You can read the english version hereMIA PHOTO FAIR 2017 - The Mall, Milano, fino al 12 marzo Ancora oggi e domani si tiene a Milano, nel nuovo spazio espositivo The Mall, in piazza Bo Bardi, a Porta Nuova, il Mia Photo Fair, che segue di poche settimane l’Affordable Art Fair, la mostra dell’arte “abbordabile” tenutasi al Superstudio Più. La formula è simile: ospitalità alle gallerie, o anche a singoli artisti, piccoli spazi di esposizione, possibilità di acquistare le opere, ma nel caso della Mia il focus è ovviamente tutto sulla fotografia. Se siete degli appassionati di foto, l’occasione è ghiotta: ci sono 130 stand, il che vuol dire migliaia di opere esposte e centinaia di autori; gli stand non sono poi organizzati con la logica del bazar, ma hanno una loro coerenza interna, dedicata a uno o a pochi autori, o a tematiche o a Paesi (quest’anno è la volta di Brasile, Asturie, Ungheria). L’impressione è quindi quella di visitare tutte insieme (con un effettivo rischio di saturazione se si vuole vedere tutto) una miriade di piccole mostre, in cui è possibile farsi un’idea delle tendenze della fotografia contemporanea. Se in mostra si possono vedere anche alcuni dei grandi nomi della fotografia italiana e internazionale (per fare solo qualche nome alla rinfusa: Scianna, Salgado, Weston, Basilico, Klein, Berengo Gardin, Secchiaroli, Roiter, Araki, De Biasi, Polillo), molti sono i nomi e gli autori da scoprire, mentre si gira tra gli stand fotografando mentalmente (ma sfoderare lo smartphone e scattare non è proibito) le fotografie esposte e si cerca di capire da che parte tiri il vento della fotografia contemporanea. Operazione molto stimolante, ma difficile comunque trarre delle conclusioni; effettivamente in mostra c’è di tutto, dai ritratti (compresi quelli molto belli dedicati ai grandi del jazz, a Picasso, a Giacometti, a Sade) alle riflessioni sul corpo, la foto di paesaggio e quella architettonica, la foto di studio e di ricerca e così via. Trattandosi di opere che aspirano all’arte piuttosto che alla documentazione, il tratto comune è comunque quello della ricerca, dell’interpretazione della realtà, del tentativo di trovare nuove prospettive, nuovi modi di guardare, nuovi filtri estetici attraverso cui guardare al mondo. Grandi assenti, giustificati, quindi la fotografia di reportage e quella più propriamente naturalistica. E’ anche l’occasione per fare un viaggio attraverso le tecniche fotografiche, sia di ripresa e di manipolazione dell’immagine che di stampa su diversi supporti: si gira quindi tra le molte stampe su plexiglass, tra lightbox e retroilluminazioni, tra stampe lenticolari con un impressionante effetto tridimensionale (Jeffrey Robb) e collage, tra composizioni articolate e immagini fantastiche ottenute attraverso l’elaborazione digitale. E’ impossibile ovviamente, dare conto di tutto (e qualsiasi tentativo di racconto lascia necessariamente fuori molti artisti e opere anche di grande interesse), ma è anche al di sopra delle mie possibilità (mnemoniche prima ancora che di giudizio) fornire una guida ragionata o al meglio. Tento comunque di fornire qualche suggestione. Molto interessante ho trovato gli esperimenti illusionistici di commistione tra fotografia e pittura, come ad esempio nelle immagini di Claudio Gobbi (vincitore della V edizione del premio Bnl Gruppo Bnp Paribas) o dell’ineffabile Liu Bolin, che si fa dipingere il corpo con estrema accuratezza in modo da inserirsi su sfondi anche complessi con uno stupefacente effetto mimetico. Pure stimolanti le riflessioni sulla memoria e sulla sua corruttibilità (temi intrinsecamente connaturati alla teoria e alla pratica fotografica), come nelle deteriorate immagini famigliari di Camilla Biella (14 settembre (la memoria familiare)), o nella memoria che si trasforma in incubo nelle manipolazioni mostruose di Nico Mingozzi (Unbelievable Monsters), o ancora, passando dalle persone alle cose, nella ricerca di relitti navali in giro per il mondo da parte di Stefano Benazzo o negli ambienti dismessi di Marina Paris. Imprevedibili e affascinanti gli effetti delle riprese zenitali (riprese da droni o da elicotteri), come nelle immagini, di Massimo Sestini, di Antoine Rose, o di Kapcer Kowalski, dove, grazie al punto di vista insolito e innaturale, la realtà assume un aspetto da una parte perturbante e dall’altra suggestivo, ridisegnando la nostra percezione attraverso grafismi cui contribuiscono talvolta anche le ombre proiettate sul terreno. Molte ricerche si indirizzano all’astrazione (texture, geometrie architettoniche: v. tra gli altri Xavier Goodman, Carlo D’Orta, Carlo Borlenghi o Malena Mazza); tra i non molti che sembrano intervenire più direttamente in un discorso critico sulla società contemporanea citiamo la serie Il futuro gettato di Andrea Taschin o la Snow storm on the Cayman Islands, che fa scendere una fitta nevicata di dollari su una spiaggia esotica. La natura appare molto spesso filtrata, e appare quasi sempre remota, a volte portata quasi all’invisibilità dall’affiorare del bianco (neve, acqua) che la sommerge, come in Mario Daniele o in Pierre Pellegrini, o dal buio nel quale sprofonda (Piero Roi, Fabio Bucciarelli, le Terre incognite radiografate da Giorgio Majno, i contrasti esasperati di Mimmi Moretti, ecc.). Tra le immagini di sintesi, sorprendenti quelli di Maurizio Sapia, che usa la figura umana moltiplicata per comporre volumi impossibili (sfere, vortici) e formidabili i paesaggi impossibili del belga Eric De Ville. Per concludere saltando qua e là: molto interessanti gli esperimenti con la luce di Vera Rossi, che compone vere e proprie finestre verso illusori esterni, simpatico il portfolio su lettori e lettrici di Claudio Montecucco, divertenti le composizioni di Bernard Pras, che ricostruisce icone pop assemblando oggetti di uso comune, molto belli e intensi i ritratti di Tom Hoops e di Mart Engelen, geniale la riflessione sugli oggetti in rapporto alla prospettiva e alla luce di Mario Cucchi. La foto più bella? Non è nuova: il girotondo dei preti in tonaca nera sulla neve, di Mario Giacomelli (di cui si apre una personale a Legnano il 19 marzo). Ovviamente eventi, libreria, caffetteria, incontri con galleristi, artisti, esperti, ecc. Per informazioni e biglietti (un po’ cari): http://www.miafair.it/milano/.
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Umberto Seveso era un sestese. Ha vissuto l’infanzia nella villa Torretta, prima dimora nobiliare, poi cascina, edificio in rovina e oggi prestigioso hotel a 4 stelle, da cui dovette fuggire a causa di un grave incendio. Era una Sesto San Giovanni che oggi è difficile immaginare, tra i campi del nonno contadino e la nuova città delle fabbriche dove lavorava il padre. E’ quella che compare nei suoi dipinti, tra chiese e case di ringhiera, muri di fabbrica e spazi vuoti che oggi non esistono più. Gran parte delle sue diverse vite si svolgono qui: da una parte nella fabbrica in cui a sua volta lavora, in parte alla scuola civica “Federico Faruffini”, dove impara e approfondisce l’amore per la pittura. E’ operaio, pugile, pittore, ma anche emigrato in Australia, animatore culturale della sua città, partecipante e a volte cofondatore di iniziative come il Premio Piazzetta e il Quartiere delle botteghe. Oggi il centro culturale Valmaggi gli dedica una doverosa mostra, a meno di un anno dalla sua scomparsa. Una scomparsa che ha lasciato il vuoto, perché Seveso non è stato solo un protagonista di una fervida e forse irripetibile stagione artistica sestese (a fianco di artisti e amici come Diana Forassiepi, Giuliano Barbanti, Giancarlo Curone, Enzo Contini, Giorgio Marangon, Renzo Macchi, Enzo Basello, Lino Marzulli, Riccardo Perego), ma anche una persona dotata di grande umanità, di modestia e di senso dell’umorismo, un milanese (o un sestese) identificabile immediatamente dall’accento (il suo damm a trà è rimasto proverbiale per tutti quanti l’hanno conosciuto) e di cui forse si è perso lo stampo. La pittura per lui non è mai sembrata essere un lavoro, né un mezzo di affermazione di sé; incurante delle logiche del mercato, dipingeva per vocazione, per necessità intima, cedendo a volte le sue opere per un prezzo che superava di poco o nulla quello della cornice che la conteneva. In mostra ritroviamo i suoi temi preferiti, i suoi “periodi” (peccato non avere in mostra informazioni sull’epoca di realizzazione dei dipinti, peraltro a volte di non facile datazione: su un suo quadro ho trovato tre date diverse, a conferma di una ricerca continua, di un’insoddisfazione che spinge a rimettere mano, a ritoccare, a cercare ancora): i paesaggi, i ritratti, gli animali, i ritratti, i personaggi del circo, gli angeli, le teste. I suoi paesaggi nudi degli anni ‘50, la Torretta, la chiesa di Santo Stefano, visti da prospettive oggi perdute, risvegliano echi sironiani. Sono abitati da presenze umane: uomini, donne, un carrettino tirato da un cavallo, bambini, saltimbanchi. A volte sono figurine in lontananza, a volte vengono in primo piano: presenze mute, spesso immobili, riprese di fronte. Si capisce che appartengono profondamente a quelle periferie, a quella Sesto antica, dimessa, vicina a Milano eppure lontana, sfiorata dal progresso delle fabbriche e della modernità ma non intaccata, immote in una quieta drammaticità priva di tempo e di storia. A volte un filo di perle - un arco di piccole pennellate che allineano tondini bianchi intorno al collo di qualche figura femminile - segna appena uno scarto, un incongruo segno di volontà di bellezza, di ornamento, di emancipazione sociale ed estetica. Eppure sono forse ancora loro, gli stessi uomini e le stesse donne, che a un certo punto scivolano verso una deriva visionaria, verso una fuga poetica. Senza cambiare di molto la fisionomia, ecco allora gli angeli e i personaggi fantastici del circo. E’ una fuga provvidenziale, che gli permette anche di allontanarsi dal bozzettismo provinciale, e di evitare il rischio incombente del patetismo. La mestizia dell'aspetto e l'inerzia delle pose si spezza: gli angeli sembrano in equilibro precario, mentre ali bianche coronano la figura o altre ali nere si dispiegano nell’impeto della rivolta; i corpi degli artisti di circo si disarticolano in pose plastiche, disegnano nell'aria traiettorie impensate. Ecco quindi un mangiatore di spade dispiegarsi nel gesto ampio che richiede la sua arte; ecco gli equilibristi roteare quasi dissolvendosi intorno al palo delle acrobazie; ecco l'acrobata (nuda e ornata di perle) tendersi in una arco latteo al di sopra di un bianco cavallo fiabesco incrostato di preziosità, ecco un animale fantastico forzare con le braccia nere la costrizione di una gabbia. Anche la tavolozza aggiunge, agli ocra e ai bruni prevalenti nei paesaggi, colori fantastici e accesi, bianchi nivei, blu e rossi rubati alle tele chagalliane, ai suoi circhi e alle sue fiabe. Quasi di conseguenza anche la pesantezza dei volumi dei paesaggi urbani e suburbani si dissolve in sfondi saturi di colore, dove qualche linea appena tenta di squadrare una quinta, di mantenere un contesto di riferimento, un'inquadratura prossima a sfaldarsi nel colore. Ma sopravvive talvolta anche in questi esseri liberi e fantastici un'inquietudine, un'incompletezza, quasi una premonizione che a volte ne altera i lineamenti quasi in muti urli baconiani. Ecco allora negli anni ‘90 le teste, i ritratti degli amici scomparsi; sorta di maschere funerarie che bilanciano nel segno di una necrotica afasia le fughe visionarie dove i colori squillavano e dove l’esistenza, qualche volta, è stata gesto ardito, acrobazia, sfida; dove il tendone del circo della vita, qualche volta, avrà risuonato di applausi e di grida di meraviglia. Fino al 19 marzo (ingresso libero). Da martedì a domenica dalle 16 alle 19; giovedì e venerdì anche dalle 21 alle 23. La CASA MUSEO DI FRANCESCO MESSINA a MilanoPur vivendo accanto a Milano da una vita, non ci eravamo mai accorti dell’esistenza nel centro città della casa-museo di Francesco Messina, interessante per la sua collocazione oltre che per la sua collezione. L’artista siciliano, stabilitosi a Milano (già dagli anni ’30 insegnava e poi dirigeva l’Accademia di Brera), ottenne in comodato d’uso la secentesca chiesa di San Sisto, abbandonata e in rovina, proprio in fondo alla via Torino che porta da piazza Duomo al Carrobbio. L’accordo prevedeva la ristrutturazione della chiesa e dell’adiacente canonica; in cambio l’artista lasciò al Comune, alla sua morte, la struttura e una collezione delle sue opere, che ora vi sono esposte. Messina, insieme a Manzù, Martini e Marini, viene considerato uno dei più grandi scultori figurativi italiani. La sua vita e il suo itinerario artistico attraversano praticamente tutto il secolo scorso, dal 1900, anno di nascita, fino alla morte avvenuta nel 1995. Sue opere sono esposte in varie città e musei del mondo; la più vista, considerata la grande esposizione, appunto, televisiva, è il cavallo bronzeo che è diventato il simbolo della Rai, collocato davanti alla sede di viale Mazzini. L’acceso della casa-museo è da via San Sisto e l’ingresso è gratuito. La chiesa è una piccola costruzione del XII secolo, con una semplice facciata barocca e la parte absidale ricostruita che oggi ospita un grande finestrone. Nel luminoso interno, al piano terreno, sono esposte diverse opere di Messina, soprattutto bronzi, ma anche terracotte, alcune dipinte, e gessi. Appare chiaro che l’interesse dello scultore era rivolto soprattutto al volto e alla figura umana, soprattutto femminile, e al movimento nello spazio. Da qui la passione per i cavalli, ritratti in pose drammatiche, e per le ballerine , i cui corpi dagli arti protesi interagiscono con lo spazio circostante. Altre opere sono poi esposte nel seminterrato, visibile già dalla larga apertura nel pavimento dell’ex-chiesa, e nella ex-canonica, che ospitava l’abitazione e, all’ultimo piano, lo studio dove l’artista lavorava, da una parte illuminato da un lucernario spiovente e dall’altra affacciato sulla navata della chiesa. Qui, dal 1974 in poi, sono nate molte sue opere nei materiali più leggeri, e i calchi che poi l’artista portava in una fonderia di Ripa Ticinese per la fusione dei bronzi. In tutto le sculture esposte sono un’ottantina, tra cui ritratti della Fracci e della Savignano, oltre ad una selezione di disegni su carta che costituivano spesso il primo stadio delle idee da cui si sviluppavano poi le opere plastiche. Il museo ospita anche mostre temporanee; noi abbiamo visto “La grammatica delle forme”, con cui l’artista visuale Giuliana Cuneaz ha sviluppato in forma visiva (video in animazione digitale, dipinto, decorazione della finestra absidale) alcune suggestioni presenti in testi poetici dello stesso Messina. All’interno c’è un vecchio ascensore, ma non siamo sicuri che persone con problemi di deambulazione riescano a raggiungere i piani inferiore e superiori. Siamo in centro a Milano, e ovviamente usciti dal museo c’è solo l’imbarazzo della scelta sulla direzione da prendere. A pochi minuti a piedi si raggiungono alcuni tra i principali monumenti milanesi di epoca romana (come le colonne di San Lorenzo), medievale (tra cui Sant’Eustorgio o, in direzione opposta, Sant’Ambrogio), rinascimentale (San Satiro in via Torino), oltre che moderna. Se è vero che Milano non è di quelle città che invitano a perdersi, potrebbe valere la pena di vagare senza meta prestabilita nell’intrico di viette e piazzette che sta sulla destra di via Torino scendendo da piazza Duomo, dove ci si può imbattere di volta in volta resti romani e chiese medievali, luoghi di culto riservati ai polacchi o pavimenti secenteschi riscoperti, colonie feline e discutibili interventi di arredo urbano, palazzi del ‘700 e edifici modernissimi, a volte in stridente contrasto. Si può concludere controllando che il serpente bronzeo in Sant’Ambrogio sia sempre in cima alla sua colonna (diversamente la fine del mondo sarebbe vicina), o annusando e auscultando i fori nella colonna colpita dalle corna del diavolo (dovreste sentire puzza di zolfo e rumori infernali), o più serenamente concedendosi un happy hour nello storico bar Magenta. Gallerie d'Italia (al plurale perché altre sedi espositive sono a Vicenza e Napoli), in piazza della Scala a Milano, ospita fino a marzo la mostra dedicata a Canaletto e Bellotto, due dei più noti vedutisti del '700. Andare a visitare la mostra è prima di tutto un'occasione per visitare il complesso di palazzi (costruiti tra il '700 e il '900) che ospita anche le collezioni permanenti di Fondazione Cariplo e di Intesa Sanpaolo, dedicate all'800 (da Canova a Boccioni) e al '900. All'ingresso, molta bella è la parte che ospitava la Banca commerciale italiana, costruita all'inizio del '900 da Beltrami: ampi e luminosi saloni, marmi e ferro battuto, grandissimi soffitti a lucernario con vetri a piombo policromi, i bellissimi sportelli d'epoca della banca, ecc. Si respira l'aria dei soldi e di una grandeur d'anteguerra; ma i soldi, come la storia dell'arte insegna, sono stati anche grandi produttori di bellezza estetica. Dopodiché siamo venuti qui per vedere Canaletto e Bellotto, “Lo stupore della luce”. Ci sono più Bellotto che Canaletto, innanzitutto. Bellotto era il nipote di Canal, detto Canaletto, e uno degli allievi della sua bottega veneziana di pittura. Talmente bravo da imparare la tecnica e la poetica dello zio con perfezione tale che a un occhio profano è difficile distinguere le opere dell'uno da quelle dell'altro. Alcuni soggetti sono stati dipinti da entrambi i pittori, con risultati pressoché indistinguibili. Bisogna fare molta attenzione alla tecnica di resa delle architetture e alla qualità della luce atmosferica, ma vi assicuro che anche così è facilissimo sbagliarsi. Famosissime sono le loro vedute di Venezia, una città che ha mantenuto ancora fino a oggi la sua inconfondibile identità architettonica e urbanistica, arrivata senza troppi stravolgimenti dall'epoca dei due pittori fino ai giorni nostri, ritratta dai due in vedute nitide, immersa in una luce diffusa, serena e mai troppo violenta, con un'attenzione minuziosa ai più minuti dettagli architettonici e animata dalle figure dei personaggi impegnati nelle proprie attività quotidiane. Tra il signore col bastone alzato ricorrente in molti quadri, i signori in tabarro, i cagnolini, le gondole e le carrozze, i popolani e le rare figure femminili, ci si aspetta davvero di scorgere la figura di Giacomo Casanova: se infatti i quadri di Bellotto e Casanova ci offrono una preziosissima rappresentazione visiva dei paesaggi e dei costumi dell'epoca, le Memorie di Casanova, oltre a costituire una lettura di impagabile godimento per la sbalorditiva quantità e varietà di avventure vissute (e in grandissima parte documentate) dal personaggio, sono un formidabile affresco in campo letterario della vita non solo veneziana ma panaeuropea che copre buona parte del XVIII secolo. Gli stessi Bellotto e Canaletto non sono riducibili alle sole celeberrime vedute veneziane: ottenuto un clamoroso successo, infatti, le loro richiestissime attività pittoriche si spostano non sono attraverso l'Italia (Milano, la valle dell'Adda, Vicenza, Torino, Roma, le cui rovine danno lo spunto per numerosi capricci, cioè paesaggi che includono elementi di fantasia o collocati altrove, con un gusto in bilico tra neoclassicismo e preromanticismo), ma anche in Inghilterra e in Germania, dove riscuotono un grande apprezzamento (Bellotto muore a Varsavia, lontano dalla Venezia della sua giovinezza e della sua formazione). Apprezzamento che si appannò in seguito nel giudizio dei critici, che videro in Canaletto un freddo riproduttore della realtà esistente, poco rielaborata personalmente e artisticamente, e peggio ancora nel Bellotto il riproduttore di un riproduttore. La rivalutazione avviene solo qualche decennio fa; i quadri esposti, spesso di dimensioni medio-grandi, meritano di essere apprezzati nella veduta d'insieme e nei dettagli. Tra le curiosità, a questo proposito, io mi sono divertito ad osservare l'evoluzione dell'abilità del Bellotto a ritrarre i cavalli, inizialmente quasi nascosti o ripresi di sguincio, poi sempre più protagonisti anche in seguito alle esperienze inglesi, dove l'animale godeva di una grande reputazione anche in campo pittorico. Altra curiosità che merita attenzione è la camera ottica, per certi versi antesignana della moderna macchina fotografica, uno strumento molto utile per i pittori dal vero soprattutto alle prese con la resa di grandi architetture. Il biglietto costa 10 euro (mostra e collezioni permanenti), con varie riduzioni; domenica 5 marzo però, con l'ultima Domenica al museo, c'è la possibilità di visitare la Galleria gratuitamente. Ci sono a disposizione delle audioguide gratuite; noi non ce ne siamo serviti ma i pannelli esplicativi sono sufficienti a orientare nella visita, che fatta con un minimo di attenzione richiede certamente più di un'ora, considerando anche i possibili rallentamenti causati dalle visite guidate di gruppo. Gli ambienti sono comunque spaziosi e c'è la possibilità di tornare su qualche stanza inizialmente evitata per troppo affollamento. Filmati rivolti ai più piccoli, guardaroba (ma nel piovoso giorno della nostra visita venivano ritirati i soli ombrelli), caffetteria e piccola libreria completano i servizi. Soprattutto per chi milanese non è, ricordiamo che, usciti dalla mostra, che avrete raggiunto molto probabilmente scendendo alla fermata Duomo della linea rossa della metropolitana, molti degli edifici più celebri di Milano (Teatro alla Scala, Galleria Vittorio Emanuele, Duomo, Castello sforzesco), così come le vie dello shopping (da Corso Vittorio Emanuele a via Dante al quadrilatero della moda trar via Montenapoleone e via della Spiga) sono tutti raggiungibili a piedi in pochissimi minuti. NELLE SUE MANI. LE FOTOGRAFIE DI VIVIAN MAIER all'Arengario di Monza fino al 29 gennaioUltimissimi giorni per andare a vedere all’Arengario di Monza Nelle sue mani, la bella mostra dedicata a Vivian Maier, già prorogata al 29 gennaio. Chi è Vivian Maier? chiederanno alcuni di voi. Effettivamente fino a pochi anni fa non lo sapeva nessuno. Finché nel 2007 John Maloof, figlio di un rigattiere, comprò ad un’asta, alla cieca, per poche centinaia di dollari, gli scatoloni accumulati dentro un deposito self storage di Chicago, appartenenti ad una cliente che non pagava più l’affitto. Dentro quegli anonimi scatoloni c’era uno sterminato patrimonio fotografico. Si parla di 120.000 negativi, più di diecimila stampe, e inoltre filmini, superotto, registrazioni. Sono le opere di Vivian Maier, realizzate prevalentemente tra gli anni ’50 e gli anni ’70. Ma, di nuovo, chi è Vivian Maier? Una baby sitter, segaligna, scontrosa, riservata. Che durante e dopo il lavoro, fotografava. Probabilmente grazie all’eredità di una prozia francese, Vivian, anzi la signorina Maier, come pretendeva di essere chiamata, negando la propria confidenza a chiunque, ha girato il mondo, tra Nordamerica, Asia, Africa, Europa; ma le sue fotografie ritraggono soprattutto la vita dell’America degli anni ’50 e ’60, a New York e Chicago, dove visse per la maggior parte della sua vita lavorando appunto come tata presso alcune famiglie della città. E il fatto è che Vivian Maier è un’artista. Le sue foto sono bellissime, in grado di stare alla pari con quelle di molti dei più grandi fotografi del ‘900. Quando Maloof, e altri che come lui si sono resi conto del valore che avevano tra le mani, si mettono alla ricerca dell’autrice di quelle foto, la signorina Maier è ricoverata in ospedale. Morirà da lì a poco, senza sapere mai che il suo immane talento, tenuto sempre gelosamente segreto, sta per essere finalmente rivelato al mondo. Le foto che la Maier scattava quasi di nascosto, la maggior parte con una Rolleiflex a pozzetto, una macchina che si teneva all’altezza della pancia guardando dall’alto nel mirino posto sul lato superiore della camera, rivelano una capacità d’intuizione, una rapidità e una sicurezza di esecuzione, un occhio fantastico per l’inquadratura, una grande abilità tecnica di realizzazione e ritraggono un formidabile spaccato della vita americana di quegli anni. Fotografia di strada, ritratti fulminanti, aneddoti poetici o umoristici, scene di famiglia (ma le famiglie sono sempre quelle degli altri), indagine sulla vita quotidiana, compresa quella degli ultimi (con una sensibilità sociale, così come con un senso dell’umorismo in altri scatti, che si rivela solo nelle sue fotografie, senza trovare riscontro nella sua vita schiva, solitaria, selvatica). Le foto del periodo Rolleiflex, in formato quadrato, sono in un bianco e nero stupendo; gli anni ’70 portano altri formati e il colore, in cui la capacità di cogliere i contrasti della Maier si attenua; negli anni ’80 il flusso delle fotografie apparentemente si arresta, sommando al silenzio della sua voce quello della sua visione. Apparentemente assente dalla vita, priva di legami e affetti, ridotta a occhio e macchina, la Maier paradossalmente è spesso presente nelle sue foto. Un’ombra proiettata sul terreno, un riflesso in un vetro (nella cui aura far affiorare magari qualcosa al di là, ancora una volta la vita degli altri), ma soprattutto immagini rimandate da uno o più specchi, che a volte sdoppiano e moltiplicano la sua figura in una fuga vertiginosa: una sorta di autoindagine edipica da parte di una donna che ha scelto di identificare la propria essenza con la capacità di guardare e di vedere. Come dice una citazione della fotografa Lisette Model riportata in mostra “La macchina fotografica è uno strumento per fare scoperte: non fotografiamo solo ciò che conosciamo, ma anche ciò che non conosciamo”. Gli scatti dei suoi soggetti inoltre sono quasi sempre unici, senza prove e senza multipli: con risultati spesso incontrovertibili, definitivi; quella che sembra una straordinaria combinazione tra fortuna e infallibile istinto. Indubbiamente un surplus di fascino è conferito all’opera della Maier dallo iato intercorso tra il momento della loro realizzazione e quello della loro inedita visione: le foto nascono immediatamente come storiche, come temporalmente esotiche, più che vintage già inquadrate in una dimensione classica. Di questo patrimonio iconografico gigantesco, in buona parte ancora da esplorare, ma già esposto in mostre e musei, l’Arengario offre una piccola selezione (organizzata in sezioni: autoritratti, bambini, foto di strada, ritratti, scatti a colori, ecc.), ma sufficiente a rendere l’idea del suo talento. Il biglietto d’entrata, a 9 euro, include anche un’audioguida utile anche a contestualizzare l’opera dell’autodidatta ma non incolta Maier nella storia della fotografia; molto interessante anche il documentario della BBC Who took Nanny’s Pictures?, che però si viene sadicamente costretti a guardare all’impiedi (dura una settantina di minuti!). Sulla vicenda umana e artistica della Maier lo stesso John Maloof ha girato un altro bel documentario uscito anche in sala (a Milano si è visto più volte al Beltrade), intitolato significativamente Alla ricerca di Vivian Maier. Anche se la Maier, ormai, è definitivamente introvabile; per fortuna ci rimangono le sue fotografie. Fino all'8 gennaio è visitabile presso la Triennale di Milano la mostra “ANTONIO SANT'ELIA (1888-1916) – Il futuro delle citta'”. Sant'Elia vive 28 anni. Da bambino, vive nell'800. Dal 1914, lo stesso anno in cui pubblica il Manifesto dell'architettura futurista, disegna la città del futuro. Due anni dopo, da bravo futurista, va in guerra volontario e si fa uccidere con un colpo di mitragliatrice in fronte sulle montagne di Monfalcone. La mostra dedicatagli dalla Triennale è divisa in tre sezioni: una che ripercorre la vita di Sant'Elia, inquadrando la sua breve esistenza nel contesto storico-artistico; una che espone i disegni di Sant'Elia per la Città Nuova; e una che esplora le influenze di Sant'Elia sull'architettura e sulle arti. Partendo da quest'ultimo aspetto, tanto per intenderci, vengono esposte foto, disegni e progetti non solo dei suoi contemporanei, ma anche delle postavanguardie degli anni '60 del '900 e delle realizzazioni architettoniche più ardite del 21° secolo (fino a Reanzo Piano o a Liberskind; si tocca anche il cinema, passando sopra i grattacieli di Blade Runner, ma si trascura il fumetto – si pensi all'Alex Raymond di Flash Gordon, o al Moebius di The Long Tomorrow, solo per fare un paio di esempi). Perché Sant'Elia sembra essere da una parte allineato con la nascita coeva delle grandi metropoli americane, dall'altra precursore di idee, stili e soluzioni che sono attuali ancora o soprattutto oggi. Sant'Elia è uno che negli anni '10 del '900 disegnava gigantesche centrali per alimentare un futuro che sarebbe stato eminentemente elettrico (nel 1883 a Milano si costruiva la prima centrale elettrica europea, praticamente alle spalle dell'attuale Rinascente a due passi dall'abside del Duomo); che immaginava grattacieli dotati di ascensori esterni; che stratificava le sue città immaginate su differenti livelli dedicati rispettivamente al trasporto ferroviario, a quello automobilistico e al passaggio pedonale; che interconnetteva i palazzi con sinapsi fatte di ponti, gallerie, passerelle, tunnel; che prefigurava la necessità di integrare il trasporto ferroviario con quello aereo, in stazioni di interconnessione dove i livelli sono quelli dei binari ferroviari e delle piste aeroportuali, in un momento in cui gli aeromobili erano a metà tra gli arditi trabiccoli volanti dei pionieri e il triplano del Barone rosso. Ma insieme a una visionarietà che si avvicina alla preveggenza, a stupire ancora una volta nell'opera di Sant'Elia è la qualità artistica dei suoi disegni. Mescolando elementi del razionalismo che verrà e dell'art noveau, Sant'Elia mescola in modo magistrale la probità imperturbabile delle linee rette e le curve e le ellissi che conservano memoria dell'organico, nella figurazione di edifici monumentali e nello stesso tempo armoniosi, in un barocco della modernità dove gli elementi si aggregano affastellando implacabili geometrie e eleganti morbidezze. Stagliati imperiosamente su cieli di rossa o verde alienità, gli edifici di Sant'Elia sono proiezioni di un futuro che sembra alle porte, ma nello stesso tempo stupiscono come templi antichi appena emersi, come nuovi, dai viluppi di una vegetazione che si è ritirata oltre i margini del foglio da disegno; templi dedicati a culti ormai incomprensibili o ancora tutti da decifrare, pitturati come in effetti erano gli edifici dell'antichità. In questa sacralità del moderno futuro, da cui si rimane meravigliati e come sgomentati, l'uomo sembra non trovare posto. Nella raffigurazione di questi edifici dotati di una loro terribile maestosità, la figura umana è quasi del tutto assente, o quando c'è, è un segno stilizzato che di antropomorfo non conserva granché. Centrali elettriche, stazioni, case appaiono gigantesche macchine celibi ed autosufficienti, postumane, o incuranti dell'umano come di un residuo premoderno e inessenziale. E' infine un'opera quella di Sant'Elia godibile finanche nella sua materialità: non quella degli edifici realizzati (per contare i suoi progetti diventati realtà le dita di una mano sono troppe), bensì quella del disegno: dalla grana delle matite, al segno delle chine, alle stesure dei pastelli, su carte a volte spesse come carta di pacchi, brunite, a volte pastose, in alcuni punti a volte quasi oleose, segnate dall'uso e dalle stropicciature. E' forse questa materialità residuale che ci rassicura: dietro le visioni della città del futuro c'è ancora un occhio umano, una mano umana che ciancica la carta e la riempie di linee astratte e bellissime. Sempre alla Triennale ho visitato una seconda mostra di architettura: EMPATIA CREATIVA. Milano metropolitana: cinque cantieri di Mario Cucinella Architects, curioso di vedere in particolare il progetto della Città della Salute e della ricerca a Sesto San Giovanni, la città dove abito da sempre. In un alternarsi di edifici e di giardini, enfaticamente intitolati ad organi del corpo cui corrispondono funzioni dello spirito, il grande polo per l'innovazione medico-scientifica dovrebbe nascere dall'unione di Istituto dei tumori e neurologico Besta sulle grandi aree Falck dismesse, in base ad un'intuizione iniziale di Renzo Piano. Bello l'allestimento della sala, con al centro un boschetto di betulle. Oltre ai plastici, è possibile vedere, attraverso gli occhialoni che pendono dal soffitto, alcuni progetti in realtà virtuale immersiva. Ci si aggira per un nuovo museo dell'arte etrusca che dovrebbe essere realizzato in corso Venezia a Milano, tra ambienti che sembrano stilizzati ipogei litici; o ci si ritrova prima a metà altezza nel bussolotto di vetro della torre UnipolSai di Porta Nuova, tra la fuga verso l'alto della cupola oblunga o la vertigine dei piani sottostanti, poi all'esterno ad alzare gli occhi verso la sagoma che si staglia alta verso il cielo di Milano, così bello quando è (virtualmente) bello... EX, opere di PAOLO SANGALLIForse ho sbagliato titolo. Perché i quadri di Paolo Sangalli non parlano solo di Sesto San Giovanni ma hanno un respiro che va ben oltre, e in tutti i sensi, i confini di una città. Però sarebbe un peccato, se abitate a Sesto o dintorni, non andare a vedere questa esposizione (“EX”, un titolo perfetto per significanza e per laconicità) annidata con bell’allestimento in una sala in fondo alla Villa Puricelli Guerra, dove le opere del tutto contemporanee e un po’ cupe di Sangalli si ambientano con suggestiva naturalezza in una sala dalle ampie vetrate neogotiche affacciate su un giardino rigogliosamente primaverile. Perché Paolo, oltre ad essere un nostro concittadino da lunga data, è un artista vero, dalla visione e dalla tecnica mature e sicure di sé, e perché la sua arte ha qualcosa da dire a ciascuno di noi. Paolo conosce sicuramente l’arte contemporanea più grande, di cui si coglie qualche eco, da Rauschenberg a Burri, ma trascende i riferimenti fino ad arrivare, attraverso la propria biografia, la propria sensibilità e la propria ricerca artistica, ad una poetica e ad un segno originali e personali, dove l’astrazione e l’informalità non escludono mai la godibilità del segno e della composizione. Stampe fotografiche su tela, collage, pittura, manipolazioni concorrono ad evocare i paesaggi di Sangalli, dominati in genere da tinte brune o ocra, con sprazzi di rosso, dove si intravedono o si intuiscono edifici o manufatti industriali (una ciminiera, un capannone, un trasformatore, un groviglio di tondini di metallo), qualche lettera, qualche cifra. Dall’assedio della materia e dal gesto informale emergono quasi a fatica paesaggi che sono oltre che post-industriali, sono post-umani. La figurazione umana è del tutto assente; rimangono tracce di un suo passato, di una sua non scontata presenza, in macchine, costruzioni, oggetti di cui ormai si fatica a comprendere origine, funzioni, senso. Quello che c’è di più umano, il linguaggio, è disarticolato, frammentato in pochi segni ermetici (che spesso danno titolo alle opere) che non comunicano più nulla, se non l’impotenza a dare un senso compiuto al discorso. L’arte di Paolo è una sorta di archeologia che contempla reperti di un passato lontano, ma che non possiede più gli strumenti per la sua comprensione; che conserva i cocci del suo alfabeto ma che non ha più, o non ancora, scoperto una tavola di comparazione che gli permetta di interpretarne il linguaggio perduto. La materia (come una natura corrotta eppure insopprimibile, leopardianamente indifferente alle sorti umane), si riappropria dello spazio, assedia le sopravvivenze di una figurazione minacciata di estinzione, si richiude su brandelli di immagini ancora a stento leggibili. Le tele non parlano, ma balbettano poche lettere letteralmente sconnesse, in un linguaggio regredito all’infanzia, o sprofondato in una senescenza irrimediabile. Una dolorosa afasia delle immagini e dell’artista che pure ostinatamente comunica, al di là della suggestiva desolazione di un paesaggio disertato, l’insopprimibile, lirica nostalgia per un umanesimo perduto. |
AutoreMauro Caron possiede, tra i suoi molti talenti, quello della culturagenerale. Tra gli altri suoi pregi, è superficiale, non sa parlare in pubblico (intendendosi per pubblico assembramenti di persone da una in su) - ecco perché la scelta del blog -, è pigro ed incostante - ecco perché il blog non durerà. Archivi
Aprile 2024
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