Sono andato a sentire/vedere Guido Catalano al Carroponte di Sesto San Giovanni. Guido Catalano è stato al Carroponte già sei anni fa. Ma sul palco C, o palco della Luna, quello piccolo dove mettevano gli intrattenitori di terza categoria, quelli per il mese di agosto, quando per un milanese pur di avere una scusa per bere una birra all’aperto qualsiasi cosa va bene. Ma poi è passato sul palco B, quello grande, di tutto rispetto, dove si esibiscono band e artisti di livello buono e talvolta internazionale. Martedì sera con l’“Ogni volta che mi baci muore un nazista” tour, era sul palco A, quello grandissimo, che chiude con una prospettiva spettacolare la lunga navata di tralicci postindustriali che di notte si infuocano di luce rossa, quello non da tutti, quello dei megaconecerti. Perché Guido Catalano è un Genio. Lo dicevano in molti, i giovani spettatori intorno a me: un genio. Mi sono chiesto allora: ma perché un genio? La prima (e ultima, non aspettatevi grandi rivelazioni) risposta è: perché si è proclamato poeta professionista vivente. Un po’ come certi artisti di arte contemporanea sono tali perché lo dicono loro. Intendiamoci, è stata una serata piacevole e divertente. Ma: un genio? Forse la trovata sta tutta qui: nell’autodefinirsi poeta, e comporre poesie-che-non-sembrano-poesie, di tono basso, colloquiale, prosaico, appunto e di recitarle con umorismo e disinvoltura. Nelle poesie di Catalano ovviamente non ci sono i vincoli cui sottostava la poesia di prima del ‘900: niente rima ovviamente (se non, a volte, per caso), niente struttura. Niente ermetismo novecentesco: si capisce tutto. E neppure niente di quella ricerca dello scarto linguistico e semantico che tormenta e a volte incarta i poeti contemporanei. Catalano avrebbe voluto diventare un musicista, una rock star. Ma poi ha scoperto che non occorreva darsi la pena di comporre la musica. E’ quindi un poeta pop, in tutti i sensi. Perché è popolare, accessibile, usa le stesse parole che usiamo noi nelle conversazioni di tutti i giorni. Dice anche le parolacce: Vado a capo a cazzo (un divertissment che esplora le possibilità combinatorie dei due sostantivi del titolo) è emblematico: gioco, sberleffo, manifesto poetico, linguaggio basso. Se deve fare una citazione colta (a parte la cover dalla Szymborska), i citati sono Battisti-Mogol, o il “Cocciantone” (sic) di Margherita. I suoi temi sono universali: le varie fasi della relazione amorosa, le ragazze amate o anche no, le ragazze amanti ma anche no, la nostalgia, la solitudine. Ma prese sul ridere. Raccontate in francese, magari; ma maccheronico, deragliato nell’invenzione puerile e ridanciana. Mai temi divisivi. Tra i comonimenti recitati sul palco, quello forse più impegnato, con il più spiccato contenuto socio-antropologico, è quello sulla sua idiosincrasia verso la vita da spiaggia. Quindi, perché un genio? Perché Catalano non si presenta come un cantautore, né come un cabarettista (attività nelle quali chissà se avrebbe eccelso). Ma come un poeta. Quello che si ascolta non è un concerto, non è un spettacolo come tanti. E’ Poesia. E non capita tutti i giorni di ascoltare un’arte con l’iniziale maiuscola. E di capirla, di gustarla, di divertircisi perfino. Di riderci sopra, di sentirsi complici. Perché Catalano è un genio (che casualmente ha lo stesso cognome del personaggio arboriano che proferiva lapalissiane banalità con l’aria di enunciare profonde verità esistenziali), ma è anche uno di noi, uno con il quale ci si può quasi identificare. Uno non bello, non alto, che spara battute simpatiche ma non memorabili, che scrive poesie che quasi quasi sapremmo scrivere anche noi. E infatti; se parlo così è anche per invidia. Perché anch’io scrivo poesie. E alcune, lo ammetto (e qui sto citando un famoso poeta professionista vivente) sono anche meglio di quelle di Catalano. E allora perché non le ho pubblicate, perché non sono in una tournée da centinaia di date, perché oggi non le declamo da un ultrapalco? La risposta, ancora una volta, è semplice. Perché io non sono un genio. Perché io, inutile negarlo, non sono Guido Catalano.
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LA TRILOGIA di Guido Buzzelli: LA RIVOLTA DEI RACCHI, I LABIRINTI, ZIL ZELUBCoconino Press ha ripubblicato qualche mese fa, in un grande formato cartonato, bello da vedere, un po’ impegnativo da maneggiare (per vari motivi, logistici e psicologici, ne sconsiglio la lettura a letto prima di addormentarsi), la Trilogia che raccoglie tre delle più note opere grafico-narrative (massì, graphic novel! anche se ai tempi non si chiamavano così) di Guido Buzzelli, e cioè La rivolta dei racchi, I labirinti e Zil Zelub, scritte e disegnate nei cinque anni che vanno dal 1967 al 1971. E’ l’occasione per riscoprire (o per conoscere, per chi non le ha mai lette prima) tre storie rivoluzionarie, apprezzate prima in Francia che in Italia, che hanno ascendenza nella grande letteratura utopica e apocalittica (i richiami più diretti sono al Gulliver di Swift, ma l’incipit di Zil Zelub arriva fino alla Metamorfosi kafkiana), ma che si confronta direttamente con i fermenti politici e rivoluzionari del suo tempo. Buzzelli scrive e disegna in anarchica libertà, senza committenti e senza contratti prestabiliti. Il suo segno grafico, sporco, graffiato e sovraccarico, è colto e brutale insieme: capace di citare quei veri e propri manifesti della rappresentazione del corpo umano che sono l’uomo vitruviano di Leonardo e il Cristo morto di Mantegna, o la teatrale organizzazione dello spazio della pittura barocca (sempre con una sorta di ghigno irridente), ma dominato dall’iconografia dei capricci di Goya e dalle morbose e teratofile fantasmagorie di Hyeronimous Bosch, fino alle deformazioni espressioniste di un Grosz; capace di citare la raffinata eleganza fumettistica di un Alex Raymond eppure continuamente tentato dalla prospettiva e dal segno volgare, brutale ma anche ludico del fumetto pornografico. L’universo allucinato di Buzzelli rivela anche ascendenze ascrivibili al cinema coevo: se la cattiveria può essere quella di Marco Ferreri, a volte i tratti onirici rimandano al Fellini più grottesco, o all’Antonioni che nel ‘66 fa esplodere la società dei consumi a Zabriskie Point. Le metafore profondamente, pervicacemente politiche di Buzzelli, si radicano d’altra parte tutte nella rappresentazione del corpo umano. Il popolo succube e sottomesso de La rivolta dei racchi ha fattezze brutte e deformi; I labirinti parla di un mondo post-apocalittico popolato da cadaveri carbonizzati e da atroci mostruosità; Zil Zelub parte dal presupposto di un corpo (quello del protagonista) anarchicamente disarticolato e grottescamente smembrato. E come le membra di Zil Zelub si dividono e si rimescolano, così anche le lettere del suo nome, anagrammate, formerebbero il cognome del suo autore. Buzzelli in effetti, o un personaggio con le sue sembianze, è sempre presente da protagonista nelle tre storie: ma lungi dall’esserne l’eroe è al contrario un protagonista inetto e inadeguato; simbolo stesso dell’impossibilità di accedere ad una dimensione utopica, sia essa pragmaticamente politico-rivoluzionaria che fantastica. I finali dei racconti si accaniscono in maniera crudele sui protagonisti: Spartak se la cava a buon mercato, adeguandosi al ruolo di utile idiota, strumento di un potere che lo sovrasta; ma Sforvo finisce divorato su una squallida spiaggia, sotto un cielo nero, dai mostri direttamente generati dal sonno della ragione, e una sorte altrettanto atroce toccherà a Zelub, imprigionato con le membra mutilate costrette alla rinfusa in un corpetto, su una spiaggia contaminata, sbeffeggiato da orribili uccellacci puzzolenti, parte organici e parte sintetici (mentre il più sinistro dei potenti si avvantaggerà, presentandosi come istanza di ripristino dell’ordine, degli inconsulti atti di terrorismo e violenza cui Zelub è stato indotto). L’analisi anarchica e nichilista di Buzzelli è precisa e circostanziata: nell’andamento concitato e farsesco de La rivolta dei racchi si riconoscono l’arte e l’estetica, la religione e la politica, la scienza a la tecnologia, l’apparato produttivo e quello militare, la seduzione edonistica e le tecniche pubblicitarie, tutte indistintamente asservite ad un potere strutturale che di qualsiasi sovrastruttura fa strumento per i propri cinici scopi. La lettura della Trilogia, lo si sarà capito ma ci tengo a ribadirlo, non è delle più semplici ed è tutt'altro che consolatoria. Rivolte di popolo, utopie collettiviste-razionaliste, gesti anarchici e luddisti: nulla serve a cambiare una realtà fosca, dove a dominare, anche graficamente, è il nero (perfino nelle tavole dove paradossalmente sembrano prevalere le campiture bianche) e il negativo (a volte in senso anche letterale, come nel memorabile prologo e nelle sequenze più allucinate de I labirinti). L’ironia è sempre presente (si vedano nelle stesse terribili pagine iniziali de I labirinti la distruzione dei simboli della moderna civiltà nella seconda pagina, o il gioco del protagonista terrorizzato e sgomento con una prescrittiva segnaletica stradale ormai priva di senso all’interno di una catastrofe generale, nella quarta pagina): ma quello di Buzzelli non è mai un sorriso sereno, né una complice strizzata d’occhio, bensì un ghigno irrisorio che non risparmia niente e nessuno. Nemmeno i lettori. Nemmeno voi, noi. Nemmeno Buzzelli. IL TRADUTTORE di Biagio Goldstein Bolocan, ed. Feltrinelli1956, Milano. Mentre l'opinione pubblica è infiammata da grandi temi internazionali come i fatti d'Ungheria e la crisi di Suez, Cesare Paladini-Sforza, slavista e traduttore per la neonata casa editrice Feltrinelli, che ha palesi simpatie di sinistra, viene trovato assassinato nella propria casa-studio. Si scopre che stava lavorando su un libro particolare, scritto da un poeta semisconosciuto, che potrebbe essere sgradito alle autorità russe. Il libro (me la sento di spoilerare un'informazione che l'autore ha il vezzo di rivelare solo a pag. 206, ma che è già svelata sulla prima, la seconda e la quarta di copertina, quindi è un po' difficile non saperla da subito) è Il dottor Živago di Boris Pasternak, una grande storia d'amore ambientata negli anni della Rivoluzione. Ad indagare sull'omicidio si ritrova quindi non solo il commissario Guerini, omone probo e intellettualmente onesto, con simpatie comuniste ma tormentato da dubbi che vengono amplificati dalla repressione sovietica in Ungheria, ma anche agenti russi e americani, visto che il mistero potrebbe trovare ragione e soluzione sul grande scacchiere internazionale. Mantenendo la metafora, la scacchiera, i giocatori e le pedine che Biagio Goldstein Bolocan dispone ne Il traduttore (mescolando personaggi e situazioni vere – il libro fu effettivamente osteggiato dalle autorità sovietiche, venne premiato con un Nobel, mai ritirato, nel 1958 ma fu pubblicato in Russia solo nel 1988 – e fittizi – a cominciare dal traduttore e dal suo assassinio) sono a mio parere gli elementi più intriganti del libro, e quelli per cui vale la pena di affrontarne la lettura. BGB vanta in effetti diverse credenziali che lo qualificano per affrontare l'impresa: l'intenso impegno politico nell'organizzazione giovanile del Pci, il lavoro di insegnante e di scrittore di manuali scolastici di Storia e di editor per Mondadori (ma questo romanzo, ovviamente, lo pubbblica Feltrinelli, con una bella copertina che mescola giallo e arte contemporanea). Difficilmente si poteva pensare quindi a uno scrittore più idoneo per dipingere il contesto storico, i temi e l'atmosfera di quell'estate del '56. Ma contemporaneamente gli mancano altre qualifiche. Prima di tutto, non è un giallista. L'intreccio giallo-spionistico-editoriale-passionale (la relazione tra spionaggio e politica culturale è stato recentemente affrontato, pur se in in contesto e con intenzioni e risultati del tutto differenti in Miele, di Ian McEwan, di cui parlo in queste stesse pagine) non assume mai una dignità letterario-investigativa. Guerini è un commissario improbabile, e la sua indagine – checché ne possano pensare lui e l'autore - dà un'impressione di superficialità e inconcludenza. Mai d'altra parte, visto l'andazzo della detection, il mistero dell'assassinio avrebbero potuto vedere una soluzione se il caso, propiziato da un coacervo di combinazioni tra le più infondate narrativamente e meno credibili psicologicamente, non servisse bell'e pronta la soluzione allo sventato investigatore su una tavola apparecchiata, o dispiegata su un leggio. Peccato non poter dire di più per motivare il mio disappunto, ma l'eventuale lettore avrà modo di giudicare da sé. Saltano agli occhi inoltre la pretestuosità (parliamo sempre di risultati, non di intenzioni) di certi risvolti spionistici, e della presenza di alcuni personaggi inessenziali e alla fine ininfluenti rispetto alla narrazione. Dirò di più, sperando di non risultare troppo ingeneroso: il problema è che BGB non è neppure un grande narratore: sorvolando sulla relativa goffaggine dei dialoghi, anche la stessa ambientazione storica, che avrebbe potuto e dovuto essere uno dei punti di forza del romanzo, è contrassegnata un po' da una sorta di etichettatura di luoghi e situazioni: lì la latteria, qua la nebbia, da un'altra parte il tram, da un'altra ancora la partita col Milan di Liedholm o le discussioni sui fatti d'Ungheria, e così via: l'impressione generale è alla fine quella di un libro in costume (come potrebbe esserlo uno sceneggiato televisivo), più che di un libro calato e immerso nelle atmosfere dell'epoca. Inoltre BGB rinuncia anche alla mimesi linguistica, preferendo adottare un linguaggio attuale che accentua il senso di distanza del lettore dagli anni e dal contesto narrati: credo che né Guerini né alcuno dei suoi contemporanei avrebbe usato espressioni come “apparato desiderante” o “il sistema di attese che regge quel messaggio cifrato”. D'altra parte GBG, assecondando un'inclinazione analitica della cultura e della forma mentis intellettuale ebraica (dalla cabala a Sigmund Freud, da Woody Allen alla recente e bizzarra romantic comedy Un appuntamento per la sposa), si crede in dovere di dover spiegare ogni azione e ogni comportamento di ciascuno dei personaggi esplorandone minuziosamente il retroterra psicologico. L'epopea di Guerini (investigatore corpulento, placido, riflessivo, introverso, intuitivo, tutti aspetti che richiamano alla mente il suo monumentale collega francese) finisce per sembrare una specie di Maigret cui Simenon abbia aggiunto alle canoniche 150 pagine un altro centinaio di pagine di glosse psicologiche ed esplicative. Non proprio necessarie... CIME TEMPESTOSE di Emily Brontë |
AutoreMauro Caron possiede, tra i suoi molti talenti, quello della culturagenerale. Tra gli altri suoi pregi, è superficiale, non sa parlare in pubblico (intendendosi per pubblico assembramenti di persone da una in su) - ecco perché la scelta del blog -, è pigro ed incostante - ecco perché il blog non durerà. Archivi
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