PINOCCHIO DI GUILLERMO DEL TORO di Guilliermo Del Toro e Mark GustafsonNon c'è due senza tre: torno ad occuparmi di Pinocchio, dopo aver recensito per SegnoCinema il film di Benigni di vent'anni fa e aver disquisito sulla stessa rivista della versione di Garrone del 2019. Cominciamo col dire che guardando il Pinocchio di Guillermo Del Toro si ha l'impressione di vedere Pinocchio. Quello di Collodi, insomma. Invece è un'illusione ottica, perché si sta guardando, ovviamente, il Pinocchio di Guillermo Del Toro. C'è Geppetto padre amorevole, c'è il burattino di legno discolo e vivace, c'è il Grillo parlante, ci sono i libri di scuola e il circo, ci sono Lucignolo e il Pescecane. Ma poi? Poi c'è Guillermo del Toro. Che vira la fiaba sadica di Collodi in un apologo dark e politico che esalta la libertà e la ribellione l'autorità; che slitta l'epoca di ambientazione verso l'era fascista (analogamente, il franchismo faceva da sfondo a Il labirinto del fauno), dove le istanze dell'autorità messe in pagina da Collodi acquistano un altro più circostanziato risalto; cancella l'istanza femminile della Fata dai capelli turchini (compagna di giochi, severa maestra di morale, madre amorevole) per sostituirla con spiriti femminei e bluastri; fonde la negatività di Mangiafoco, del Gatto e della Volpe nel personaggio-crasi del signor Volpe, che sembra più vicino ai loschi manager de Il gatto e la volpe di Edoardo Bennato che al Mangiafoco collodiano; inventa un padre di Lucignolo fascista e guerrafondaio; cambia di segno al Paese dei Balocchi - convertendolo in un campo di giochi di guerra che prepara i ragazzini alla violenza e alla morte - e alla relativa punizione dei monelli edonisti, trasformandoli in virtuosi ribelli antimilitaristi; introduce un aiutante proppiano nella figura della scimmietta Spazzatura, inesistente nel romanzo (dove pure abbondano animali e personaggi zoomorfi), mentre lo schiacciamento del Grillo parlante (doppiamente parlante: sua è infatti anche la voce narrante del film) diventa un tormentone presumibilmente comico. D'altra parte la storia di Del Toro sembra prendere a rovescio il canovaccio collodiano: il film parte con un bambino “vero” (senza madre e con un padre molto anziano) e termina con un Pinocchio definitivamente orfano che è e sarà per sempre un burattino di legno. Lo stesso allungamento del naso, punizione umiliante per le bugie del monello, diventa un escamotage che garantirà fuga e salvezza ai personaggi rinchiusi dentro lo stomaco del pescecane. Pinocchio qui è molto più innocente, o per lo meno incolpevole, dell'originale e le sue sventure sembrano scaturire più da circostanze avverse che dai comportamenti avventati o disobbedienti del burattino: per fare un esempio, anche quando si brucia i piedi nel camino è su istigazione di Lucignolo e non per propria sventatezza. Collodi a Pinocchio gli amputa i piedi, lo impicca, lo fa condannare e imprigionare, lo fa ferire in una tagliola, ridurre alla catena come un cane, infarinare per essere fritto e mangiato; quindi lo trasforma in un asino, lo fa frustare, lo annega, lo fa ingoiare da un pescecane. La Fata turchina è continuamente oltre o in punto di morte, e anche l'amico Lucignolo muore senza mai redimersi dall'umiliante trasformazione in asino. Anche qui Pinocchio muore più volte, ma il suo andirivieni dal mondo all'al di là (dove i conigli neri, macabri becchini nel libro, nel film passano il tempo a giocare a carte) diviene un'oscillazione ritmica e quasi spensierata. Tuttavia l'operazione di positivizzazione morale e politica del personaggio e della storia non portano affatto ad una rappresentazione più allegra e giocosa, anzi. Fedele al proprio immaginario, Del Toro, con il coregista Mark Gustafson, impagina una fiaba dai toni gotici e lugubri, un universo corrusco e minaccioso abitato, questo sì in maniera consona al mondo di Collodi, da esseri mostruosi, tanto da renderne presumibilmente la visione poco adatta ai bambini più impressionabili. Se la scimmietta che diventa amica e alleata di Pinocchio è un essere brutto, sgraziato e guercio di nome Spazzatura, è sul personaggio di Geppetto che si può misurare la visione dell'autore: già vecchissimo fin dall'inizio, quando è padre del piccolo Carlo, alla fine del film, invece di ringiovanire come nel romanzo, muore, mentre Pinocchio, lungi dal trasformarsi in un bambino in carne e ossa, dopo la morte del papà e di tutti i compagni d'avventura, è condannato ad un'eterna esistenza da burattino; senza fili, certo, libero e svincolato dalle regole non solo sociali (il tema del lavoro come strumento di redenzione morale e di assunzione della responsabilità famigliare e sociale adulta è un'altra delle grandi assenze nel film) ma umane, compresa quella della caducità. Senza fili, senza regole, senza preoccupazioni, senza età - se non quella di un'infanzia eterna - senza legami, neppure più quelli degli affetti; ma pur sempre, e per sempre, un burattino di legno.
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THE MENU di Mark MylodGli ospiti colpevoli invitati su un’isola deserta con il successivo gioco al massacro, come in Dieci piccoli indiani; la cena infinita con gli ospiti imprigionati in un luogo senza via d’uscita, come ne L’angelo sterminatore; la cena terminale dove tutti sanno di dover morire come nel recente apocalittico-intimista Silent Night; l’annientarsi mangiando come ne La grande abbuffata (ma in una strategia eterodiretta di sottrazione anziché di consapevole eccesso; il personaggio demiurgico che dirige il set della propria rappresentazione-performance manipolando i personaggi in suo potere - alcuni complici e consenzienti, altri inconsapevoli e forzati - come in The Truman Show (là il demiurgo si chiamava addirittura Christo e operava da una sfera celeste, qui il deus-ex-machina, lo chef Slowik, è inquadrato più volte in primo piano con una sorta di aureola triangolare dietro la testa). Sono parecchi i riferimenti letterari e cinematografici che vengono alla mente guardando The Menu: e tutti i suoi temi che si stipano dentro la scatola della food mania che contrassegna forse oggi icasticamente il declino della civiltà occidentale proprio mentre pensa di esserne l’apice e il più raffinato simbolo e compimento. Qui l’isola deserta ospita solo un esclusivissimo ristorante (simile nell’aspetto a molti locali di extra-lusso, come il Noma di Copenaghen di cui si annuncia proprio in questi giorni la chiusura), oltre alla magione dello chef e al container che ospita il selezionatissimo personale di servizio. La dozzina di commensali invitati all’ultima cena (si potrebbe scrivere anche Ultima Cena, con dodici commensali e un celebrante) sono stati scelti accuratamente: tutti hanno qualcosa da nascondere, compresa Margot, la giovane donna che scoprirà di essere stata coinvolta per caso dal proprio accompagnatore fanatico buongustaio, sostituendo all’ultimo momento la sua fidanzata che ha scelto bene il momento per piantarlo. Come nel romanzo della Christie, tutti o quasi si sono macchiati di una colpa; come nel film di Buñuel tutti o quasi rappresentano una classe agiata che si crogiola nei propri privilegi, che confonde l’avere con l’essere - o meglio l’assaporare con il mangiare - lo status symbol con la sostanza, l’apparenza con la realtà. Dove il cibo stesso si disincarna (il pane è talmente raffinato da scomparire dalla tavola, dematerializzandosi e virtualizzandosi nella memoria dei propri condimenti) per diventare immagine, sensazione, effimera e quasi impalpabile esperienza. Ai tavoli del ristorante siede una società vanesia, velleitaria, corrotta, compiaciuta della propria fatuità. Il “fornitore di servizi” Slowik, il ristoratore, l’ha compiaciuta, blandita, gli si è asservito, ma solo per condurla sull’abisso della distruzione, per diventare lo chef, il dominus che capovolge la situazione, che si erge a giudice dei personaggi e li riduce in propria balia, convinto che solo un sacrificio supremo potrà redimere e sublimare insieme la propria somma abiezione e la corruzione dell’umanità. Slowik ha sacrificato tutto alla ricerca della perfezione astratta, ma ha dimenticato l’amore del far da mangiare: salvo dover umilmente ammettere la propria impotenza dinanzi alla fame, ad uno stomaco vuoto da riempire, infine, americanamente, con un succoso, carnoso cheeseburger. Ma detto questo, il Menu cucinato da Mark Mylod, pur mantenendo desta l’attenzione e la curiosità dello spettatore/commensale per la portata successiva, non può dirsi completamente riuscito, a causa soprattutto della sceneggiatura scritta da Seth Reiss e Will Tracy. Rispetto alle opere citate sopra, The Menu non possiede l’implacabile, geniale meccanismo narrativo ideato dalla Christie; la metafora non possiede la forza onirica di Buñuel; né la coerenza del mondo fittizio di Truman Show (diretto da Weir e scritto da Niccol). Le motivazioni di tutti i personaggi, vittime e carnefici (e talvolta entrambe le cose insieme) sono risibili (e sono gli stessi personaggi a rilevarlo); il segreto di Margot su cui si insiste nella parte centrale del film non è gran cosa; e l’invalicabile porta d’argento del moderno Barbablù, una volta aperta, non offre rivelazioni significative. Le metafore non lievitano, alcune “portate” (come “La follia del maschio”) sono veramente indigeste, altre, come la fuga offerta agli uomini del gruppo, degli inutili riempitivi che rovinano l’appetito. Quel che è peggio, ci sono alcuni momenti dove il grottesco dilaga, come nel finale con budini di cioccolato in testa ai commensali e giubbotti di mashmellows come corpetti costrittivi; e come il Ralph Fiennes con gli occhi lucidi di commozione davanti a un cheeseburger, che non non ha potuto non ricordarmi il cuoco vegano della sublime parodia di Maurizio Crozza. Con le sue spalle esili, le sue labbra stilizzate e i suoi occhioni da cerbiatta spiritata, Anya “Regina degli scacchi” Taylor-Joy è sempre una presenza incisiva e Nicholas Hoult è adeguatamente fatuo e vanesio; ma in definitiva The Menu rimane il frutto immaturo di una trovata interessante che non ha trovato la coerenza di struttura e la forza metaforica che avrebbero potuto farne un piccolo gioiello. THE WOMAN KING (Usa) di Gina Prince_BythewoodIn un prolungamento dei psichedelici anni ‘70, Werner Herzog realizzò, ispirandosi a Il viceré di Ouidah di Chatwin, Cobra verde, un film folle e visionario su un avventuriero portoghese (Klaus Kinski, più survoltato che mai) implicato nella tratta di schiavi africani, che si pose alla testa di un esercito di amazzoni nere.
Ora, nel 2022 (sulla scia del successo del marveliano Wakanda Forever), The Woman King torna in quei luoghi (il regno del Dahomey, odierno Benin) e in quell’epoca (inizio ‘800) selvaggi per raccontare con tutt’altri toni ed intenti la storia dell’esercito amazzone delle Agojie, al servizio del regnante Ghezo e in guerra contro la popolazione degli Oyo (il cui esercito è invece dotato di cavalli e moschetti). Il racconto è totalmente aggiornato alla sensibilità e alle tematiche contemporanee in chiave politically correct. Lo schema è quello del romanzo di formazione, in cui la giovanissima Nawi, ribelle ad un matrimonio combinato con un uomo ricco e anziano, cui vogliono costringerla i genitori adottivi, viene arruolata nell'esercito delle Agojie. Qui crescerà in tutti i sensi, fisico, morale, politico, forgiata dal duro allenamento e dalla disciplina, adottata dalle guerriere più anziane in un rapporto in cui all'autorità si mescola un affetto sororale e materno. Anche perché, come in tutte le epopee che si rispettino, da Star Wars in poi (per non scomodare la tragedia greca o i classici), legami di sangue nascosti e segreti rendono più profondi e necessari i legami tra i personaggi. Il carattere ribelle, individualista ma anche solidale e responsabile fanno di Nawi un'eroina moderna (che non stonerebbe nella produzione contemporanea Disney), intorno alla quale le autrici dipingono un panorama ideologico fatto di elogio della sorellanza e della solidarietà femminile e di esaltazione del black power, dell'empowerment femminile, della contaminazione di genere (le donne/uomo) e di antischiavismo. A quanto ho capito nella realtà storica il regno del Dahomey nel sistema della tratta degli schiavi aveva un posto di primo piano e un atteggiamento molto attivo, se non entusiastico; mentre nel film il sovrano illuminato, grazie ai suoi illuminati consiglieri, progetta di passare dall'imprigionamento e alla vendita degli schiavi ai migliori offerenti europei alla più umanistica produzione dell'olio di palma. Il film è evidentemente pensato con finalità pedagogico-spettacolari per il pubblico cinematografico di oggi, gli adolescenti, cui offre modelli, soprattutto femminili, in cui identificarsi, schemi narrativi semplici - con le varie tappe di evoluzione del personaggio principale e l'alternarsi di momenti più intimi, di prove da superare e di combattimenti -, svolte melodrammatiche e l'allettamento ulteriore di un possibile risvolto romantico semi-interrazziale. La destinazione è evidente nelle scelte visive e di racconto: manca ad esempio completamente la rappresentazione della nudità (non si vede neppure un seno nudo; nell'Africa di inizio '800 le donne fanno perfino il bagno in piscina vestite di tutto punto – e se sono guerriere con un pugnale sott'acqua), e anche la quantità di sangue è limitata a dosi minimali, pur nella reiterata descrizione di combattimenti all'arma bianca potenzialmente cruentissimi. Non sono abbastanza documentato per verificare l'attendibilità storica della rappresentazione, anche se gli abiti indossati dalle Agojie sembrano più quelli eleganti delle hostess della business class di qualche compagnia aerea africana che di guerriere sanguinarie, e il villaggio e il palazzo reale assomigliano molto ad un moderno parco storico pulito e ordinato, dove ci si aspetta che da un momento all'altro sbuchi fuori un cartello esplicativo. Nel ruolo del titolo (ma è una donna re comunque soggetta al vero re, maschio e poligamo) di questo strano film bellico, belligerante e in fondo militarista, troviamo Viola Davis in un ruolo insolitamente macho, attorniata da un cast prevalentemente di origine africana. BONES AND ALL di Luca GuadagninoVerrebbe da chiedersi come mai il cannibalismo, in varie declinazioni, è negli ultimi tempi al centro di tante narrazioni contemporanee. Ai casi d’autore si affianca tutta una produzione, molto spesso mainstream e rivolta al pubblico giovane o adolescenziale, che affronta il tema attraverso la riproposizione di figure classiche della letteratura e del cinema dell’orrore come i vampiri e gli zombi, che hanno dilagato ormai in forma coerentemente virale nelle filmografie di tutti i continenti e tutte le latitudini, e che hanno coinvolto anche figure insospettabili come l’Hazavavicius di Coupez! (“contagiato” dal nipponico Zombie contro zombie).
Siamo lontanissimi dallo sguardo compiaciuto etnico-morboso dei cannibal movie alla Deodato; i protagonisti non sono più i selvaggi che vivono in selve esotiche, ma le brave studentesse adolescenti di Raw della Ducorneau, le famigliole di Wea Are What We Are di Mickle, i raffinati intellettuali di Divorati, primo e finora unico romanzo del Signore del body horror filosofico, David Cronenberg. Siamo lontani anche dalle metafore socio-politiche di Romero, dalla concezione hobbesiana dell’homo homini lupus, o dalle divertite riflessioni sulla dimensione consumistica del cannibalismo dello stesso Cronenberg romanziere. Ad essere vampiri o cannibali sembrano piuttosto essere persone “normali” in una società “normale” o “normalizzata”, segnate da un destino iscritto nel sangue e nell’ereditarietà, che le rende aliene al consesso umano, diversi ed eccezionali, come copie invertite e negative dei supereroi, intimamente rosi dalla loro fame/sete e dal senso di colpa. Sono due adolescenti affamati, autoemarginati, orfani di genitori mostruosi, condannati ad una vita segreta e perennemente in fuga anche i due protagonisti del romanzo della scrittrice (vegana) Camille DeAngelis, adattato da David Kajganich e portato dallo schermo da Luca Guadagnino. Difficile dire cosa abbia portato il regista italiano (alla sua prima trasferta oltreoceano) a sposare il genere horror, prima rifacendo il Suspiria di Dario Argento, ora con Bones and All; poi progettando (a quanto dice lui stesso) addirittura un remake de La mummia. Bisogna dire però che, dopo un Suspiria goffo, poco pauroso e poco ispirato, infarcito di pretesti storico-intellettualistici (il terrorismo tedesco, i campi di sterminio) pseudo-nobilitanti, nel nuovo film sembra trovare una dimensione a lui molto più consona. Il contesto storico-politico rimane stavolta nello sfondo sonoro, evocato appena dalle voci delle radio o delle tv. All’interno di un contesto horror molto efficace, capace, com’è doveroso, di istillare disagio e disgusto nello spettatore, il film imbastisce invece una solida tessitura interna che parla delle relazioni umane e dell’amore; di amicizia, solidarietà, solitudine; della necessità di avere padri e madri e del bisogno di staccarsene; del bisogno di avere dei figli in cui rivivere e a cui trasmettere le proprie conoscenze; del tempo che passa e della memoria. Bones and All è uno strano horror on the road - e sempre per dirla all’anglosassone è anche un romance, un boy meets a girl movie, un coming of age - con ambientazioni open air o in ambienti domestici (tutti ben fotografati da Arseni Khachaturan) e ordinari, con pochissime uccisioni, moltissimi racconti raccapriccianti e profluvi di sangue, pervaso da una sporcizia sanguinolenta che cerca una nuova estetica della bellezza delle immagini e contemporaneamente genera una nausea disturbante. Ma tutto il suo percorso è costellato di separazioni e ricongiungimenti famigliari – in entrambi i casi traumatici -, di fotografie e memorie domestiche, di lettere e di audiocassette tramandate dai padri e dalle madri, di sorelle lasciate indietro e ritrovate, di madri che cullano neonati alla finestra, di vecchi che cercano di trovarsi la figlia che non hanno avuto respirandone l’odore (Mark Rylance, attore shakespeariano, è magistrale nell’impersonare un drop out malinconico e solitario, assettato di carne e di consanguineità), di cannibali che cercano di inventarsi fittizie e trasversali fratellanze, di appartamenti dove ogni dettaglio racconta una storia ed evoca un ricordo; di incolpevole rimorso verso il proprio passato e di preoccupazione per un futuro maledetto da una fame inesauribile. Belli e dannati, esemplari di una gioventù cannibale e legati da un amore altrettanto cannibale, Maren e Lee attraversano insieme la loro educazione sentimentale, sessuale e carnale; corpi estranei destinati a fondersi in un finale dovuto ma non del tutto convincente. Se precedenti di teen-horror romantici non mancano (la saga di Twilight tra tutti), Bones and All vira verso una dimensione più radicale. Come in Black Hole, la graphic novel archetipica di Charles Burns, la scoperta della sessualità passa attraverso la scoperta del proprio e dell’altrui corpo, in quella mutazione che trasforma i corpi dell’infanzia nei corpi dell'adolescenza, improvvisamente alieni, mostruosi, tentatori e ripugnanti, generatori al contempo di paura e di disgusto, di colpa e di attrazione, di meraviglia e di desiderio; di fame di un frutto proibito conturbante e carnale. Guadagnino fa una cosa che gli piace e gli riesce bene, filmando i corpi dei suoi adolescenti, quello efebico di Chamalet e quello imperfetto e acerbo della Russell (premiata a Venezia insieme alla regia di Guadagnino), ma glissa sulla rappresentazione del sesso (l’unica scena vista di scorcio riguarda un rapporto omosessuale che è in realtà una trappola mortale). In una storia carnale nella sua essenza, il regista mette in scena un amore adolescenziale sostanzialmente casto, cui fa da contrappunto la colonna sonora dalle tentazioni elegiache di Trent Reznor e Atticus Ross, una delle scelte a mio parere meno riuscite del film. Salvo diventare un amore bones and all, un amore che divora e si fa divorare. Da uno spunto risibile, il film complessivamente forse più convincente di Luca Guadagnino. AMSTERDAM di David O. RussellE' un bel pasticcio Amsterdam. Titolo breve, secco, apodittico, ma che rimanda però solo ad una parentesi nella storia del film, dove si configura quello che per i tre protagonisti rimarrà un paradiso perduto e rimpianto (senza peraltro che nessuno degli attori abbia effettivamente messo piedi nella città olandese). E poi una definizione dei personaggi che attribuisce la voce narrante ad un protagonista (Christian Bale), che racconta la storia di amicizia e di amore tra tre personaggi (lui, Margot Robbie e John David Washington), ma che si frantuma in una galleria composita di figure che faticano a rimanere secondarie, anche per le scintillanti scelte di cast (Rami-“Freddie Mercury”-Malek, Taylor Swift, Mike-“Austin Powers”-Myers, Anya-“la regina degli scacchi”-Taylor-Joy, Michael Shannon, Zoe Saldana, Chris Rock, Robert-“nientepopodimenoche”-De Niro. E poi apparente unità di stile, al servizio però di una narrazione asincronica, ondivaga e divagante. Dove si accumulano molte cose. Ad esempio, solo per dirne alcune, il dramma, la commedia, il giallo chandleriano, la spy story, l'avventura, il film bellico, la love story, il buddy movie, la rievocazione storica, il racconto politico, lo svelamento complottistico, l'antirazzismo, l'ucronia; e poi Jules e Jim a pioggia, e Chinatown, e Casablanca, e Addio alle armi e Il grande dittatore; l'arte surrealista, i filmati di repertorio, il potere dell'immagine, il fascino del mostruoso e del bizzarro, l'allusione al nostro infelice presente storico-politico. Eppure la mole di citazioni, di temi, di generi, di attori iconici, non bastano a produrre un bel film. Non basta neanche David O. Russell, che con una mano scrive e con l'altra dirige, e che pensa di essere intelligente, brillante, originale e anticonvenzionale, ma che non riesce a trovare una misura in grado di suscitare l'interesse dello spettatore, né a far spiccare il volo al film, né visivamente (malgrado il fascino indubitabile ma episodico) né narrativamente. I molti motivi di attrazione sembrano non ingranare l'uno nell'altro, o non si avviano per niente. La narrazione ristagna, divaga, si ripete, senza che questo andamento sbandato riesca a conseguire una reale necessità poetica o anche semplicemente ludica. Una didascalia iniziale avverte che molto di quello che si vede è realmente accaduto, ma anche questo non è del tutto vero, e prima di arrivare al finale in cui si svela il complotto (storicamente accertato anche se non punito) che ha visto coinvolti loro malgrado gli inconsapevoli protagonisti, e che conferisce il senso dell'operazione e il portato politico del film, arriva dopo quasi due ore di narrazione estenuante, dove si sorride ogni tanto, si gustano le performance degli attori, e per il resto ci si annoia senza rimedio, chiedendosi pigramente dove Russell voglia andare a parare. Intanto gli attori vagano qua e là, discettano di amore e di amicizia, di solidarietà e di fedeltà, di rispetto e gentilezza, di ingenuo anticapitalismo; mostrano cicatrici e perdono occhi, scoprono complotti e fanno discorsi, zigzagando tra fronte di guerra, ospedali, ville lussuose, fumose strade newyorkesi anni '30, una pseudo-Amsterdam bohemienne dal sapore parigino. Peccato, perché ci sono una montagna di motivi per dire “che peccato”. Ad iniziare dalla rievocazione di un episodio storico poco conosciuto (un progetto di colpo di stato da parte del potentato politico-economico americano, che guardava come un modello le dittature europee coeve instaurate da Mussolini o dal giovane Hitler), che riecheggia esplicitamente le tentazioni golpiste di Donald Trump culminate nell'assalto a Capitol Hill; e poi il cast così bello (che non si lascia per nulla intimidire dall'inconsistenza della storia) e così sprecato, molto più ispirato di quanto non lo sia il film stesso; e poi l'intelligenza di Russell, che traspare anche dietro il fallimento; e Robert De Niro, che ormai le sue interpretazioni migliori le regala esclusivamente ai margini dei film di Russell (vedi Il lato positivo, che resta il suo film più riuscito); e poi la Robbie, che è una grande attrice (vedi alla voce Tonya), ma che rischia di non farsene accorgere, offuscata dalla sue indicibile bellezza per la quale non so trovare aggettivi... BLONDE di Andrew DominikL’intento di Dominik appare chiaro fin dai primi minuti. La madre toglie una bimba dal letto, la prende in braccio, attraversa i corridoi invasi da un pulviscolo di piccoli fiocchi bianchi. Esce all’aperto e si avvia verso la macchina e la luce rosata del cielo, tra i fiocchi che vorticano nell’aria. Ma non si tratta di neve, e non è la luce del mattino quella che occhieggia all’orizzonte. I boschi vicino alla città sono in fiamme e arrossano, e quella che rotea nell’aria è cenere. La madre guida nervosamente verso le colline, verso il cuore dell’incendio, con a fianco la bambina sempre più terrorizzata. All'improvviso vuole che la figlia conosca il padre sconosciuto, che abita in cima alla collina. Un poliziotto ferma la macchina che corre sulla strada in mezzo alle fiamme e la rimanda indietro. La madre frenetica riporta la bambina a casa, la fa spogliare e le prepara un bagno, poi cerca di annegarla nella vasca. Non riesce, e stramazza al suolo. La bimba, Norma Jeane, esce dalla vasca e nuda e bagnata va dai vicini a cercare aiuto, mentre intorno balenano i bagliori dell’incendio non così lontano. E’ un incipit agghiacciante e ipnotico, che pone subito le basi sia tematiche che estetiche di Blonde, tratto non dalla biografia (o dalle varie biografie) di Marilyn Monroe, bensì dall’omonimo libro (di oltre mille pagine) in cui la scrittrice Joyce Carrol Oates ne reinventa la vita e la storia. Norma Jeane è collocata in un inferno, che ha i connotati visivi (e sonori) dell’inferno, abitato da creature tormentate e infernali. E' un partito preso da cui Dominik non derogherà mai, nel corso dei 167 minuti del film. Qualunque cosa accada, chiunque incontri, qualunque dolore o qualsiasi inimmaginabile successo tocchi la vita di Norma Jeane/Marilyn, la sua e la nostra percezione rimangono quelle di un incubo continuo, senza requie e senza consolazione. I coniugi vicini di casa che l'anno accolta, mentre la madre viene ricoverata in un'ospedale psichiatrico, l'abbandonano ben presto disperata e piangente in un orfanotrofio; il produttore cui si presenta quando decide di tentare la carriera cinematografica, la sbatte a faccia in giù su un tavolo e la violenta; i suoi tentativi di diventare madre falliscono uno dopo l'altro; la sua ascesa nel mondo del cinema è avviene dei panni della dumb blonde, l'oca bionda tutta corpo e senza cervello; la madre ricoverata in clinica non è più in grado neppure di conoscerla e suo padre le rimarrà per sempre ignoto; le relazioni e i matrimoni (con giovani figli di celebrità, con campioni dello sport, con grandi intellettuali, con sommi uomini politici – i nomi di Joe Di Maggio, di Arthur Miller, di JF Kennedy non vengono mai esplicitamente nominati nel film) vanno regolarmente in rovina, minati dalla sua fragilità e da uomini di volta in volta cinici, maneschi, egocentrici, ciecamente fallocrati. Dominik ci conduce a seguire Marilyn (raramente vediamo le cose attraverso gli occhi della protagonista) in un mondo distorto, allucinato, deformato da una percezione sempre precaria e compromessa, ben prima che gli psicofarmaci diventassero indispensabili per tappare le falle della coscienza della diva o per aiutarla a togliersi dall'impiccio di una vita troppo pesante per le sue spalle candide e tornite. E' un partito preso che può trovare o non trovare d'accordo (ma la biografia della Monroe, che da una parte tocca un successo dopo l'altro fino a renderla la diva più amata, ammirata, desiderata, idolatrata, riprodotta in immagini fino a renderla eterna e indimenticata, dall'altra è una specie di monumento all'insoddisfazione e all'inquietudine, all'insicurezza e alla frustrazione), e che può rispecchiare o meno la reale personalità della protagonista. La raffigurazione della Monroe come una pura vittima dei propri fantasmi e del brutale desiderio delle masse maschili, agnello sacrificale del nascente voyeurismo di massa, non rende forse onore al suo carattere, che pure ebbe la forza di portare un'orfana indigente ad intraprendere con determinazione una carriera che malgrado mille difficoltà ed ostacoli la portò al culmine del successo (in campo cinematografico, teatrale e musicale), e anche a fondare una propria casa di produzione, nel tentativo di riprendere il controllo della propria immagine e del proprio lavoro. Ma una volta adottato il proprio punto di vista, Dominik lo persegue con ostinata coerenza, imprigionando la sua protagonista in una serie di scatole visive e sonore (le musiche di Nick Cave e Warren Ellis riempiono di echi inquietanti qualsiasi situazione del film), utilizzando lenti deformanti, inquadrature impossibili, spiazzando continuamente le immagini dal bianco e nero al colore e viceversa, avvicinando l'esperienza di Blonde a quella della Hollywood tragica ed espansa dell'Inland Empire lynchiano o ancora prima, alle miserie e alle velleità, e infine all'isteria violenta e orgiastica de Il giorno della locusta di West e poi di Schlesinger. Sono impressionanti per fluidità e senso di spiazzamento le sequenze in cui Marilyn passa da una situazione reale ad una onirica, o da un ambiente spaziotemporale all'altro, in brevi ma geniali piani-sequenza, intesi a volte a passare dalla dimensione intima e privata della donna a quella pubblica e artificiosa della diva, come quando una Norma Jeane affranta e in lacrime nel suo camerino si trasforma, solo con il voltarsi verso lo specchio illuminato, nella diva perfetta dal sorriso sfolgorante e ammaliatore. Norma Jeane ha raggiunto una delle due cose che desiderava di più al mondo - la notorietà e il successo - trasformandosi in altro, nel proprio doppio Marilyn, nell'emblema, astratto e carnale insieme della femminilità secondo l'immaginario maschile; l'altro suo desiderio, quello di essere riconosciuta e amata per quello che era veramente e intimamente, non si avvererà mai. Come Kane nel Quarto potere di Welles, altro personaggio consumato dall'esposizione pubblica, ma irrisolto fino alla fine nella dimensione privata, Marilyn ritroverà prima della fine un oggetto della propria infanzia, quell'orsacchiotto che si stringeva al petto mentre la madre impazzita cercava di sbarazzarsi di una bambina che nessuno desiderava. Il film ricostruisce in maniera perfetta e perfezionistica, quasi feticistica, i set, le pose, gli ambienti dell'epoca, fino alle facce delle comparse nelle scene di massa. Ma soprattutto nel film ricorrono continuamente le riproduzioni in vivo, che sfiorano la perfezione, di quei fermo- immagine iconici che formano l'inesauribile galleria che l'immaginario collettivo ha raccolto e custodisce gelosamente in una sorta di profano (e profanabile) santuario virtuale; solo che tutte, regolarmente, ci mostrano intorno un contesto precario, instabile, si sporcano di insoddisfazione, di dolore, di frustrazione, mentre situazioni cinematografiche e parole delle canzoni che hanno scritto per lei sembrano spesso alludere in maniera involontaria e inconsapevole ma - a posteriori - non meno struggente e vertiginoso, alla sua condizione di solitudine e di infelicità. Se Mailyn Monroe/Norma Jeane Baker sono il doppio l'una dell'altra, la prima il riflesso disincarnato dell'emblema della carnalità, il riflesso sovrailluminato, dove l'eccesso di trucco e di luce (le prime immagini, prima ancora del comparire del titolo, mostrano il gigantesco riflettore dalla luce abbagliante che illuminerà Marilyn, ferma su una grata del marciapiede, la candida ruota del vestito sollevata dall'aria) e sono capaci di coprire e spazzare via tutte le imperfezioni, le fragilità, le insicurezze e i difetti della seconda, il personaggio si frantuma in altre dimensioni grazie alla stupefacente interpretazione di Ana De Armas, a volte talmente perfetta da confondersi icasticamente con il personaggio che deve interpretare, a volte distante in modo straniante, con la faccia arrotondata e quasi gonfia, le patetiche sopracciglia sbiancate per diventare fino all'ultimo pelo la blonde che tutti i maschi vorrebbero avere nuda, nel letto, come l'hanno già vista e desiderata nelle fotografie patinate delle riviste. Marilyn li accontenterà ancora un'ultima volta, distesa nuda tra le lenzuola, con la cornetta del telefono in mano e un flacone di barbiturici a fianco, morta e immortale, decisa a farla finita, e a non finire mai. Ma non tutti hanno amato Blonde: clicca qui per leggere in Face Off la controrecensione del perfido Oruam Norac... LA RAGAZZA DELLA PALUDE (Where the Crawdads sing) di Olivia NewmanLa ragazza della palude non è un film per tutti. Non è un film per uomini, non è un film per adulti consapevoli, non è un film per gli amanti del buon cinema. Sostanzialmente si direbbe sia un film per ragazzine. Forse. Ammesso che ci siano ancora ragazzine che si appassionano a storie d'amore che parlano di altre ragazzine acqua e sapone vessate dalla sorte, come cenerentole dell'epoca moderna (siamo nei più rassicuranti anni '60), raccontate con stile piano e tono tranquillizzante, nonostante le traversie attraversate dalla protagonista. Visto senza saperne nulla in anticipo e senza aver letto il best seller di Delia Owens da cui è tratto (ma se la qualità è la stessa del film sono felice di non averlo fatto), mi sono bastati pochi minuti per precostituirmi un giudizio del film. L'elegiaca voce fuori campo, i gamberetti che cantano (vedi titolo originale), i poetici voli degli uccelli, le patinate immagini della palude, la musica romantica, sono il preludio di quello che seguirà, ovvero una specie di imbarazzante Harmony audiovisivo fuori dal tempo. Kya viene abbandonata da bambina nella casa nella palude - prima dalla mamma maltrattata, poi da fratelli e sorelle in fulminea sequenza, infine dal padre manesco – e sopravvive lontano dal consesso umano, senza parenti e senza amici, sopravvivendo grazie al commercio delle cozze che raccoglie nelle acque paludose. Considerata una selvaggia, conosce tuttavia l'amore con un dolcissimo coetaneo, ma – indovinate? – verrà abbandonata anche dal suo ragazzo e poi per soprammercato accusata dell'assassinio del suo secondo e meno raccomandabile amante. Ci sono quindi la fiaba alla Cenerentola, il racconto romantico, il melodramma, un pizzico di giallo, e infine il dramma processuale, poiché tutto viene raccontato in flashback mentre la trepidante Kya è imputata dell'omicidio di un giovane precipitato in piena notte dall'alto di una torre nella palude, fino ad un risibile colpo di scena finale di cui non mette conto parlare - e non solo per evitare spoiler. Avete presente l'immaginario legato alle paludi del sud-est degli Stati Uniti, quello legato ai film di Hooper o ai romanzi di Landsale? Bene, dimenticatelo. La palude in questo caso è un luogo privo di pericoli o di pensieri malsani, percorribile come un normale parco pubblico, nei pressi di una spiaggia da cartolina. Così come da cartolina o da rivista d'arredamento country – o meglio shabby chic – è la casa nella palude dove vive la pescatrice di cozze, tutta linda, ordinata e dotata si direbbe di ogni confort. Come da cartolina o da rivista di moda anni '60 è la ragazza “selvaggia” - chissà perché rifiutata dagli altri -, sempre perfettamente in ordine, pulita, pettinata, ordinata, elegante con semplicità, in grado di esprimersi con grazia e proprietà malgrado la mancanza di educazione scolastica, e raffinata disegnatrice. Inutile continuare, è tutto così, in un racconto molto più rosa che giallo intriso di romanticismo cheap, con baci romantici, casti amplessi, senza scene di violenza, sesso o turpiloquio. Le signorine sognanti e bene educate godranno forse di questo racconto edulcorato, patinato, senza scossoni e senza inquietudini - con una sceneggiatura mal scritta recitata con niente più che scolastico zelo - e si identificheranno forse con questa povera ragazza che sogna l'amore e una vita serena e felice ed è invece perseguitata a causa della cattiveria del mondo maschile. Però - che so? - uno schizzo di fango, un po' di febbre, un alligatore affamato... E invece niente. DON'T WORRY DARLING di Olivia WildeAnni '50. Alice è la moglie bella bionda e innamorata di Charles e sembra vivere nel mondo delle meraviglie. La giovane coppia vive in un moderno e utopistico villaggio nel cuore del deserto, dove Charles lavora al misterioso progetto Victory. Il mondo in cui vivono sembra il migliore tra quelli possibili, o quasi. Giovinezza, amore, appagante sesso coniugale, un lavoro gratificante (per Charles), lavori casalinghi eseguiti alla perfezione e shopping selvaggio (per Alice), una casa lussuosa e bellissima, un leader (e capo della comunità) carismatico e motivante, vicini e colleghi simpatici e allegri. Tranne Margaret, la cui apparente nevrosi apre delle crepe nella serenità di Alice, che comincia a sua volta a soffrire di incubi, allucinazioni da sveglia, flash di memoria, non si sa se reali o allucinatori. D'altra parte se un film si intitola Don't Worry Darling è prevedibile che ci sia qualcosa di cui doversi preoccupare, ma di cosa? Della salute mentale di Alice? O di qualcosa di molto strano che sta succedendo a Victory? Finché il mistero regge regge anche l'interesse dello spettatore, intrigato dal glamour dei protagonisti (Florence Plough e Harry Styles), dall'eleganza dei costumi e delle scenografie, dalla curiosità e dallo stile sovrabbondante (finché non rischia di diventare irritante) della Wilde, che mescola colori pastello di abiti e macchine, interni eleganti e soleggiatissimi esterni, riprese in plongée su paesaggi e dettagli, colonna sonora pervasiva e onnipresente che alterna melodie e canzoni jazzy, suoni inquietanti e vocalizzi ipnotici. L'ossessione della simmetria, della coordinazione, del controllo che vigono a Victory viene fatta propria anche dalla regista, che fa partire in elegante sincrono le colorate auto dei mariti mentre le rispettive mogli innamorate salutano dal prato davanti alle ordinatissime villette a schiera. Tutto troppo perfetto per essere vero, e perfino gli incubi di Alice sono elegantemente coreografi - tra eleganza, kitsch e horror - con lo stile dei musical di Busby Berkeley. Non a caso l'iconografia creata dalla regista predilige le linee sinuose e le figure circolari, caratterizzanti dello stile visivo ma anche investite di un portato metaforico. Il film inizia ad esempio con i circoli disegnati dall'auto di Alice e Charles nel deserto notturno e si conclude con la fuga di lei lungo una strada a spirale in salita che conduce a una costruzione circolare. Ma i problemi nascono dal momento in cui il mistero viene svelato. Non tutti i conti narrativi e simbolici tornano, comincia una serie di inseguimenti piuttosto convenzionali, e soprattutto il formidabile salto ontologico impresso al racconto è difficile da conciliare con uno sviluppo narrativo che sembra ignorarlo con una disinvoltura decisamente eccessiva. La Wilde e la fida sceneggiatrice Katie Silberman raccontano una trama che affonda le proprie radici nella fantascienza sociologica che dagli anni 50 in poi (da Dick a Levin) ha immaginato distopie del controllo sociale e la possibilità di vivere in dimensioni alternative e allucinatorie, poi ampiamente confluite al cinema (da La moglie perfetta a The Truman Show, con tutte le possibili varianti). Le tematiche sono sempre e più che mai attuali: il controllo sociale, la delega al leader carismatico, la chiusura delle società opulente che scelgono di ignorare cosa succede al di là dei loro confini per proteggere la propria confort zone, il ruolo della donna nella famiglia e nella società e le discrepanze tra immaginario maschile e femminile a tale proposito. La Wilde, anche attrice nel film, dove riveste un ruolo secondario ma significativo, cerca di rinnovare il tema della città ideale e della moglie perfetta mescolando e ribaltando i generi (d'altra parte che dietro i favolosi anni '50 si nascondesse il volto dell'orrore ce lo aveva già raccontato visionariamente David Lynch), con ambizioni stilistiche e iniezioni di regia, a volte interessanti a volte al limite dello stucchevole. La Pugh (Lady Macbeth, Midsommar, Piccole donne) è sempre una conferma, e Styles (che ha sostituito Shea LaBeouf durante una lavorazione piuttosto polemica e travagliata) esordisce sullo schermo con una prestazione dignitosa e con grande clamore mediatico. BULLET TRAIN di David LeitchNon è una graphic novel, come ci si sarebbe potuti aspettare, ma un romanzo tradizionale Bullet Train, ovvero I sette killer dello Shinkansen, da cui è tratto il film di David Leitch. Perché Bullet Train film è un vero e proprio fumetto audiovisivo, pieno zeppo di dialoghi, azione, eccessi caricaturali, violenza grafica, trovate visive. Il film appartiene a quella sottocategoria di film interamente ambientati (all’apparenza) su un treno in corsa. Si tratta questa volta del treno superveloce che corre tra Tokyo e Kyoto, sul quale sono saliti un certo numero di assassini (cinque? sette?), ciascuno con un diverso obiettivo, all’insaputa degli altri. Ma a governare la storia non è il caso, come succederebbe in un film dei fratelli Coen, ma qualcuno che trama nell’ombra, e che ha fatto volontariamente salire su quel treno gran parte dei personaggi. C’è chi deve vendicarsi di un figlio lanciato giù da un palazzo o chi della propria sposa e di tutti gli invitati al matrimonio, avvelenati da una sostanza che gli fa sprizzare sangue da ogni orifizio del corpo; due killer fratelli gemelli (uno nero paffuto e biondo, l’altro bianco snello e muscoloso) tendenti all’esagerazione nello svolgere il proprio compito che hanno recuperato il figlio di un boss della mafia russo-giapponese uccidendo 16/17 persone; un criminale sfortunato in pieno training autogeno incaricato di rubare una valigetta; una ragazzina dall’aria innocente in cerca di una feroce vendetta famigliare; un’altra killer letale che deve recuperare un compenso dovutole; un nonno anch’esso in cerca di vendetta; un boss efferato con la sua gang di assassini; e senza dimenticare un killer assente giustificato e un serpente velenosissimo sottratto dallo zoo… A quanto siamo? Boh. Quanti ne resteranno vivi? E’ da vedere (aspettando fin oltre i titoli di coda per il conteggio finale). Forse Bullet Train è più bello e divertente raccontato che visto. David Leitch, regista, produttore, attore, stuntman, è decisamente uno specialista dell’azione e del movimento (come regista ha all’attivo titoli emblematici come Atomica bionda, Deadpool 2, uno spin-off di Fast & Furious), per cui si trova a suo agio su un treno che corre a 300 km all’ora, e con un manipolo di personaggi impegnati per tutto il tempo in furibondi scontri letali tutti contro tutti. Ma il film sconta alcuni problemi che sono la lunghezza (di dialoghi demenziali e scontro mortali per 137 minuti possono essere troppi, e lo sono spesso o talvolta anche nel suo modello, di cui sto per parlare) e un’adesione pressoché incondizionata alla poetica tarantiniana. Non solo dialoghi ironici e surreali all’infinito (con killer molto cool che discutono del trenino Thomas o della propria rinascita spirituale), nomi in codice come ne Le iene o in Kill Bill e culto della violenza estrema e grafica, ma anche la passione per il cinema orientale di genere, per le ambientazioni latino-americane, per le stragi nuziali, per i serpenti velenosi, per le spade giapponesi, per le donne combattenti (le sole che hanno diritto di esistenza – temporanea – in questo universo; e va detto che almeno una di queste nel romanzo era un maschio). Il problema è che quello di Tarantino è un cinema citazionista e derivativo, e un film derivato da un cinema derivativo, se non ci mette del genio proprio, rischia la stucchevolezza. Ed ecco, sentire il killer parlare dei personaggi del trenino Thomas già la prima volta non è detto che riesca a strappare un sorriso, ma all’ennesima ripetizione può generare una vera e propria insofferenza. I colpi di scena sono moltissimi ma piuttosto meccanici, non si guarda l’orologio perché il film non ne lascia il tempo, ma tra un combattimento e un dialogo surreale mentalmente si ci comincia a chiedere che ora si stia facendo. Pregi (azione, ironia, colpi di scena) e difetti (meccanicità e ripetitività di espedienti narrativi che alla fine sembrano un po’ fini a se stessi) sono attribuibili anche al romanzo di Isaka Kotaro. Eppure con una maggiore stringatezza e un po’ meno autocompiacimento (e magari qualche scelta diversa di cast) avrebbe potuto essere un divertissement di classe, veloce, ironico, con trovate visive e di sceneggiatura. L’ambientazione claustrofobica del treno (ben dissimulata nei trailer) viene continuamente smentita dai flashback e in qualche a parte e il film svela mano a mano un côté christiano (nel senso di Agatha Christie), che mescola i meccanismi cospiratori-eliminatori di Dieci piccoli indiani e di Assassinio sull’Orient-Express (già d’altra parte presenti nei modelli tarantiniani, e in particolare in The Hateful Eight, che dichiara la sua struttura e la sua ispirazione fin dal titolo numerico, come come quello italiano del libro di Isaka Kotaro); e nei flashback dedicati a costruire il passato e il “curriculum” dei vari personaggi c’è tanta di quella azione pirotecnica e di scene ad effetto da riempire almeno una mezza dozzina di action medi. Viste le premesse la resa dei conti finale sarà ovviamente esagerata, ma la voglia di stupire ha in serbo ancora altri colpi di coda: dopo aver presentato per tutto il corso del film i personaggi con grandi scritte in sovrimpressione che ne annunciano il nome d’arte o il ruolo, il riconoscimento di un ruolo da coprotagonista viene riservato nel finale anche a una bottiglietta d’acqua, della quale fulminei flashback ripercorrono la presenza e il ruolo – a volte determinante – nel corso del film; e, come già accennavo, fin dopo i titoli di coda arriva un ultimo flashback per far quadrare i conti. Il numero di sopravvissuti è più alto del previsto: porta aperta per un eventuale seguito? Forse, vista l'accoglienza tiepidissima per non dire freddina, non sarà il caso. Uno che senz’altro si è divertito, e che fa divertire, è il Brad Pitt dalla coolness stropicciata, irresistibile e affascinante anche nei panni del personaggio (apparentemente) più sfigato della bizzarra compagnia. ELVIS di Baz LuhrmannThe Making of Elvis Presley ovvero Elvis Aaron Presley vs Colonel Thomas Andrew Parker, aka Andreas Cornelis (Dries) van Kuijk Perché Elvis è il racconto di un mito (con dovizia di particolari e un arco narrativo che copre buona parte della vita dall'artista, dall'infanzia al prematuro decesso), ma nello stesso tempo è il racconto della costruzione di un mito, con un focus bipolare che a dispetto del titolo sintetico e monocratico si sdoppia su due personaggi: quello di Elvis Presley, cantante e musicista dalle doti naturali dirompenti, e quello del sedicente Colonnello Parker, prima imbonitore da circo, poi agente musicale con qualche scheletro nella propria valigia di immigrato clandestino apolide; colui che farà di un estroverso ragazzo del Sud un divo tra i più idolatrati, un mito planetario, un'icona, una merce tra le più desiderate. Parker sarà colui che farà di Elvis quello che è ed è stato nella storia della musica e del costume, ma anche il suo carceriere. Sarà quello che esalta il lato selvaggio di Elvis, che sbatte in faccia al suo pubblico (soprattutto femminile) il suo pube ipercinetico, ma anche quello che lo castrerà quando la reazione benpensante si fa troppo pericolosa; quello che porta al successo la miscela di country tradizionale e di dirompenti sonorità blues, rythm'n'blues e gospel (Elvis stringe amicizia con molti musicisti neri, come B.B. King e molti altri), ma che preferisce spedirlo in esilio militare in Germania quando gli animi dell'establishment razzista e segregazionista si infiammano; quello che ne fa una star planetaria, ma anche quello che lo ingabbia nel deprimente declino di Las Vegas. Ci sono più scene rappresentative del modo di raccontare di Baz Luhrmann (Ballroom, Romeo + Giulietta, Moulin Rouge, Il Grande Gatsby): una è collocata verso l'inizio del film, quando Elvis ha una crisi di panico prima di salire sul palco per la sua prima esibizione pubblica, mentre i suoi compagni lo incoraggiano; e quando il piccolo Elvis ascolta rapito i musicisti neri che suonano il blues nelle stamberghe del quartiere afroamericano; e quando il piccolo Elvis cade in trance ascoltando il gospel nella chiesa battista; e quando il giovane Elvis si presenta alla sede della Sun Record: perché tutto nel cinema di Luhrmann succede contemporaneamente, le narrazioni si accavallano, luoghi e tempi diversi si fondono nell'ansia del racconto. Montaggio alternato e sincopato, continui moviemnti di macchina, split screen, sovrimpressioni, saturazione sonora, sono tutti espedienti tecnici per combattere l'horror vacui e restituire la sovrabbondanza della vita e del racconto, espressioni dell'ansia di dire tutto, di più, e tutto insieme. In un'altra sequenza Elvis e il Colonnello sono nel labirinto di specchi, dove le loro immagini si rispecchiano all'infinito: moltiplicazione iconica (Elvis diventerà presto pupazzetti, poster, spillette, tazze e qualsiasi altro oggetto vendibile) e duplicità, con un giovane Faust ingenuo che non trova la strada e uno smaliziato Mefistofele che sa bene dove vuole (farlo) arrivare. Ancora, i due discuteranno del loro futuro e del loro destino su una ruota da luna park: è il circo visivo di Luhrmann, che credo non deluderà i fan di Elvis e stupirà il pubblico con il suo cinema pirotecnico, esibizionista, massimalista, che cita se stesso e il cinema d'altri (Orson Welles innanzitutto). In questi tempi di magra, e al di fuori del cinema di supereroi, Elvis è uno dei pochi veri blockbuster che valga la pena di vedere. Un paio di volte: in lingua originale, magari con i sottotitoli, per godere appieno delle interpretazioni di Austin Butler e di Tom Hanks; e poi doppiato per una visione meno concitata - visti i ritmi e la sovrabbondanza degli stimoli visivi, sonori, letterali, informativi - dall'esigenza di tradurre o leggere i sottotitoli. Buona visione/ascolto. Se volete saperne di più, leggete il mio articolo sul numero n. 236 di SegnoCinema, in distribuzione nel mese di luglio. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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