ADAGIO di Stefano SollimaAdagio si basa su due prese di posizioni radicali ed evidenti, che ne costituiscono i punti di forza e contemporaneamente potevano essere elementi di appesantimento (e fortunatamente non è così).
La prima è assumere come (anti)eroi del film i rappresentanti di una generazione di malavitosi arrivati all'ultima spiaggia della vita: segnati da un passato violento, dal carcere, malandati, soli o male accompagnati, abitanti in alloggi squallidi e fatiscenti, ciechi, dementi, malati. Animali invecchiati male, che sembrerebbero solo voler morire nelle loro tane senza che nessuno gli rompa più i coglioni. La seconda è che la città è vecchia, malata, fatiscente, sull'orlo di una catastrofe apparente. La Roma della Storia, quella dal fascino millenario, è assente dal film. Come i suoi personaggi, che forse in altri tempi hanno vissuto anni d'oro di vite belle, ricche e violente, ora anche la città è ripiegata sui suoi margini, sulle sue periferie piagate e ripiegate sui suoi edifici anonimi, che sembrano tenuti insieme dai viadotti delle tangenziali. I suoi orizzonti sono perennemente arrossati da un incendio che sembra inestinguibile, come rosi da un neroniano cupio dissolvi; la sua aria è percorsa da faville, i suoi cieli, percorsi dal rombo degli elicotteri come in un'Apocalypse Now borgatara, piovono cenere. E' in questa città che si dipana l'ultima avventura di tre ex-amici-nemici, che condividono un passato di crimini, di violenze e di colpe, anche reciproche. Un ragazzo quasi imberbe (il freschissimo esordiente Gianmarco Franchini) che si è fatto incastrare in un gioco pericoloso è il filo che torna a legarli uno all'altro (i tre coprotagonisti, Servillo, Mastandrea e Favino, nel film i tre insieme non si incontrano mai, se non in vecchie fotografie sbiadite), e tutti e quattro alla loro nemesi, il carabiniere corrotto (Giannini) che ha ordito la trama di un'operazione illegale sfuggitagli subito di mano. I tre vecchi vengono coinvolti in una storia che non li riguarda, ma che porta con sé di nuovo, come il rigurgito mortale di un passato mai completamente digerito, sofferenza, violenza, morte. L'Adagio che dà il titolo al film indica un tempo musicale lento o molto lento, largo e formale, apparentemente adatto all'età dei protagonisti (due di loro, per darsi un appuntamento segreto - per dire - scelgono la sala d'aspetto di un'Asl); ma Sollima, che si è costruito un solidissimo mestiere in Italia (Acab, Suburra) e all'estero (Soldado, Senza rimorso), al cinema e alla tv (Romanzo criminale, Gomorra, ZeroZeroZero) e si ormai accreditato come il più autorevole rappresentante del cinema di genere in Italia, costruisce in realtà un noir duro, teso, nichilista, con una colonna sonora che va dalla trap alle composizioni originali dei Subsonica, fino al Califano di Tutto il resto è noia, scelto per commentare musicalmente il trailer per il suo carattere nostalgico e insieme pervaso da un ruvido e romanesco tedio esistenziale. Se gli elementi più deboli del film si concentrano soprattutto nell'innesco narrativo (un'operazione di dossieraggio che non sembrerebbe meritare né tanta elaborazione e dispiego di mezzi né lo spargimento di sangue che ne consegue) e, ancora più stranamente, nel finale, con una sparatoria nell'affollatissima stazione Tiburtina, Sollima (con il cosceneggiatore Bises) ha però l'astuzia di aggiungere alla trama noir alcuni elementi metaforici forti, che attribuiscono al racconto un valore aggiunto. Oltre a quelli insiti nelle situazioni di partenza, già indicati all'inizio (la senescenza degli uomini e della città), si veda ad esempio l'insistenza evidente sulle chiavi e sulle serrature, che dovrebbero tenere bene serrate delle porte che in realtà non riescono in una sola occasione a tenere fuori il passato e la pervasività inarrestabile della violenza. Ma se non ci si può rifugiare in un luogo sicuro, nemmeno la fuga è possibile, e i tentativi di lasciare la metropoli infestata sono frustrati dallo scacco, in una città imprigionata dalla propria stessa (auto)distruzione. Sollima (grazie anche alle scenografie e alla fotografia affidate rispettivamente ai fidati Paki Meduri e Paolo Carnera) dirige l'elegia funebre del suo romanzo criminale con un gusto visivo ruvido e nello stesso tempo elegante e autorevole, conducendo i suoi derelitti personaggi verso un esito che è iscritto nella natura stessa del noir, e che è forse eccessivamente sottolineato negli epitaffi visivi che chiudono il film. In un mondo di uomini dove i personaggi femminili sono praticamente assenti o ininfluenti, un Mastandrea cieco, un Servillo tarlato da una demenza senile vera o simulata, un Favino senza capelli sfigurato dalla malattia, si divertono (nella cupezza generale) alle prese con ruoli all'americana, trasformistici e virtuosistici, umorosamente caratterizzati fin dai nomignoli (Paul Newman, Daytona, Il cammello). Giannini (affiancato da Francesco Di Leva) si fa efficacemente carico della darkness del suo "cattivo tenente", mentre Franchini porta una ventata di sventata incoscienza e di ingenuità in un mondo che ha visto tutte le sfumature del noir e tutte le brutture dell'esistenza. In definitiva, Adagio (insieme a L'ultima notte di Amore, con Favino protagonista affiancato dall'ottima Linda Caridi) è sicuramente uno dei migliori noir dell'anno, in grado di non sfigurare al confronto con i modelli francesi o d'oltreoceano.
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FERRARI di Michael MannNon sono un appassionato di automobilismo, non so molto di Enzo Ferrari, non sono un fanatico di Michael Mann, il cui cinema ho sempre trovato freddo e un po' affettato, non amo i biopic che mi costringono a confrontare la finzione – di cui non sono quindi in grado di giudicare fedeltà, attendibilità o eventuali scarti creativi - con una realtà che di solito conosco in modo insufficiente.
Ma amo il cinema e quindi Ferrari l'ho visto comunque, perché Mann è uno che il cinema sicuramente lo fa. Vi dirò subito tuttavia che dopo la visione non sono diventato un cultore di Mann (il regista celebre per (non) aver fatto recitare insieme per la prima volta De Niro e Pacino), né un appassionato di corse, e nemmeno mi sono ricreduto sui biopic.Qui poi è tutto più strano e straniante perché a raccontare la storia di un mito nazionale è un regista americano, sulla base di una sceneggiatura scritta da un americano (deceduto 14 anni fa) tratta dal libro di uno scrittore americano, in un film dove i protagonisti sono attori americani (Adam Driver, Shailene Woodley, Patrick Dempsey), spagnoli (Penelope Cruz) e brasiliani (Gabriel Leone). In realtà il film non racconta la storia di Enzo Ferrari, ma meno di un anno della sua vita. E' il 1957. La fabbrica Ferrari è in crisi finanziaria. Produce meno di 100 macchine all'anno, anche se le vende a caro prezzo a ricconi e reali. Enzo è un avventuriero dell'industria automobilistica, un amateur, un dilettante che non pensa al marketing ma alle competizioni sportive, per le quali perfino le donne (nel film non lo si dice) non sono un elemento necessario della vita di un uomo, ma la “ricompensa” del suo lavoro. E' questo probabilmente l'aspetto che ha affascinato di più gli autori, quello di un ingegnere geniale che è al contempo uno sportsman, uno strano dandy combattente e competitivo interessato più alle vittorie che alle vendite, più ai primati che ai soldi. Ma per salvare la Ferrari si profila all'orizzonte la necessità di un'alleanza con qualche tycoon dell'industria, che potrebbe essere il Ford della Ford (un passaggio già visto di recente anche in Le Mans '66 – La grande sfida, che insolitamente racconta la sfida tra gli eroi che stanno dalla parte del Golia dell'industria delle auto, la Ford appunto, contro il piccolo Davide impertinente della Ferrari) o l'Agnelli della Fiat. Ma per stringere un'alleanza Ferrari dovrebbe rientrare in possesso della metà delle sue proprietà, intestate alla moglie Laura. Con la complicazione che Laura, indispettita dalle sue infedeltà, gli ha sparato un colpo di pistola in casa, ancora prima di scoprire che Enzo ha un'altra amante, Lina Landi, e pure un figlio, mantenuti in una bella dimora di campagna. E intanto si avvicina la data della Mille Miglia - una gara pazzesca che si corre su strade ordinarie da Brescia a Roma e viceversa – e bisogna mettere insieme per tempo delle macchine prodigiose e una squadra di vincenti. Nel racconto emergono altri particolari del passato del Commendatore: il rifiuto della Fiat, le corse da pilota in gioventù, gli amici persi sulle piste da gara, gli irripetibili momenti felici con la moglie, la dolorosa perdita del figlio, morto a 24 anni, la conoscenza della nuova fiamma (ops, lapsus: Fiamma si chiama la donna che conoscerà l'anno successivo e che frequenterà fino alla morte) con cui vive rinnovate gioie domestiche. Mann divide la sua attenzione tra le complesse vicende sentimentali di Ferrari (diviso tra un figlio amato e morto e uno vivo e bambino; tra una donna che fa parte della sua vita e un'altra con la quale vorrebbe forse vivere la restante parte), le preoccupazioni per le sue precarie riuscite imprenditoriali, l'innesto in squadra di un nuovo affascinante pilota spagnolo, e la preparazione e poi lo svolgimento delle Mille Miglia. Il maestro del cinema d'azione si concede solo corse a grande velocità sui bolidi rossi – più che altro impegnate in giri di prova - e una delle più spettacolari e agghiaccianti scene di incidente stradale mai viste al cinema (cosa ispirerà ai piccoli Spielberg-Fablemans di oggi?). Un problema aggiuntivo è quello che dicevo all'inizio (analogo immagino a quello che hanno avuto i francesi quando hanno visto il Joaquim Phoenix-Napoleone Bonaparte di Ridley Scott) e amplificato dalla visione del film in lingua originale. Siamo in Emilia ma tutti parlano in inglese (a parte qualche “commendatore” e qualche “signora”) - e la Cruz in un inglese da spagnola; quando si parla di soldi non si parla di lire ma di dollari; quando non si capisce un nome, ad esempio “Piero” si fa lo spelling come fanno solo gli anglosassoni. E come se non bastasse, nel ruolo del protagonista c'è il quarantenne Adam Driver, truccato per interpretare un uomo che nel '57 di anni ne aveva quasi 60. Tutto insomma sembra un po' posticcio. Mann non abusa dei paesaggi italiani, limitandosi a balenanti scorci di città durante le gare, e a strade di montagna e di campagna, e nel comporre il suo ritratto privato finisce per trascurare con disinvoltura alcuni elementi degni di nota dal punto di vista spettacolare, come la spiegazione delle regole della Mille Miglia o lo stesso svolgimento della gara finale, dove sembra che al regista non importi molto (ed è così) di chi vinca e chi perda, o ancora il processo cui fu sottoposto Ferrari dopo il terribile incidente avvenuto durante la gara. Parche didascalie finali e niente foto storiche sui titoli di coda (forse per non rimarcare la scarsa somiglianza dei protagonisti con i personaggi reali); ci si deve accontentare dei bolidi in bianco e nero che rombano selvaggiamente nelle sequenze d'apertura, memorie di un'epoca “rampante” e selvaggia della storia dell'automobilismo. THE KILLER di David FincherBasterebbero i titoli di testa a istillare qualche dubbio, una serie di microsequenze con un campionario di metodi di omicidio che non stonerebbero in un telefilm anni ‘70 o come uno degli amati cataloghi per il von Trier de La casa di Jack.
I timori si confermano lungo tutto il primo episodio del film, “Parigi – Il bersaglio”, durante il quale il protagonista, un killer professionista che si (e ci) annoia aspettando il momento propizio per svolgere il proprio compito, ci ammorba con voce fuori-campo, sovrapposta ad una serie di sequenze altrimenti mute, propinandoci una montagna di statistiche di cui potevano anche fare a meno, sciorinando i propri precetti professionali e profondendosi in una sequela non richiesta di riflessioni pseudofilosofiche e di meditazioni zen sull'arte dell'attendere e dell'uccidere. Tutta la prima parte è giocata su un rispecchiamento di riprese oggettive/soggettive, sia visive che auditive. Si sarebbe portati a credere che Fincher stia impostando un dispositivo in grado di portarci dentro gli occhi, le orecchie e addirittura, grazie alla voce off, dentro il cervello e i pensieri del killer. Insomma, la speranza è che Fincher ci stia preparando qualche trucchetto dei suoi, o per lo meno qualche riflessione sulla percezione e sulla mente dell’assassino. Ma qualcosa non torna. Il sedicente camouflage (da “turista tedesco”) è risibile; le precauzioni di questo megaprofessionista, che cancella maniacalmente ogni traccia della propria presenza e quasi della propria esistenza, lasciano ben presto il tempo che trovano, dal momento che lo stesso ritiene poi di fare merenda su una panchina proprio sotto il naso del portiere del palazzo dove dovrebbe commettere l’omicidio; e, arrivati al dunque, l’infallibile commette un’enorme cazzata. Nel secondo episodio “Repubblica Dominicana – Il rifugio” i dubbi non fanno che crescere. L’assassino con paranoie di sicurezza arriva alla sua lussuosa villa ai Caraibi, che però è stata assaltata da qualcuno che voleva ucciderlo. I killer del killer hanno lasciato in bella vista tracce di ogni genere (orme, decine di mozziconi di sigarette, sangue) e poi, dopo aver pestato un po’ la sua ragazza, se ne vanno insalutati in aereo senza nemmeno aspettare che lui arrivi. Tutto il film d’altra parte pare pieno di dispositivi di sicurezza elettronici, a simboleggiare le ossessioni contemporanee di sicurezza, controllo, visibilità, eppure si direbbe che non c’è mai una telecamera o un dignitoso sistema d’allarme quando servirebbe. A questo punto già si può capire dove andranno a parare gli altri quattro episodi, che vedranno il nostro imperturbabile (anti)eroe impegnato in un’operazione di vendetta per l’affronto subito e di prevenzione di ulteriori aggressioni che lo porterà a cercare mandanti ed esecutori dell’attentato a New Orleans, in Florida, a New York e a Chicago, prima del ritorno nella propria Itaca caraibica. Il killer senza nome e dai mille nomi (Fincher sottolinea la sfilza di nomi e documenti falsi da lui esibiti in giro per il mondo) continua a ripetere come una mantra la propria filosofia fumettistica (ops! il film è tratto da un fumetto!), che tuttavia non sembra dettare tutti i suoi comportamenti, tra imprudenze, trasgressioni e forse una sorta di impercettibile coinvolgimento emotivo. Difficile a dirsi, anche perché Mortensen ha imparato con Ridley Scott a mantenere un’impassibile espressione da androide. Intanto il nostro sbaglia i calcoli, uccide inutilmente, si fa sorprendere su terreno avverso da un terribile energumeno, si concede il lusso di un colloquio con une dei suoi obiettivi all’unico apparente scopo di offrire a Tilda Swinton l’occasione di fare un numero dei suoi. E quel che è peggio è che il film sembra procedere a tensione invertita: all’inizio il film mostra il nostro uccidere anche chi passa per strada, così tanto per abbondare; ma arrivato al suo climax con un divertente e brutale scontro corpo a corpo a metà dello svolgimento, si adagia su una china che discende dolcemente verso un epilogo in cui il pistolero, arrivato all’ultimo e più alto livello dei suoi obiettivi, decide con filosofia di rinfoderare la sua arma del momento e di abbandonarsi a qualche ultima riflessione esistenziale su uomini e superuomini. Critici e social si stanno scervellando tentando di distillare perle di senso e saggezza dalle massime di vita dell’assassino e di trovare una giustificazione teoretica per quest’opera che non sembra provenire dall’autore cervellotico di opere originalissime come Seven, Fight Club o anche Zodiac (che rifondava il film di serial killer seguendo una cronaca storica e frustrante), e neppure dal biografo visionario di Mank; ma The Killer sembra poter soddisfare (forse: i venti minuti di stagnazione iniziale sono una dura prova da superare per tutti) esclusivamente un pubblico non cinefilo in cerca un thriller lineare, elegante e in fondo non troppo impegnativo. Difficile dire se è colpa della dimensione fumettistica alla fonte (una graphic novel firmata dai francesi Matz e Luc Jacamon), dalla sceneggiatura poco brillante di Andrew Kevin Walker, o da una regia che sembra aspirare più all’eleganza superficiale che alla sostanza (sia in termini di spessore tematico che di pulp cinematografica). Alla fine rimane il dubbio di un divertissement un po’ vacuo alla Soderbergh, o, a voler essere maligni, di un prodotto pensato già in un’ottica televisiva, realizzato con diligenza e senza molta applicazione, perché tanto gli spettatori arriveranno lo stesso, senza bisogno di pagare il biglietto all’entrata. Senza contare che di killer taciturni, efficienti, implacabili, filosofeggianti o meno, ne abbiamo già visti tanti, dal samurai dalla faccia d’angelo di Jean-Pierre Melville, a quello sensibile alle farfalle di Suzuki o a quello filosofo di Jarmusch; da quelli coscienziosi di Mann a quelli sentimentali di Besson o a quelli già ritirati a vita privata di Cronenberg, solo per citare alcuni dei più famosi. The Killer non aggiunge nulla di nuovo e non è originale neppure nella scelta del titolo: l’anno scorso i coreani hanno prodotto un film con titolo identico; quest’anno sono usciti i Killers di Scorsese e prima o poi si spera arriverà anche sui nostri schermi lo spassoso Hit Man (sinonimo di killer) di Linklater già presentato a Venezia. Ecco - già che ci siamo - quando ne avrete l’occasione guardatevi questo e buon divertimento. C'E' ANCORA DOMANI di Paola CortellesiC'è ancora domani, che già di per sé è un titolo consolatorio, ha messo d'accordo tutti, pubblico e critica, come raramente succede - soprattutto per un film italiano.
E si tratta di un film in bianco e nero, in dimessa veste neorealista, che tratta un tema pesante come la violenza domestica e di genere; non insomma - con rispetto parlando - di un film di Checco Zalone o di Aldo Giovanni e Giacomo, di quelli che mettono d'accordo tutti sul piano di una comicità schietta con una problematicità tematica quasi sempre ridotta ai minimi termini o trattata comunque attraverso toni comico-satirici. I pregi del film sono già stati messi ampiamente in rilievo: il riallacciarsi ad una delle più gloriose eredità del cinema italiano (il neorealismo appunto, che qui già si vena di commedia, per quanto nera); la capacità di raccontare un tema grave con leggerezza; le invenzioni linguistiche (la violenza girata come un musical); l'uso di canzoni contemporanee; la capacità di riallacciare una vicenda individuale ad un cambiamento epocale della storia e della società italiana, ecc. Ma le reazioni che ho letto, anche sui social, con la loro forte componente affettiva ed emozionale, mi fanno pensare che il film abbia suscitato qualcosa di più che l'apprezzamento per un bel film, e che abbia invece intercettato qualche bisogno più profondo del pubblico italiano. Da una parte c'è indubbiamente la personalità di Paola Cortellesi, che non è solo una show woman eccezionale, che è riuscita in tutti i campi in cui si è cimentata (comica, cantante, conduttrice, attrice televisiva, cinematografica e teatrale, sceneggiatrice, regista di videoclip, ecc.), ma che ben può rappresentare l'emblema della donna contemporanea realizzata: coraggiosa, capace, intelligente, emancipata, artefice del proprio meritato successo; e tutto questo dando di sé un'immagine sempre sorridente, positiva, ironica ed autoironica. Proprio questa sua autorevolezza le permette di mettere qui in gioco con altrettanta credibilità una componente più dolente e drammatica – con il viso stesso esibito nella sua nudità e spigolosità -, nel ruolo di una casalinga-lavoratrice-moglie-badante-madre di famiglia, vittima, in ogni e ciascuno di questi ruoli, di una sopraffazione di origine patriarcale. Ma forse c'è qualcosa di più, e ho pensato che uno delle cause “nascoste” più rilevanti nel determinare il successo film sia proprio quella che è in realtà più eclatante e sotto gli occhi tutti, ovverossia la sua esibita matrice neorealistica. C'è ancora domani è lontanissimo dal cinema del reale così come lo concepiamo oggi, e il suo punto di partenza è quindi un modello squisitamente cinematografico e dichiaratamente finzionale. Ma forse il pubblico, tra le mille e mille proposte che il cinema e la televisione gli offrono, a volte in modo frastornante, nel campo della fiction, proprio di questo aveva inconsciamente bisogno: di un film diverso perché simile a quello lontano nel tempo, apparentemente dimenticato ma radicato nell'inconscio collettivo e di ciascuno di noi (persino, forse, degli spettatori più giovani); di una proposta dall'apparente semplicità e freschezza proprio perché assimilata ad un cinema passato (ri)nascente e quasi primigenio. Un film che riparte quindi dalle origini della storia (perché tutto ciò che sta prima del neorealismo appare davvero come preistoria), da un paese e da un cinema che deve ricostruirsi dalle proprie macerie materiali e morali, e perfino estetiche: C'è ancora domani riparte dal bianco e nero e grigio in appartamenti seminterrati; dai cortili popolari dove si parla e si sparla e dove i bambini corrono e schiamazzano; dagli uomini in canottiera e dalle donne in parannanza; da un epoca in cui la Repubblica italiana neppure esisteva. Nella musica è successo con i Måneskin, che hanno resuscitato dal tempo dei vinili l'energia basica del rock, intercettando un bisogno evidentemente latente, una nostalgia collettiva – dopo tutte le declinazioni di pop, rap, trap, techno, latino, e chi più ne ha più ne metta - che magari nessuno ancora sapeva di provare. E come i Måneskin resuscitano il rock, ma con la malizia e il bagaglio tecnico e musicale di chi fa musica oggi, e non nel negli anni '70 del secolo scorso, così Cortellesi reinterpreta il neorealismo e il cinema degli anni '40-50, ma iniettandovi una sensibilità tematica - etica e sociale - contemporanea e con una consapevolezza linguistica aggiornata ai tempi. Così ad esempio usa il ralenti dove il neorealismo nemmeno se lo sarebbe immaginato; fa una lunga carrellata circolare intorno a Delia e Nino, per mostrare la loro infatuazione, come Fassbinder girava intorno alla coppia dei suoi protagonisti (il primo esempio che mi ricordi) con una steadycam a 720°; usa una canzonetta come commento ad una scena di brutale violenza, come hanno fatto Kubrick in Arancia meccanica, o più recentemente Bong Joon-Ho in Parasite o la Ducorneau in Titane; usa canzoni contemporanee in contesti anacronistici come ha fatto, ad esempio, la Niccharelli in Miss Marx. Non sto parlando di citazioni o omaggi, né tanto meno di copiature; sto solo dicendo che la Cortellesi usa (naturalmente) un linguaggio contemporaneo impiantandolo sul modello di un cinema d'altri tempi. Parte da una sensazione di semplicità, quasi di naïveté, per introdurre uno stile e dei temi che trascendono il prototipo per farsi cinema dei nostri tempi, capace di attrarre l'attenzione e il favore dello spettatore contemporaneo. Mi sorge il dubbio di stare dicendo delle banalità, ma credo che proprio qui risieda la radice del fascino che il film ha riscosso tra gli spettatori; nel twist tra una promessa di rassicurante semplicità e una sensazione di gratificante complessità. Un'operazione analoga, e qui azzardo sempre di più, a quella compiuta dalla Gerwig con Barbie: partire da un gioco infantile universalmente riconosciuto e riconoscibile, a suo modo tranquillizzante, per iniettarvi poi un pensiero femminista molto contemporaneo e attuale, tutt'altro che puerile; e, per fare invece un esempio negativo, è l'operazione che invece non è riuscita ai Manetti Bros con Diabolik: anche loro sono partiti da un'icona “semplice”, ma hanno commesso l'errore snob di mantenerne filologicamente intatta la semplicità ingenua e vintage, pensando bastasse a se stessa, senza apportare forti elementi nuovi drammaturgici o stilistici. Non nascondo che non tutto mi ha convinto in C'è ancora domani, a partire da un didascalismo insistito e da alcune soluzioni stilistiche e narrative (tra queste ultime, ho trovato davvero fuori luogo quella relativa al nero della Military Police e all'attentato al bar dei futuri suoceri); ma onore a Paola Cortellesi per il risultato conseguito. Perché sembra facile ma non lo è; onore quindi al carattere che ha costruito (una Delia che sarebbe probabilmente piaciuto ad Anna Magnani); alla rappresentazione di un'Italia che rinasce ma che – tra delatori e borsaneristi – si porta non pochi pesi sulla coscienza; all'intuizione di un finale emozionante dove il riscatto da una sopraffazione individuale patita passa per un atto di libertà e di partecipazione collettiva, come le storiche elezioni del 2 giugno 1946; per avere avuto l'illuminazione di una sequenza finale che materializza visivamente l'inno resistenziale e resilienziale di Daniele Silvestri, che canta: E senza scudi per proteggermi né armi per difendermi Né caschi per nascondermi o santi a cui rivolgermi Con solo questa lingua in bocca E se mi tagli pure questa Io non mi fermo, scusa Canto pure a bocca chiusa ____________________________________________________________________________________________ ...ma al maligno Oruam Norac è rimasto qualche dubbio: leggi qui le sue riflessioni su Face/Off LUBO di Giorgio DirittiNell’incipit del film una compagnia di artisti da strada si esibisce nella piazza di una cittadina svizzera nel Cantone dei Grigioni, in un giorno del 1939. C’è un orso che balla, ma poi si accascia al suolo; ma non è un vero orso: il suo ventre si apre e ne scaturisce una zingara che suona un’armonica; ma non è una vera zingara: il suo volto è quello di un maschio baffuto. La scena sembra prefigurare il destino dell’uomo, Lubo, costretto prima a vestire una divisa militare invece dei suoi pittoreschi vestiti, poi a nascondersi sotto altri abiti e altre identità, fingendo e dissimulando per buona parte della sua vita. Siamo infatti alla vigilia della Guerra mondiale, e la Svizzera arruola forzosamente il nomade Lubo (appartenente all’etnia degli Jenitsch), per sorvegliare i confini nel timore di un’aggressione tedesca. Ma mentre Lubo è lontano dalla famiglia, entra in azione anche il piano del governo svizzero per aiutare i bambini di strada, un progetto pseudo-umanitario che si propone di sanare la piaga del nomadismo: ovvero, il governo si appropria dei bambini senza genitori o che vivono in situazioni disagiate e li ricovera in istituti, dove in teoria dovrebbero essere istruiti e integrati nella società, mentre in realtà vengono avviati all’adozione da parte di famiglie di svizzeri senza figli, o di contadini che hanno bisogno di braccia in più per i lavori pesanti. Da un giorno all’altro, Lubo, che sta prestando il suo servizio in mezzo alle montagne nevose, si trova privato di tutta la sua famiglia: i suoi tre bambini vengono sequestrati dal governo, sua moglie (incinta) muore in una colluttazione con i gendarmi che le stanno portando via i figli, e il resto dei parenti fugge cercando rifugio in Francia. Lubo continuerà testardamente per anni a cercare di rintracciare i propri figli, scomparsi e dispersi; ma, da vittima ferita profondamente nei propri affetti più cari, si renderà ben presto colpevole di atti nefasti, per i quali non sembra provare alcun rimorso ma che determineranno il suo destino. Divenuto improvvisamente e fortunosamente molto ricco, Lubo dapprima profonderà energie e ricchezze per ritrovare i suoi bambini; poi proverà a ricrearsi una propria famiglia assumendosene il carico, ma i suoi sforzi sono puntualmente destinati allo scacco. La storia di Lubo è destinata a ripetersi, stavolta a causa del suo peccato originale, e tutto quello che ha perso lo perderà di nuovo. Il film da un lato mette in luce un episodio reale e poco noto degli anni della Guerra, in cui, proprio mentre la Germania trascina l’Europa nell'abisso del proprio demenziale incubo razzista, anche la civile e ordinata Svizzera intraprende una sua operazione eugenetica di pulizia etnica e di deportazione ai danni delle minoranze e dell’infanzia; ma dall'altro sceglie come protagonista un “eroe” ben poco edificante, un uomo che si macchia a sua volta di un omicidio efferato ai danni di un innocente (tra l’altro ebreo) e della sottrazione di beni e identità altrui. Diritti espande in un film di quasi tre ore lo spunto narrativo contenuto nelle poco più di cento pagine de Il seminatore di Mario Cavatore, tralasciando tra l’altro le conseguenze e gli strascichi tragici della vicenda principale - narrati nel romanzo ma omessi nel libro - e mettendo in ombra un aspetto della vendetta messa in atto da Lubo e preannunciato dal titolo stesso dell’opera letteraria. Nel libro, infatti, Lubo intraprende una metodica opera di seduzione di donne svizzere, al preciso scopo di ingravidarle e perpetuare in questo modo quella “razza” bastarda che il buon governo svizzero tentava di eliminare. Nel film questo aspetto è molto più sfumato, e le operazioni di seduzione da lui messe in atto verso tre donne appaiono piuttosto dettate dal desiderio (la moglie di un funzionario di banca), dall’utilitarismo (una signora dell’alta borghesia introdotta nelle associazioni “caritatevoli” che potrebbe aiutarlo nella ricerca dei bambini scomparsi) o dell’affetto sincero (una cameriera d’albergo italiana già mamma). Il tema della vendetta si potrebbe forse individuare solo nel secondo caso, dove l’oggetto della seduzione si è appena espressa contro il razzismo nei riguardi degli ebrei – tra i quali vanta degli amici perbene – salvo concludere invece con candide dichiarazioni a favore della sterilizzazione degli zingari, per il bene della società e dell’umanità. Riportato al suo nocciolo essenziale, il Lubo di Diritti è la storia di un personaggio due volte vittima della Storia e della propria storia, che emerge dalla devastazione di una perdita solo per andare ad incontrarne una nuova; un personaggio contraddittorio che reagisce alla sua condizione di vittima incolpevole solo per farsi carnefice a sua volta e scontare alla fine un duro prezzo per i propri crimini. Il protagonista trova una convincente ma non scontata incarnazione nella presenza ambigua di Franz Rogowski (attore tedesco che nel Freaks Out di Mainetti stava dall'altra parte della barricata, in divisa nazista), uno “zingaro bianco” con baffetti e pronuncia blesa, spregiudicato e determinato fino all’ossessione ma sensibilissimo agli affetti famigliari. Il film si inserisce con coerenza nella filmografia di Diritti, per ambientazione fisica e storica. Il trattamento della materia narrativa, come si diceva, si dilunga in una durata importante, procedendo a passo lento e soffermandosi sulla cura di dettagli e su aspetti della storia forse non essenziali. Volti, caratteri, paesaggi e ambientazioni funzionano benissimo nel delineare luoghi ed epoche, ma considerata anche la lunghezza del film, si poteva forse lavorare maggiormente sulla fluidità e la credibilità di alcuni passaggi drammaturgici decisivi. Rimane comunque l'inusuale coraggio di Diritti di raccontare una colpa storica poco conosciuta, mettendo al centro dell'attenzione una vittima a sua volta colpevole. ANATOMIA DI UNA CADUTA (Anatomie d'un chute) di Justine TrietIn Anatomia di una caduta ci sono due cadute, e di conseguenza due esplorazioni anatomiche. C'è una caduta letterale, reale, fisica: Samuel è caduto (si è buttato, è stato spinto) dalla finestra di uno chalet sulle montagne vicino a Grenoble, dove da qualche anno si è ritirato a vivere con la moglie Sandra, facendo convivere l'attività di insegnante, le velleità da scrittore, la ristrutturazione della casa di montagna, la cura del figlio non vedente, il rapporto in crisi con la moglie. E' una caduta che viene esaminata analiticamente, per ricostruirne la dinamica, consultando diversi esperti, riproducendola in simulazioni virtuali (disegni, schemi, filmati) ma anche reali, con l'uso di un manichino al posto del corpo. Ma nello stesso tempo, e ancora di più, la caduta ha un valore metaforico, e trasforma il film nel racconto dell'anatomia di un matrimonio, di un rapporto di coppia entrato in crisi quando il figlio Daniel ha subito un incidente che l'ha privato della vista, della cui responsabilità Sandra accusa ingenerosamente il marito; al dramma sono seguiti i tradimenti di Sandra, che ha avuto relazioni sessuali con altre donne e di cui ha in parte informato il marito. Ad acuire la tensione c'è stata poi la diversa riuscita delle aspirazioni letteraria di entrambi i coniugi: brillante quella di Sandra, che ha pubblicato un libro dopo l'altro, attingendo spesso a piene mani dalla propria vita famigliare e dalle sofferenze ad essa legata; fallimentare quella di Samuel, che non è mai andata oltre la stesura di qualche progetto abortito, e la cui mancata riuscita lui imputa alla moglie, che non gli avrebbe dato il tempo necessario per poter dedicarsi alla scrittura. La sceneggiatura di Justine Triet e di Arthur Harari si concentra in modo analitico sulle diverse modalità di percezione della vita di Sandra e Samuel e del loro rapporto di coppia. A parte le foto di famiglia e un corpo esanime nella neve, Samuel è assente dal film, sia quando è in vita che ovviamente dopo la sua morte prematura, salvo comparire tardivamente in un lunga scena ambientata nel passato; tutta l'attenzione è concentrata su Sandra, ben presto sospettata di omicidio, a causa della strana dinamica che ha portato alla morte di Samuel, e sul figlio Daniel, oltre che sui personaggi (giudici, avvocati, investigatori, testimoni, funzionari) che cercano di ricomporre il puzzle intimo delle loro scene da un matrimonio. Il fascino paradossale del film deriva dal fatto che gli sceneggiatori e la regista non ci portano mai nell'interiorità di Sandra, lasciandoci costantemente nel dubbio riguardo la sua colpevolezza; la Triet sembra mettersi dei panni di uno degli spettatori, che assiste al tentativo di accertamento della verità, con la l'unica prerogativa di avere accesso ai differenti punti di vista, alle diverse percezioni della storia tra Sandra e Samuel e alle diverse ipotesi sulla morte di quest'ultimo. Il racconto ha un'apparente linearità (c'è un solo flashback), ma costruisce intorno all'ellisse centrale e fondamentale (l'omissione della scena primaria della morte di Samuel, che avviene fuori dal campo visivo e narrativo) un vero e proprio caleidoscopio in cui la storia dei due coniugi, e la personalità di Sandra, emergono gradualmente, per frammenti, senza mai dare una visione totale e definitiva. Ricostruire l'insieme dei punti di vista offerti del film è davvero sorprendente. Gli stessi protagonisti della tragedia, Samuel e Sandra, messi a confronto l'uno contro l'altro in una lunga scena di dialogo (un flashback scaturito da una registrazione audio di una loro discussione, presentata al processo), rivelano una percezione completamente opposta ciascuno dell'altro, della loro relazione, e dei motivi della crisi che ormai li divide. Il figlio ipovedente (se la cecità spesso nel cinema è una metafora, viene da dire che forse Daniel è il personaggio che alla fine “sa vedere” cosa – forse - è successo realmente) deve ricostruire attraverso l'udito e il sentimento che cosa sta succedendo o è successo tra suo padre e sua madre. Ma la relazione tra i due è raccontata per suggestioni anche nei libri scritti da Sandra, dove gli spunti autobiografici vengono forzati ad essere interpretati come conferma dei suoi sentimenti ostili verso il marito e dei suoi propositi omicidi. Una raggiera di altri punti di vista sono forniti dagli altri personaggi coinvolti: l'avvocato amico di gioventù di Sandra, e tacitamente innamorato di lei, ma in fondo in dubbio rispetto alla sua innocenza; l'accanito procuratore che vuole dimostrare la sua colpevolezza; il giudice che scruta tutti dall'alto del suo scranno; una giovane che si era recata ad intervistare Sandra nel suo chalet, forse oggetto di un tentativo di seduzione da parte della scrittrice; Marge, la giovane funzionaria incaricata di convivere con Sandra e Daniel (quest'ultimo è contemporaneamente un testimone chiave ma anche il figlio dell'unica indiziata) durante il periodo di svolgimento del processo; e poi i vari testimoni chiamati a dire la loro opinione o gli esperti che devono fornire le loro valutazioni tecniche; e, infine, ma importantissima, la registrazione audio che getta una luce (solo uditiva per gli spettatori del processo, messa in scena invece nel già citato flashback per quelli cinematografici) sulle tensioni tra i due coniugi, talmente ambigua da non riuscire neppure a chiarire con certezza chi, al termine di un diverbio sempre più acceso, abbia colpito chi. A moltiplicare il gioco degli specchi, perfino le lingue parlate sono due - il francese e l'inglese, come lingua mediana tra i due coniugi, uno francese e l'altra tedesca – e i nomi di moglie e marito sono gli stessi degli attori che li interpretano. La Triet alla fine si schiera e il film, senza sciogliere completamente tutti i dubbi degli spettatori, fornisce un finale comunque consolatorio, dove i sentimenti di molti dei personaggi sembrano convergere in un'unica direzione. I sentimenti, appunto, poiché in una realtà frantumata e indecidibile, alla fine, come Marge suggerisce a David, è solo il sentimento che può indicare la giusta direzione. Il film non è un thriller, come alcuni spettatori meno avveduti sembrano aver creduto, forse ingannati dalla locandina del film (che peraltro ha vinto la Palma d'oro al Festival di Cannes), ma regge benissimo per le due ore e mezzo di durata la tensione psicologica, prima durante le indagini preliminari, e poi nell'avvincente dramma giudiziario che occupa la seconda parte. A parte qualche zoomata un po' brusca e incongrua, alla riuscita del film contribuisce non poco la prova degli attori: al centro c'è ovviamente Sandra Hüller (già pluripremiata nel ruolo della figlia del bizzarro protagonista in Vi presento Toni Erdmann di Maren Ade), fredda e appassionata insieme, sospesa nell'ambiguità di un carattere di cui si fatica a cogliere appieno la verità e sul crinale di un personaggio non simpatico che pure finisce per suscitare empatia negli spettatori e nelle spettatrici; intorno a lei un convincente gruppo di attori tra cui Swann Arlaud (l'avvocato difensore), il giovanissimo Milo Machado Graner, nel ruolo del figlio David, e Samuel Theis, nel ruolo del marito, in una sola ma appassionata sequenza. THE PALACE di Roman PolanskiPolanski ha avuto tra le sue corde, fin dai suoi esordi, quella del grottesco: ed è un tono che - a volte dominante, a volte come sfumatura - ricorre lungo la sua filmografia.
Il grottesco pervade interamente The Palace fino a non lasciare più nessuna via d’uscita, lo sommerge come la neve sommerge tombalmente l’albergo di montagna dove si svolge l’intero film. Il film potrebbe essere interpretato come la chiusura di un cerchio rispetto a Che?. Di nuovo, come nel 1972, un luogo di villeggiatura (là una lussuosa villa a Capri, qui un lussuoso albergo sulle Alpi), di nuovo (e come spesso accade nei film di Polanski), un luogo chiuso e claustrofobico (un cul de sac, tanto per citare un altro dei suoi titoli), di nuovo un gruppo di ricchi personaggi bizzarri che si affollano all’interno, di nuovo un miliardario morente, di nuovo la satira feroce e ghignante di un mondo corrotto e declinante. Di nuovo, perfino – sarà una coincidenza? - una coproduzione a partecipazione italiana. Che? Non era piaciuto molto all’epoca, tanto meno è piaciuto The Palace. La differenza, forse, è che Polanski oggi ha novant’anni, e quello che allora era un divertito excursus satirico oggi è un ultimo valzer che malgrado le risate a denti stretti ha un retrogusto un po’ funereo e senile. Quello che manca stavolta è il personaggio giovane e innocente capace di stupirsi di un mondo assurdo e ridicolo. Là una ventenne e sfolgorante Sidney Rome attraversava la galleria di mostri con stupore e meraviglia, e alla fine riusciva a sfuggire ad un mondo immobile che replicava i propri futili riti come i borghesi de L’angelo sterminatore, che Buñuel aveva chiuso in sontuose stanze una decina di anni prima. Qui Sidney Rome c’è ancora, ma come autocitazione temeraria, come maschera grottesca, con il viso invecchiato sfigurato dalla chirurgia estetica. Al posto di un Mastroianni che andava deprivato del suo charme, qui ci sono Barbareschi, che “mostruoso” lo è già consapevolmente di suo, e un MickeyRourke sformato dall’età e dagli interventi plastici. L’Alice nel paese delle meraviglie di un tempo ora è una giovane bene in carne che rimane incastrata sul pene dell’amante miliardario, infartuato per troppo Viagra, e che poi deve fingere di tenerlo in vita fino alla mezzanotte per far decorrere il termine per riscuotere l’eredità. Tra echi da fine del mondo e timori per il big bang del millenium bug, all’orizzonte della Storia, o della sua fine, si affaccia beffardamente dagli schermi televisivi il giovane Vladimir Putin - nominato Presidente erede da un Elstin bollito che decide di dare le proprie dimissioni il 31 dicembre 1999, l’ultimo giorno del millennio – che promette libertà di parola, di coscienza e di opinione: un momento di satira acerrima che non ha bisogno di aggiungere niente alla realtà. Giocando con le parole e le etimologie, le situazioni scatologiche del film, che ci sono e hanno fatto citare ad alcuni critici il cinema dei fratelli Vanzina, sembrano funzionali ad un’escatologia disillusa, disincantata, eppure ancora con il ghigno sulle labbra (come il miliardario di cui sopra, morto durante l’amplesso con un sorriso beato stampato sul volto cadaverico, oppure come l’anziana russa ritratta anche sul manifesto, che crolla ubriaca con la guancia spiaccicata sopra la montagna di caviale che ha nel piatto). The Palace (Hotel) non è più il luogo del circolo vizioso e dell’eterno ritorno di Che?; è invece il luogo della catastrofe, di nuovo inteso in senso etimologico. E’ il luogo da cui non si esce (e c’è chi rimane imprigionato due volte, dentro il sotterraneo/cassaforte, la cui chiave serve per entrare ma non per uscire), definitivamente. Un vuoto pneumatico riempito solo da volgarità, da una ricchezza inutile, e dalla decrepita illusione teratogena di un’eterna giovinezza, sommerso dalle musiche melense e fiabesche di Desplat e, dopo l'ultimo sberleffo, da una montagna di neve, bianca come la morte. TALK TO ME di Danny e Michael PhilippouIl cinema australiano vanta una discreta tradizione di film horror, da Patrick (1978), ambientato in un ospedale, a Wolf Creek (2004), ambientato invece negli immensi spazi dell'outback, fino all'inquitante Babadook (2014), cui hanno collaborato anche i due registi di Talk to Me, senza dimenticare quell'oggetto tuttora misterioso, affascinante e inclassificabile che è il Picnic ad Hanging Rock di Peter Weir.
Talk to Me sceglie un'ambientazione urbana e domestica, concentrandosi sulla giovane Mia, una ragazza di colore, e sul suo gruppo di amici e coetanei. Mia è ancora turbata dalla morte della madre, forse suicidatasi, e trova conforto nell'amicizia di Jade e del suo fratellino Riley, verso il quale nutre un protettivo sentimento da sorella maggiore. Ma la vita della comunità (il film è ambientato in un sobborgo di Adelaide) viene sconvolta da qualcosa di anormale. Già nel prologo un ragazzo invasato accoltella il fratello e poi si pianta un coltello nella fronte davanti a casa. Non si tarda a capire che l'episodio è collegato ad una moda che impazza tra gli adolescenti del posto, che inscenano una sorta di rito satanico utilizzando una strano mano di ceramica ricoperta di iscrizioni e scambiandosi i video di ragazzi e ragazze che cadono in trance dopo aver stretto la mano, invocato gli spiriti con la frase del titolo e lasciandosene possedere per un breve lasso di tempo. La mano sembra infatti mettere in comunicazione con gli spiriti dei defunti. Non solo Mia, disorientata e disprezzata e tenuta a margine da alcuni membri del gruppo di amici, si lascia tentare dalla prova, rimanendone sconvolte e indugiando per più dei 90 secondi concessi, ma permette che anche il piccolo Riley si sottoponga alla scioccante esperienza. Mentre la ragazza si troverà a fronteggiare gli incubi del proprio passato recente, Riley è preda di spiriti malvagi che lo inducono a spaventosi atti autolesionistici; e gli spiriti malevoli li spingono spietatamente uno contro l'altro. Nel film di Danny e Michael Philippou non ci sono gli ammazzamenti a catena di adolescenti, preda di maniaci assassini o di maledizioni demoniache, che in genere riempiono i teen-horror movie, anche se la presenza del manufatto di origini ignote e dotato di poteri sovrannaturali è un cliché che ha invece numerosi precedenti. Se in genere i giovani (e forse più spesso le giovani) vengono puniti con la morte inflitta con i metodi più orribili per le loro trasgressioni sessuali, qui il rito della mano, collettivo, condiviso, tramandabile, mistura di sensazioni eccitanti e nello stesso tempo spaventose, sembra piuttosto alludere all'esperienza della droga. I due autori giocano sulla curiosità morbosa e sulle fragilità degli adolescenti, per costruire un horror dove, tirando le somme, ci sono dei morti (pochi), ma non è l'omicidio, bensì piuttosto il suicidio il mezzo con cui giovani e meno giovani si liberano delle proprie ossessioni. Mia è il fulcro esemplare di queste fragilità: la ragazza, incrinata dalla perdita della madre (a lei sembra rivolto l'invito del titolo), è all'affannosa e confusa ricerca di un nuovo equilibrio, intimorita di non trovare nel padre un appoggio sufficiente, di non riuscire a recuperare un rapporto affettivo appagante (il suo ex-boyfriend ora sta con la sua miglior amica Jade) e di non essere accettata dal gruppo dei pari. Se è per questo che accetta di sottoporsi al rito della mano, è proprio quest'esperienza a distruggere completamente la sua personalità. In balia di spiriti malevoli e bugiardi, Mia finisce col fare il contrario di ciò che vorrebbe, e cioè nuocere a tutte le persone cui vuole più bene. Sulle spalle di Mia (o meglio sul volto di Sophie Wilde, che la interpreta), sta quasi tutto il peso del film; si potrebbe dire che Mia incarna da sola buona parte dei ruoli di un film horror, dalla vittima ingenua e incolpevole alla visionaria, dalla carnefice alla salvatrice, dall'adolescente inquieta allo spirito fantasma. Complessivamente un esordio convincente per i due gemelli trentenni youtuber, che realizzano un horror con la giusta tensione, ma non convenzionale né banale. KILLERS OF THE FLOWER MOON di Martin ScorseseLeo, Bob e Marty Scommetto che se vi chiedessi se Di Caprio e De Niro, attori feticcio a fasi alterne del regista, avessero lavorato insieme in un film di Martin Scorsese, prima di Killers of the Flower Moon, dopo averci fatto mente locale, avreste risposto di no. Eppure Di Caprio, prima di Killers of the Flower Moon, ha realizzato cinque film con la regia di Scorsese, dal 2002 al 2013, e De Niro addirittura otto, dal lontanissimo 1973 fino al 2019 di The Irishman; eppure i due sembrano non essersi mai incrociati sul set del regista. E invece sì. Nel 2015 Scorsese girò un cortometraggio, The Audition, che doveva servire in realtà a pubblicizzare una nuova rete di casinò orientali (Manila, Macao, Giappone) – lui che le grandi case da gioco li aveva descritti con ben altri toni in Casinò – in cui il regista in persona compare nel ruolo di se stesso: ovvero un regista con un nuovo progetto che invita, appunto, Robert De Niro e Leonardo Di Caprio a raggiungerlo in Oriente. Per un attimo i due pensano di recitare finalmente insieme in un film del Maestro, ma scopriranno immediatamente che entrambi si trovano in lizza per lo stesso ruolo, l'uno contro l'altro, con esiti spassosi. Ora che Martin e Robert hanno ormai superato ciascuno gli 80 anni d'età e Leonardo è sulle soglie dei 50, il momento e il piacere di vedere i due attori insieme in un “vero” film del loro mentore (in The Audition forse il ruolo verrà affidato al terzo incomodo Brad Pitt) sono finalmente arrivati e, lo dico subito, è valsa la pena di aspettare. Bob e Leo sono rispettivamente zio e nipote; il primo, William Hale è un possidente allevatore di bestiame in Oklahoma, uno dei cittadini più eminenti di Fairfax, che tiene buoni rapporti sia con la comunità bianca che con quella indiana, entro la cui riserva sorge la cittadina; il secondo, Ernest, è un nipote spiantato, reduce dalla Prima Guerra Mondiale (non proprio un eroe di guerra: lui si occupava delle cucine), che torna a mettersi sotto l'ala protettrice dello zio, che si fa amichevolmente e modestamente chiamare King, il re. Osage Nation e oro nero Ma c'è un prologo. Facciamo un passo indietro: Killers of the Flower Moon inizia in realtà con una sequenza ambientata tra i nativi americani della tribù Osage, che stanno seppellendo per sempre la pipa rituale (si dice che siano stati anche i precursori dei fumatori di marijuana): i tempi stanno cambiando, le tradizioni e la cultura originarie stanno sparendo e quelle dei bianchi stanno definitivamente prendendo il sopravvento. E' vero che le cose cambieranno, ma non esattamente come il chief Osage preconizza: gli Osage erano stati allontanati dapprima dal loro territorio d'origine, il Missouri, verso l'Arkansas, poi, mano a mano che l'avidità dei bianchi metteva gli occhi su nuovi appetibili territori, verso il Kansas, e infine verso l'Oklahoma. Ma qui, ironia del destino, il terreno in cui è insediata la riserva Osage comincia spontaneamente a eruttare petrolio. Siamo negli anni '20 del '900, quando i mezzi di trasporto a motore stanno iniziando a prendere il sopravvento su tutti gli altri, e i giacimenti di petrolio stanno già configurandosi come la meta di una nuova corsa all'oro (nero). Ecco quindi che la vita degli Osage cambia da un giorno all'altro: gli ex-cacciatori di bisonti e razziatori si trasformano in ricchissimi possidenti, acquistano case, macchine e abiti lussuosi (sia pur non rinunciando del tutto agli abiti tradizionali) e si permettono addirittura di assumere domestici e autisti bianchi al loro servizio. E' la loro fortuna e la loro rovina. La strage di Fairfax Ben presto infatti gli avvoltoi bianchi cominciano a volteggiare intorno a loro per approfittare, se possibile usurpandola, della loro inaspettata ricchezza. C'è chi lavora e tratta con loro, chi si fa loro compagno di gozzoviglie, chi gli vende merci a prezzi esorbitanti, perfino chi ne sposa le donne per avere accesso alle loro ricchezze. Ernest è uno dei questi, spinto dallo zio a corteggiare e sposare Mollie, una giovane Osage dal sorriso serafico, enigmatico e malizioso come una Monna Lisa, per cui lavora come chaffeur. Ma c'è chi non si ferma qui. Gli Osage, e le donne prima di tutti, cominciano a morire in circostanze sempre più sospette: chi muore per malattia o per consunzione, chi a causa dell'alcolismo, chi per incidente, chi si suicida, chi viene assassinato. Il numero e la circostanza dei decessi inducono però a sospettare qualcosa di strano, ed Ernest scoprirà che lo zio - sui terreni del quale il petrolio non ha mai fatto la sua comparsa - non si aspetta certo che il nipote attenda la morte per vecchiaia della giovane Mollie per ereditare le sue fortune. Gli Osage sono ormai in allarme e cercano di far luce sulla moria che sta colpendo la loro gente, assumendo investigatori privati (lo sceriffo del posto non sembra darsi molto da fare) e addirittura inviando emissari a Washington per chiedere aiuto al Governo federale. Ma, come dice un personaggio del film, è più facile che un uomo sia condannato per aver picchiato un cane piuttosto che per aver ucciso un indiano. Mentre le morti sospette si succedono e Molly, malata di diabete, malgrado le innovative cure a base di insulina, sta sempre peggio, fa infine la sua comparsa a Fairfax un impacciato agente del neonato Bureau of Investigations diretto da Edgar J. Hoover, e una squadra che comprende anche pellerossa venuti da fuori paese. La verità sgorgherà da Fairfax, come il petrolio è sgorgato dalla sua terra? E se sì, la giustizia farà il suo corso, visto che nell'intrigo è coinvolta mezza della Fairfax bianca, dai possidenti agli uomini della legge, dai medici al becchino del paese? Per dirci com'è andata alla fine, dopo tre ore e mezza di racconto, al posto delle solite didascalie, ci mette la faccia lo stesso Scorsese, nella messa in scena di un programma crime che racconta la storia per una televisione stle anni '50. Per poi lasciare la sequenza finale, com'era stato per il prologo, agli Osage: una loro danza tribale, ripresa dall'alto, a formare una specie di mandala colorato, simbolo di una cultura che ancora resiste malgrado le aggressioni e le angherie subite. Un finale che mi ha ricordato, a torto o a ragione, quello a colori di Schindler's List, quando gli ebrei sopravvissuti depongono una pietra sulla tomba del loro protettore. Una Storia americana Scorsese torna a rivisitare i miti delle origini della nazione americana (anche qui, come nel Birth of a Nation griffithiano, fa la sua comparsa il Ku Klux Klan), ma secondo la sua declinazione prediletta (che lo ha portato a girare alcuni dei suoi capolavori): ovvero una soggettiva all'interno di una comunità gangsteristica. Killers of the Flower Moon (basato sui fatti storici descritti dal saggio Killers of the Flower Moon: The Osage Murders and the Birth of the Fbi di David Grann, edito anche in Italia dal Corbaccio con il titolo Gli assassini della Terra Rossa: Affari, petrolio, omicidi e la nascita dell'Fbi. Una storia di frontiera) si può collocare temporalmente tra i proto-gangster ottocenteschi di Gangs of New York e quelli che attraversano un lungo tratto della Storia americana in Quei bravi ragazzi o The Irishman, fino alla polizia corrotta di The Departed o alla mutazione finanziaria di The Wolf of Wall Street. Quello delineato da Scorsese però, più che una storia del gangsterismo statunitense, si configura come il racconto della Storia americana come fondata – almeno in parte –, connaturata e intrecciata con la storia criminale. I suoi Stati Uniti si configurano paradossalmente - ma non troppo - come una nazione fondata sulla violenza, sul genocidio, sull'usurpazione, sullo sfruttamento dei vizi e delle debolezze umane. La tesi è particolarmente evidente in Killers of the Flower Moon, dove il futuro dell'America, il suo progresso tecnologico ed economico, affondano i propri piedi nel sangue, basati come sono sullo sterminio dei nativi e sulla spoliazione delle loro ricchezze. La posta in gioco è il petrolio, qualcosa che viene dalla terra, anzi da sottoterra (la terra che dovrebbe accogliere la pipa sacra e la fine degli Osage risponde invece facendo sgorgare ricchezza e dando il via ad un nuovo inizio): nativo e sorgivo come gli indiani che da quella terra sono nati e alla quale sono profondamente, religiosamente legati. Nel film si accenna anche alla parallela strage di Tulsa, altro episodio significativo della storia americana, dove, negli stessi anni in cui è ambientato Killers of the Flower Moon, per la precisione nel 1921, decine o centinaia di afroamericani vennero uccisi (il numero esatto non è mai stato accertato) e le case di circa 10.000 “negri” vennero date alle fiamme. Il film inizia con l'arrivo del treno - pieno di lavoratori e di avventurieri - simbolo (anche cinematografico, vedi come esempio tra tutti C'era una volta il West, altra elegia sul volgere di un'epoca) dell'avanzamento del progresso e della conquista del West da parte dei bianchi; ma poi è pieno di automobili, il mezzo di trasporto del futuro, che è anche inizialmente lo strumento di lavoro di Ernest, che proprio grazie al suo lavoro di autista conosce e circuisce Mollie. E' l'inizio di una nuova era, in cui la presenza dei nativi è solo un intralcio alla marcia del progresso e della ricchezza. Il bene e il male, il vecchio e il giovane Gli eroi di Scorsese si dibattono spesso (come enunciano i sottotitoli italiani di alcuni suoi film) tra chiesa e inferno, tra bene e male, tra la ripugnanza e l'attrazione per il male, la violenza, il potere sugli uomini, sulle donne, sul denaro. Il loro percorso si sviluppa classicamente tra la perdita dell'innocenza, il fascino del peccato, l'assunzione della colpa, la paura della punizione. E' la traiettoria che percorre anche Ernest (che, come ci ha insegnato Oscar Wilde, può essere letto anche come earnest, ovvero “onesto”), giovane volonteroso che si mette al servizio del potente zio e ne segue le direttive, spingendosi sempre più in là sul terreno della colpa. Come in altri film di Scorsese, il giovane eroe (o antieroe) subisce infatti la fascinazione di personaggi più anziani (capi gang o boss mafiosi come in Gangs of New York o in Departed), distorte figure patriarcali e paterne che svolgono un vero e proprio ruolo di mentori nell'avviamento sulla via del male dei rispettivi discepoli. Sia Ernest che Will Hale sono portatori di una doppia, ambigua e contraddittoria natura, in bilico tra bene e male. The King è amico di tutti, un generoso benefattore, sensibile verso la mentalità degli indiani e membro rispettato della comunità bianca, ma sotto l'apparenza melliflua e bonaria nasconde in realtà una natura malefica e predatoria (le donne indiane sono da lui chiamate spregiativamente “coperte”, blanket, per gli indumenti tradizionali che ancora indossano nella loro nuova condizione di ricche cittadine); lo sterminio e la scomparsa della nazione indiana è per lui non solo un obiettivo tenacemente perseguito, ma una necessità storica, un passaggio epocale ineluttabile. Ernest invece esibisce una natura spregiudicata, presta la propria colpevole e infame complicità ad una serie di atti criminosi ai danni non solo degli indiani (e di donne con le quali è ormai imparentato), ma anche di altri bianchi che sono d'ostacolo alle mire espansionistiche dello zio. Ma in realtà Ernest dietro i comportamenti criminali conserva un fondo di innocenza e di rimorso per le proprie azioni. Quando corteggia Mollie un po' segue diligentemente il mandato e le istruzioni dello zio, un po' se ne innamora veramente. Ma neppure l'amore per la donna e per i figli che nascono via via lo fanno arretrare quando si passa a progettare spietatamente la morte della sorelle della moglie, di sua madre, di altri indiani scomodi, e alla fine della stessa Mollie. Cattolicamente, Ernest avvelena la moglie e si commuove per il suo destino; si rende complice di omicidi e di terribili attentati dinamitardi salvo poi sbarrare gli occhi meravigliato e inorridito dai suoi effetti. Tutta l'ambiguità dei caratteri dei due uomini emerge nella contrapposizione all'interno del lungo finale, quando la malvagità di Hale è smascherata ma ancora dissimulata sotto l'apparenza dell'affetto parentale e del perseguimento del bene comune (della famiglia e dei bianchi, che continuano a sostenerlo); mentre Ernest è sommerso dai rimorsi, messo di fronte alle proprie colpe e allo sguardo dell'amata moglie che ha tentato di assassinare, ma nello stesso tempo impegnato a calcolare il proprio migliore interesse (a sua volta egoistico e famigliare) nella vicenda investigativa e giudiziaria che ormai li ha travolti. The Family Scorsese dispiega, nuovamente, tutte le sue abilità di narratore, seguendo una trama che ormai conosce più che bene, tanto nel porre le premesse della storia e innescare i caratteri, tanto nella descrizione meticolosa dei meccanismi e dei metodi malavitosi (adattati com'è ovvio al particolare contesto storico-geografico), tanto infine nel senso di panico, di sgomento e di rovina che, come altre volte nelle sue narrazioni precedenti, pervade la parte finale del film. Killers of the Flower Moon, nella sua versione attuale, avrebbe potuto benissimo essere una miniserie divisa in quattro o cinque puntate, non solo per la durata, ma per il gusto che si prende nel definire ogni dettaglio dell'affresco storico/malavitoso/famigliare e nell'abbozzare in modo rapido ma sicuro moltissime figure di contorno. Non tutto è necessario nei 206' minuti del film, ma tutto è godibile e lo spettatore è indotto ad abbandonarsi ad un flusso narrativo che si e gli concede anche il lusso del superfluo. A De Niro non sembra vero (anche dopo alcuni sbandamenti in film sbagliati in anni passati) di aver ritrovato il suo maestro e amico e un ruolo che sembra fatto apposta per lui (oltre ai characters già interpretati per Scorsese vengono in mente anche l'Al Capone di De Palma o il luciferino antagonista di Angel Heart), permettendogli di esprimere in magistrale souplesse tutto il suo dissimulato e violento cinismo; Di Caprio (anche se sulla carta troppo anziano per il ruolo del giovane che torna dal servizio militare) ha ormai una maturità artistica sufficiente e adeguata ad esprimere le sfumature e il tormento del suo personaggio. Lily Gladstone (appartenente alla Blackfeet nation) è la controparte femminile, vittima designata ma non rassegnata (è lei che, benché debilitata, si reca a Washington a chiedere aiuto al governo federale), anch'essa combattuta e divisa, fino all'ultimo, tra il sincero amore per il marito e il terribile sospetto che lui stia tramando per sterminare lei e tutta la sua famiglia. Tra i molti personaggi ed interpreti, tutti con le giuste facce e l'adeguato fisico del ruolo, spicca il flemmatico e bonario, ma tenace, agente del Bureau of Investigations interpretato da Jesse Plemons. In una sontuosa produzione da 200 milioni di dollari, Scorsese gioca sul sicuro attorniandosi dei propri collaboratori di una vita. Autore di una colonna sonora in buona parte basata su un continuo, lento, snervante tambureggiare di percussioni e di giri di basso, che tengono continuamente teso il filo della narrazione, Robbie Robertson era il collaboratore ideale: figlio di un'indiana Mohawk, già componente della band che accompagnò Bob Dylan, ricercatore appassionato della tradizione musicale dei nativi (celebre il suo Music for the Native Americans) e alla decima e ultima collaborazione con Martin Scorsese (il musicista è scomparso ad agosto di quest'anno). Altrettanto scontata la presenza di Thelma Schoonmaker al montaggio, fedelissima, immancabile collaboratrice di Scorsese fin dai tempi delle prime prove cinematografiche all'Università di New York (una collaborazione lunga una vita che le ha fruttato tre premi Oscar, oltre a cinque nominations e ad un'infinità di altri premi, tra cui il primo Leone d'oro alla carriera assegnato ad un montatore. Altro collaboratore abituale è il direttore della fotografia Rodrigo Prieto, che ha accompagnato la carriera di Iñarritu, fin dal memorabile – anche dal punto di vista fotografico – Amores perros, che ha già lavorato con Scorsese in diverse occasioni, ma che è anche l'insospettabile responsabile della fotografia lollipop di Barbie. Last but not least, da citare l'eccellente lavoro del veterano scenografo Jack Fisk, che ha contribuito alla realizzazione di alcuni capolavori del cinema statunitense. ASTEROID CITY di Wes AndersonAsteroid City è una località nel deserto del Nevada, sorta vicino ad un cratere provocato da un meteorite: una pompa di benzina con officina meccanica, un drugstore, un gruppo di bungalow, un binario ferroviario, un osservatorio astronomico e poco altro. Qui si ritrova un eterogeneo gruppo di personaggi, ragazzi prodigio inventori, giovani astronomi e cadetti dello spazio, famiglie, attrici in viaggio; e poi militari e scienziati; e poi folle di visitatori e commercianti, perché nel frattempo, a 50 minuti dall’inizio del film, sorprendentemente, un alieno silenzioso e furtivo è sbarcato sulle Terra. Malgrado le accoglienze controverse riservate da tempo ai suoi film, Anderson non sposta di una virgola il suo modo di fare cinema. Una parte della critica e del pubblico è sempre più convinta che il suo sia un cinema vuoto, freddo, manierista, tutto forma e niente sostanza. Un’altra parte lo adora per la sua originalità, la sua vena di astratta follia, lo stile inimitabile, l’eleganza formale e lo stralunato aplomb delle narrazioni. Dalla parte di questi ultimi si trovano evidentemente produttori e buona parte dello star system hollywwodiano, tutti pronti a sostenere un progetto astruso come Asteroid City, vuoi con finanziamenti per 25 milioni di dollari, vuoi con la presenza in veste di interpreti. I suoi film infatti sono ormai evidentemente percepiti dagli attori come un posto dove bisogna esserci, una specie di festa dove sarebbe disdicevole non essere invitati o non presentarsi: un effetto che ha permesso a Anderson di avere nel cast del suo ultimo film dive e divi come Scarlett Johansson, Margot Robbie, Tilda Swinton, Jason Schwartzman (quasi onnipresente nei suoi film), Tom Hanks, Edward Norton, Steve Carell, Willem Dafoe, Adrian Brody, Jeff Goldblum, e così via, a volte per un solo take o sotto travestimenti irriconoscibili. In effetti, è impossibile non rimanere a prima vista colpiti e sedotti dall’immaginario visivo di Asteroid City, ambientato in un americanissimo deserto vintage anni ‘50, western, cartoonesco e color pastello. In realtà dovrebbe trattarsi di un set teatrale, perché in Asteroid City tutto è in cornice (o tra virgolette), e il film sta dentro una trasmissione televisiva (in bianco e nero) che racconta la genesi e la storia di una dramma teatrale omonimo. In realtà Anderson ci tiene a strizzarci subito l’occhio e farci vedere che sta scherzando, inquadrando in un establishing shot propedeutico il set desertico in una panoramica a scatti, a 360°. Non c’è quarta parete, non c’è pubblico, il set è il mondo e il mondo è un palcoscenico: una finzione che sta dentro un’altra finzione che sta dentro un’altra finzione, in un gioco di scatole cinesi senza pareti definitive. Dove Anderson getta dentro di tutto un po’: il cinema, e ci sono inseguimenti polizieschi senza storia nel vuoto del deserto, alieni che scendono dai dischi volanti e che sembrano la versione timida dei marziani di Tim Burton, o ispezioni nei crateri che sembrano venire da 2001 Odissea nello spazio; il cartoon, e c’è un geococcyx californianus (filologicamente, quello che Chuk Jones prese a modello per il suo roadrunner Beep Beep) che passeggia sul set; c’è la pittura, con i volti dei personaggi che sembrano usciti dalle illustrazioni di Norman Rockwell; e c'è il fumetto con una ligne claire color pastelli e caramelle; e poi c’è la tv col suo formato quadrato e in bianco e nero, e c’è il teatro con le sue scenografie di cartapesta, e c’è la fotografia, con le stampe appese in camera (oscura). E c’è perfino la storia, con i funghi dei test atomici che si elevano sul deserto come fuochi fatui accesi là dove Opennheimer e il progetto Manhattan, ma in un altro film, preparano la bomba distruttrice di mondi. E poi c’è il cinema di Wes Anderson, con il suo stile inconfondibile, i suoi vezzi, le sue autocitazioni, i sui attori e i suoi collaboratori abituali, quasi dei coautori, come lo scenografo Adam Stockhausen (Oscar per Grand Budapest Hotel) o l’inseparabile direttore della fotografia Robert D. Yeoman. E forse c’è qualcosa di Wes Anderson stesso, con gli echi biografici che rimandano ad abbandoni infantili, a bambini prodigi, alle prove giovanili nel cinema, nella scrittura, nel teatro. E anche nel film Asteroid City, che contiene tutto questo, tutto sembra inscatolato e incorniciato, dentro bungalow, tende, padiglioni, camerini, quinte da palcoscenico, quinte di edifici, finestre, vetrate. Molti dei dialoghi principali tra due dei protagonisti, il fotografo Augie e l’attrice Midge, si svolgono con i due inquadrati dentro le rispettive finestre dei rispettivi bungalow che guardano l’una verso l’altra (e verso le rispettive vite, fatte di foto appese e di prove d’attrice dentro la vasca da bagno). Anderson conferma la sua predilezione per le inquadrature frontali e simmetriche, o laterali e speculari, ma sfonda anche spesso le inquadrature in primo piano con fughe in finta profondità verso orizzonti ingannevoli e artificiosi, senza contare che tutta la narrazione principale è ben incasellata in atti e scene preannunciati da puntigliosi cartelli didascalici.
Ma cosa c’è dentro tutte quelle scatole? Nel fondo di questa fuga infinita? Difficile dirlo, se anche l’attrice che impersona un’attrice che sta dentro un film che parla di una rappresentazione teatrale che sta dentro una trasmissione televisiva che a sua volta sta dentro un film a volte non recita se stessa, ma un altro personaggio proiettata verso un’altra dimensione finzionale ancora, ancora più remota, ancora più frammentaria e inafferrabile. E allora? E allora resta il gioco prospettico, e ci si accorge che forse non erano scatole, ma una sorta di libro per bambini a fogli trasparenti, dove ad ogni pagina si intravedono le successive, una successione di figure bidimensionali, senza spessore e senza consistenza. Resta una folla di personaggi senza profondità, una serie di gag che non fanno ridere, di storie che non approdano da nessuna parte. Non trovando appigli nella storia e nella narrazione, alla fine lo spettatore tenta di aggrapparsi al puro testo filmico per trovare un senso a tutto questo (anche se tutto questo, viene da pensare parafrasando Vasco Rossi, un senso forse non ce l’ha). E allora viene da pensare a quel meteorite (il film), una piccola palla di pietra che ha scavato un grande cratere nel nulla del deserto (il clamore mediatico suscitato dalla pellicola); o a quell’alieno che sbarca sulla terra, prende il meteorite, se lo porta via, poi lo riporta, senza che nulla cambi per nessuno; o ancora viene da paragonare il film a quel sovrappasso con la rampa interrotta che campeggia ad Asteroid City, una costruzione e un percorso celibi che non portano in nessun luogo. Oppure si è tentati di identificare Wes Anderson con quel ragazzino prodigio al quale viene chiesto perché tenti continuamente nuove sfide assurde. Qual è la ragione? Qual è il senso? gli chiedono. Non lo so; forse è perché ho paura che, altrimenti, nessuno si accorgerebbe della mia esistenza nell'universo, è la risposta. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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