GIORNI FELICI di Samuel Beckett, regia di Francesco Frongia, con Elena Russo Arman e Roberto Dibitonto, prod. Teatro dell'Elfo.Quando si parla di classici si sottolinea spesso la loro attualità, a volte a torto a volte a ragione. Quando poi i classici sono teatrali e vengono riportati in scena si insiste ancora di più: altrimenti perché farli - e perché andare a vederli? Che siano nella forma originale o aggiornati a tempi e costumi moderni, si sostiene che i classici contengano sempre un messaggio adatto alla contemporaneità. Anche in questo caso, a volte è vero, a volte no.
Nel caso di Giorni felici, scritto nel 1961 da Samuel Beckett, verrebbe da dire che, purtroppo, è più vero che mai. Le parole che la critica Vivian Mercier scrisse a proposito di Aspettando Godot, si potrebbero applicare tranquillamente anche a Giorni felici: “un'opera in cui non succede niente, ma che tiene incollati gli spettatori ai loro posti. In più, considerando che il secondo atto è una ripresa leggermente differente del primo” è “un'opera in cui non succede niente due volte”. Nel primo atto Winnie è sepolta fino alla vita in una montagnola di terra, in un paesaggio desolato. Willie, suo marito, striscia per terra, con una lesione alla testa, e si esprime quasi solo a grugniti o leggendo incongrui titoli di giornale. Nel secondo atto lo stesso; solo che la montagnola di terra è arrivata alla gola di Winnie. Cosa c'è di attuale in un'opera in cui non succede nulla? Molto, forse, purtroppo. Giorni felici può essere letta, oltre che ad una metafora esistenziale della condizione umana (legata anche all'invecchiamento e al deperimento), come una visione di un futuro post-apocalittico, dove il mondo che conosciamo è ormai una desolata tabula rasa e di cui rimangono pochi risibili residui, umani e materiali. Nel primo atto Winnie riesce ancora a gestire gli ultimi oggetti nella sua disponibilità: una grossa borsa nera, un pettine, un rossetto, uno spazzolino da denti e un dentifricio, un paio di occhiali, un cappello, un ombrello – e una pistola. Eppure Winnie si sforza di essere positiva, di tenere alto il morale, di parlare con il suo Willie, di vivere giorni felici, malgrado tutto, o di autoconvincersi, grottescamente e pateticamente, di farlo. Ma forse può essere letto anche come la rappresentazione di una situazione pre-apocalittica, quella in cui viviamo, in cui la nostra esistenza e quella dell'umanità intera è attualmente, concretamente insidiata da minacce immanenti e imminenti di catastrofi globali: dal surriscaldamento del pianeta (e Winnie tenta pateticamente di proteggersi da un sole sempre più forte con il suo ombrellino, che alla fine prende fuoco) a una guerra mondiale che rischia di essere la più devastante e totale mai vista. Di fronte a tali minacce l'umanità, o almeno quella che ne ha la possibilità – noi -, si trastulla con i propri oggetti di consumo e con la cura di se stessi (gli oggetti per la cura e l'igiene della persona ancora in possesso di Winnie), distraendosi da quello che sta succedendo intorno, chiudendo gli occhi e se stessa, in un'impotente e rassegnata inazione. Forse il mondo finirà domani, forse la montagnetta di terra aumenterà ancora per seppellirci ancora di più, ma noi non possiamo far altro che vivere in un eterno presente, nella fallace illusione che la vita possa continuare a dipanarsi per sempre come la conosciamo – e in fondo la amiamo -, anche se lo spazio si riduce sempre di più, anche se la catastrofe è sempre più incombente. Ora siamo a metà strada, bloccati, impossibilitati a muoverci e a tornare indietro. Domani – nel secondo atto - sarà peggio, la merda ci sarà arrivata fino al collo, la strada verso la fine sarà quasi tutta – in una paradossale immobilità – già percorsa. Eppure continueremo a cullarci nei nostri sogni di giorni felici, a cantare vecchie canzoni d'amore, a leggere i titoli di giornali anche se i giornali non esisteranno più. Perché un terzo atto, al momento, non è previsto. Nel primo confronto del Teatro dell'Elfo con l'universo di Samuel Beckett, Francesco Frongia (regia) e Ferdinando Bruni (scenografia e costumi) impaginano questa favola nera e nichilista in un paesaggio pop che sembra uscito da un cartoon di Willy il Coyote, con un paesaggio arido cosparso di tumuli di terra, dall'orizzonte delimitato da alture spoglie, dominato da un cielo implacabile e mutante, attraversato dai sinistri cambi di luce di Roberta Faiolo. Troneggiante sopra lo strisciante e grugnente Roberto Dibitonto c'è Elena Russo Arman, che, benché inchiodata al suo posto, dà luogo ad una performance formidabile, capace di dare corpo e stilizzata sostanza umana alla sua Winnie. Gaia e ottimista, radiosa pur nella sua condizione avvilente, garrula e malinconica, nostalgica e patetica, tragica e sbarazzina, la Russo Arman rende il suo personaggio attraverso la gestualità e soprattutto con un uso eccezionale della voce e dell'intonazione, capace di conferire in un mirabile tour de force mille sfumature ad un personaggio che sembrerebbe solo una silhouette incollata sulla scena e sepolta di terra. La Winnie di Frongia-Bruni-Russo Arman indossa un vezzoso abitino azzurro, ha un'acconciatura cotonata e un look tra gli anni '50 (lo dico per restare dalle parti dei cartoon di Chuck Jones) e gli anni '60, all'esordio dei quali Beckett scrisse e pubblicò Happy Days (in inglese, per poi tradurla in francese; mentre il testo italiano adottato è curato da Gabriele Frasca): l'epoca apparentemente felice e spensierata della ricostruzione, del boom economico, del sogno americano, di un'innocenza illusoriamente rimarginata e della speranza in un futuro di benessere e di comfort, dove la voce di Beckett, allora come oggi, suona stridente e perturbante, anche se rivestita di colori pastello.
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AutoreMauro Caron possiede, tra i suoi molti talenti, quello della culturagenerale. Tra gli altri suoi pregi, è superficiale, non sa parlare in pubblico (intendendosi per pubblico assembramenti di persone da una in su) - ecco perché la scelta del blog -, è pigro ed incostante - ecco perché il blog non durerà. Archivi
Aprile 2024
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