Umberto Seveso era un sestese. Ha vissuto l’infanzia nella villa Torretta, prima dimora nobiliare, poi cascina, edificio in rovina e oggi prestigioso hotel a 4 stelle, da cui dovette fuggire a causa di un grave incendio. Era una Sesto San Giovanni che oggi è difficile immaginare, tra i campi del nonno contadino e la nuova città delle fabbriche dove lavorava il padre. E’ quella che compare nei suoi dipinti, tra chiese e case di ringhiera, muri di fabbrica e spazi vuoti che oggi non esistono più. Gran parte delle sue diverse vite si svolgono qui: da una parte nella fabbrica in cui a sua volta lavora, in parte alla scuola civica “Federico Faruffini”, dove impara e approfondisce l’amore per la pittura. E’ operaio, pugile, pittore, ma anche emigrato in Australia, animatore culturale della sua città, partecipante e a volte cofondatore di iniziative come il Premio Piazzetta e il Quartiere delle botteghe. Oggi il centro culturale Valmaggi gli dedica una doverosa mostra, a meno di un anno dalla sua scomparsa. Una scomparsa che ha lasciato il vuoto, perché Seveso non è stato solo un protagonista di una fervida e forse irripetibile stagione artistica sestese (a fianco di artisti e amici come Diana Forassiepi, Giuliano Barbanti, Giancarlo Curone, Enzo Contini, Giorgio Marangon, Renzo Macchi, Enzo Basello, Lino Marzulli, Riccardo Perego), ma anche una persona dotata di grande umanità, di modestia e di senso dell’umorismo, un milanese (o un sestese) identificabile immediatamente dall’accento (il suo damm a trà è rimasto proverbiale per tutti quanti l’hanno conosciuto) e di cui forse si è perso lo stampo. La pittura per lui non è mai sembrata essere un lavoro, né un mezzo di affermazione di sé; incurante delle logiche del mercato, dipingeva per vocazione, per necessità intima, cedendo a volte le sue opere per un prezzo che superava di poco o nulla quello della cornice che la conteneva. In mostra ritroviamo i suoi temi preferiti, i suoi “periodi” (peccato non avere in mostra informazioni sull’epoca di realizzazione dei dipinti, peraltro a volte di non facile datazione: su un suo quadro ho trovato tre date diverse, a conferma di una ricerca continua, di un’insoddisfazione che spinge a rimettere mano, a ritoccare, a cercare ancora): i paesaggi, i ritratti, gli animali, i ritratti, i personaggi del circo, gli angeli, le teste. I suoi paesaggi nudi degli anni ‘50, la Torretta, la chiesa di Santo Stefano, visti da prospettive oggi perdute, risvegliano echi sironiani. Sono abitati da presenze umane: uomini, donne, un carrettino tirato da un cavallo, bambini, saltimbanchi. A volte sono figurine in lontananza, a volte vengono in primo piano: presenze mute, spesso immobili, riprese di fronte. Si capisce che appartengono profondamente a quelle periferie, a quella Sesto antica, dimessa, vicina a Milano eppure lontana, sfiorata dal progresso delle fabbriche e della modernità ma non intaccata, immote in una quieta drammaticità priva di tempo e di storia. A volte un filo di perle - un arco di piccole pennellate che allineano tondini bianchi intorno al collo di qualche figura femminile - segna appena uno scarto, un incongruo segno di volontà di bellezza, di ornamento, di emancipazione sociale ed estetica. Eppure sono forse ancora loro, gli stessi uomini e le stesse donne, che a un certo punto scivolano verso una deriva visionaria, verso una fuga poetica. Senza cambiare di molto la fisionomia, ecco allora gli angeli e i personaggi fantastici del circo. E’ una fuga provvidenziale, che gli permette anche di allontanarsi dal bozzettismo provinciale, e di evitare il rischio incombente del patetismo. La mestizia dell'aspetto e l'inerzia delle pose si spezza: gli angeli sembrano in equilibro precario, mentre ali bianche coronano la figura o altre ali nere si dispiegano nell’impeto della rivolta; i corpi degli artisti di circo si disarticolano in pose plastiche, disegnano nell'aria traiettorie impensate. Ecco quindi un mangiatore di spade dispiegarsi nel gesto ampio che richiede la sua arte; ecco gli equilibristi roteare quasi dissolvendosi intorno al palo delle acrobazie; ecco l'acrobata (nuda e ornata di perle) tendersi in una arco latteo al di sopra di un bianco cavallo fiabesco incrostato di preziosità, ecco un animale fantastico forzare con le braccia nere la costrizione di una gabbia. Anche la tavolozza aggiunge, agli ocra e ai bruni prevalenti nei paesaggi, colori fantastici e accesi, bianchi nivei, blu e rossi rubati alle tele chagalliane, ai suoi circhi e alle sue fiabe. Quasi di conseguenza anche la pesantezza dei volumi dei paesaggi urbani e suburbani si dissolve in sfondi saturi di colore, dove qualche linea appena tenta di squadrare una quinta, di mantenere un contesto di riferimento, un'inquadratura prossima a sfaldarsi nel colore. Ma sopravvive talvolta anche in questi esseri liberi e fantastici un'inquietudine, un'incompletezza, quasi una premonizione che a volte ne altera i lineamenti quasi in muti urli baconiani. Ecco allora negli anni ‘90 le teste, i ritratti degli amici scomparsi; sorta di maschere funerarie che bilanciano nel segno di una necrotica afasia le fughe visionarie dove i colori squillavano e dove l’esistenza, qualche volta, è stata gesto ardito, acrobazia, sfida; dove il tendone del circo della vita, qualche volta, avrà risuonato di applausi e di grida di meraviglia. Fino al 19 marzo (ingresso libero). Da martedì a domenica dalle 16 alle 19; giovedì e venerdì anche dalle 21 alle 23.
1 Commento
Gabriella
9/3/2022 07:35:05 am
Salve, interessante questo artista .. vorrei parlarne con lei che così bene lo ha descritto, è possibile? Grazie molte
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AutoreMauro Caron possiede, tra i suoi molti talenti, quello della culturagenerale. Tra gli altri suoi pregi, è superficiale, non sa parlare in pubblico (intendendosi per pubblico assembramenti di persone da una in su) - ecco perché la scelta del blog -, è pigro ed incostante - ecco perché il blog non durerà. Archivi
Febbraio 2024
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