THE GREEN BORDER (Zielona granica) di Agnieszka HollandParadossalmente, un film che contiene un colore nel titolo poi, a parte la sequenza d’apertura in volo sopra i boschi, è in bianco e nero. Anzi, nerissimo. Il film tocca un tema doppiamente scottante: non solo quello delle migrazioni, che tocca da vicino anche il nostro Paese, in prima linea sul confine d’acqua del Mediterraneo (nella stessa Mostra del Cinema di Venezia in cui The Green Border riceveva il Premio speciale della giuria, Io capitano di Matteo Garrone, che descrive il viaggio dal Senegal alle coste italiane di due giovani migranti, ha vinto il Leone d’argento per la miglior regia e il Premio Mastroianni per il miglior attore emergente) ma anche quello dell’uso strumentale e cinico dei migranti usati da politicanti senza scrupoli per destabilizzare i vicini nemici. Il film si svolge ai nostri giorni (potrebbe svolgersi anche ora, nel momento in cui sto scrivendo, e anche forse nel momento in cui voi mi leggerete) in Europa, intorno alla frontiera tra Bielorussia e Polonia. Nel prologo un gruppo di viaggiatori vola in aereo verso un aeroporto bielorusso. Sono profughi da Paesi in guerra o problematici, ma hanno comprato regolarmente il biglietto aereo per la Bielorussia, da dove poi la maggior parte di loro conta di raggiungere varie destinazioni europee, dove spesso hanno già parenti o conoscenti che li aspettano e che li aiuteranno. Scopriranno ben presto che sono stati crudelmente ingannati: il regime filoputiniano di Lukashenko attira i profughi facilitandone l’arrivo solo per spingerli, anche con l’uso della forza e della violenza, oltre il confine polacco solo per mettere in crisi il vicino, membro dell’Unione Europea e della Nato e quindi nemico, ora più che mai nella contrapposizione attuale tra la Russia e i rispettivi alleati e l’Ucraina sostenuta dal fronte dei Paesi occidentali. I profughi sono pedine inconsapevoli, incolpevoli, ignare, che sono sfuggite a guerre e altre calamità solo per diventare contemporaneamente armi e vittime in un’altra guerra a loro ignota e dalle logiche a loro sconosciute. Da una parte e dall’altra della frontiera si fronteggiano eserciti in assetti di guerra, impegnati unicamente a rimpallarsi cinicamente i profughi (tra i quali ci sono anziani, donne, anche incinte, bambini), non senza approfittare della loro posizione autoritaria per depredarli in tutti i modi possibili, picchiarli, angariarli e umiliarli. Le didascalie impassibili, che ci hanno dapprima informati che siamo in Europa e che scandiscono laconicamente i rimpalli al di qua e al di là delle recinzioni di filo spinato che segnano il confine, altrimenti invisibile, introducono di volta in volta i nuclei di personaggi protagonisti: una famiglia siriana, con bambini al seguito, cui si aggrega una donna afgana; una guardia di frontiera sempre più in difficoltà nell’eseguire i compiti inumani che gli vengono affidati; gli attivisti polacchi che cercano di portare soccorso ai profughi (ma senza poterli trasportare o guidare, per non rischiare pesanti conseguenze giudiziarie); una psicologa che abita vicino alla zona speciale e che si fa coinvolgere prima emotivamente e poi operativamente dopo che ha visto morire un bambino sotto i propri attoniti occhi. Il film compone quindi un mosaico narrativo di cui sono protagonisti di volta in volta le vittime, aguzzini riluttanti (circondati da colleghi però assai convinti ed motivati, entusiasti del potere che è loro dato nei confronti degli indifesi), e i volontari che cercano di tradurre in azione concreta i propri sentimenti umanitari. Lo stile narrativo, soprattutto quando il racconto si concentra sui profughi, è frenetico, convulso, pieno di movimento, violenza, disperazione, angoscia, in gran parte nell’ambiente oscuro dei boschi, con sequenze spesso ambientate nel buio della notte. L’uso del bianco e nero contribuisce a rendere le immagini simili a quelle tragicamente associate alle memorie del nazismo, con uomini armati e urlanti, cani, filo spinato, deportazioni, violenze gratuite su vittime inermi (in qualche sequenza si sfiorano gli stilemi dell’horror, come nella sequenza statica in cui una donna, in un campo aperto, crede di aver trovato aiuto in un contadino, che invece, mentre lei si allontana, inquadrato di spalle, prende il cellulare, presumibilmente per denunciarla, e inducendola ad una nuova fuga disperata). La Holland non fa molte differenze tra bielorussi e polacchi, entrambi impegnati in operazioni disumane, che hanno fini diversi, ma estremamente simili nella brutalità e nel cinismo dei metodi. La regista e sceneggiatrice non risparmia neppure l’Unione europea, che preferisce ignorare quanto accade ai suoi confini, dove persone incolpevoli vengono trattate come animali e talvolta spinte verso la morte per incidenti, stenti, violenze subite. Un’immagine ci mostra icasticamente i superstiti della famiglia, falcidiata dalle avversità, seduti sconsolatamente davanti ad un muro dov’è dipinto un cerchio di stelle, simbolo di quella Unione europea che avrebbe dovuto garantire a tutti (o solo ad alcuni dei suoi cittadini?) libertà, eguaglianza e fraternità. Ma i suoi strali sono rivolti soprattutto verso i connazionali polacchi che, ai giorni nostri, si comportano come nazisti nell’ambito di un’Europa che dovrebbe essere il faro della civiltà e della democrazia (Europa Europa si intitolava già un suo film del 1991, che raccontava le peripezie di un ebreo tedesco sballottato durante la Seconda guerra mondiale tra la Germani nazista, la Polonia e la Russia bolscevica). Oltre alle azioni violente, la Holland mette in scena anche due scene parlate dal forte sapore politico: una concione fatta ad un ufficiale della polizia di frontiera ai propri uomini, per incitarli all’odio e al disprezzo, e una veemente invettiva contro la leadership polacca, urlata da un uomo con problemi psicologici, ma probabilmente molto condivisa dalla Holland. E’ interessante che il governo polacco abbia risposto al film (che ha avuto un ottimo esordio in patria in termini di spettatori) con azioni di boicottaggio e ritorcendogli contro (chissà in base a quale logica perversa) le accuse di nazismo. Se il Ministero dell’Interno ha obbligato a proiettare nei cinema, prima del film stesso, un video governativo che smentisce preventivamente quanto verrà poi mostrato nel film, lo stesso presidente Duda lo ha commentato con la frase “solo i porci si siedono al cinema”, rievocando uno slogan utilizzato contro i film di propaganda ai tempi del nazismo. Detto questo, a parte un approccio che vuoi per la struttura a mosaico vuoi per la distanza che la Holland mantiene dai suoi personaggi, anche nelle scene più convulse, non favorisce l’empatia con i protagonisti (è probabilmente una scelta di sobrietà: si assiste inorriditi ma a ciglio asciutto), ci sono un paio di cose che non mi hanno convinto nel film. La prima è un peccato (ammesso che lo sia) veniale: dopo un solo giorno dall’arrivo il patriarca della famiglia, che indossa le proprie scarpe, ha già le piante dei piedi orribilmente piagate. Mi è sembrata un’anticipazione un po’ forzata degli orrori che seguiranno. La seconda mi ha disturbato di più: nel finale tutti i protagonisti (per lo meno quelli sopravvissuti) si ritrovano al confine insieme ai profughi provenienti dall’Ucraina. La Holland intende sottolineare il diverso atteggiamento dello Stato polacco, che respinge crudelmente qualche decina di migliaia di profughi mediorientali, ma accoglie generosamente (una generosità che, proprio in queste ore, sta entrando anch’essa in crisi) milioni di profughi della vicina Ucraina. Ma nel rappresentare i profughi ucraini si mostrano, con un’insistenza certamente non casuale, gli animali domestici portati in salvo dai profughi ucraini: cagnolini, gatti, uccellini - che patiscono il freddo. Le situazioni di partenza sono certamente diverse, ed era giusto mettere in rilievo la differenza di trattamento tra i profughi ucraini e quelli extraeuropei; ma in questo modo mi pare che la stessa Holland rischi di classificare a sua volta i profughi in profughi di serie A e di serie B: da una parte i reietti mediorientali, i cui vecchi e bambini muoiono nel tentativo di attraversare il confine, dall’altra gli ucraini, che invece si prendono il frivolo lusso di salvare gattini e uccellini, forse dimenticando che anch’essi fuggono da una guerra d’invasione, da distruzioni, bombardamenti, violenze, deportazioni, dopo aver magari perso casa, beni e persone care.
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THE OLD OAK di Ken LoachPaul Laverty collabora con Ken Loach dal 1996: The Old Oak è (contando anche un paio di cortometraggi per film ad episodi) il sedicesimo episodio della loro pluridecennale collaborazione. Ken Loach è nato nel 1936, e ha quindi oggi 87 anni; può essere – così ha detto lui stesso – che The Old Oak sia il suo ultimo film.
E veramente Loach è la vecchia quercia, del titolo e del cinema inglese, e Laverty è le sue radici che lo tengono ancorato al terreno del suo impegno civile, del suo cinema militante e resistente, del suo instancabile anelito umanistico. Anno dopo anno, film dopo film, prima e dopo la collaborazione con Laverty, Loach ha costruito un formidabile affresco dedicato agli ultimi e ai penultimi della società, uomini e donne invisibili che lottano a volte senza nemmeno rendersene conto non solo contro il neocapitalismo, la povertà, lo sfruttamento, ma anche contro il mondo così com’è, in nome di ideali superiori di umanità e di solidarietà. Nei titoli italiani dei suoi film si fa riferimento per ben tre volte alla libertà: e si tratta appunto non di una libertà generica, ma la liberazione dalla povertà, dallo sfruttamento, dalla sopraffazione, sognando costantemente una società e un mondo più equi, più giusti e più solidali. The Old Oak sembra mescolare il passato con il presente, tanto della recente storia inglese che del cinema stesso di Loach. Nel paese di Durham, nel retro del pub The Old Oak, sono appese le fotografie in bianco e nero degli scioperi dei minatori. Tutta la comunità si era mobilitata a favore degli operai, ed erano state allestite grandi mense solidali per sostenere i lavoratori in lotta. La mente va ai film “operai “ di Loach, dal 1991 di Riff Raff al 2001 di Paul, Mick e gli altri (scritto da Rob Dawber, un ex-ferroviere licenziato durante le privatizzazioni e morto di un cancro per esposizione all’amianto prima di poter vedere il film sugli schermi). Ora le miniere sono comunque chiuse, il villaggio è in declino e l’Old Oak è l’unico spazio sociale sopravvissuto, quando perfino la sala parrocchiale ha cessato di aprire i battenti. L’arrivo nel paese impoverito, intristito e incattivito di una vagonata di profughi siriani sembra a molti degli abitanti una beffa e un’ingiustizia; ma TJ Ballantyne, il gestore dell’Old Oak, malgrado la vita non sia stata gentile con lui, al punto che in un certo momento ha pensato perfino di abbandonarla, non si arrende al livore, alla ricerca di un capro espiatorio ancora più debole e indifeso su cui sfogare rabbia e frustrazione. Insieme alla giovane profuga Yara, e alla compagna di solidarietà Laura, si ripartirà da dove si era rimasti: da una mensa comune, dalla solidarietà, dalla condivisione del cibo e del necessario; da tutto ciò che può portare all’aiuto, alla conoscenza reciproca e all’accettazione dell’altro. The Old Oak non è certo uno dei migliori esiti del sodalizio Loach-Laverty, che ancora solo nel 2019 ci aveva emotivamente e politicamente tramortiti con l’intenso e appassionante Sorry, We Miss You. Se Dave Turner ha il fisico del ruolo e una totale credibilità per calarsi nei panni del protagonista, la scrittura sembra a tratti caricata (il passato che appesantisce il personaggio di Ballantyne), a volte semplicistica e quasi facilitata (la profuga siriana è una giovane donna di gradevole aspetto e senza velo; i profughi sono tutti brave persone; la convivenza non sembra affatto problematica, non fosse per alcuni residenti bevitori, livorosi e strafottenti; il finale convoca una folla immensa per presentare le condoglianze per la morte di un uomo che nessuno in paese ha mai visto né conosciuto, con un profluvio di fiori e peluche), e la regia a volte sembra perdere qualche colpo (la scena della perdita del cagnolino, o lo stesso finale). Ma il messaggio resta forte e chiaro, e per una volta tanto è più importante del risultato puramente cinematografico. Insomma, non può finire così. Di film di Ken Loach (e di sceneggiature di Paul Laverty) ne vogliamo ancora. E se non ce ne fossero più ci lascerebbero un vuoto incommensurabile e un commosso rimpianto. UN BEL MATTINO di Mia Hansen-LøveNel 1970 Claude Sautet girò con Michel Piccoli, Romy Schneider e Lea Massari un film intitolato (come il romanzo da cui era tratto – ma in Italia fu distribuito come L’amante) Les choses de la vie, le cose della vita.
E mi sembra indubbio che il cinema francese sia stato e sia tuttora il miglior narratore in assoluto delle choses de la vie, cioè quelle che (almeno in un’ottica di media borghesia occidentale) capitano a tutti, la vita quotidiana e ordinaria, che non per questo non comprende cose grandi e grandi prove come l’amore, la passione, la speranza, la malattia, la morte. E’ un cinema che racconta con partecipazione ma con discrezione, con sensibilità ma senza sensazionalismo. Un cinema senza forzature melodrammatiche, senza deformazioni comiche, senza psicologismi contorti e senza crudezze, senza scene madri e colpi di scena. Ma un cinema nelle cui vene si sente scorrere e pulsare il sangue della vita. E’ il cinema di Mia Hansen-Løve, che in Un bel mattino racconta con grazia sofferta e miracolosa una tranche de vie della giovane donna Sandra, parigina, traduttrice simultanea di professione, rimasta vedova troppo presto, con una bambina di otto anni che dipende totalmente da lei e un padre intellettuale che sta sprofondando nel buio smemorato di una malattia neurodegenerativa. Il doloroso itinerario in cui Sandra segue il declino del padre, tra ricoveri, case di cura e di riposo, si affianca e si intreccia a quello iniziato invece a fianco di Clément, un amico d’infanzia, ora sposato, con la quale inizia un’appassionata ma altalenante relazione. Da una parte c’è un affetto che vacilla, davanti allo sconfortante avanzare della malattia; c’è la sofferenza nella necessità di smembrare la grande libreria del padre, percepita come un ritratto della sua personalità, del suo carattere, delle sue scelte e dei suoi interessi, che perde i pezzi come la mente ammalata del suo proprietario; ma anche la decisione di regalare i libri ai suoi studenti e discepoli, un tentativo di perpetuare la conoscenza e di trasmetterla ai più giovani, e quindi di fare in modo che un’eredità materiale e simbolica della personalità paterna sopravviva in qualche modo nel futuro. Dall’altra parte c’è un amore che nasce, o meglio rinasce o si manifesta. Un legame sentimentale intriso di complicità e di forte passione erotica; ma che stenta a consolidarsi per i dubbi, i tentennamenti, gli abbandoni e i ritorni di Clément, che non riesce ancora a staccarsi dalla moglie e dal figlio, mentre la figlioletta di Sandra deve cercare e trovare il proprio equilibrio in questa situazione sentimentale nuova e precaria. La Hansen-Løve, che attinge anche a materiale autobiografico (il taccuino del padre di Sandra che si vede nel film è effettivamente lo straziante taccuino del padre di Mia) trova la misura perfetta per il suo racconto, l’equilibrio ideale e toccante tra la pesantezza del vivere (e del morire) e la leggerezza dell’amore e della speranza. I ruoli di Clément e di Georg, il padre, sono affidati a due dei più brillanti e attivi attori della scena francese, rispettivamente Melvil Poupaud (atteso anche nel nuovo Woody Allen francofono, Coup de chance) e Pascal Greggory (i due sono insieme anche nel recente Jeanne du Barry di Maiwen), mentre l’acida ma combattiva ex-moglie del padre è interpretata dall’attrice e regista Nicole Garcia. Ma è in Lea Seydoux (dai capelli corti quasi come quelli di Jean Seberg nel godardiano Fino all’ultimo respiro e mai restia a mostrare il suo corpo nudo) che il film trova il suo centro, il suo cardine, il suo volto il suo corpo e il suo cuore, la sua ragion d’essere. La Seydoux si conferma ancora una volta interprete duttile, sensibile, intensa, sia nella sofferenza che nella passione, sia nello sconforto che nella speranza. Non si può non augurare al suo personaggio che finalmente sorga un bel mattino. FOLLOWING (1998) di Cristopher NolanCome molti suoi colleghi del passato (tra gli altri Polanski, Scorsese, Lynch, e poi von Trier) o a lui contemporanei (Aronofski, il cui Pi greco – Il teorema del delirio è datato 1998, esattamente come Following), anche Nolan esordisce all’inizio della sua carriera con film (corto o lungometraggi) spesso in bianco e nero, a basso budget e caratterizzati da una forte sperimentazione espressiva e linguistica.
Nolan scrive il film, lo dirige, lo fotografa (in 16 mm e in formato 1:1,37), lo monta, lavorando nei week-end nell'arco di nove mesi, con attori non professionisti alcuni dei quali torneranno ad affiancarlo nei film successivi mentre altri non reciteranno mai più. Trattandosi di Cristopher Nolan, di cui si attende l’uscita italiana del nuovo Oppenheimer, la sperimentazione investe soprattutto il tempo della narrazione, oltre a presentare diversi aspetti tematici che torneranno nelle sue opere successive. Come in alcune delle occasioni immediatamente successive, il titolo stesso del film allude al rapporto con la temporalità, anche se in chiave antifrastica e negativa, nel segno della mancanza. Memento allude al tempo del ricordo, ma mettendo in scena il non-tempo dell’amnesia; Insomnia allude al tempo del riposo, ma mettendo in scena il tempo allucinato della mancanza di sonno; Following allude al tempo che segue, contraddicendosi però nella gestione della narrazione. Il film procede infatti non raccontando “quello che segue” (come da titolo), come in qualsiasi narrazione lineare, ma spesso quello che precede, in quello che non è semplicemente un gioco di flashback e flashforward, ma che diventa un’operazione di senso, dove la verità (fattuale e morale) della narrazione viene continuamente riscritta in base alle informazioni che vengono fornite allo spettatore; chi guarda si trova infatti spesso ad assistere a sequenze che solo in seguito acquisteranno un significato, o lo muteranno in un continuo moto nel tempo e nell’ambiguità, trovandosi spesso a “perdere l’innocenza” in un ripetuto smascheramento di una lettura “ingenua” della realtà dei fatti e delle intenzioni. Se il seguire del titolo designa nello stesso tempo un’azione che si svolge nello spazio - quella del protagonista che segue delle persone scelte a caso tra la folla, intromettendosi sempre di più nella loro sfera d’esistenza – e il susseguirsi dei tempi narrativi. Ma tutto appare immediatamente scombinato e contraddittorio: Bill, sedicente aspirante scrittore, segue gli altri, alla ricerca di storie da raccontare, ma non si rende conto di essere manovrato e di essere mosso da volontà e piani di altri; la storia, anziché seguire una consecutio temporis lineare, “a seguire”, è narrata attraverso continue ellissi e salti temporali, muovendosi grosso modo su quattro piani temporali frammentati e rimescolati. Bill, prima aspirante narratore, poi ladro per gioco, intruso per morbosità, criminale per amore, muove la propria identità problematica e mutante (il personaggio modifica anche il proprio aspetto in ciascun piano narrativo) attraverso le tessere di un mosaico che sono altri a disporre: un tema e una situazione che ritornerà con maggiore maturità stilistica ed espressiva in quel b-movie (ancora per il momento) capolavoro che è il successivo Memento. C’è già in questa prima – per qualche aspetto acerba ma già intrigante e promettente – opera, quasi un frattale del corpus filmico nolaniano a venire, dove si ritrovano moltissimi dei temi e delle ossessioni di Nolan: le identità frammentate e da ricomporre, la soggettività inafferrabile del tempo, la manipolazione e la rappresentazione illusoria del reale, ma anche la responsabilità della narrazione. Bill, l’inseguitore di storie da raccontare, all’inizio potrebbe sembrare un alter ego del regista-sceneggiatore, che insegue un proprio soggetto narrativo tra i tanti o gli infiniti possibili; salvo rivelarsi un narratore-narrato, un personaggio che si crede autore di un copione che in realtà è stato scritto e gli è stato imposto da altri. In tutta la filmografia successiva di Nolan (che, a proposito di personalità doppie, collabora spesso per le sceneggiature con il fratello Jonathan) troveremo le stesse tematiche, declinate ossessivamente sia pur in ambiti diversi: la frammentazione e l’incertezza dell’identità, la manipolazione dei personaggi da parte di altri agenti più o meno occulti, la malleabilità e la soggettività del tempo, lo sfasamento dei piani temporali e narrativi (presente perfino in un insospettabile racconto storico come Dunkirk), l’illusorietà del reale descritto spesso come un set illusionistico, allucinatorio, o onirico. Facendo sorgere un dubbio: che tutta l’opera di Nolan non sia in fondo che una monumentale allegoria del cinema stesso. ANIMALI SELVATICI (R.M.N.) di Cristian MungiuIn Animali selvatici Mungiu sembra adottare una strategia opposta a quella utilizzata in quello che resta il suo capolavoro, 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni. Si tratta sempre di un'impietosa radiografia della società rumena, malata e corrotta. Il titolo originale non potrebbe essere più chiaro: R.M.N. Sono insieme le consonanti contenute nel nome della nazione in cui si svolge la vicenda, ma è nel contempo la sigla della risonanza magnetica. Il protagonista Matthias scruta le lastre del padre, sottoposto appunto ad una risonanza, senza riuscire e distinguere e ad interpretare il male annidato nella testa del suo genitore, così come lo sguardo del regista (e con lui dello spettatore) vaga smarrito alla ricerca delle radici e della forma di quel male banale che corrompe la società rumena, incattivisce i suoi componenti, si oppone all'empatia, impedisce il concretizzarsi di una solidarietà umana e sociale anche minima. Anche Rudi, il figlio di Matthias, ha visto la presenza del male di vivere, nel bosco che attraversa per andare a scuola, e ne è rimasto ammutolito; ma quell'immagine è scomparsa, e forse non si è trattata di una visione ma di una pre-visione, la sensazione dell'incombere di qualcosa di ineluttabile, e di fronte al quale le parole sono inutili. Ma tanto 4 mesi era teso, concentrato, coeso, stretto in una concatenazione dei fatti e degli accadimenti che lasciava lo spettatore attonito e senza fiato, tanto Animali selvatici è dispersivo, policentrico, divagante. Oltre al protagonista maschile Matthias, operaio che scappa dalla Germania dopo aver preso a testate il suo capo reparto che lo insulta come zingaro (non lo è) si delinea e ne emerge uno femminile, Csilla, direttrice di uno stabilimento panificatore che sta assumendo dei lavoratori provenienti dallo Sri Lanka. Ma prima e dopo altri personaggi affollano la scena: la moglie di Matthias, con cui lui è in crisi (anche per quello che ritiene un modo troppo protettivo di allevare il figlio, che lui vorrebbe più virile e combattivo), il piccolo Rudi, il padre Otto, la proprietaria dello stabilimento, gli operai cingalesi, un ricercatore ambientale francese e i suoi ospiti, il prete del paese, il sindaco, e una folla di personaggi che riempiono letteralmente la scena e rendono la parola, a volte mantenuti (volontariamente) fuori fuoco. Il paese della Transilvania dove si svolge Animali selvatici è un mondo rurale complicato anche dal punto di vista etnico, geografico, sociale e culturale. Nel paese si trovano a convivere rumeni, ungheresi (i rom problematici sono stati a quanto pare già espulsi in precedenza), tedeschi, francesi, cingalesi, e le lingue si mescolano di conseguenza, con l'aggiunta dell'inglese passe partout; nel villaggio arrivano operai di colore scuro che sembrano alieni e come tali vengono trattati (immediatamente etichettati come musulmani benché non lo siano), mentre i rumeni emigrano all'estero per cercare salari più alti e miglior fortuna. Intanto si balla con le musiche tradizionali ma anche al suono di Bella ciao, mentre la protagonista al violoncello si esercita con le melodie sofisticate del tema di Yumeji's composte dal giapponese Shigeru Umebayashi per il film hongkonghese In the Mood for Love. Tutto si mescola, geografia, cultura, società, lingue, ma niente si compone, e la mescolanza genera conflitti anziché nuove forme di conoscenza e di convivenza. Nulla serve ad unire, né i legami famigliari ed affettivi (Matthias litiga con la moglie, maltratta il figlioletto, ha una relazione con Csilla ma non sa se la ama o no), né quelli religiosi (i cingalesi cattolici vengono estromessi dalla chiesa e il prete esprime un atteggiamento retrivo, più attento alle idiosincrasie dei compaesani che allo spirito cristiano di accoglienza e di solidarietà), né quelli sociali ed economici (qualcuno in paese ruba le pecore del padre malato di Matthias, mentre la gente del villaggio non accetta i bassi salari offerti dal panificio ma osteggia gli stranieri che arrivano a fare i lavori che loro rifiutano), né tanto meno quelli politici (il Sindaco si trincera dietro la democraticità dell'espressione delle opinioni senza prendere una posizione netta), etici (anche il ricercatore che difende la biodiversità viene visto con sospetto e dileggio) o culturali (il centro culturale del paese ospita alla fine un'assemblea dove esplode tutto il viscerale razzismo dei residenti). Il film stesso sembra indeciso sulla linea narrativa da seguire, ne mescola e ne intreccia diverse, accumulando un numero forse eccessivo di sottotrame (la malattia del padre di Matthias, il rapporto di questi con la moglie e con l'amante, le visioni di Rudi e il tentativi di Matthias di dargli un'educazione virile; la vicenda delle donne che gestiscono il panificio – la proprietaria e la direttrice – che cercano di coniugare imprenditorialità e solidarietà umana e sociale; quella del furto di pecore; quella della rivolta prima pacifica e poi violenta del paese contro gli immigrati, ecc.). Lo stesso tono del film non è omogeneo, e lo spettatore rimane spiazzato quando l'impianto rigorosamente realistico del film dispiega risvolti quasi soprannaturali nel sottofinale e decisamente onirici nell'ultima sequenza. Mungiu ha d'altra parte fortemente voluto il film, l'ha prodotto mettendo insieme una variegata coalizione di coproduttori (rumeni, francesi, svedesi), e conserva uno sguardo lucido e asciutto sulla società del suo Paese. L'elemento deflagrante alla fine, e quello che più gli interessa, è quello legato all'arrivo dei cingalesi, respinto dapprima con un rifiuto istintivo e viscerale verso il diverso (“non ho niente contro di loro, ma devono rimanere al loro Paese”) e degenerato poi in aggressioni stile ku klux klan con tanto di cappucci, maschere e torce incendiarie. Non inganni l'immagine idilliaca della locandina, con i personaggi su una barca sopra un lago circondato da alberi autunnali rosseggianti; Animali selvatici è un film adulto, dialettico e complesso – e invernale -, che rifiuta qualsiasi scorciatoia romantica o accattivante. Con almeno una sequenza memorabile: quella dell'assemblea del paese convocata contro gli immigrati, un inesorabile piano-sequenza di oltre un quarto d'ora, con decine di personaggi nell'inquadratura, in cui il malcontento esplode senza freni inibitori e gli abitanti, moderati dal Sindaco, intervengono per esprimere in maniera articolata e argomentata il loro rifiuto del diverso e i loro preconcetti. La discussione, estremamente credibile, infuria, divaga (alla fine si attacca non solo la proprietaria del panificio che ha una Mercedes in leasing, ma anche il parroco che ne ha una di seconda mano di proprietà della madre, mentre i residenti di origine rumena e quelli di origine ungherese quasi vengono alle mani), mantenuta per quasi tutto il tempo in un fuori fuoco dove non importa tanto la faccia di chi parla, ma quello che dice; contemporaneamente, in primo piano, Matthias e Csilla discutono animosamente della propria relazione (lo stesso Matthias ha firmato la petizione anti-immigrati), mescolando nello stesso spazio visivo e sonoro privato e collettivo, dove il privato si fa politico e viceversa. Il fucile che ha girato di mano per tutto il film, alla fine, sparerà; e gli orsi tanto evocati, alla fine, faranno la loro comparsa. Ma nulla si risolve. Nulla si ricompone. PINOCCHIO DI GUILLERMO DEL TORO di Guilliermo Del Toro e Mark GustafsonNon c'è due senza tre: torno ad occuparmi di Pinocchio, dopo aver recensito per SegnoCinema il film di Benigni di vent'anni fa e aver disquisito sulla stessa rivista della versione di Garrone del 2019. Cominciamo col dire che guardando il Pinocchio di Guillermo Del Toro si ha l'impressione di vedere Pinocchio. Quello di Collodi, insomma. Invece è un'illusione ottica, perché si sta guardando, ovviamente, il Pinocchio di Guillermo Del Toro. C'è Geppetto padre amorevole, c'è il burattino di legno discolo e vivace, c'è il Grillo parlante, ci sono i libri di scuola e il circo, ci sono Lucignolo e il Pescecane. Ma poi? Poi c'è Guillermo del Toro. Che vira la fiaba sadica di Collodi in un apologo dark e politico che esalta la libertà e la ribellione l'autorità; che slitta l'epoca di ambientazione verso l'era fascista (analogamente, il franchismo faceva da sfondo a Il labirinto del fauno), dove le istanze dell'autorità messe in pagina da Collodi acquistano un altro più circostanziato risalto; cancella l'istanza femminile della Fata dai capelli turchini (compagna di giochi, severa maestra di morale, madre amorevole) per sostituirla con spiriti femminei e bluastri; fonde la negatività di Mangiafoco, del Gatto e della Volpe nel personaggio-crasi del signor Volpe, che sembra più vicino ai loschi manager de Il gatto e la volpe di Edoardo Bennato che al Mangiafoco collodiano; inventa un padre di Lucignolo fascista e guerrafondaio; cambia di segno al Paese dei Balocchi - convertendolo in un campo di giochi di guerra che prepara i ragazzini alla violenza e alla morte - e alla relativa punizione dei monelli edonisti, trasformandoli in virtuosi ribelli antimilitaristi; introduce un aiutante proppiano nella figura della scimmietta Spazzatura, inesistente nel romanzo (dove pure abbondano animali e personaggi zoomorfi), mentre lo schiacciamento del Grillo parlante (doppiamente parlante: sua è infatti anche la voce narrante del film) diventa un tormentone presumibilmente comico. D'altra parte la storia di Del Toro sembra prendere a rovescio il canovaccio collodiano: il film parte con un bambino “vero” (senza madre e con un padre molto anziano) e termina con un Pinocchio definitivamente orfano che è e sarà per sempre un burattino di legno. Lo stesso allungamento del naso, punizione umiliante per le bugie del monello, diventa un escamotage che garantirà fuga e salvezza ai personaggi rinchiusi dentro lo stomaco del pescecane. Pinocchio qui è molto più innocente, o per lo meno incolpevole, dell'originale e le sue sventure sembrano scaturire più da circostanze avverse che dai comportamenti avventati o disobbedienti del burattino: per fare un esempio, anche quando si brucia i piedi nel camino è su istigazione di Lucignolo e non per propria sventatezza. Collodi a Pinocchio gli amputa i piedi, lo impicca, lo fa condannare e imprigionare, lo fa ferire in una tagliola, ridurre alla catena come un cane, infarinare per essere fritto e mangiato; quindi lo trasforma in un asino, lo fa frustare, lo annega, lo fa ingoiare da un pescecane. La Fata turchina è continuamente oltre o in punto di morte, e anche l'amico Lucignolo muore senza mai redimersi dall'umiliante trasformazione in asino. Anche qui Pinocchio muore più volte, ma il suo andirivieni dal mondo all'al di là (dove i conigli neri, macabri becchini nel libro, nel film passano il tempo a giocare a carte) diviene un'oscillazione ritmica e quasi spensierata. Tuttavia l'operazione di positivizzazione morale e politica del personaggio e della storia non portano affatto ad una rappresentazione più allegra e giocosa, anzi. Fedele al proprio immaginario, Del Toro, con il coregista Mark Gustafson, impagina una fiaba dai toni gotici e lugubri, un universo corrusco e minaccioso abitato, questo sì in maniera consona al mondo di Collodi, da esseri mostruosi, tanto da renderne presumibilmente la visione poco adatta ai bambini più impressionabili. Se la scimmietta che diventa amica e alleata di Pinocchio è un essere brutto, sgraziato e guercio di nome Spazzatura, è sul personaggio di Geppetto che si può misurare la visione dell'autore: già vecchissimo fin dall'inizio, quando è padre del piccolo Carlo, alla fine del film, invece di ringiovanire come nel romanzo, muore, mentre Pinocchio, lungi dal trasformarsi in un bambino in carne e ossa, dopo la morte del papà e di tutti i compagni d'avventura, è condannato ad un'eterna esistenza da burattino; senza fili, certo, libero e svincolato dalle regole non solo sociali (il tema del lavoro come strumento di redenzione morale e di assunzione della responsabilità famigliare e sociale adulta è un'altra delle grandi assenze nel film) ma umane, compresa quella della caducità. Senza fili, senza regole, senza preoccupazioni, senza età - se non quella di un'infanzia eterna - senza legami, neppure più quelli degli affetti; ma pur sempre, e per sempre, un burattino di legno. TORI E LOKITA di Luc e Jean-Pierre DardenneUno degli aggettivi che ho sentito e letto spesso a proposito di Tori e Lokita è “solito”, nelle sue varie declinazioni: i soliti Dardenne, il solito film dei Dardenne, le solite storie, il solito stile. A Cannes c’è perfino chi lo ha fischiato, forse pensando che il solito parlare degli ultimi, dei senza difese, degli invisibili, sia motivo di scherno e di sprezzante dileggio. Io non la penso così, e anzi penso che Tori e Lokita sia un film bello e importante, più bello delle ultime prove dei fratelli, La ragazza senza nome e Le jeune Ahmed, quelli sì un po’ in difetto di ispirazione. Certo, il cinema dei Dardenne non strappa “oh” di meraviglia, non stupisce con ardite trovate narrative né tanto meno con scene spettacolari o effetti speciali. Ma è un cinema che fa riflettere, che fa indignare, che fa commuovere; ma senza farci versare una lacrima, perché non ci sono nemmeno effetti speciali drammatici o patetici. E non è che fa pensare perché imbastisca chissà quali teoremi filosofici o enunci chissà quali verità. Fa pensare perché mostra la realtà, anche quella che abbiamo sotto gli occhi e non vogliamo vedere, anche le vergogne della nostra società che sappiamo ma che non vogliamo riconoscere. Sono due invisibili Tori e Lokita. Un bambino e un’adolescente dalla pelle scura, arrivati in Europa dall’Africa attraverso la porta della Sicilia, con un viaggio pericoloso e dispendioso ancora da pagare. Tori è piccolo e riceve protezione, Lokita no. Si fingono fratelli per cercare di far ottenere anche a lei il permesso di soggiorno, anche se non lo sono per davvero, non attraverso il sangue almeno; e invece forse lo sono per davvero, per l’affetto che li unisce, per un legame spontaneo che li stringe perché le avversità della vita si affrontano meglio in due, con una solidarietà profonda e spontanea dell’uno verso l’altra e viceversa. Per sopravvivere, per pagare i trafficanti d’uomini che reclamano il loro pagamento, per cercare di mandare qualche soldo alla madre rimasta in Benin con altri figli, Lokita insieme al piccolo Tori si presta a distribuire droga per conto di un cuoco che ogni tanto pretende dalla ragazza anche qualche triste bonus sessuale. Finché Lokita non verrà rinchiusa in una sorta di bunker, isolata dal resto del mondo, prigioniera e guardiana di una coltivazione di droga. Ma Tori saprà trovarla anche lì, per aiutarla e per farla sentire meno sola. E’ ancora una volta ammirevole come i Dardenne costruiscano una storia tutta fatta di gesti, di azioni, con i dialoghi che dicono l’indispensabile, senza nessun tipo di orpello o di abbellimento, senza musica extradiegetica a sottolineare azioni e sentimenti. Una canzone c’è e rimarrà indimenticabile per chi l’ha ascoltata guardando il film: la cantano Tori e Lokita, per intrattenere i clienti del ristorante in cambio di una piccola mancia o un pezzetto di pizza. E’ Alla fiera dell’est, proprio quella di Angelo Branduardi, cantata in italiano, che descrive una piramide di soprusi, un mondo dominato dalla violenza e dalla sopraffazione. Qualcuno, ancora, ha lamentato che Tori nella sbrigativa sequenza finale enunci, dopo un finale amaro che non aveva bisogno di commenti, la morale del film: e cioè che se a Lokita fossero stati concessi i documenti che avrebbero regolarizzato la sua situazione le cose avrebbero potuto andare diversamente. Ma non è una didascalia; è una constatazione che per l’appunto anche un bambino è in grado di fare, ma che una burocrazia e una società basate sull’esclusione non sono state capaci di realizzare. Io sono contento che esistano dei cineasti come i Dardenne, con la loro coerenza nel raccontare le “solite” storie che pochi altri raccontano, il loro rigore senza concessioni, il loro inscalfibile umanesimo, la loro poesia umile e concreta. E di film così – anche se fanno male, anzi proprio perché provocano un salutare dolore - ne vorrei ancora, e vorrei che tanta gente li vedesse. Senza sbadigliare, e senza fischiare. IL CORSETTO DELL'IMPERATRICE (Corsage) di Marie KreutzerArriva un po’ in ritardo, Il corsetto dell’imperatrice, rielaborazione di un segmento della vita di Elisabetta Amalia Eugenia di Wittelsbach, o Elisabetta di Baviera, o semplicemente Sissi, nomignolo con cui è entrata nell’immaginario collettivo, imperatrice d’Austria in quanto consorte dell’imperatore Francesco Giuseppe, imperatore d’Austria e re di Ungheria e Boemia.
Non tanto rispetto alle narrazioni che la riguardano più da vicino (dalla saga di Sissi incarnata da Romy Schnider a film come Ludwig o Mayerling), quanto rispetto a ritratti storici femminili revisionisti come quelli dedicati all’anti-imperatrice Miss Marx della Nicchiarelli, alla regina ribelle Marie Antoinette di Sofia Coppola, o alla principessa triste Spencer di Larrain. Nevrosi, canzoni moderne in colonna sonora, balli sfrenati e liberatori, anacronismi voluti e comportamenti disinvoltamente contemporanei, dissidio tra obblighi sociali e protocollari imposti dal ruolo e desiderio di libertà e di emancipazione, disturbi alimentari, culto della (propria) bellezza e timore e insofferenza per gli sguardi degli altri: tutti elementi presenti in Corsage e già presenti nei film citati sopra. Vero è che si tratta di una manciata di titoli nell’arco di un quindicennio, eppure l’impressione che mi ha suscitato il film (rafforzata dalla nuvola di narrazioni su re, principi e varia nobiltà come The Crown, Harry e Meghan, Dowtown Abbey e la miriade di prodotti audiovisivi dedicati alla storia di Lady Diana – e confesso qui di nominarli senza averli mai visti) è stata quella di una certa saturazione verso le storie di sovrane tristi e annoiate stufe di mangiare brioche perché non hanno il pane. Qui Marie Kreutzer, che scrive e dirige, con la complicità di un’interprete perfetta per il ruolo, una Vicky Krieps antipatica e febbrile come solo un’Isabelle Huppert giovane avrebbe saputo essere), ce la mette tutta per trascinare fuori il personaggio dai cliché dell’esuberante ed adorabile principessa schnideriana per renderla un personaggio complesso, nevrotico, roso dall’ansia di emancipazione sessuale, sociale ed intellettuale, ma soprattutto contemporaneo. Elisabetta di Baviera quindi, oltre a cavalcare, fare ginnastica, tirare di scherma, cercare amanti tra cugini e stallieri, alza il dito medio, tira fuori la lingua, fuma, si inietta eroina, viaggia su navi moderne, si fa immortalare dal cinema prima che il cinema esistesse, mentre in campagna incrocia trattori a motore e nei corridoi di palazzo fanno capolino moci di plastica. Nello stesso tempo, il personaggio è un concentrato di contraddizioni: vuole essere amata e considerata, ma si comporta come una tiranna spietata verso le sue assistenti; vuole essere bella e ammirata, ma detesta essere guardata e giudicata (soprattutto quando, superata la soglia dei 40 anni, gli sguardi potrebbero cominciare a diventare impietosi o compassionevoli per l’età che passa, il corpo che perde la sua proverbiale snellezza e la pelle il suo splendore); accoglie nuda il marito, ma poi si limita a masturbarlo senza farsi toccare; cerca avventure extraconiugali ma senza mai arrivare – a quanto ci viene mostrato – a passare dalla potenzialità all’atto. Come la Lady Diana di Spencer ingabbiata nelle fredde e rigide geometrie della monarchia inglese, anche Elisabetta sta stretta nella simbologia di continue costrizioni: è lei stessa a farsi stringere nel corsetto del titolo – sorta di cilicio che deve portarla alla bellezza della snellezza anziché alla santità -, ma poi si sente schiacciata da ambienti domestici troppo angusti e si identifica con la paziente dell’istituto psichiatrico da lei patrocinato, incatenata mani e piedi ad un letto chiuso dentro una gabbia di ferro. Ai protocolli e al suo ruolo puramente di rappresentanza, esiliata intellettualmente in un limbo ancillare, Elisabetta oppone una vasta gamma di tentativi di fuga: dalle cavalcate selvagge e perniciose (per sé e per i destrieri) ai finti svenimenti recitati con grazia; dalle sosia che manda fuori al suo posto, con il viso coperto dalla veletta, alle proteste alimentari; dalle relazioni pericolose con i maschi disponibili alla sua portata agli sgarbi sociali; dalla fuga dal ruolo materno, di figli che anche bambini si ritengono più maturi di lei, fino alla fuga definitiva dell’ultima sequenza. P.S.: Ma non finisce con un tuffo, liberatorio e annientatore insieme, ma comunque voluto e autodeterminato, la vita dell’imperatrice Elisabetta storica, che aveva scritto che avrebbe voluto morire “improvvisamente, rapidamente e se possibile all’estero”; anche se su una nave salì realmente, a Ginevra, nell’ultimo giorno della sua vita: ma già con una ferita mortale al petto inflitta con una lima da un anarchico italiano, Luigi Lucheni. Uno di quei fanciulli infelici “oppressi dall’Ordine stabilito”cui talvolta dedicava le sue pene, e che diceva di essere povero, di amare gli operai e di volere la morte dei ricchi, ma che si trovò ad uccidere una donna sola e disperata, probabilmente per vendicarsi a sua volta di quella vita matrigna di cui si lamentava, senza amore e senza felicità. BONES AND ALL di Luca GuadagninoVerrebbe da chiedersi come mai il cannibalismo, in varie declinazioni, è negli ultimi tempi al centro di tante narrazioni contemporanee. Ai casi d’autore si affianca tutta una produzione, molto spesso mainstream e rivolta al pubblico giovane o adolescenziale, che affronta il tema attraverso la riproposizione di figure classiche della letteratura e del cinema dell’orrore come i vampiri e gli zombi, che hanno dilagato ormai in forma coerentemente virale nelle filmografie di tutti i continenti e tutte le latitudini, e che hanno coinvolto anche figure insospettabili come l’Hazavavicius di Coupez! (“contagiato” dal nipponico Zombie contro zombie).
Siamo lontanissimi dallo sguardo compiaciuto etnico-morboso dei cannibal movie alla Deodato; i protagonisti non sono più i selvaggi che vivono in selve esotiche, ma le brave studentesse adolescenti di Raw della Ducorneau, le famigliole di Wea Are What We Are di Mickle, i raffinati intellettuali di Divorati, primo e finora unico romanzo del Signore del body horror filosofico, David Cronenberg. Siamo lontani anche dalle metafore socio-politiche di Romero, dalla concezione hobbesiana dell’homo homini lupus, o dalle divertite riflessioni sulla dimensione consumistica del cannibalismo dello stesso Cronenberg romanziere. Ad essere vampiri o cannibali sembrano piuttosto essere persone “normali” in una società “normale” o “normalizzata”, segnate da un destino iscritto nel sangue e nell’ereditarietà, che le rende aliene al consesso umano, diversi ed eccezionali, come copie invertite e negative dei supereroi, intimamente rosi dalla loro fame/sete e dal senso di colpa. Sono due adolescenti affamati, autoemarginati, orfani di genitori mostruosi, condannati ad una vita segreta e perennemente in fuga anche i due protagonisti del romanzo della scrittrice (vegana) Camille DeAngelis, adattato da David Kajganich e portato dallo schermo da Luca Guadagnino. Difficile dire cosa abbia portato il regista italiano (alla sua prima trasferta oltreoceano) a sposare il genere horror, prima rifacendo il Suspiria di Dario Argento, ora con Bones and All; poi progettando (a quanto dice lui stesso) addirittura un remake de La mummia. Bisogna dire però che, dopo un Suspiria goffo, poco pauroso e poco ispirato, infarcito di pretesti storico-intellettualistici (il terrorismo tedesco, i campi di sterminio) pseudo-nobilitanti, nel nuovo film sembra trovare una dimensione a lui molto più consona. Il contesto storico-politico rimane stavolta nello sfondo sonoro, evocato appena dalle voci delle radio o delle tv. All’interno di un contesto horror molto efficace, capace, com’è doveroso, di istillare disagio e disgusto nello spettatore, il film imbastisce invece una solida tessitura interna che parla delle relazioni umane e dell’amore; di amicizia, solidarietà, solitudine; della necessità di avere padri e madri e del bisogno di staccarsene; del bisogno di avere dei figli in cui rivivere e a cui trasmettere le proprie conoscenze; del tempo che passa e della memoria. Bones and All è uno strano horror on the road - e sempre per dirla all’anglosassone è anche un romance, un boy meets a girl movie, un coming of age - con ambientazioni open air o in ambienti domestici (tutti ben fotografati da Arseni Khachaturan) e ordinari, con pochissime uccisioni, moltissimi racconti raccapriccianti e profluvi di sangue, pervaso da una sporcizia sanguinolenta che cerca una nuova estetica della bellezza delle immagini e contemporaneamente genera una nausea disturbante. Ma tutto il suo percorso è costellato di separazioni e ricongiungimenti famigliari – in entrambi i casi traumatici -, di fotografie e memorie domestiche, di lettere e di audiocassette tramandate dai padri e dalle madri, di sorelle lasciate indietro e ritrovate, di madri che cullano neonati alla finestra, di vecchi che cercano di trovarsi la figlia che non hanno avuto respirandone l’odore (Mark Rylance, attore shakespeariano, è magistrale nell’impersonare un drop out malinconico e solitario, assettato di carne e di consanguineità), di cannibali che cercano di inventarsi fittizie e trasversali fratellanze, di appartamenti dove ogni dettaglio racconta una storia ed evoca un ricordo; di incolpevole rimorso verso il proprio passato e di preoccupazione per un futuro maledetto da una fame inesauribile. Belli e dannati, esemplari di una gioventù cannibale e legati da un amore altrettanto cannibale, Maren e Lee attraversano insieme la loro educazione sentimentale, sessuale e carnale; corpi estranei destinati a fondersi in un finale dovuto ma non del tutto convincente. Se precedenti di teen-horror romantici non mancano (la saga di Twilight tra tutti), Bones and All vira verso una dimensione più radicale. Come in Black Hole, la graphic novel archetipica di Charles Burns, la scoperta della sessualità passa attraverso la scoperta del proprio e dell’altrui corpo, in quella mutazione che trasforma i corpi dell’infanzia nei corpi dell'adolescenza, improvvisamente alieni, mostruosi, tentatori e ripugnanti, generatori al contempo di paura e di disgusto, di colpa e di attrazione, di meraviglia e di desiderio; di fame di un frutto proibito conturbante e carnale. Guadagnino fa una cosa che gli piace e gli riesce bene, filmando i corpi dei suoi adolescenti, quello efebico di Chamalet e quello imperfetto e acerbo della Russell (premiata a Venezia insieme alla regia di Guadagnino), ma glissa sulla rappresentazione del sesso (l’unica scena vista di scorcio riguarda un rapporto omosessuale che è in realtà una trappola mortale). In una storia carnale nella sua essenza, il regista mette in scena un amore adolescenziale sostanzialmente casto, cui fa da contrappunto la colonna sonora dalle tentazioni elegiache di Trent Reznor e Atticus Ross, una delle scelte a mio parere meno riuscite del film. Salvo diventare un amore bones and all, un amore che divora e si fa divorare. Da uno spunto risibile, il film complessivamente forse più convincente di Luca Guadagnino. CRIMES OF THE FUTURE di David CronenbergLa trama è delle più improbabili. In un futuro prossimo, il corpo di Saul Tenser genera continuamente nuovi organi disfunzionali, in pratica delle forme tumorali che vengono mappate, tatuate e poi estirpate dalla body artist Caprice nel corso di pubbliche performance. Intorno ai due protagonisti ruotano una serie di altre strane figure, come il capo di una setta di plastic eaters, plasticofagi che stanno sviluppando un nuovo apparato digerente in grado di assorbire la plastica; sua moglie, detenuta dopo aver assassinato il figlio mutante, il cui cadavere conservato in freezer ora il padre vorrebbe far sottoporre ad uno show autoptico per finalità politiche; due strani burocrati ossessivi che vorrebbero realizzare un catalogo nazionale dei nuovi organi; gli ambigui organizzatori di un concorso per la Bellezza interiore dedicato agli organi mutanti; un detective che indaga sulle attività sovversive legate alle mutazioni; le tecniche incaricate della manutenzione delle macchine biomorfe che agevolano l’alimentazione, il sonno e le amputazioni cui si sottopone Tenser; e poi una serie di personaggi dediti alla chirurgia da strada, o a pratiche sessuali e a performance artistiche entrambe basate sull’automutilazione. La materia sporca, malata e calda di cui si nutre il cinema di Cronenberg è trattata con estrema freddezza - con le pinze di un anatomopatologo, si direbbe -: gli ambienti sono freddi, squallidi, disadorni (se possedevano una grandeur, l'hanno perduta nella decadenza); i costumi tendono al minimalista (Tenser, intabarrato in un mantello nero con cappuccio, sembra un personaggio medioevale, un po’ penitente, un po’ monaco, un po’ lebbroso); la fotografia (di Douglas Koch, che sostituisce questa volta il fedelissimo Suschitzky) è scialba e desaturata; la drammaturgia è statica e inerte, praticamente priva di azione. Solo la febbre estenuante ed estenuata che anima i personaggi segnala una forma di vita e di esistenza, che è quella di una mutazione inarrestabile e di un desiderio insopprimibile. Malgrado le immagini forti (è evidente che non sia un film per tutti i gusti e gli stomaci), la tensione del film è quasi esclusivamente intellettuale e corre attraverso i dialoghi ancora più che nelle visioni di interventi chirurgici, autopsie, autolacerazioni. Quello che interessa a Cronenberg sono l'evoluzione dell'umanità e dei corpi verso nuove forme di esistenza e di conformazione; la ricerca di un'inedita bellezza nascosta all'interno dei corpi (dopo che quella esteriore è stata esplorata in tutte le sue forme dall'arte prima e dai media di massa poi); l'esplorazione di nuove forme di sessualità in cui il dolore diventa la principale porta per l'ingresso del piacere; i confini dell'arte dove il corpo è contemporaneamente la tela dell'artista e il bisturi che la lacera... Continuerò a parlare di CRIMES OF THE FUTURE nell'articolo CRIMES OF THE PAST sul numero di novembre di SegnoCinema. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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