THE GREEN BORDER (Zielona granica) di Agnieszka HollandParadossalmente, un film che contiene un colore nel titolo poi, a parte la sequenza d’apertura in volo sopra i boschi, è in bianco e nero. Anzi, nerissimo. Il film tocca un tema doppiamente scottante: non solo quello delle migrazioni, che tocca da vicino anche il nostro Paese, in prima linea sul confine d’acqua del Mediterraneo (nella stessa Mostra del Cinema di Venezia in cui The Green Border riceveva il Premio speciale della giuria, Io capitano di Matteo Garrone, che descrive il viaggio dal Senegal alle coste italiane di due giovani migranti, ha vinto il Leone d’argento per la miglior regia e il Premio Mastroianni per il miglior attore emergente) ma anche quello dell’uso strumentale e cinico dei migranti usati da politicanti senza scrupoli per destabilizzare i vicini nemici. Il film si svolge ai nostri giorni (potrebbe svolgersi anche ora, nel momento in cui sto scrivendo, e anche forse nel momento in cui voi mi leggerete) in Europa, intorno alla frontiera tra Bielorussia e Polonia. Nel prologo un gruppo di viaggiatori vola in aereo verso un aeroporto bielorusso. Sono profughi da Paesi in guerra o problematici, ma hanno comprato regolarmente il biglietto aereo per la Bielorussia, da dove poi la maggior parte di loro conta di raggiungere varie destinazioni europee, dove spesso hanno già parenti o conoscenti che li aspettano e che li aiuteranno. Scopriranno ben presto che sono stati crudelmente ingannati: il regime filoputiniano di Lukashenko attira i profughi facilitandone l’arrivo solo per spingerli, anche con l’uso della forza e della violenza, oltre il confine polacco solo per mettere in crisi il vicino, membro dell’Unione Europea e della Nato e quindi nemico, ora più che mai nella contrapposizione attuale tra la Russia e i rispettivi alleati e l’Ucraina sostenuta dal fronte dei Paesi occidentali. I profughi sono pedine inconsapevoli, incolpevoli, ignare, che sono sfuggite a guerre e altre calamità solo per diventare contemporaneamente armi e vittime in un’altra guerra a loro ignota e dalle logiche a loro sconosciute. Da una parte e dall’altra della frontiera si fronteggiano eserciti in assetti di guerra, impegnati unicamente a rimpallarsi cinicamente i profughi (tra i quali ci sono anziani, donne, anche incinte, bambini), non senza approfittare della loro posizione autoritaria per depredarli in tutti i modi possibili, picchiarli, angariarli e umiliarli. Le didascalie impassibili, che ci hanno dapprima informati che siamo in Europa e che scandiscono laconicamente i rimpalli al di qua e al di là delle recinzioni di filo spinato che segnano il confine, altrimenti invisibile, introducono di volta in volta i nuclei di personaggi protagonisti: una famiglia siriana, con bambini al seguito, cui si aggrega una donna afgana; una guardia di frontiera sempre più in difficoltà nell’eseguire i compiti inumani che gli vengono affidati; gli attivisti polacchi che cercano di portare soccorso ai profughi (ma senza poterli trasportare o guidare, per non rischiare pesanti conseguenze giudiziarie); una psicologa che abita vicino alla zona speciale e che si fa coinvolgere prima emotivamente e poi operativamente dopo che ha visto morire un bambino sotto i propri attoniti occhi. Il film compone quindi un mosaico narrativo di cui sono protagonisti di volta in volta le vittime, aguzzini riluttanti (circondati da colleghi però assai convinti ed motivati, entusiasti del potere che è loro dato nei confronti degli indifesi), e i volontari che cercano di tradurre in azione concreta i propri sentimenti umanitari. Lo stile narrativo, soprattutto quando il racconto si concentra sui profughi, è frenetico, convulso, pieno di movimento, violenza, disperazione, angoscia, in gran parte nell’ambiente oscuro dei boschi, con sequenze spesso ambientate nel buio della notte. L’uso del bianco e nero contribuisce a rendere le immagini simili a quelle tragicamente associate alle memorie del nazismo, con uomini armati e urlanti, cani, filo spinato, deportazioni, violenze gratuite su vittime inermi (in qualche sequenza si sfiorano gli stilemi dell’horror, come nella sequenza statica in cui una donna, in un campo aperto, crede di aver trovato aiuto in un contadino, che invece, mentre lei si allontana, inquadrato di spalle, prende il cellulare, presumibilmente per denunciarla, e inducendola ad una nuova fuga disperata). La Holland non fa molte differenze tra bielorussi e polacchi, entrambi impegnati in operazioni disumane, che hanno fini diversi, ma estremamente simili nella brutalità e nel cinismo dei metodi. La regista e sceneggiatrice non risparmia neppure l’Unione europea, che preferisce ignorare quanto accade ai suoi confini, dove persone incolpevoli vengono trattate come animali e talvolta spinte verso la morte per incidenti, stenti, violenze subite. Un’immagine ci mostra icasticamente i superstiti della famiglia, falcidiata dalle avversità, seduti sconsolatamente davanti ad un muro dov’è dipinto un cerchio di stelle, simbolo di quella Unione europea che avrebbe dovuto garantire a tutti (o solo ad alcuni dei suoi cittadini?) libertà, eguaglianza e fraternità. Ma i suoi strali sono rivolti soprattutto verso i connazionali polacchi che, ai giorni nostri, si comportano come nazisti nell’ambito di un’Europa che dovrebbe essere il faro della civiltà e della democrazia (Europa Europa si intitolava già un suo film del 1991, che raccontava le peripezie di un ebreo tedesco sballottato durante la Seconda guerra mondiale tra la Germani nazista, la Polonia e la Russia bolscevica). Oltre alle azioni violente, la Holland mette in scena anche due scene parlate dal forte sapore politico: una concione fatta ad un ufficiale della polizia di frontiera ai propri uomini, per incitarli all’odio e al disprezzo, e una veemente invettiva contro la leadership polacca, urlata da un uomo con problemi psicologici, ma probabilmente molto condivisa dalla Holland. E’ interessante che il governo polacco abbia risposto al film (che ha avuto un ottimo esordio in patria in termini di spettatori) con azioni di boicottaggio e ritorcendogli contro (chissà in base a quale logica perversa) le accuse di nazismo. Se il Ministero dell’Interno ha obbligato a proiettare nei cinema, prima del film stesso, un video governativo che smentisce preventivamente quanto verrà poi mostrato nel film, lo stesso presidente Duda lo ha commentato con la frase “solo i porci si siedono al cinema”, rievocando uno slogan utilizzato contro i film di propaganda ai tempi del nazismo. Detto questo, a parte un approccio che vuoi per la struttura a mosaico vuoi per la distanza che la Holland mantiene dai suoi personaggi, anche nelle scene più convulse, non favorisce l’empatia con i protagonisti (è probabilmente una scelta di sobrietà: si assiste inorriditi ma a ciglio asciutto), ci sono un paio di cose che non mi hanno convinto nel film. La prima è un peccato (ammesso che lo sia) veniale: dopo un solo giorno dall’arrivo il patriarca della famiglia, che indossa le proprie scarpe, ha già le piante dei piedi orribilmente piagate. Mi è sembrata un’anticipazione un po’ forzata degli orrori che seguiranno. La seconda mi ha disturbato di più: nel finale tutti i protagonisti (per lo meno quelli sopravvissuti) si ritrovano al confine insieme ai profughi provenienti dall’Ucraina. La Holland intende sottolineare il diverso atteggiamento dello Stato polacco, che respinge crudelmente qualche decina di migliaia di profughi mediorientali, ma accoglie generosamente (una generosità che, proprio in queste ore, sta entrando anch’essa in crisi) milioni di profughi della vicina Ucraina. Ma nel rappresentare i profughi ucraini si mostrano, con un’insistenza certamente non casuale, gli animali domestici portati in salvo dai profughi ucraini: cagnolini, gatti, uccellini - che patiscono il freddo. Le situazioni di partenza sono certamente diverse, ed era giusto mettere in rilievo la differenza di trattamento tra i profughi ucraini e quelli extraeuropei; ma in questo modo mi pare che la stessa Holland rischi di classificare a sua volta i profughi in profughi di serie A e di serie B: da una parte i reietti mediorientali, i cui vecchi e bambini muoiono nel tentativo di attraversare il confine, dall’altra gli ucraini, che invece si prendono il frivolo lusso di salvare gattini e uccellini, forse dimenticando che anch’essi fuggono da una guerra d’invasione, da distruzioni, bombardamenti, violenze, deportazioni, dopo aver magari perso casa, beni e persone care.
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KAFKA A TEHERAN (Ayeh haye zamini - Terrestrial Verses) di Ali Asgari e Alireza KhatamiKafka a Teheran è dichiaratamente, fin dalla struttura paratattica e dallo stile di ripresa, un film a tesi. In 77 minuti il film racconta nove brevi aneddoti, che insieme compongono un quadro della vita e della società nell’Iran contemporaneo. Ma si ha la certezza che di storie altrettanto esemplari (in senso negativo) se ne potrebbero trovare molte ma molte di più, nella Teheran che nel prologo emerge dal silenzio e dal buio della notte fino alla cacofonia di voci e rumori man mano che progredisce la luce del giorno, e che quello proposto sia solo un umile e modesto campionario rappresentativo di una realtà ben più ampia e, purtroppo, più tragica. Se infatti è facile sorridere delle piccole vicende e dei soprusi minimali raccontati nei nove tablaux di cui si compone il film (e ispirati a casi reali di vita vissuta), è difficile dimenticare che nell’Iran che sta oltre lo schermo, solo nell’ultimo anno, a seguito delle proteste per la morte in una stazione di polizia di una ragazza fermata perché indossava male il velo, sono state uccise dagli agenti del regime teocratico oltre 600 persone ed effettuati oltre 20.000 arresti (si tratta nell’uno e nell’altro caso, in gran parte, di vittime giovani e giovanissime). Hanno fatto benissimo quindi le autorità iraniane, nella loro logica ottusa, odiosa e pervertita, a ritirare il passaporto ad Ali Asgari, che tornava in patria dopo la presentazione del film a Cannes, e a proibirgli di lasciare il paese e di lavorare ad altri progetti cinematografici. Se si pensa che in paesi come Russia, Algeria, Kuwait, Libano non si può proiettare Barbie (!), che in Polonia il governo polacco boicotta e insulta il film The Green Border della Holland, che l’Iran incarcera o impedisce di lavorare ad alcuni tra i suoi più acclamati registi come Jafar Panahi, ci si rende conto come il cinema sia anche oggi un’efficace e sensibile cartina di tornasole del clima e del livello di oppressione culturale oltre che politica che investe gran parte del mondo, dai regimi teocratici alle cosiddette democrazie illiberali che allignano nel cuore dell’Europa o ai suoi confini. Kafka a Teheran (un titolo più didascalico rispetto all’originale, traducibile in Versetti terrestri, e preso in prestito alla poetessa e regista Forough Farrokhzad, femminista ante-litteram nell’Iran degli anni ‘50-60) è in effetti un preciso e puntuale discorso sul potere, e nello specifico su come il potere politico-religioso venga esercitato in modo arbitrario e oppressivo nel regolare ogni anche minimo aspetto della vita delle persone, fino ad esiti grotteschi che conferiscono al film una sfumatura addirittura umoristica. Non si può dare al figlio il nome che si desidera, a meno che non compaia nella lista ufficiale dei nomi accettati (David non c’è); non ci può tatuare i versi di una poesia sulla propria pelle, pena vedersi rifiutare la patente di guida; se si è una bambina non si può andare a scuola in jeans e maglietta, ma bisogna impaludarsi in palandrane e sovrapalandrane per nascondere forme che neanche ci sono; se si lavora nel cinema può capitare di dover strappare dalla sceneggiatura pagine e pagine sgradite, sotto gli occhi dei membri della commissione di censura; non si può portare a spasso un cane, animale impuro, e ovviamente, se si è una ragazza, non si può salire in moto con un maschio o non si può avere un lavoro se non si è “carine” con il padrone o non ci si può togliere il velo nemmeno nell’abitacolo della propria macchina. Come in un universo kafkiano, tutti sono colpevoli di qualcosa, a prescindere, tutti sono giudicati da un potere superiore a volte senza nemmeno capire di cosa vengono accusati. Ali Asgari e Alireza Khatami adottano una precisa e radicale scelta stilistica, efficace e funzionale nella sua semplicità: i protagonisti dei singoli episodi, tutti ambientati in interni (e si capisce perché) vengono inquadrati frontalmente, a camera fissa, nell'opprimente formato 4:3, chiusi in una gabbia visiva senza vie d’uscita. Di contro, le loro controparti (presidi, datori di lavoro, censori, poliziotti, impiegati statali o comunali, o perfino commesse di un negozio di abbigliamento - declinazioni burocratiche che si insinuano fin nel quotidiano più ordinario della vita delle persone), rimangono costantemente fuori campo (al massimo intravediamo ai margini dell’inquadratura il gesto di una mano, oltre a sentire le loro voci), funzioni senza volto di una qualche forma di potere, sempre opprimente e vessatorio, onnipresente e vigile anche quando non è visibile. I dialoghi (che riecheggiano il "dibattito", una forma persiana di poesia a botta e risposta, ma anche stilemi del cinema iraniano, che se vuole essere significativo deve essere anche reticente) sono spesso iterativi, circolari: circoli viziosi dialettici da cui raramente si riesce a svicolare in qualche modo. Ma non è del tutto vero che in Kafka a Teheran siano assenti movimenti di macchina. Ce n’è in effetti uno, ma uno solo, nell’epilogo. Viene inquadrato un decimo personaggio, un uomo anziano che rimane muto davanti ad una scrivania, chiude gli occhi, piega la testa sul petto; alle sue spalle una grande finestra con vista sulla città, verso la quale, finalmente la macchina da presa avanza: supera il vecchio e si ferma davanti ai vetri, in una veduta dall’alto che ricorda quella del prologo. Ma, ad un tratto, dopo un rombo che aveva echeggiato anche nel corso di altri episodi, gli oggetti e i mobili nella stanza cominciano a tremare, e facciamo in tempo a vedere grandi edifici che crollano e si accasciano su se stessi nel cuore della città, prima che la ripresa si interrompa. La premonizione di un terremoto che verrà, atteso e temuto, una rovina da cui si spera possa rinascere una società più libera e giusta. Ma per ora dopo la distruzione c’è solo uno schermo nero. P.S.: proprio mentre scrivo questo pezzo, arriva la notizia dell'assegnazione del Premio Nobel per la Pace a Narges Mohammadi, che da anni si batte per la libertà, l'eguaglianza e la democrazia in Iran, e per questo arrestata 13 volte, condannata 5 volte, condannata a 31 anni di carcere e a 154 frustate. IO CAPITANO di Matteo GarroneQuando ho visto per la prima volta il trailer di Io capitano mi sono chiesto come ci fosse arrivato Matteo Garrone in Africa (un progetto di delocalizzazione così radicale da parte di una autore europeo, un'immersione così profonda nella realtà di un altro continente, con una storia africana, attori e musiche africani, senza la presenza di un solo bianco sullo schermo, lo ritrovo a mia memoria in anni recenti solo nel Twist a Bamako del marsigliese Guediguian), e come si conciliasse una rappresentazione all'apparenza neorealista di una storia di migrazione con un percorso autoriale approdato alla figuratività barocca e favolistica di Pinocchio e de Il racconto dei racconti.
Mi sono così rinfrescato la memoria sulla filmografia di Garrone, e ne ho ricavato l'impressione che la costante del suo cinema (se ce n'è una, in un percorso che è comunque quello di un autore dotato di indubbia e fortissima personalità) è forse rintracciabile proprio nel suo rapporto con le diverse strategie di approccio al reale (ho scoperto di averne già scritto nel breve saggio Il falegname, l'alchimista e l'imbalsamatore, sul n. 222 di SegnoCinema del marzo 2020). Il cinema di Garrone può così trascorrere dal (neo)realismo quasi documentaristico al minimalismo sociologico e cronachistico delle prime opere; dall'iperrealismo noir de L'imbalsamatore e di Dogman al realismo grottesco e stilizzato di Gomorra e di Reality (ecco un titolo che è una dichiarazione di intenti e nello stesso tempo un tentativo di depistaggio); dai capricci barocchi e visionari dei film favolistici al realismo magico di Io capitano. In una sorta di sintesi si potrebbe dire che nell'ultimo film si incontrino gli estremi della sua carriera, dalle storie di ordinaria immigrazione di Terra di mezzo o Ospiti al racconto avventuroso e picaresco di Pinocchio, di cui Io capitano conserva del resto anche la strutturazione paratattica degli episodi. Come Marco e Ciro di Gomorra che aspirano il Paese dei Bengodi del benessere camorristico, come i discoli Pinocchio e Lucignolo che cercano il piacere eterno della Città dei Balocchi, così gli aspiranti musicisti senegalesi Seydou e Mossa sognano la fama e il successo che potrà essere tributato loro solo nella Terra promessa dell'Europa. Suggestioni mitiche a parte (si è molto speso il termine “odissea” per trovare un progenitore nobilitante del viaggio dei due ragazzi attraverso l'Africa – Appunti per un'Odissea africana si potrebbe quasi titolare, parafrasando forse non gratuitamente Pasolini), la potenza di Io capitano è però per una volta, fatto piuttosto inedito nel cinema di Garrone, nel nudo racconto dei fatti e nel messaggio umanistico e politico, che l'autore, in quest'epoca così terribilmente difficile, ha voluto addirittura epitomizzare nel titolo stesso del film. Gli stessi momenti onirici-poetici, che tanto posto hanno preso nella percezione degli spettatori e dei commentatori, sono solo due in tutti il film, e in entrambi casi rappresentano icasticamente il senso di colpa del protagonista e la forza del suo desiderio di ricucire una realtà che si va lacerando ogni giorno che passa, ad ogni passo del suo viaggio reale pieno di orrore e di terrore. In entrambi i casi si tratta di un ritorno (ci si riallaccia allora al tema dell'odissea omerica, che non è un viaggio verso l'altrove, come quello di Deydou e Mossa, bensì di un lunghissimo ritorno a casa): Seydou torna sui propri passi per redimere dalla morte una donna abbandonata nel deserto e farla volare nel cielo; Seydou torna in volo nel cielo fino a casa, per salutare la madre che ha deluso e ingannato. Ma l'intento di Garrone era quello di mostrarci, al di là delle fughe risarcitorie del sogno, la realtà “vera” della migrazione, così come raccontata da tanti testimoni, capovolgendo il punto di vista dal quale siamo solito guardarla come spettatori e abitanti dell'Occidente opulento e geloso. Non vedremo lo sbarco, ma una partenza ed un viaggio; non vedremo l'accoglienza e il respingimento, ma l'anelito e la spinta verso una meta agognata (non per sfuggire alla povertà o alla guerra, come si è spesso sottolineato, ma per l'aspirazione ingenua ma legittima ad una vita migliore); non il percorso di integrazione o di ripulsa, ma un viaggio doloroso dove (come nel romanzo di Collodi) la trasgressione al destino radicato nella propria terra comporta il rischio di perdersi e di venire derubati, di venire rapiti e torturati, di rischiare la morte, nel ventre di balena di un carcere della mafia libica o mangiati dai pesci sul fondo del Mediterraneo. Se io stesso fatico a liberare il film di Garrone dai suoi riferimenti mitico-favolistici, che peraltro non si sovrappongono mai (a parte le due sequenze citate) al registro eminentemente realistico della rappresentazione, occorre fare un passo a vanti e seguire Seydou nella sua presa di coscienza, nel suo percorso di maturazione, di crescita, di emancipazione. Seydou, che assume incoscientemente, per necessità e disperazione, la guida di un barcone pieno di profughi che deve affrontare la traversata del mare sconosciuto tra la Libia e l'Italia, al suo arrivo non sarà più il ragazzo ingenuo e sognatore che era all'inizio. E non sarà nemmeno un burattino di legno che si trasforma in un bambino obbediente e giudizioso. Perché Seydou non ha obbedito, ma ha preso il timone nelle sue mani; si è fatto (letteralmente) carico dei suoi simili; ha combattuto per salvare le loro vite; non ha permesso che nessuno morisse sulla sua barca (anzi, qualcuno vi ha visto la luce). In spregio agli europei chiusi nei loro egoismi e ai nostri connazionali che li vorrebbero morti o lontani dai loro occhi e del loro cuore, di fronte all'indifferenza di un elicottero rumorosamente e minacciosamente immobile sopra la sua testa, Seydou ha imparato o forse ha serbato una lezione incommensurabile che rivendica a gola spiegata: che nessuno si salva da solo e che l'impresa più grande che un uomo possa compiere è pensare agli altri e battersi per loro. Dopo i premi assegnati a Garrone e al protagonista Seydou Sarr alla Mostra del Cinema di Venezia (dove è stato premiato anche The Green Border di Agnieszka Holland, sul "confine verde" tra Bielorussia e Polona) , senza neppure ripassare la lista degli altri candidati, sono contento di vederlo rappresentare il nostro Paese (in un'epoca in cui i Fratelli sono solo d'Italia) agli Oscar 2024. THE OLD OAK di Ken LoachPaul Laverty collabora con Ken Loach dal 1996: The Old Oak è (contando anche un paio di cortometraggi per film ad episodi) il sedicesimo episodio della loro pluridecennale collaborazione. Ken Loach è nato nel 1936, e ha quindi oggi 87 anni; può essere – così ha detto lui stesso – che The Old Oak sia il suo ultimo film.
E veramente Loach è la vecchia quercia, del titolo e del cinema inglese, e Laverty è le sue radici che lo tengono ancorato al terreno del suo impegno civile, del suo cinema militante e resistente, del suo instancabile anelito umanistico. Anno dopo anno, film dopo film, prima e dopo la collaborazione con Laverty, Loach ha costruito un formidabile affresco dedicato agli ultimi e ai penultimi della società, uomini e donne invisibili che lottano a volte senza nemmeno rendersene conto non solo contro il neocapitalismo, la povertà, lo sfruttamento, ma anche contro il mondo così com’è, in nome di ideali superiori di umanità e di solidarietà. Nei titoli italiani dei suoi film si fa riferimento per ben tre volte alla libertà: e si tratta appunto non di una libertà generica, ma la liberazione dalla povertà, dallo sfruttamento, dalla sopraffazione, sognando costantemente una società e un mondo più equi, più giusti e più solidali. The Old Oak sembra mescolare il passato con il presente, tanto della recente storia inglese che del cinema stesso di Loach. Nel paese di Durham, nel retro del pub The Old Oak, sono appese le fotografie in bianco e nero degli scioperi dei minatori. Tutta la comunità si era mobilitata a favore degli operai, ed erano state allestite grandi mense solidali per sostenere i lavoratori in lotta. La mente va ai film “operai “ di Loach, dal 1991 di Riff Raff al 2001 di Paul, Mick e gli altri (scritto da Rob Dawber, un ex-ferroviere licenziato durante le privatizzazioni e morto di un cancro per esposizione all’amianto prima di poter vedere il film sugli schermi). Ora le miniere sono comunque chiuse, il villaggio è in declino e l’Old Oak è l’unico spazio sociale sopravvissuto, quando perfino la sala parrocchiale ha cessato di aprire i battenti. L’arrivo nel paese impoverito, intristito e incattivito di una vagonata di profughi siriani sembra a molti degli abitanti una beffa e un’ingiustizia; ma TJ Ballantyne, il gestore dell’Old Oak, malgrado la vita non sia stata gentile con lui, al punto che in un certo momento ha pensato perfino di abbandonarla, non si arrende al livore, alla ricerca di un capro espiatorio ancora più debole e indifeso su cui sfogare rabbia e frustrazione. Insieme alla giovane profuga Yara, e alla compagna di solidarietà Laura, si ripartirà da dove si era rimasti: da una mensa comune, dalla solidarietà, dalla condivisione del cibo e del necessario; da tutto ciò che può portare all’aiuto, alla conoscenza reciproca e all’accettazione dell’altro. The Old Oak non è certo uno dei migliori esiti del sodalizio Loach-Laverty, che ancora solo nel 2019 ci aveva emotivamente e politicamente tramortiti con l’intenso e appassionante Sorry, We Miss You. Se Dave Turner ha il fisico del ruolo e una totale credibilità per calarsi nei panni del protagonista, la scrittura sembra a tratti caricata (il passato che appesantisce il personaggio di Ballantyne), a volte semplicistica e quasi facilitata (la profuga siriana è una giovane donna di gradevole aspetto e senza velo; i profughi sono tutti brave persone; la convivenza non sembra affatto problematica, non fosse per alcuni residenti bevitori, livorosi e strafottenti; il finale convoca una folla immensa per presentare le condoglianze per la morte di un uomo che nessuno in paese ha mai visto né conosciuto, con un profluvio di fiori e peluche), e la regia a volte sembra perdere qualche colpo (la scena della perdita del cagnolino, o lo stesso finale). Ma il messaggio resta forte e chiaro, e per una volta tanto è più importante del risultato puramente cinematografico. Insomma, non può finire così. Di film di Ken Loach (e di sceneggiature di Paul Laverty) ne vogliamo ancora. E se non ce ne fossero più ci lascerebbero un vuoto incommensurabile e un commosso rimpianto. FELICITA' di Micaela RamazzottiNon ho elementi né informazioni sufficienti per stabilire se ci siano delle radici o delle motivazioni autobiografiche dietro la finzione di Felicità. Quello che è certo che Micaela Ramazzotti rivendica convintamente, appassionatamente, la necessità di scrivere (la sceneggiatura è firmata da Isabella Cecchi e Alessandra Guidi), girare e interpretare questa storia. All'esordio come autrice, quello che mi ha sinceramente e profondamente stupito è l'adesione totale della Ramazzotti all'immagine cinematografica che altri autori (maschi) le hanno costruito – forse non a caso – addosso, dove perfino il titolo scelto, ironicamente beffardo, sembra perfettamente in linea con una carriera fitta di cose belle e cuori grandi, tenerezze e gioie pazze, anni felici e anni ancora più belli. Desiree, la protagonista del film interpretata dalla Ramazzotti, che porta a sua volta un nome antifrastico, è quindi una sorta di compendio e di miscuglio dei precedenti personaggi dell'attrice: è cioè di nuovo una giovane donna bionda, un po' svampita, spontanea, ingenua, incolta e un po' volgare, fin troppo sincera, che commette errori ma animata sempre da buoni sentimenti. In questo caso Desiree, parrucchiera per le produzioni cinematografiche, è succube di varie relazioni tossiche. Da una parte c'è una famiglia mostruosa, con un padre (Max Tortora, già cattivo padre ne La terra dell'abbastanza) intrattenitore televisivo di mezza tacca per emittenti di mezza tacca, che aspira velleitariamente a fare un salto di qualità nel mondo del cinema senza possedere alcun talento ma che intanto sfrutta la bontà della figlia per estorcerle denaro con ogni pretesto; una madre (Anna Galiena, già – allora seducente - parrucchiera ne Il marito della parrucchiera) complice del turpe marito; e un fratello (Matteo Olivetti, anche lui abitante de La terra dell'abbastanza) psichicamente problematico che non è in grado di badare a se stesso o di mantenersi con un semplice lavoro malgrado i finanziamenti della sorella. Dall'altra c'è Bruno, un intellettuale egocentrico che forse la ama davvero, ma non può esimersi dal trattare con irritata insofferenza l'impresentabile naïveté della ragazza. Sullo sfondo, un ambiente di lavoro dove tutti i maschi sono pronti ad attingere alla sua proverbiale generosità sessuale. Desiree è un cuore semplice (casualmente la protagonista del racconto di Flaubert che porta questo titolo si chiama Felicité) che, (fatte salve le debite innumerevoli differenze) come la Bess de Le onde del destino, si prodiga letteralmente anima e corpo per chi ama, fino al sacrificio, elargendo con generosità denaro, fiducia malriposta, protezione sororale, sesso e pompini, sempre alla ricerca morbosa e frustrata di quel riconoscimento che i suoi genitori le hanno sempre negato. Adeguandosi (come la Barbie Stereotipo del film con Margot Robbie) anche come interprete ad un ruolo-stereotipo che evidentemente sente proprio, la Ramazzotti autrice imposta su una chiave quasi macchiettistica anche gli altri personaggi, a cominciare dai due genitori, loschi come un Gatto e una Volpe pinocchieschi, eccessivi e sopra le righe; abbozzando senza troppo approfondimento il complessato fratello e mettendo addirittura in costume come una cosplayer la sua compagna d'istituto psichiatrico. Il personaggio forse più sfumato spetta forse al di solito istrionico Rubini, che qui disegna con finezza un personaggio che, per quanto antipatico, sembra tutto sommato quello più ragionevole. Anche il tono della narrazione si adegua all'impostazione generale, forzando alla ricerca di un verismo borgataro colorito e di un ritratto femminile popolaresco e fragile per cui tifare e simpatizzare. Un primo tentativo registico per la Ramazzotti forse non ancora maturo e ingabbiato dal proprio cliché interpretativo, ma indubbiamente – come l'avrebbe voluto Desiree - generoso: il pubblico le ha dato credito e ragione, attribuendole il relativo premio all'ultima Mostra del Cinema di Venezia. UN BEL MATTINO di Mia Hansen-LøveNel 1970 Claude Sautet girò con Michel Piccoli, Romy Schneider e Lea Massari un film intitolato (come il romanzo da cui era tratto – ma in Italia fu distribuito come L’amante) Les choses de la vie, le cose della vita.
E mi sembra indubbio che il cinema francese sia stato e sia tuttora il miglior narratore in assoluto delle choses de la vie, cioè quelle che (almeno in un’ottica di media borghesia occidentale) capitano a tutti, la vita quotidiana e ordinaria, che non per questo non comprende cose grandi e grandi prove come l’amore, la passione, la speranza, la malattia, la morte. E’ un cinema che racconta con partecipazione ma con discrezione, con sensibilità ma senza sensazionalismo. Un cinema senza forzature melodrammatiche, senza deformazioni comiche, senza psicologismi contorti e senza crudezze, senza scene madri e colpi di scena. Ma un cinema nelle cui vene si sente scorrere e pulsare il sangue della vita. E’ il cinema di Mia Hansen-Løve, che in Un bel mattino racconta con grazia sofferta e miracolosa una tranche de vie della giovane donna Sandra, parigina, traduttrice simultanea di professione, rimasta vedova troppo presto, con una bambina di otto anni che dipende totalmente da lei e un padre intellettuale che sta sprofondando nel buio smemorato di una malattia neurodegenerativa. Il doloroso itinerario in cui Sandra segue il declino del padre, tra ricoveri, case di cura e di riposo, si affianca e si intreccia a quello iniziato invece a fianco di Clément, un amico d’infanzia, ora sposato, con la quale inizia un’appassionata ma altalenante relazione. Da una parte c’è un affetto che vacilla, davanti allo sconfortante avanzare della malattia; c’è la sofferenza nella necessità di smembrare la grande libreria del padre, percepita come un ritratto della sua personalità, del suo carattere, delle sue scelte e dei suoi interessi, che perde i pezzi come la mente ammalata del suo proprietario; ma anche la decisione di regalare i libri ai suoi studenti e discepoli, un tentativo di perpetuare la conoscenza e di trasmetterla ai più giovani, e quindi di fare in modo che un’eredità materiale e simbolica della personalità paterna sopravviva in qualche modo nel futuro. Dall’altra parte c’è un amore che nasce, o meglio rinasce o si manifesta. Un legame sentimentale intriso di complicità e di forte passione erotica; ma che stenta a consolidarsi per i dubbi, i tentennamenti, gli abbandoni e i ritorni di Clément, che non riesce ancora a staccarsi dalla moglie e dal figlio, mentre la figlioletta di Sandra deve cercare e trovare il proprio equilibrio in questa situazione sentimentale nuova e precaria. La Hansen-Løve, che attinge anche a materiale autobiografico (il taccuino del padre di Sandra che si vede nel film è effettivamente lo straziante taccuino del padre di Mia) trova la misura perfetta per il suo racconto, l’equilibrio ideale e toccante tra la pesantezza del vivere (e del morire) e la leggerezza dell’amore e della speranza. I ruoli di Clément e di Georg, il padre, sono affidati a due dei più brillanti e attivi attori della scena francese, rispettivamente Melvil Poupaud (atteso anche nel nuovo Woody Allen francofono, Coup de chance) e Pascal Greggory (i due sono insieme anche nel recente Jeanne du Barry di Maiwen), mentre l’acida ma combattiva ex-moglie del padre è interpretata dall’attrice e regista Nicole Garcia. Ma è in Lea Seydoux (dai capelli corti quasi come quelli di Jean Seberg nel godardiano Fino all’ultimo respiro e mai restia a mostrare il suo corpo nudo) che il film trova il suo centro, il suo cardine, il suo volto il suo corpo e il suo cuore, la sua ragion d’essere. La Seydoux si conferma ancora una volta interprete duttile, sensibile, intensa, sia nella sofferenza che nella passione, sia nello sconforto che nella speranza. Non si può non augurare al suo personaggio che finalmente sorga un bel mattino. LABOUR FILM FESTIVAL - 19a edizione |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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