LE CORREZIONI di Jonathan FrazenLe correzioni esce nel 2001 giusto in tempo per essere il miglior romanzo del XXI secolo. Se solo fosse uscito un paio d'anni prima, sarebbe stato imbarazzante metterlo a confronto con i grandi della letteratura del '900. Ma essendo uscito oltre la soglia del nuovo secolo/millennio, il romanzo ancora oggi, alla fine del 2019, può essere senza esagerazioni nominato tra i migliori. Certo non ho letto tutti gli altri romanzi usciti in questo quasi-ventennio (temo di averne letti ben pochi, in realtà), come credo non l'abbiano fatto gli altri critici e giornalisti che l'hanno parimenti messo in cima alle loro classifiche, ma Le correzioni mi ha stupito e lasciato ammirato per una qualità di scrittura davvero rara. Leggerlo oggi poi (io l'ho fatto tra settembre e ottobre di quest'anno) getta una luce retrospettiva sul futuro che aspettava la società americana descritta nel libro dopo la fine della sua narrazione: lo shock micidiale dell'11 settembre (l'attentato avvenne qualche giorno dopo l'uscita del libro) o la gravissima crisi del sistema del capitalismo finanziario (una gigantesca correzione, usando il metro di Frazen) che scosse il mondo intero dal 2008. Quella raccontata da Frazen è sostanzialmente la saga di una famiglia wasp (white anglo-saxon protestant) composta dai cinque protagonisti, ambientata tra Saint-Jude, una cittadina del Midwest, Philadelphia, New York, oltre che deviare verso una grottesca puntata a Vilnius e una disastrosa crociera in mare. C'è Alfred, il capofamiglia, ingegnere ferroviario, un solido, quadrato uomo del Midwest, chiuso fin quasi all'anaffettività (la sua massima dimostrazioni di amore per i figli, che pure gli imporrà un prezzo altissimo, sarà espressa con la distanza il silenzio), duro con se stesso, con la moglie e con i figli, ma tormentato dalle tentazioni sessuali durante le assenze per lavoro, la cui mente lucida e antisentimentale e il cui spirito tutto d'un pezzo sono minati dall'avanzare del morbo di Parkinson; c'è Enid, sua moglie, che ha vissuto nell'ombra del marito, subendone le tacite ostinate decisioni, anche quando si trattava dell'educazione dei figli o di scelte decisive per le economie e il futuro della famiglia, adattandosi ad una visione puritana e conformista della propria vita che vorrebbe imporre a sua volta all'esistenza dei figli, e che si aggrappa ai riti esteriori della sua propria rappresentazione della famiglia. E ci sono io tre figli adulti della coppia. Gary, il primogenito, ha ereditato lo spirito razionale del padre e vorrebbe rivoltare contro i genitori una visione pragmatica e realistica del loro invecchiamento e declino; uomo di successo, si trova però a dover gestire il rapporto con una moglie bella ma il cui comportamento di razionale ha ben poco, e che con istintiva e maliziosa strategia cerca di alienargli le simpatie dei tre (di nuovo tre) figli. Chip ha un carattere più debole e una realizzazione sociale molto più problematica; insegnante all'università, si trova privato dell'incarico dopo una tumultuosa (e chimicamente pompata) relazione sessuale con una provocante studentessa; dipendente economicamente dai prestiti della sorella, alle prese con una sceneggiatura scritta e riscritta senza mai arrivare a compimento, si trova invischiato in una bizzarra truffa ordita ai danni di creduloni investitori americani da un affarista lituano che sarebbe poi l'ex-marito della sua attuale fidanzata, che l'ha abbandonato proprio durante una visita dei genitori. La più giovane, Denise, è una bella ragazza diventata una delle chef più creativa e più contesa di Philadelphia, ma la cui vita sentimentale è estremamente tribolata: dopo una serie di relazioni con uomini più vecchi di lei (sostituti della figura del padre?), e dopo la scoperta di una seconda sessualità (la negazione della figura del padre?) si ingarbuglia a sua volta in relazioni contemporanee con il suo principale (che ha costruito per/insieme a lei una sorta di ristorante-cattedrale in un ex-edificio industriale) e la di lui moglie. Il tutto confluisce verso il sogno romantico e falsamente consolatorio di Enid: un ultimo Natale con la famiglia intera riunita. La narrazione di Frazen passa senza soluzione di continuità da un personaggio all'altro, di volta in volta protagonista di una sezione del libro, lasciato e ripreso durante il corso del romanzo. Scartando le scene di gruppo (gli stessi pranzi che dovrebbero vedere la famiglia riunita sono afflitti da differenti frustrazioni; più spazio viene addirittura concesso alle tavolate che vedono Alfred e Enid con i compagni di crociera scandinavi), Frazen si concentra su scene a uno o due personaggi. Come i personaggi, anche i toni del romanzo si alternano, inclinando a volte più verso il dramma, a volte verso la commedia o il comico (soprattutto nelle disavventure di Chip). Nella varietà dei toni sfiorati dallo scrittore - un narratore onnisciente partecipe del destino dei suoi personaggi e nello stesso tempo a una distanza prudenziale ed ironica - si può affermare però che un unico destino accomuni i personaggi: e cioè l'impossibilità di conseguire la felicità. La famiglia, l'infanzia, l'intimità domestica, l'amore, il sesso, l'amicizia, la realizzazione professionale, il successo economico: nulla può garantire la felicità a questi privilegiati abitanti del primo mondo, belli, maturi, benestanti. Malgrado il distacco dello scrittore dalla materia che mette in pagina, la potenza e la capacità di penetrazione della sua narrazione è tale da rendere a tratti quasi penosa la lettura per chi (e non è difficile che succeda) si è trovato a vivere e ad affrontare qualcuna delle situazioni descritte nel libro. La copertina dell'edizione Einaudi (che riprende quella originale americana) ritrae un bambino anni '50, seduto ad una tavola imbandita, presumibilmente in una giornata di festa: ha capelli biondi ben pettinati, una camiciola a quadri e un farfallino; ma la sua postura è ingobbita, il suo sguardo da sotto in su torvo e corrucciato; un piccolo uomo chiamato al tavolo di un mondo adulto che già sente su di sé il peso della presente e futura inadeguatezza. La malattia degenerativa e inarrestabile di Alfred non è che la dimostrazione icastica che nessuna correzione può difenderci dalla discesa nell'abisso intorno al quale avvitiamo i nostri passi della vita terrena (l'unica che ci sia data, d'altra parte). Ma la grandezza di Frazen (e sia reso massimo onore alla traduttrice Silvia Pareschi) non sta tanto, per quanto mi riguarda, in quello che racconta, ma nell'uso della lingua con cui lo racconta. E' vero che lo scrittore, che proviene dal postomodernismo, esagera a volte in competenza. Che sia chimica, finanza, neuroscienza, gastronomia, storia lituana, contrattualistica, psichiatria clinica, politica ferroviaria, o qualsiasi altra materia in cui si imbatta sulla sua strada, Frazen si impunta a dimostrare di essere il primo della classe, dissertando di tutto con sfoggio ironico e talvolta irritante. Ma Frazen è un genio della lingua. Perfino quando si imbarca in uno dei numerosi elenchi, apparentemente ben poco necessari, che punteggiano il racconto, come quello ad esempio degli alimenti scaduti e deteriorati che Denise si incarica di sbarazzare dalla casa della madre, riesce ad incantare e a provocare godimento con una descrizione dall'aggettivazione sontuosa e insieme sintetica, precisa e insieme evocativa. Che si tratti di definire con poche parole la qualità della luce che entra da una finestra, o lo sconvolgimento di una mente aggredita dalla demenza; che sia lo sconcerto dei parenti di fronte alla malattia di un congiunto, o la confusione morale e sentimentale di Denise; che sia il delirio erotico di Chip alimentato dalle droghe o la contorta prigione coniugale in cui si trova ingabbiato Gary, o le “raffiche su raffiche di entropia” che soffiano contro la casa dei Lambert, il linguaggio di Frazen colpisce quasi a ogni frase, incanta, sorprende con l'esattezza, l'inventività, l'audacia, l'aggettivazione formidabile. Le correzioni è in definitiva un libro in cui c'è ben poco da correggere. I tentativi di trarne un film sono giustamente falliti (nessun film potrebbe tradurre la squisitezza linguistica di Frazen, che, di fronte alla prospettiva, disse che non gli importava nulla di cosa avrebbero fatto del libro i realizzatori cinematografici); eppure il romanzo contiene personaggi, intrecci, storie a sufficienza per una o più dense stagioni telefilmiche. Chissà se un giorno avremo occasione di vederle.
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LA STORIA di Elsa MoranteNegli Usa, terra d'origine di molti dei nostri miti contemporanei, hanno anche il mito del Grande Romanzo Americano, il romanzo che dovrebbe riassumere la storia, il carattere, lo spirito dell'America (intesa come Stati Uniti). Noi in Italia, mi sembra che il Grande Romanzo Italiano ce l'abbiamo già. L'ha scritto una donna ed è stato pubblicato 45 anni fa. Ne scrivo ora, dopo così tanto tempo, saltando del tutto il dibattito storico-critico-politico-ideologico prodotto in questi decenni, basandomi solo sulle mie impressione e sulle mie emozioni, perché l'ho letto solo adesso. Sui miei scaffali, reali o immaginari, stava sulla mensola dei grandi classici, quei mostri sacri, grandi anche nel senso del ponderoso numero di pagine, di cui rimando continuamente la lettura, e che alla fine non so se mai leggerò, come l'Ulysse di Joyce, o Guerra e pace, o I fratelli Karamazov, o Dumas o Balzac. Nell'estate del 2019 non so perché è arrivato il momento, e ho letto finalmente La storia di Elsa Morante, un po' su carta, un po' su e-reader, un po' a casa, un po' in metrò, un po' a letto, un po' su diverse spiagge o sulle sponde del lago, rimandandone sempre a sua volta la conclusione della lettura, per il dispiacere presentito di lasciare andare i suoi personaggi, di perderli, di vedere compiersi il loro destino presumibilmente crudele, all'interno di quel flusso crudele che è la Storia che continua, con i puntini di sospensione finali a chiudere e nello stesso tempo a rimandare ad altri tempi futuri, non meno aspri e ferali. La storia parte infatti dall'immensamente grande - dalla storia del mondo vista attraverso i suoi rivolgimenti e conflitti, che riempiono i paragrafi dedicati all'inquadramento storico delle vicende narrate, per periodi più o meno lunghi o anno per anno negli anni cruciali della Seconda Guerra mondiale -, per raccontare poi un brano della storia italiana del '900 – dalle leggi razziali durante il fascismo agli anni della guerra e oltre -, e al suo interno a sua volta chinarsi a raccontare dentro e ai margini della città di Roma personaggi piccoli piccoli, quelli le cui vicende vengono completamente ignorate dai libri di storia. La piccola e umile maestra Ida, l'esuberante figlio Ninuzzo, il piccolo Giuseppe (autonominatosi e chiamato da tutti Useppe), frutto dello stupro compiuto da un soldato tedesco, sono il piccolissimo nucleo elementare su cui la narrazione de La storia è costruita e articolata. Ma una volta giunto all'infinitamente piccolo, a sua volta la narrazione si espande, rievocando a ritroso vicende e personaggi precedenti, conglobando e rendendo a momenti protagonisti assoluti, magari per poche pagine, una miriade di altri personaggi: soldati tedeschi, partigiani, ebrei, anarchici, levatrici, soldati in ritirata dalla Russia, operai, sfollati, intere e composite famiglie, ragazze-madri, gattare, prostitute, protettori, ragazze di campagna, ragazzi sbandati, tossicodipendenti, perfino gatti, cani, uccellini. E' un'ottica solipsistica, dove il personaggio più “sociale”, Ninuzzo, scompare ad un certo punto per ricomparire alla madre e al fratellino solo a singhiozzo prima di sparire del tutto, e dove i legami più forti sembrano essere quelli che si stabiliscono tra i due fratelli e tra loro e i cani (prima Spritz, poi l'indimenticabile Bella). Ida è una solitaria, incapace di condividere con altri perfino le paure, le preoccupazioni e i dolori più grandi e tremendi (andrà a partorire lontano da casa, di nascosto, come una bestiola); Useppe, bambino vivace ed espansivo, si andrà chiudendo sempre più al mondo sociale; Davide, che si potrebbe definire con un eufemismo un amico di famiglia, pur animato da ideali di utopia sociale, è incapace di comunicare con altri sia nella propria quotidianità che ancor più nei suoi sgangherati tentativi di apostolato politico. Eppure queste cellule solipsistiche entrano volenti o nolenti a far parte di un affresco narrativo più grande di loro, popolato di personaggi, volti, eventi, luoghi; e di un affresco storico più grande ancora, che li trascende e all'interno del quale, se non ci fosse l'autrice – e, possiamo dire, le arti del raccontare, come la letteratura e il cinema soprattutto – diventerebbero invisibili al momento, e perduti e dimenticati nella dimensione del tempo. Al contrario, i personaggi de La storia si scolpiscono nella memoria pur nella loro apparente insignificanza, nella loro debolezza e modestia. Esistenze trascurabili per la Storia, personaggi indimenticabili grazie all'autrice, che si fa testimone diretta, intestandosi personalmente la conoscenza di fatti e ricordi relativi ai personaggi, pur senza palesarsi mai all'interno della narrazione. E' un'epica al contrario, quella de La Storia, in cui non ci sono eroi o eroismi (non a caso nessuno dei personaggi principali muore a causa della guerra in senso stretto), e dove anche le poche azioni di guerra legate alla Resistenza o alla sua repressione sono descritte con il crudo orrore che la manifestazione e l'esercizio della violenza portano intrinsecamente con sé. La storia è il male, il teatro assurdo in cui si mettono in scena le lotte eterne per il potere e per la sottomissione o l'eliminazione dell'altro; ma anche la dimensione naturale è segnata dalla caducità e dal principio sempre attivo della corruzione. L'unica via di fuga sembra allora l'esercizio della bontà, la curiosità verso il mondo, l'apertura panica alla bellezza che il creato tuttavia, malgrado tutto, offre alle nostre esistenze. La prosa della Morante – volutamente semplice e accessibile, tutta rivolta al pubblico più vasto possibile, per cui volle che il libro uscisse da subito in edizione economica - si tiene funambolicamente in equilibrio, per le centinaia di pagine del libro, tra il racconto distaccato, quasi freddo, di un soggetto narrante onnisciente e trascendente, che non si immedesima definitivamente in nessun personaggio, e invece la vicinanza ai personaggi in cui si avverte una pietas vibrante e misericordiosa, e grazie alla quale entra con acume e sensibilità nella loro psicologia e finanche nei loro sogni e nei loro incubi, fino a farci immedesimare nel profondo nei caotici terrori di Ida, o nella frustrazione umana, politica ed esistenziale insieme, di Davide. E che dire di Useppe, se non che è uno dei bambini più belli dell'intera letteratura mondiale – o per lo meno che mi sia mai capitato di incontrare – e uno dei suoi personaggi più memorabili, il cui sodalizio con Bella, la sua apertura ingenua e fiduciosa verso il mondo, il suo essere vittima comunque della violenza della storia e della società e del male di vivere, sono commoventi sino alle lacrime. Sono convinto che La storia sia il libro che andrebbe fatto leggere agli studenti delle scuole medie superiori italiane. Con tutto il rispetto per Alessandro Manzoni, direi che sarebbe ora di rimettere I promessi sposi (con i suoi frati e i suoi bravi, i fidanzatini e le monache lussuriose, i don Rodrighi e i don Abbondi, gli Innominati nei castelli e le epidemie di peste bubbonica) sullo scaffale dell'800, e passare ad altro. Alla storia del '900, a temi storici ancora vivi e attuali, che fondano e che toccano ancora il nostro presente (le leggi razziali, il fascismo, la Resistenza) e ad altri universali ed eterni. Abbiamo il Grande Romanzo Italiano, sfruttiamone la sua forza didascalica e il suo grande potere emotivo, e speriamo che qualcuno impari ad amare la letteratura; che qualcuno si innamori di Useppe; e che imposti la sua vita e le sue azioni in modo che altri Useppe non debbano subire le sue stesse sofferenze. GAUGUIN - L'ALTRO MONDO di Fabrizio DoriAncora la pittura al centro sia della storia raccontata, che della vita del protagonista, che dello stile grafico, anche nella seconda graphic novel. Anch'essa intitolata al personaggio protagonista, ma stavolta con un cognome anziché con un nome proprio, e un cognome che annuncia a chiare lettere il tema dell'opera. Fabrizio Dori racconta infatti in Gaugin – L'altro mondo (ed. Tunué) la storia di uno degli artisti più famosi al mondo, non solo per la propria opera artistica, ma anche per la propria peculiare vicenda umana. Gaugin perde il padre, antimonarchico in fuga dalla Francia di Napoleone III, durante un viaggio transoceanico; passa alcuni anni dell'infanzia in Perù; torna in Francia ma poi si imbarca e gira il mondo; ancora in patria si sposa, ha cinque figli, si impiega regolarmente; ma si innamora della pittura nell'ambiente degli impressionisti e stringe amicizia con Pissaro, Cézanne, Degas, e altri artisti; si trasferisce a Copenaghen presso la famiglia della moglie, ma ne fugge; tra una puntata in Bretagna e l'altra, va a Panama e in Martinica; torna in Francia dove stringe un ambivalente amicizia con Van Gogh; poi va dall'altra parte del mondo e si trasferisce a Tahiti dove vive in mezzo agli abitanti del posto e stringe una relazione more uxorio con un'indigena maori di 13 anni; maturata la propria pittura a contatto con un mondo primitivo e affascinante torna esaltato a Parigi, dove non ottiene né comprensione né successo; torna frustrato a Tahiti, viaggia verso le isole Marchesi, ha un paio di figli da un'indigena quattordicenne, tenta il suicidio, si ammala e infine muore. Personaggio eccentrico, scrittore logorroico, autore del proprio personaggio, narcisista e lamentoso, Gaugin è però animato da un'autentica inesausta curiosità e ansia di ricerca, artistica ed esistenziale. La pittura è il suo demone, la sua maledizione, ma anche, in senso profondo, la sua ragion d'essere. Da questa massa di materiale biografico romanzesco (di cui Gaugin fu primo narratore oltre che artefice) Dori estrae molto, in un racconto di ampio respiro che abbraccia l'intero arco della vita dall'artista, pur concentrandosi in particolare sul periodo tahitiano, chiave di volta della vicenda umana e artistica, e riuscendo a comporre un credibile ritratto esistenziale che delinea i tratti spirituali oltre che biografici del personaggio: l'insaziabile inquietudine, l'aspirazione a forme di vita e di arte più vicine alla naturalità dell'uomo che alle costrizioni e alle ipocrisie dell'Occidente civilizzato, la sperimentazione di nuove forme di espressione pittorica, la consapevolezza del suo valore e del suo portato innovativo e rivoluzionario, al quale i suoi contemporanei dimostrarono per lo più incomprensione e indifferenza, quando non aperta, esplicita e beffarda ostilità. Se Ada però finiva per apparire snervato e inconcluso nel suo rifiuto di una strutturazione forte del racconto, Gaugin sembra invece sovrastrutturato dal punto di vista narrativo: prologo mitologico, divisione in capitoli, cornice simbolista, flashback, fughe oniriche, cambiamenti del punto di vista che alternano racconto in prima persona, dialoghi con gli spiriti, narratore “antropologico”, punti di vista di altri personaggi come nella prima parte e nell'epilogo, arricchiscono il racconto ma rischiano di nuocergli in termini di fluidità. Dal punto di vista iconografico Dori ricostruisce magistralmente il mondo del pittore mutuandone lo stile, con il prologo e il cuore del libro formato da grandi tavole dai colori esotici e puri, accesi e squillanti, preceduto invece dai colori più freddi e dal disegno più tradizionale delle parti europee, e con un segno invece che si fa sempre più rudimentale e legnoso (Gaugin si cimentò tra l'altro anche nella xilografia e nella scultura in legno), man mano che la vicenda procede verso il suo epilogo. Si tratta comunque in entrambi i casi, Ada e Gaugin, di opere personali ed ispirate, di grande splendore visivo, non solo da leggere e guardare, ma da possedere, per tornare a sfogliarle e a godere con gli occhi della bravura grafica e pittorica dei rispettivi autori. Due recenti graphic novel (edite nel 2018), Ada e Gauguin - L'altro mondo, hanno al centro, sia pur con approcci differenti, il tema della pittura e dell'arte, che si legano indissolubilmente alla vicenda esistenziale dei rispettivi protagonisti, al centro delle rispettive narrazioni. ADA di Barbara BaldiIl primo, Ada (ed. Oblomov), rappresenta l'opera seconda, dopo la bellissima prova di Lucenera, di Barbara Baldi, illustratrice e colorista dalla solida formazione, già rodata e consolidata attraverso le esperienze compiute alla Disney e alla Marvel, e nel lavoro compiuto per la versione animata delle Winx. Lo stile della Baldi è quello già adottato nella precedente graphic novel, un racconto estremamente e forse ancor più rarefatto dal punto di vista testuale, fondato su una narrazione per immagini al contrario densa, di grande intensità e raffinatezza pittorica. I dialoghi sono radi e scarni; la vicenda di Ada, ambientata nella campagna viennese all'inizio del secolo scorso, si sostanzia di silenzi, immagini della natura o della solitaria protagonista. Ada infatti è sola. La madre ha abbandonato la famiglia; il padre è una specie di orco incattivito e rancoroso, che sfoga sull'innocente figlia adolescente le presunte colpe della moglie fedifraga. Sottoposta al duro lavoro dei campi, asservita e angariata da un padre-padrone completamente anaffettivo e privo di comprensione, Ada ha un solo compagno, un cagnolino, e una sola passione: il disegno e la pittura, che coltiva segretamente in una capanna nascosta nel bosco. La conoscenza e la relazione a distanza instaurata con un artista viennese, la porteranno alla fine a osare l'inosabile, pur di uscire dalla propria miserabile condizione. Il fatto che la Baldi faccia un ampio uso degli strumenti digitali oltre a quelli tradizionali, come le matite e l'acquarello, non toglie assolutamente nulla, anzi sembra esaltare la qualità pittorica di ogni sua immagine. Tanto il racconto è scarno ed esangue, con intere pagine consecutive senza dialoghi o didascalie, tanto la narrazione per immagini ha un respiro ampio, quasi solenne, con le pagine del libro di grande formato che non ospitano mai più di cinque quadri per pagina, ma spesso soltanto tre, due o una sola immagine, a conquistarne l'intero spazio, con intere sequenze dedicate all'esplorazione della natura, dei cieli, dei paesaggi, delle atmosfere. Il talento pittorico e coloristico della Baldi si impone prepotentemente su quello narrativo, e la cura dedicata a cesellare la luce infuocata del tramonto o del taglio di un raggio di sole sui capelli fulvi dell'amata protagonista, o sul suo viso arrossato, o a graffiare le sue labbra screpolate che probabilmente non sono mai state baciate, o ancora a evocare la trasparenza di un vestitino estivo tra la luce e le ombre di un bosco, è evidentemente superiore e preponderante rispetto a quella dedicata alla costruzione dei dialoghi (o dei rabbiosi monologanti sfoghi paterni). Se emergono tratti iconografici fiabeschi (il padre orco, il mistero del bosco, le erbe e la preparazione della pozione magica), e tecniche rubate alla fotografia, come un suggestivo uso del fuori fuoco, l'impianto pittorico si rivela e si autoconfessa nelle numerose citazioni pittoriche disseminate tra le pagine: l'uso atmosferico dell'acquarello rimanda a quello del Gipi a colori (Una storia), ma è la pittura classica a marcare il racconto e a smentire il tono sommesso della narrazione: la generale influenza degli impressionisti francesi, l'Andrew Wyeth dei campi riarsi, le spigolatrici di Millet, l'Ofelia di Millais, le donne che si acconciano di Toulouse Lautrec, l'Emilie Flöge ritratta da Gustav Klimt - che Ada incrocia fugacemente in persona sulla soglia di un caffè viennese. Perché l'artista con il quale Ada intrattiene una corrispondenza segreta è effettivamente Egon Schiele, di cui la ragazza ha modo, durante una sua fuga, di visitare l'atelier ingombro di quadri e di chiacchiere artistiche. Il citazionismo della Baldi - che sicuramente accresce e arricchisce il piacere provato dal lettore le sue pagine, e non certo ne sminuisce il valore - ha addirittura suscitato polemiche inopportune e assurde accuse di plagio, misconoscendo il ruolo intrinseco e connaturato, necessario, dell'influenza pittorica in una storia in cui la pittura è come si è detto cuore e ragion d'essere della narrazione. La passione per la pittura che la Baldi esprime esplicitamente nel mettere su carta la storia di Ada, si rispecchia nella passione per la pittura della sua (anti)eroina, che cerca nell'espressione artistica una via di fuga da una realtà e una quotidianità meschina e avvilente; così il modo della rappresentazione rispecchia suggestivamente il tema della narrazione. INGANNEVOLE E' IL CUORE PIU' DI OGNI COSA di JT LeroyDopo aver letto Ingannevole il cuore più di ogni cosa, ho chiesto cosa ne pensassero ad un gruppo di lettori di letteratura contemporanea su Facebook. Oltre a molti commenti, alcuni positivi, alcuni negativi, alcuni di lettori e lettrici che non erano riusciti a finire il romanzo a causa della sua crudezza e della sua sgradevolezza che in tanti hanno ritenuto insostenibile, un discreto volume della discussione ha finito per concentrarsi sull'“inganno” relativo all'identità dell'autore/autrice del libro. Molti lettori apparivano addirittura offesi, indignati e disgustati dalla menzogna fondamentale (il libro non è una storia vera raccontata in prima persona da chi l'ha realmente vissuta) e da tutte le farsesche pantomime seguite al successo editoriale. La vicenda editoriale e cinematografica Difficilissimo d'altra parte sottrarsi. Alla sua uscita, all'inizio degli anni 2000, il libro fu presentato come opera autobiografica di Jeremiah “Terminator” (lo pseudonimo con cui furono pubblicati i primi racconti dello stesso autoe) Leroy, scrittore giovanissimo dalle rare apparizioni pubbliche. Nel 2006, dopo che i libri di TJ Leroy avevano avuto uno strepitoso successo mondiale, si scoprì che in realtà il libro - e gli altri pubblicati allo stesso nome - erano opera di una scrittrice più anziana, Laura Albert. Non erano quindi stato scritti da un giovanissimo, non erano stati scritti da un maschio, non si trattava di storie autobiografiche. La persona che interpretava TJ Leroy nelle sue sporadiche apparizioni pubbliche (con parrucca bionda e occhialoni da sole) era in realtà Savannah Knoop, sorella giovanissima del compagno dell'autrice. Non era quindi un ragazzo ma una ragazza, e non era neppure l'autore né l'autrice dei romanzi. Nel 2007 venne addirittura condannata per frode per aver firmato con il suo pseudonimo il contratto per i diritti cinematografici del suo libro Sarah. Nel frattempo Asia Argento aveva deciso di trarre un film da Ingannevole (pare che la stessa vera autrice fosse presente agli incontri tra la regista e il fake dell'autore, travestita da agente di quest'ultimo), aveva conosciuto Jeremiah/Savannah, si diceva che avesse flirtato con lui/lei, aveva detto di non essere a conoscenza che fosse una ragazza, salvo poi essere smentita dall'interessata. L'interprete del film che venne poi realizzato era un bambino di nome Jimmy Bennett, che qualche mese fa ha rivelato di essere stato violentato (anni dopo, ma ancora minorenne) dalla regista, che ha negato e controaccusato il ragazzo, che nel 2015 era stato a sua volta accusato di aver avuto rapporti sessuali con una minorenne. Tanto per proseguire in questa infinita galleria di specchi deformanti, ora, giusto un paio di mesi fa, al festival di Toronto, è stato presentato il film Jeremiah Terminator Leroy, che, con un cast (femminile) di tutto rispetto (Stewart, Dern, Kruger, Courtney Love) rielabora la storia, che anziché chiarirla aggiungerà sicuramente una bella dose di confusione e ambiguità riguardo a verità e menzogne, realtà e rappresentazioni, persone e impersonificazioni. Il libro Eppure, non bisogna a mio parere dimenticare che dietro questo retroterra sgangheratissimo si nasconde un romanzo ben scritto e di un'intensità, giustappunto, sconvolgente. Benché il realismo e la verosimiglianza non siano di per sé garanzia di un risultato estetico di valore (molti capolavori della letteratura mondiale non possono vantare - né se li proponevano come obiettivi - né l'uno né l'altra), il fatto stesso che il romanzo sia stato sentito dai lettori come realtà, come il resoconto di un vissuto impossibile da fingere o da inventare, la dice lunga sulla capacità dell'autore/autrice di asseverare una storia che per il lettore comune ha dell'incredibile. La storia è, credo, nota: un bambino viene legalmente sottratto agli amorevoli genitori adottivi dalla giovanissima madre naturale, Sarah, che lo trascina nella sua vita nomade e debosciata di prostituzione, droga e follia. Ingannato e tradito dalla propria stessa madre, picchiato, drogato, violentato, snaturato perfino nella sua natura maschile, Jeremiah è per brevi periodi sottratto alla pazzia materna solo per essere affidato a quella dei nonni, fanatici religiosi integralisti e sadici, che non gli risparmieranno altre violenze e altre umiliazioni. In un libro che infrange tabù sociali e culturali quasi ad ogni pagina, a rendere possibile una lettura altrimenti insostenibile è per l'appunto la qualità letteraria, la capacità di farci vedere una storia tanto terribile attraverso gli occhi di un bambino, l'alternarsi di toni torbidi come incubi o acqua sporca e i toni cristallini di brevi squarci lirici. Quello che è più terribile e insostenibile, nel libro è non solo che la malvagità (in qualche modo incosciente, inconsapevole, quali innocente) esercitata nei confronti di un bambino privo di difese (fisiche e psicologiche: Sarah inculca nel piccolo anche la convinzione di essere stato rifiutato dai genitori adottivi perché cattivo, di essere ricercato dalla polizia, di essere minacciato di morte e di ogni sorta di punizione) provenga dalla sua stessa madre (testimone imperturbabile o addirittura divertita degli abusi cui viene sottoposto e che quasi incoraggia, salvo poi ingelosirsi per rivalità sessuale), a sua volta deformata moralmente e psicologicamente dalle sevizie sofferte ad opera dei propri genitori; ma anchor più che il male si radichi nell'anima stessa del bambino, lo corrompa intimamente, devasti le sue inclinazioni per pervertirle orrendamente. Jeremiah, che racconta, non dimentichiamolo, in una perturbante prima persona che chiede quindi in continuazione l'immedesimazione e l'empatia del lettore, non sarà solo succube di una violenza insensata, ma ne diventerà dipendente e la desidererà con tutto se stesso, felice di essere oggetto di attenzione e di desiderio - non potendo avere l'amore e la cura che ogni bambino dovrebbe avere -, anche se l'una e l'altra si manifestano da parte degli adulti sotto le vesti di una brutalità devastante fisicamente, moralmente e psicologicamente. Nelle pagine del libro, che si fanno via via più intollerabili, si accumulano quindi violenza, tossicodipendenza, pedofilia, omosessualità, prostituzione, malattia mentale, fanatismo religioso, sadomasochismo, ma in un quadro coerente. Chi legge si rifiuta talvolta di credere che le disavventure di Jeremiah, che abita nel mondo opulento e civilizzato degli Stati Uniti dei nostri giorni, possano essere reali e verosimili; ma nello stesso tempo è preso alla gola dall'agghiacciante certezza che là fuori nel mondo, non solo in continenti lontani ma magari anche non lontano dalla propria porta di casa, situazioni simili e altrettanto terrificanti si verifichino in ogni momento di ogni giorno che trascorre sulla terra degli uomini. Non importa la farsa editoriale montata sul successo del libro: importa che la voce di un bambino ci abbia raccontato una storia straziante e inaccettabile, e che noi l'abbiamo creduta vera, l'abbiamo sentita intimamente, ne siamo rimasti scossi, turbati, scioccati, disgustati, morbosamente affascinati; che siamo stati costretti a confrontarci, nostro malgrado, con il male e a riflettere sulle forme assurde, impensabili eppure tragicamente verosimili che esso può assumere. La letteratura sgorga dalla vita e dalla storia dei propri autori, ma non gli appartiene, e non va giudicata secondo la loro moralità o immoralità. E Ingannevole il cuore sopra ogni cosa, nel suo piccolo e per quanto la cosa possa essere spiacevole, è letteratura. L'AMICA GENIALE di Saverio Costanzo |
AutoreMauro Caron possiede, tra i suoi molti talenti, quello della culturagenerale. Tra gli altri suoi pregi, è superficiale, non sa parlare in pubblico (intendendosi per pubblico assembramenti di persone da una in su) - ecco perché la scelta del blog -, è pigro ed incostante - ecco perché il blog non durerà. Archivi
Aprile 2024
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