MAZE, della Compagnia UnterWasserSe ormai da tempo la Broadway meneghina non esiste più, con la quasi totalità delle sale di spettacolo che si allineavano intorno all'asse di Corso Vittorio Emanuele ormai chiuse e sostituite da evidentemente più remunerativi esercizi commerciali, è la periferia che continua a riservare le maggiori e più piacevoli sorprese in termini di proposte e vivacità culturale. Nei giorni scorsi abbiamo scoperto il Pim Off, uno spazio teatrale in quella che per noi (sestesi) è una remota landa dalla parte opposta di Milano, dove un navigatore burlone (o forse l'errata interpretazione delle sue indicazioni) ci ha portato in una sera buia e piovosa tra viottoli sterrati e fangosi fiancheggiati da fossi e strade chiuse prima di recuperare un ragionevole contesto urbano benché periferico. Pim Off ha trovato casa in un edificio ex-industriale che ospitava le cartiere di Verona. Al piano terra, oltre un minuscolo foyer con il banco della biglietteria (gli ingressi agli spettacoli costano 18 euro euro che si riducono a 12 se acquistati on line), si apre un gigantesco salotto, arredato con mobili pop, con le pareti decorate da un'eterogenea collezione di arte contemporanea e lungo le quali si allineano anche strumenti musicali e totem vintage restaurati e tirati a lucido, come juke-box, vecchie pompe di benzina, radio d'epoca, ecc. Tutto nell'ambiente è pulito, luminoso, originale, colorato e creativo. Ci fermeremmo volentieri di più a curiosare, ma lo spettacolo sta per cominciare. Con qualche rampa di scale (decorata con le affiche degli spettacoli precedenti) si sale fino a una sala spettacolo, con un'ampia area palco a livello pavimento e una tribuna con 99 posti a sedere. Qui il Pim Off ospita spettacoli di teatro e danza, laboratori, concorsi e residenze messe a bando. La settimana scorsa ha dato spazio a Maze, un lavoro della compagnia UnterWasser, composta da Valeria Bianchi, Aurora Buzzetti e Giulia De Canio. Maze è un lavoro ibrido, che mescola teatro di figura, performance, scultura, arti visuale e cinema (senza dimenticare il fondamentale apporto musicale e sonoro firmato da Posho). L'impressione entrando in sala è di trovare sul pavimento del palco un meccano scomposto e disseminato, un incomprensibile repertorio di oggetti o parti di essi. Quando le luci si spengono, entrano in questo spazio segnico tre donne vestite con tute nere, sorta di parche benigne (prima di diventare le tessitrici dei destini umani le Parche tutelavano la gravidanza e la nascita), che ridonano forma, anima e vita a quegli oggetti incompleti e inanimati. Lo spettacolo cui guardare, anche se le tre figure in nero non scompaiono mai realmente dalla nostra vista, non è sul palco, ma sullo schermo bianco della parete di fondo, che si accende e si anima grazie alle luci proiettate dalle tre ragazze da varie fonti luminose sparse sul terreno. Davanti alla luce vengono fatti passare dalle tre performer mobiles di pezzi di legno, di ferro o di cartone, silhouette ritagliate, sculture in fil di ferro, vetri lungo i quali scorrono gocce d'acqua, oggetti, le mani e anche i piedi delle stesse attrici. All'inizio non è che un limbo verdastro, dove galleggiano forme simili a stecchi e bastoncini, solcato da riflessi di luce, che si fanno sempre più intensi. Più avanti vedremo due volti stilizzati, disegnati con il filo di ferro affacciarsi allo schermo, uno maschile e uno femminile, che si avvicinano e si allontano, mentre un diaframma scuro cala ritmicamente a oscurare per un attimo lo schermo. Poi vedremo le cime di alberi spogli passare sopra di noi sullo schermo, poi un parco giochi, il viso di una bambina curiosa che si avvicina. Con sorpresa, scopriamo che stiamo guardando il mondo con gli occhi di una bimba, prima all'interno del ventre materno, poi nella propria cameretta, in una carrozzina, e così via. Se l'animazione e il racconto senza parole sono puramente oggettuali, realizzati e suscitati con materiali disparati e insospettabili, tutto lo spettacolo è rigorosamente costruito su uno sguardo in soggettiva, scandito dal battere delle palpebre, mentre il gioco del movimento e della distanza dalla fonte luminosa simula la dialettica fuoco/fuori fuoco dell'attenzione dello sguardo o di una macchina da presa. La protagonista viene accompagnata – o meglio è il suo sguardo che ci guida – attraverso varie fasi e vari momenti della propria vita: il paesaggio che cambia fuori dalla finestra, con massicci palazzoni (in realtà reticolati filiformi) che prendono il posto degli alberi, il rumore crescente delle macchine e del traffico, la presenza delle altre persone, addirittura un intervento chirurgico subito in ospedale, poi la scoperta incantata del nuoto, prima in piscina, poi in mare aperto. La dialettica tra le forme geometriche e ostili del mondo dell'uomo (i palazzi, i corridoi e le scale di case e ospedali) e la dimensione fluida e libera dell'acqua (il liquido amniotico della prima sequenza, l'acqua della piscina o i fondali marini) percorre tutto lo spettacolo, che si chiude come in un cerchio in una dimensione area, dove gli uccelli che solcavano il cielo all'inizio diventano dei gabbiani, gli alberi delle vele sul mare o i lampioni di un lungomare dove la giovane protagonista danza insieme ad un compagno. Prima che lo schermo si sciolga in un cielo nero disseminato e trapunto di stelle, e che il ciclo liquido della vita riprenda un altro giro. Le autrici citano come fonte del loro lavoro - privo di dialoghi e parole - l'influenza di poetesse come Mariangela Gualtieri, Emily Dickinson, Etty Hillesum, Wislawa Szymborska, Laurie Anderson, e come riferimenti visivi il disegno a linea continua di Steinberg e la morbidezza del tratto di Modigliani, i disegni cuciti di Maria Lai, le architetture in rete metallica di Tresoldi e le sculture mobili di Calder. Indubbiamente le UnterWasser sono riuscite nell'intento di creare, in una dimensione naïf, quasi infantile e fiabesca, un proprio suggestivo linguaggio lirico e onirico, capace però di una sua riconoscibile e apprezzabile narratività. Oltre al già citato evocativo sound design creato da Posho rimane da ricordare la fondamentale progettazione luci firmata da Matteo Rubagotti.
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ARIZONA di Juan Carlos Rubio, regia di Fabrizio Falco, prod, Emilia Romagna Teatro FondazioneLa scena vuota, sabbia, qualche roccia. Poi arrivano due, una coppia, lui in tenuta da caccia&pesca, o paramilitare, austero e determinato, lei frivola, con vestitino di chiffon, cappellino di paglia e scarpe col tacco. Arredano la scena vuota dandogli un'aria vagamente domestica, o meglio da pic-nic domenicale: tavolino e sedie pieghevoli, una radio che trasmette canzoni d'epoca e notiziari, una striscia erbosa, un cactus in vaso, addirittura un frigorifero. E poi una sacca da golf. Che contiene mazze da golf. E un fucile. Comincia l'attesa, un'attesa piena delle parole, sopratutto di Margareth, ansiosa, petulante, un po' svanita. Un'attesa scandita dal passare del tempo, le luci e il buio che si alternano sulla scena, come un passaggio di nuvole, o di ore, o di giorni. Potrebbero essere due personaggi beckettiani, George e Margareth, incongruamente piantati in un deserto in un'attesa metafisica, un deserto dei tartari dove attendere un nemico che forse non arriverà mai, forse non esiste, o forse non è un nemico. Invece il contesto, per quanto surreale, è geograficamente e storicamente contestualizzato: siamo in Arizona, sul confine messicano (o meglio di un mitico sud), più o meno ai nostri giorni. E George, per quanto Margareth non si ricordi o non capisca bene, è lì con lei per difendere il confine. Da quelli del sud, quelli che vogliono invaderci, rubare ciò che è nostro, uccidere i nostri figli, violentare le nostre figlie (anche se non ne abbiamo). Il progetto Minute Man al quale George si fa vanto di aderire, fatto per reclutare volontari da schierare sul confine messicano, è stato veramente avviato nel 2004. Ho visto lo spettacolo senza prendere informazioni prima, e mentre lo guardavo, ascoltando snocciolati dal convinto George tutti i luoghi comuni e gli slogan dei vari suprematismi, sovranismi, nazionalismi, razzismi o fascismi che vanno tanto per la maggiore nei nostri tristi tempi, ero curioso di sapere se davvero si trattava di un testo americano, o invece di una fantasia nera nata dalla drammaturgia italiana in questi neri giorni salviniani. Né l'uno né l'altro. A firmare il testo, nel 2006, è il drammaturgo, sceneggiatore e regista teatrale e cinematografico spagnolo Juan Carlo Rubio, a dimostrazione che lo spirito dei tempi aleggia ovunque, e non da oggi. Uno spirito dei tempi che vede l'altro come un nemico da respingere o da abbattere, dove essere poveri equivale ad essere visti come pericolosi criminali, e dove un bambino (“i bambini sono uguali dappertutto” protesta inutilmente Margareth) può e deve morire nel deserto - o in mare aperto - basta che non tocchi il nostro arido suolo. La presenza della svampita Margareth trasforma questa tragedia politica e morale in una commedia, (o in “una tragedia musicale americana”, come recita il sottotitolo dello spettacolo), dove si riflette amaramente ma nello stesso tempo si sorride all'ingenuità anni '50 della brava moglie americana. Margareth vorrebbe ascoltare la radio, cantare e ballare, annaffiare le piante, salvare le balene; sbuffa per il caldo, offre la torta ai mirtilli fatta in casa e ritornerebbe volentieri a casa, dove i vicini non sono come qui dei fantasmi minacciosi ma delle persone vere per le quali provare affetto e simpatia; invece finge entusiasmo per compiacere il marito, si intimidisce messa in soggezione dalla sua determinazione autoritaria, subisce amareggiata i suoi assalti sessuali, si dimentica i fondamentali precetti di un'ideologia odiosa, ma alla fine non si rassegna ad accettarne le conseguenze più atroci e crudeli. Fabrizio Falco, anche regista, tiene per sé la parte più monolitica e quindi monocorde, mentre riempie la scena il brio ingenuo, la fiduciosa vitalità, i dubbi tremebondi della trepidante Margareth di Laura Marinoni (un'attrice che vanta collaborazioni con i più grandi registi del teatro italiano), una beckettiana Winnie dei nostri tempi, dove - e stavolta brechtianamente - annaffiare un cactus è quasi un delitto, perché su troppe stragi comporta il silenzio. MISTERIOSO. VIAGGIO NEL SILENZIO DI THELONIOUS MONK |
AutoreMauro Caron possiede, tra i suoi molti talenti, quello della culturagenerale. Tra gli altri suoi pregi, è superficiale, non sa parlare in pubblico (intendendosi per pubblico assembramenti di persone da una in su) - ecco perché la scelta del blog -, è pigro ed incostante - ecco perché il blog non durerà. Archivi
Aprile 2024
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