BLADE RUNNER 2049 di Denis Villeneuve Dopo aver incrociato più volte i guantoni a distanza, Mauro Caron e Oruam Norac, già campioni italiani di critica schizofrenica, si affrontano finalmente face to face sullo stesso ring. Il motivo del contendere vale la pena di uno scontro: BLADE RUNNER 2049. Oruam Norac (ON): Quindi? Mauro Caron (MC): A te magari è piaciuto? ON: Beh, direi che se la sono cavata con onore. Toccare un film cult comporta sempre un rischio altissimo. Direi che Villeneuve e compagnia sono stati onesti. La coerenza con il primo Blade Runner c’è tutta. Persino lo smarrimento nel labirinto dell’umano-non umano. Oserei dire che è un film più dickiano del primo episodio. MC: Mmh. ON: Ma a te Blade Runner almeno era piaciuto? MC: Se ti dicessi mica tanto? Prima di andare a vederlo pensavo sarebbe stato il film della mia vita. Non è stato così. Una Rachel così poco sexy (sarà stata colpa degli anni ’80), un cacciatore così inefficiente, le lacrime “che si confondono con la pioggia” e le colombe bianche che frullano in volo al rallentatore mentre Harrison Ford segue il tutto con lo sguardo da ebete. Tappati le orecchie che sto per dire un’eresia: un misto tra John Woo e Baci Perugina. Una delle cose che mi aveva intrigato di più era la voce off, che contribuiva così tanto al tono noir, e Ridley Scott ha pensato bene di eliminarla dal director's cut... ON: Ah beh, cominciamo bene. Sarà difficile allora convincerti della bontà di 2049. Eppure nota bene che è un seguito che non gioca, come succede di solito, la logica scontata della moltiplicazione/accumulazione. Di solito il secondo episodio segue la via facile della proliferazione. Se nel prototipo c’era un alien, nel secondo episodio metticene a decine. Se ci sono tre velociraptor nel secondo metticene di più, e dei T-Rex, e così via. 2049 invece vola intenzionalmente basso, si mantiene quasi speculare al primo. Se là c’era un eroe umano che forse era un replicante, qui c’è un replicante talmente umano da dubitare di poter essere umano. E non solo: 2049 è straordinariamente coerente anche con il precedente film di Villeneuve, Arrival. Anche qui c’è al centro c’è una storia della tua vita, un concepimento anomalo: là dovuto a un corto circuito temporale, qui ad un corto circuito genetico. Ah, aspetta, e poi c’è anche la coerenza visiva: Arrival era un film giocato su un uovo nero e uno schermo bianco, e anche qui mi sembra ci sia un’ammirevole economia figurativa; e anche rispetto al primo Blade Runner, malgrado gli anni passati e la disponibilità di effetti speciali che una volta non c’erano, gli autori hanno avuto il buon gusto e il pudore di mantenere una certa continuità iconografica. MC: Va bene, ma non è (solo) con la coerenza che si fanno bei film. Un film va giudicato per se stesso, non perché assomiglia a qualcun altro. ON: E’ vero, ma solo in parte. Un film non è un’isola, ogni film interpella la nostra memoria di spettatori, in un gioco anche inconscio di confronti e rimandi, e poi qui stiamo parlando di un sequel, che per natura fa riferimento ad un altro film. Anzi, si pone umilmente nella situazione di essere figlio di un altro film, rispecchiando la fabula in cui K è o potrebbe essere il figlio di Deckard. MC: A te è piaciuta la coerenza. Ma secondo me il film ha la colpa imperdonabile di non reinventarsi un immaginario. Non solo sono passati 35 anni fa dal primo film, con tutto quello che hanno comportato in termini di evoluzione tecnologica e iconografica, ma sono passati anche 30 anni dentro il film. Eppure poco sembra cambiato. In fondo tutto quello che c'è in BR 2049 c'era già tutto e anche meglio in un film come Ghost in the Shell. ON: Però ammetterai che le sequenze aeree della discarica e quella della lotta nel teatro degli ologrammi sono molto belle. MC: Ologrammi. Senti come suona già vecchia la parola? Con un 2049 dove si ascolta ancora Frank Sinatra? Dove si spara con le pistolone e le carrozzerie delle automobili sembrano prese da uno sfasciacarrozze degli anni ’80? ON: Però insisto: secondo me il pregio di Villeneuve sta proprio nell’umiltà, nel modo in cui non ha voluto soppiantare un immaginario con un altro, nel tenersi fedele alla traccia, nel non lasciarsi contaminare da tutto ciò che è venuto dopo. In un certo senso 2049 contiene in sé già la propria critica, a proposito dell'impossibilità di ricreare il passato - neppure grazie al cinema -, come nella scena della ricreazione della Rachel "sbagliata", o nelle sequenze del teatro degli ologrammi con le immagini smangiate di Presley e di Sinatra... Blade Runner 2049 è il futuro prossimo di Blade Runner, non altro. Così doveva essere. Anzi, il film che più mi è tornato alla memoria come referente visivo, BR a parte, è un film più o meno coetaneo, L’elemento del crimine di von Trier. E guarda caso anche in quel caso si trattava di fantascienza contaminata con il noir, e che nascondeva una tematica esistenzialista e identitaria. MC: Sarà. Ma io gli faccio una colpa di non avermi mai stupito. Wallace è l’ombra di Tyrell, K è l’ombra di Deckard, Los Angeles è sempre quella, Joy è ancora più fantasmatica di Rachel. Non solo, il film si porta dietro perfino i difetti di disegno dei caratteri dell’originale. Deckard era un blade runner inetto, totalmente inadeguato alla missione affidatagli: uno che si salva solo per fortuna, per gli interventi di qualcun altro, o addirittura perché i replicanti sono talmente superiori, fisicamente e spiritualmente, da non prendersi nemmeno la briga di ammazzarlo. Se fa fuori un replicante, è sparando nella schiena a una donna. K. è più o meno di altrettanta inettitudine: il primo replicante si fa uccidere per nascondere un segreto, poi più volte K si trova in difficoltà ed è salvato da droni telecomandati che sparano missili (ti rendi conto di quanto povera sia questa fantascienza? In questo momento droni telecomandati stanno già sparando missili da qualche parte in Medio Oriente), o dai replicanti ribelli. ON: Ti stai soffermando su dettagli trascurabili, stai perdendo di vista l’orizzonte mitico-filosofico del film. A me è piaciuto molto come il film gioca con i miti universali, estraendo il tema della maternità, di cui nel primo film non c’era traccia, dal nome della sua protagonista, Rachel, che evoca la Rachele biblica che morì di parto. O come trasforma l’investigazione del protagonista in una ricerca della propria origine, della propria identità e natura, della propria paternità. Edipo puro. MC: Invece io credo che gli sceneggiatori si siano fatti prendere la mano e abbiano perso il senso delle proporzioni. Anche nella tematica umano-non umano: i replicanti di 2049 sono più umani degli umani. Piangono in continuazione, o hanno sempre gli occhi lucidi come se stessero per farlo. Provano nostalgia, tristezza, solitudine. Soccombono nella lotta, sono vulnerabili, sanguinano, muoiono, non reggono nemmeno sott’acqua. Che replicanti sono? In cosa sono superiori o diversi dagli uomini e dalle donne? Che senso ha? Hanno esagerato; così non c’è più differenza, non c’è più la tensione umano-non umano, appunto. Anche Ishiguro in Non lasciarmi si era reso conto dell’incongruenza dei suoi cloni eccessivamente umani, e si era inventato l’espediente dell’esperimento umanistico di Hailsham. ON: Ma è una fantascienza umanistica, esistenziale, ancora una volta mi sembra che stai perdendo di vista l’essenziale, il senso. Ovviamente il film parla di noi, non di androidi replicanti. Di quanto possiamo sentirci soli, estranei, precari, senza figli e senza padri. MC: Certo. E tuttavia è un film lento, inerte, un po’ lagnoso. Anche Arrival lo era, mi pare l’abbia detto anche tu. Si passa buona parte del tempo a guardare un Gosling inespressivo (l’espressione che gli riesce meglio) che cammina in ambienti inospitali. Sempre per restare su Villeneuve, ho trovato più tensione nella scena del corteo attraverso Ciudad Juarez in Sicario che in tutto 2049. Non fosse per il sound design che tenta disperatamente di ricordarci che stiamo vedendo un film che dovrebbe tenerci sulla corda (e grazie a Dio almeno non c’è l’elettro-pompier di Vangelis), probabilmente saremmo stati sopraffatti un invincibile torpore. ON: Ma non avevi neanche la curiosità di dove sarebbe andato a parare? MC: Proprio qui sta il punto: praticamente mai. E sai cosa mi preoccupa? Che Wallace è vivo e vegeto, Deckard e la sua figliola sono ancora in pista, i ribelli tramano nell’ombra, i replicanti per loro natura si possono replicare. Non è che dopo il reloaded ci aspetta pure il revolution? ON: Speriamo. MC: Speriamo di no.
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Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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