio vediamo Martha che sceglie una mela al supermercato; più avanti la vediamo addentarne una, mentre fissa con dolente invidia i figli degli altri; ma un piccolo seme le rimane appiccicato al polpastrello, dandole l'intuizione che qualcosa può rinascere. Coltiverà dei piccoli semi, e vedrà che da loro può nascere nuova vita. Quando in tribunale le chiedono cosa ricorda della sua bambina, che ha avuto tra le braccia per pochi attimi, Martha dirà incongruamente che aveva odore di mela. Scopriamo alla fine che il film si è dipanato nell'arco di otto mesi, dall'autunno alla primavera, il tempo di una gravidanza; nel nono e conclusivo frammento (stavolta senza indicazione di una data precisa, ma in un'estate lontana nel tempo o nella dimensione del desiderio), intravvediamo Martha avvicinarci alla base di un albero, sul quale una bambina si è arrampicata per raccogliere un'altra mela. La macchina da presa indugia a lungo su quei rami, di nuovo colmi di frutti. LA TIGRE BIANCA (The White Tiger) di Ramin BahraniLa tigre bianca è un film un po' meno indiano di quel che appare a prima vista. E' tratto da un romanzo indiano (scritto in inglese da Aravind Adiga, Book Prize 2008), ambientato completamente in India, interpretato da attori indiani, che ha per soggetto la società e la mentalità indiana, ma è in realtà una produzione statunitense ed è diretto da un regista statunitense. C'è perfino un tocco di italianità nel film: l'ottima fotografia di Paolo Carnera, forse tra gli italiani più adatti ad una trasferta indiana (ha firmato le luci sulle periferie dei fratelli D'Avanzo e del Sollima di Suburra e Acab). Lo stile del film è quindi più vicino a un racconto morale occidentale che a un film di Bollywood. C'è una cornice narrativa, fornita dalle lettere che il giovane imprenditore Ashok scrive al Primo Ministro cinese, che si appresta ad una visita in India, e c'è il racconto in flashback, che inizia dall'infanzia del protagonista e narra della sua ascesa sociale ed economica, ma anche della sua crescita individuale e della sua maturazione (im)morale. La narrazione, strutturata solidamente e scandita dalla musica pop indiana, per il tramite di una storia individuale “esemplare”, è al servizio di una profonda descrizione critica della società indiana. L'Ashok narratore è in realtà Balram, nato in un povero villaggio. A scuola è un allievo brillante, tanto che il maestro lo definisce una “tigre bianca”, cioè una personalità rara che si distingue dagli altri. Ma le esigenze della famiglia, povera e autoritaria, gli impediscono ben presto di continuare a studiare per conseguire una propria emancipazione intellettuale e sociale, per destinarlo al sostentamento famigliare attraverso umilissimi lavori. Balram non si perde d'animo, e decide di costruirsi da sé le proprie opportunità. Con spregiudicati stratagemmi riesce a farsi assumere da una potente famiglia, arricchitasi grazie a violenza e corruzione (la morte del padre stesso di Balram è dovuta ai soprusi subiti) e a diventare l'autista personale del rampollo più giovane, Ashok, tornato a Delhi con la moglie, dopo aver vissuto negli Stati Uniti, con una mentalità più aperta e progressista. Paradossalmente, l'emancipazione di Balram passa dunque attraverso la ricerca e l'accettazione di una condizione servile. Balram ama e odia i propri padroni, una coppia giovane, bella, agiata, perfino illuminata e di ampie vedute, di cui cerca di esaudire e addirittura di prevenire i desideri. Ma è permeato dalla mentalità servile della maggior parte dei suoi connazionali, e un evento drammatico servirà a ribadire la sua posizione subordinata e sacrificabile nella scala sociale. L'India contemporanea è ancora intrisa dalla mentalità della divisione in caste. Le origini umili di Balram e di quelli come lui, non sono una condizione revocabile o un punto di partenza, ma equivalgono a un destino sociale immodificabile e simile ad una legge di natura. La stessa tigre bianca che si materializza ad un certo punto del film, è a sua volta imprigionata dentro l'angusta gabbia di uno zoo, non diversamente dai polli nelle stie che Balram usa come una metafora dell'India: dove grandi masse di persone stanno come polli in gabbia, impotenti, vedendo i loro fratelli sgozzati davanti ai loro occhi, fiutandone l'odore del sangue, ma senza mai arrivare nemmeno a pensare di ribellarsi. Nessuno sembra poter sfuggire alle regole non scritte, nemmeno i padroni: la scelta è solo tra farsi assorbire dalla corruzione, che inquina la società tutta fino ai più alti livelli della politica, o fuggire. Balram sostiene che in India ci sono solo due vie per emergere (nella sceneggiatura non manca una stoccata verso le illusioni di The Millionaire): la politica o il crimine; e lui non ha possibilità di intraprendere una carriera politica. Partito con un tono leggero e scanzonato, il racconto si fa via via più nero, cinico e perfino inquietante; alla fine Balram ha realizzato il proprio sogno, anche se il nome che ora porta è rubato come la sua fortuna: è un imprenditore di successo e davanti all'ingresso di un albergo di lusso di Bangalore, la capitale indiana degli affari e della tecnologia, riesce a salutare il Primo Ministro cinese destinatario delle sue lettere. Il futuro non è più dell'Occidente, ma di Paesi come la Cina e l'India, preconizza Balram. E alla fine si compiace: potrebbe accorgersi che il suo crimine è stato solo un sogno e che nulla è veramente accaduto; ma la paura passa subito. E' tutto vero, e mentre lui esce dall'inquadratura sullo schermo resta la schiera dei suoi dipendenti, non più schiavi, ma possibili protagonisti di un futuro che non contempla più le caste ma forse nemmeno più il predominio dell'Occidente bianco. Ramin Bahrani, statunitense con ascendenze iraniane, ha già raccontato da Man Push Cart (2005) in poi le vite di emarginati (stranieri) nella società opulenta americana, e anche storie morali dove il prezzo per la sopravvivenza in una società competitiva passa per l'abdicazione alla propria umanità, attraverso l'esempio di cattivi maestri (99 Homes). Ora trova ne La tigre bianca (la cui trasposizione cinematografica era già stata annunciata nel 2009) un soggetto ideale, che ha ripreso, affidandole alla voce narrante, molte sentenze memorabili già presenti nel testo letterario di Adiga, e in Adarsh Gourav il giusto interprete per il giovane dalla faccia ingenua che si trasforma in un piccolo squalo dai baffetti mefistofelici. Gli interpreti dei “padroni” di Balram, Rajkummar Rao e Priyanka Chopra (qualcuno l'avrà vista in Quantico), sono anche i produttori esecutivi del film (e lei è stata anche Miss Mondo nel 2000). THE MIDNIGHT SKY di George ClooneyThe Midnight Sky si svolge lungo tre linee narrative. Nella prima, uno scienziato pensa di aver trovato un pianeta abitabile e raggiungibile dalla Terra, una luna di Giove chiamata K23, ma trascura la propria compagna ed evita di assumersi le responsabilità della paternità. Nella seconda, la Terra è arrivata ai suoi ultimi tempi. In Antartide si organizza l'evacuazione delle persone che si trovano lì, per trasferirle in rifugi sotterranei, ma a quanto si dice di efficacia temporanea. Alla base rimane un solo scienziato, che cerca di comunicare con le missioni spaziali e che trova nella base deserta un'ospite indesiderata, una bambina che non parla. Contemporaneamente, nella terza linea, una grande nave spaziale con a bordo cinque membri d'equipaggio, tra cui un'astronauta incinta, cerca di rientrare dopo aver appurato che K23 è abitabile, ma non riesce a mettersi in contatto con la Terra (e noi sfortunatamente sappiamo già perché). Due dimensioni temporali, quindi, e due dimensioni spaziali, assortite nei tre segmenti. I temi principali emergono già dal breve riassunto qui sopra: la fine della vita umana sulla Terra, il rapporto tra padri e figli (o meglio figlie), la difficoltà di comunicazione. Padri e figlie: il giovane scienziato rifiuta la paternità; lo scienziato anziano si trova a condividere la sua solitudine con una bambina; anche il bambino atteso dall'astronauta è una femmina. Assenza di comunicazione: lo scienziato giovane non reagisce alle accuse della sua compagna; quello anziano non riesce a contattare le missioni spaziali; la bambina non parla e non risponde alle domande; gli astronauti non riescono a comunicare con la Terra. La Terra a sua volta sta finendo, ha perso qualsiasi possibilità di comunicare con gli uomini. Non si sa quale sia stata la causa scatenante che ha prodotto la catastrofe: ma si sa che è colpa dell'umanità. Se è Terra Madre, l'uomo ha ucciso chi l'ha generato; se la Terra è una figlia, l'uomo l'ha maltrattata fino ad ucciderla; se la Terra è una Casa, l'uomo non l'ha ben custodita per le generazioni a venire, come confessa lo scienziato ai suoi interlocutori ai quali è interdetto il ritorno. A ben vedere, il tema unificante che investe tutti i personaggi e le situazioni del film, è quello della famiglia. Al rifiuto del giovane scienziato di costruire una famiglia con la compagna, corrisponde l'obbligo del vecchio a costituirne una atipica e inizialmente indesiderata con la bambina; alla coppia di astronauti in attesa di una figlia destinati a ricostruire l'umanità intera a partire dal proprio nucleo famigliare, corrisponde la decisione suicida degli altri due astronauti superstiti di tornare comunque sulla Terra per ricongiungersi alle rispettive famiglie, che probabilmente non esistono più o sono destinate a perire nel volgere di poco tempo. Tematiche che apparentano The Midnight Sky a diversi titoli della fantascienza recente, da Interstellar a Arrival o a Ad Astra, ma soprattutto a Gravity, cui lo accomunano diversi elementi: dal tema della rinascita, alle sequenze della pioggia di asteroidi sull'astronave, che riecheggia quella in 3D del film precedente, o la presenza stessa in veste attoriale di George Clooney, in entrambe le occasioni nelle vesti (o nella tuta) del personaggio maschile che si sacrifica per permettere la salvezza di una giovane astronauta. Le ambizioni tematiche si scontrano però con una fondamentale debolezza drammaturgica. Il Clooney regista aveva finora avuto il talento di scegliere una sceneggiatura di un autore eccentrico e originale come Kaufman (Confessioni di una mente pericolosa), o di scrivere da sé le proprie sceneggiature in sodalizio con Grant Heslov (Goodnight, and Good Luck, Le idi di marzo, Suburbicon, con la fortissima impronta dei Coen), firmando opere memorabili. Ma stavolta non ha avuto altrettanta fortuna nell'adottare lo script del forse inadatto Mark L. Smith, tratto dall'opera prima di Lily Brooks-Dalton, La distanza tra le stelle. All'interno di una durata eccessiva di oltre due ore, il film riserva due soli autentici climax drammatici, uno per ciascuno dei segmenti principali: la morte di un membro dell'equipaggio spaziale a seguito della pioggia di asteroidi, e l'affondamento della baracca sul ghiaccio dove lo scienziato e la bambina hanno trovato rifugio, e il successivo viaggio a piedi verso la base artica. Il colpo di scena finale, che rivela i veri rapporti tra i personaggi e fornisce la morale al film, arriva tardi, a seguito di una narrazione un po' sfibrata, e non del tutto imprevedibile considerate le premesse. E' tutto il finale a dire il vero a svolgersi in un anticlimax inverosimile, dove tutto - le agnizioni, le scoperte esistenziali, la rivelazione (agli astronauti in rientro) che la Terra è perduta e l'umanità estinta, gli addii definitivi -, tutto si svolge in un clima di placida e rassegnata accettazione, priva di qualsiasi sorpresa o di senso del tragico. Il film si avvale peraltro di un grande lavoro di scenografia, di fotografia e di effetti speciali, con un bel senso dello spazio, un accattivante design soprattutto per quanto riguarda gli interni della nave spaziale, belle invenzioni visive (le scene dei pranzi – ancora una volta - “in famiglia” a bordo dell'astronave; il sanguinamento a gravità zero dell'astronauta ferita), e i suggestivi panorami di K23, sotto il cielo dell'incombente Giove. Ma è la storia, sotto il commento musicale convenzionale di Alexandre Desplat, a mancare e ad arrancare. Clooney attore sotto la direzione di Clooney regista a metà film spalanca volonterosamente gli occhi per spavento e disperazione, ma non basta a dare pathos ad un film piuttosto raggelato. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
|