PIRATI, di Gianluca De Angelis, scritto in collaborazione con Silvio Cavallo e Alessio Parenti, regia di Gianluca De AngelisQualche sera siamo andati al Teatro Verdi di Milano a vedere PIRATI. Si tratta di uno spettacolo di teatro-cabaret, composto da una sessantina di sketch brevi e brevissimi, tutti ispirati e ambientati nel mondo della filibusta, ovviamente con abbondanti ammiccamenti a situazioni e comportamenti contemporanei e in una chiave goliardica e surreale. Nell’abbondanza dei siparietti, in cui si inseriscono anche un paio di tormentoni (uno dei quali rappresenta l’unica eccezione all’ambientazione corsaro-piratesca) e numeri musicali con canto e ballo (tra cui un medley di canzoni marinare-piratesche, da Sono un pirata sono un signore a Il rock di Capitan Uncino, da Il mare d’inverno a Acqua azzurra acqua chiara), alcuni sketch funzionano, altri meno; alcuni fanno ridere, alcuni sorridere, alcuni né l’uno né l’altro, anche se bisogna dire che i cinque interpreti maschili (più due, uno in solitaria sul palco e l’altro, come dirò, in platea) hanno in buona parte il physique du rôle e sono simpatici e bravi. A volte in effetti sembra che gli attori-cabarettisti (i Senso d’oppio, Giorgio Verducci, Silvio Cavallo, Fausto Solidoro, tutti del “giro” Zelig, e il capocomico nonché autore e regista Gianluca De Angelis, che a Zelig faceva il numero dello speed date con Marta Zoboli, di cui qui si conservano alcuni elementi come l’umorismo freddo, il gusto surreale, la velocità seriale di esecuzione) siano migliori dei testi e la costruzione delle situazioni sia più godibile ed efficace della chiusa comica, che talvolta manca o è debole. Il momento clou dello spettacolo però, per noi, è stato quando un giovane spettatore seduto in una platea non molto affollata si è alzato in piedi durante la rappresentazione ed è intervenuto interrompendo gli attori sul palco, presentandosi come un blogger di teatro, facendo i complimenti agli attori e cominciando una disamina critica dello spettacolo (mentre i pirati sul palco abbozzavano con un’aria più scocciata che compiaciuta) che cercava di rintracciarne influenze, fonti d’ispirazione e citazioni, dai Monty Python a Ben Turpin e alla tradizione slapstick. Chiaramente era un attore e l’interruzione faceva parte dello spettacolo (impossibile per noi non ricordare le interruzioni dalla platea di un Bebo Storti polemico e acrimonioso durante un memorabile e geniale Romeo e Giulietta messo in scena anni fa da Paolo Rossi, con la presenza sul palco, nei ruoli minori, di spettatori volontari più o meno spaesati, reclutati nel foyer del teatro al momento dell’ingresso). Alessandra si è divertita moltissimo e rideva dicendomi “sei tu! sei tu! Fate proprio così!”, iscrivendomi di diritto nella schiera dei critici analitici che si inventano interpretazioni e rimandi a proposito di opere di autori che magari non se li sognavano neppure. Io annuivo, ammettendolo: avrei potuto benissimo essere al posto dello spettatore importuno e saputo. Quando lui ha detto che magari poteva lasciare agli attori l’indirizzo del blog, ad Alessandra non sembrava vero, pensando a me che approfitto di ogni occasione (ma con pudore, dài!) per rifilare a amici e conoscenti, anche occasionali, il bigliettino da visita di intothewonderland. Tutto vero, aveva ragione Alessandra, anche a me sembrava di sentire parole che avrei potuto dire io. Insomma, il più pirata di tutti è risultato l’attore-spettatore-critico all’arrembaggio del palco-galeone; se non ne provassi vergogna, citerei qui gli scritti corsari di Pasolini, e la funzione della critica (nel suo caso della società e dell’ideologia) come battaglia militante delle idee. Ma ne provo vergogna, e quindi non lo farò, e se l’ho fatto sbadatamente me ne scuso. Io come duellante ideale mi sono inventato addirittura l’Oruam Norac che fa il controcanto critico alle mie recensioni cinematografiche nella sezione Face/Off del sito: ombra che duella con un’ombra su una nave fantasma, come fanno ad un certo punto dello spettacolo anche i pirati sul palcoscenico, sciabolando forsennatamente contro nemici invisibili.
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LO STRANO CASO DEL DOTTOR JECKYLL E MISTER HYDE, da Robert Louis Stevenson, adattamento, regia e spazio scenico di Marco RampoldiDicevo in un recente post di una sorta di vena neogotica che attraversa la stagione teatrale milanese. La settimana scorsa, su un palcoscenico alternativo della scena milanese, è stato rappresentato un altro classico della letteratura horror anglosassone, ovvero Lo strano caso del dottor Jeckyll e del signor Hyde. Siamo ormai nel 1886, e Freud di lì a pochi anni descriverà la scissione della personalità tra Io, Es e Super Io, la sua teoria dell’inconscio e del subconscio e quella della forza delle pulsioni, quando Robert Louis Stevenson abbandona i paesaggi esotici dei suoi romanzi per chiudere nel perimetro claustrofobico di una Londra nebbiosa scissa tra abitazioni borghesi e rispettabili e sordidi quartieri popolari la favola nera di un uomo di scienza che decide di lasciare spazio e sfogo alla parte nascosta di sé, quella che cerca la soddisfazione dei desideri più bassi e bestiali (o che comunque non sono compatibili con la morale corrente). La storia è celeberrima, e ha già avuto una serie sconfinata di traduzioni per lo schermo e per la scena, dichiarati o meno. Ma l’adattamento di Marco Rampoldi non segue né la via della performance attoriale della Debora Virello di Dame oscure né quella immaginifico ed evocativa di Bruni-Frongia-Teardo di Una serie di stravaganti vicende. Più che di una messinscena vera e propria si potrebbe parlare in effetti di una lettura teatrale, che si porta dietro purtroppo gli aspetti deteriori dei due termini. I due protagonisti (Flavio Albanese nel ruolo di Jeckyll/Hyde e Claudio Moneta in quello di Utterson) sono infatti zavorrati per tutto il tempo, tranne pochi dialoghi in cui i personaggi interagiscono tra loro, dai copioni che tengono tra le mani e su cui tengono gli occhi, aggiungendo per di più tutta l’enfasi e la melodrammaticità che si suppone – erroneamente – debba essere sovraccaricata a un testo narrativo per renderlo “teatrale”. Difficile trovare nella scarna messinscena di Rampoldi (una pedana allungata, qualche seduta, un velo, una porta) un’idea forte o originale, né un tentativo di rivitalizzare il testo di origine (che, come si diceva, ha un ruolo capitale e seminale per tanto immaginario del ‘900) e di dare un senso alla sua riproposizione oggi. La stessa schizofrenia cui cede il protagonista del racconto è d’altra parte riconoscibile anche nella personalità e nelle politiche del teatro No’hma. Fondato da Teresa Pomodoro, è una sala molto bella situata in zona Città Studi. Ma se da una parte è encomiabilissimo lo sforzo illuminista e pedagogico di offrire gratuitamente alla cittadinanza generose occasioni di cultura, spaziando dal teatro, musica, danza, il lato oscuro emerge nella politica dell’accoglienza. Anche qui le finalità sono nobili e condivisibili, e si possono riassumere nel tentativo di permettere al maggior numero di persone di assistere agli spettacoli, ma i risultati sono spesso deleteri. Bisogna prenotarsi, ma i posti non sono prenotati, per cui è necessario comunque presentarsi con largo anticipo e attendere sul marciapiede l’apertura delle porte; ma evidentemente le prenotazioni non sono commisurate all’effettiva capienza della sala, che viene stipata all’inverosimile dilagando con sedie aggiunte nel foyer e in spazi assolutamente insani. Mi è capitato di assistere al concerto di Van der Noot da dietro una larga colonna, che ostruiva qualsiasi possibilità di gettare anche solo una sbirciatina di scorcio al palco. L’ultima trovata è stata quella di posizionare la pedana nel mezzo della sala, probabilmente per migliorare la visione degli spettatori, dal momento che non si percepisce alcuna ratio registica – gli attori sono anzi costretti a faticose torsioni -, ma con la bella pensata di riempire il settore di fondo prima di permettere l’accesso al primo settore: con il risultato che chi è arrivato prima rischia di trovarsi nelle file più arretrate nella parte della sala più torrida, mentre chi è più in ritardo si accomoda nelle file più avanzate e arieggiate del primo settore. Alle mie rimostranze una gentile signorina – per assurdo situazioni allucinanti di accoglienza del pubblico vengono gestite e perfino agevolate da un cospicuo e volenteroso numero di addetti in sala – si dice dispiaciuta, ma si appella a disposizioni ricevute. Che non è mai una buona risposta, in particolare quando le disposizioni sono contrarie al buon senso. Soluzioni ci sarebbero: bloccare le prenotazioni quando si è ragionevolmente saturata la capienza della sala, aggiungere una replica se e quando è possibile, o introdurre un biglietto d’ingresso, anche modesto, che possa servire a dissuadere quella fetta del pubblico del “tanto è gratis “. Sono sicuro che la signora Pomodoro saprebbe trovare degnissime destinazioni agli incassi così realizzati. UNA SERIE DI STRAVAGANTI VICENDE - Un omaggio a Edgar Allan Poe scritto, diretto e illustrato da Ferdinando Bruni e Francesco FrongiaUna vena neogotica ha attraversato la stagione teatrale milanese di quest’anno. Ne abbiamo visto almeno un paio 'di esempi. All’inizio dell’anno è stata la volta di Dame oscure, messo in scena nella piccola Sala della Cavalerizza del Teatro Litta, in cui Debora Virello, all’interno di una gabbia/uccelliera posta al centro della sala, con il pubblico disposto su tre lati, dava arditamente vita - e passione, tic, boccacce e ammiccamenti - a un paio di eroine ispirate alla letteratura anglosassone neogotica di fine ‘800-inizio ‘900, diciamo tra Bram Stoker e Henry James, evocando sulla scena spoglia visioni che sembravano uscire dalla pittura romantica. Qualche giorno fa è toccato invece a Una serie di stravaganti vicende, in scena nella sala Fassbinder del Teatro Elfo Puccini, un omaggio che Ferdinando Bruni ha voluto rendere a Edgar Alla Poe, il padre fondatore di tutto un immaginario neogotico che ha influenzato in misura incalcolabile la letteratura, le arti figurative e il cinema a venire. Se l’impulso iniziale è presumibilmente di Bruni (lo dimostra anche la mostra esposta nel foyer del teatro, cui accennerò in seguito), Una serie di stravagante vicende può essere considerata a tutti gli effetti un’opera teatrale a sei mani. L’elemento scenico, così come il contesto acustico, costituiscono in effetti elementi fondamentali dell’opera, che gli conferiscono carattere, originalità e fascino. Ferdinando Bruni è solo sulla scena, incarnazione nello stesso tempo dell’autore letterario e dei suoi personaggi, a dare corpo e voce a personalità malate, febbricitanti, allucinate, alle prese con le visioni dello straordinario e con la costante presenza della morte. Sopra il protagonista si levano in volo due ali scure, immediato riferimento alla poesia più famosa di Poe, Il corvo, che diventano poi il complemento di una figura femminile lugubremente appesa nell’aria sopra la scena, sinistro angelo della morte con le fattezze delle donne amate e precocemente scomparse presenti sia nella vita di Poe (la moglie, cugina sposata tredicenne e stroncata giovanissima dalla tubercolosi) che nelle sue opere in versi e in prosa. La piccola scena è a sua volta avvolta da teli-sudari, che strabordano dal palco verso il pubblico e su cui vengono quasi costantemente proiettate delle immagini: corvi in volo, scritture, segni astratti, accenni di paesaggi desolati; l’effetto è quello di produrre una fantasmagoria ipnotica (in una rigorosa bicromia) che evoca un ambiente continuamente cangiante, mobile, colmo di suggestioni visive, che anima quasi in continuazione la quarta parete e che modifica la profondità stessa della scena in un gioco continuo di luce, materia, segni, trasparenze e opacità. L’esito visivo, opera dello stesso Bruni e di Francesco Frongia (già assiduo e geniale collaboratore di Bruni e dell’Elfo), è di grande impatto, e ricorda a volte gli esiti del cinema (un po’ troppo precocemente trascurato) di Peter Greenaway, teso alla creazione di ipertesti visivi dove arti figurative, scrittura letteraria e cinema trovassero un nuovo punto di equilibrio. Egualmente affascinante è la componente sonora, affidata alla ricca gamma timbrica della voce di Bruni, qui ovviamente calibrata soprattutto su toni profondi, e dalla partitura sonora di Theo Teardo (compositore che frequenta tanto il cinema, con collaborazioni tra gli altri con Sorrentino, Salvatores, Vicari, che il teatro, con lavori per Motus, Societas Raffaello Sanzio, Elio Germano), che amplifica e sottolinea le suggestioni di testi e scena con rumori, tonfi, echi, accenni melodici che diventano addirittura canzoni straniate e dolenti nella recitazione di alcune delle più celebri liriche di Poe, come il già citato The Raven o Annabel Lee. La scelta dei testi è evidentemente tesa a costruire una sorta di apocrifo autoritratto psicologico dell’autore americano, quasi che i brani narrativi o poetici da questi scritti per descrivere lo stato mentale dei propri tormentati protagonisti diventassero una sorta di frammentaria autoanalisi dello scrittore stesso, spinto, anche dalle dolorose vicende biografiche, a fantasie morbose e all’uso e all’abuso di alcol e droghe. I due frammenti narrativi più lunghi, tratti da Il cuore rivelatore (di cui mi piace ricordare una messa in scena di anni fa, intitolata Luce nera, con la regia e l’interpretazione di Patricia Zanco, come anche la geniale trasposizione a fumetti di Alberto Breccia) e da Eleonore, rimangono interrotti, sospesi, privi di scioglimento. Il cuore rivelatore è addirittura il solo momento dello spettacolo in cui la macchina scenica audiovisiva si ferma, e il protagonista oltrepassa il velo della quarta parete per presentarsi direttamente, in un certo senso “nudo”, davanti al pubblico. E’ un vero peccato, però, non poter vedere il sofisticato apparato sonoro e figurativo messo alla prova con problematiche narrative e più propriamente drammaturgiche, anziché rimanere il preziosissimo involucro che avvolge come un bozzolo un testo che rimane quindi su un piano quasi astratto, o comunque non narrativo. Il titolo dell’intera operazione, a proposito, è a mio parere completamente fuorviante: non si tratta propriamente di una serie di vicende, poiché la narratività del racconto è in realtà continuamente frustrata e incanalata in una biografia immaginaria e immaginifica, e il termine stravaganti sembra inoltre introdurre un elemento di leggerezza e di eccentricità a vicende che sprofondano invece negli abissi della mente, del cuore e dell’umano dolore. D’altra parte, il fatto che da parte di Bruni non si tratti di un interesse né occasionale né superficiale è testimoniato dalla mostra Favole della buonanotte, una serie di tele su tavola esposte nel foyer della sala. Le Favole nascono dalle fotografie raccolte in un vecchio album comprato dall’autore alla bancarella di un rigattiere di Portobello Road. Si tratta di una sequenza omogenea di composizioni dove i soggetti (uomini, donne e bambini) in posa davanti a una macchina fotografica ottocentesca, diventano gli abitatori involontari di mondi allucinati, dominati dalle cupe e spente tinte del nero, dei grigi e dell’ocra, avvolti dai vortici delle pennellate, resi mostruosi dall’intervento del pittore, relegati nei piccoli quadratini delle cornici che non li difendono dal caos né gli permettono di raggiungere le piccole scale, irraggiungibili vie di fuga, che a volta figurano sullo sfondo. Piccole realtà di vite borghesi, stravolte dal tempo e dalla morte, dal caos che le avvolge e se ne fa beffe. Non molto dissimili dagli antieroi di Poe (o da Poe stesso), signori dell’800, che ci somigliano, alle prese con il disordine dell’esistenza e con il terrore della morte che distrugge le vite e gli affetti. ROSALYN di Edoardo Erba, regia di Serena Sinigaglia, con Alessandra Faiella e Marina MassironiTutto ruota intorno a due donne. La trama sembra semplice: l’incontro tra Esther, scrittrice, intellettuale snob con qualche tentazione omosessuale, e Rosalyn, una ragazza delle pulizie ingenua e ignorante. Ma Esther ha imboccato la porta rossa sbagliata, e niente e nessuno è come sembra. A partire da un incontro apparentemente fortuito, le due donne vivono una giornata e una notte di (letterale) follia, rievocata distopicamente anni dopo da Esther in una stazione di polizia dove la verità viene gradualmente alla luce. La Rosalyn del titolo è una sorta di caleidoscopio, personaggio coerente che pure cambia aspetto e colore in continuazione: donna delle pulizie e ragazza alla pari, ingenua e finta ingenua, vittima di una sciagurata storia famigliare e abile manipolatrice, dormigliona e lettrice vorace, amante maltrattata e abusata e donna in cerca della propria autostima, assassina e poliziotta, oggetto del desiderio e proiezione dei sensi di colpa. Erba gioca di nuovo col tema della coppia, virandolo qui sul tema del doppio e portando la vicenda verso uno scioglimento a effetto, che forse avrebbe invece avuto da guadagnare da un margine maggiore di ambiguità, e applicando un meccanismo drammaturgico già visto al cinema (devo mordere la tastiera per non citare titoli rivelatori, sperando di non aver già detto troppo), ma molto meno a teatro. Si tratta di un espediente drammaturgico comunque generatore di senso, che attraversando progressivamente generi diversi, dalla commedia di strana coppia al noir e alla tragedia con deriva psico-metafisica, porta il testo molto più lontano rispetto allo spunto di partenza. Dirige Serena Sinigaglia (la fondatrice di Atir, che ha già curato le regie di diverse opere di Erba, come Nudi e crudi, Utoya, Italia anni dieci), che avendo a disposizione due attrici comiche come Alessandra Faiella e Marina Massironi, sfrutta accortamente nella prima parte tutti gli spunti umoristici (probabilmente non così palesi nel testo scritto), assecondando così le aspettative del pubblico, per spiazzarlo poi nell’evoluzione della storia. Le due interpreti affrontano con coraggio le metamorfosi (psicologiche) a vista dei rispettivi personaggi, all’interno della scarna e allusiva scenografia bicroma di Maria Spazzi, muovendosi spesso in precario equilibrio davanti al vuoto sotto la CN Tower, o davanti alle Niagara Falls, o sul terreno accidentato della discarica fatale, su un pavimento metaforicamente disgregato sotto i loro piedi. Pubblico soddisfatto: si ride, si rimane invischiati, ci si intriga, ci si inganna, ci si sorprende. I MALAVOGLIA di Giovanni Verga, rielaborazione drammaturgica di Micaela MianoOgni adattamento teatrale di un’opera letteraria si trova di fronte a maggiori difficoltà e maggiori rischi rispetto all’allestimento di un testo già concepito per la scena. Forse ancor più rispetto agli adattamenti per il cinema, dove le componenti extraverbali sono talmente potenti da trasportarlo sul piano di un linguaggio radicalmente differente. La riduzione poi di un’opera così articolata e ricca di avvenimenti come I Malavoglia, che segue le vicende di una famiglia attraverso tre generazioni, tra battute di pesca funeste o miracolose, affari, maldicenze, morte e lutti, matrimoni celebrati e mancati, contrabbando, seduzioni, partenze e ritorni, sullo sfondo di guerre, tasse, rivoluzioni mancate e così via era un’impresa abbastanza improba. Ci prova progetto Teatrando, mettendo in scena l’opera di Giovanni Verga rielaborata per il teatro da Micaela Miano e diretta da Guglielmo Ferro (figlio di Turi, che già aveva avuto frequentazioni verghiane sia teatrali che televisive). Cast nutritissimo, giustamente corale, con sedici attori sul palco, che ospita una sorta di zattera centrale in legno, circondata da una passerella, che è di volta in volta barca, molo, piazza di paese, cortile. Ma purtroppo, I Malavoglia teatrali di Teatrando diventano teatro. Non nel senso migliore del termine, cioè l’esaltazione o la reinvenzione dello spunto originale attraverso le specificità di un linguaggio nuovo (e vecchio di millenni), bensì in quello di adottarne tutte le convenzioni e i manierismi. Il punto più dolente a mio parere è costituito dallo stile di recitazione adottata: una recitazione, appunto da vecchio teatro borghese, stereotipata (soprattutto in alcuni dei caratteri principali) secondo canoni teatrali, agli antipodi dal verismo e dal naturalismo ricercato da Verga. Una sorta di tradimento della poetica verghiana rivolta verso gli umili, verso i vinti dalla Storia. Se la scenografia astratta e (necessariamente?) stilizzata è in contraddizione poi con i costumi d’epoca degli attori, è utilizzata anche in modo discutibile dalla regia come macchina narrativa: piuttosto banalizzante appare infatti la scelta di rappresentare alcuni degli episodi più drammatici del testo dietro una tenda/vela, sulla quale i personaggi si proiettano come ombre cinesi. Il risultato è quello di sminuire il pathos a scapito di una scelta estetizzante, per non dire decorativa, non nuova né funzionale né capace di suscitare suggestioni o emozioni. La mancanza di necessità, o di una precisa chiave di interpretazione e di riattualizzazione del testo verghiano, finisce col lasciarne emergere il sedimento tematico datato e conservatore, dove la difesa delle radici, della casa, della famiglia, del mestiere che si tramanda di generazione in generazione, diventa aprioristica conservazione dello status quo socioculturale, contrapposto all’anelito al cambiamento, visto come velleitaria aspirazione ai falsi valori della modernità e di una vita facile e (si desume) dissoluta. La pletora di avvenimenti, percorsi per forza di cose con celerità dalla folla di personaggi, lascia l’impressione di un riassunto, o meglio di un bigino del testo. Forse, effettivamente, lo spettacolo potrebbe essere gradito dagli insegnanti, che potrebbero a loro volta offrire agli studenti una chiave di accesso al testo differente rispetto a quella che gli è immediatamente propria e congeniale, cioè la lettura. Il pubblico della prima ha gradito: non solo lo spettacolo è stato salutato con calorosi applausi, ma battimani a scena aperta hanno addirittura salutato la morte di padron ‘Ntoni, interpretato da un istrionico Enrico Guarneri. Escludo che fosse un modo per manifestare sollievo per l’approssimarsi della fine dello spettacolo. THE FLICK di Anne Baker, regia di Silvio Peroni La scenografia rimane sempre identica: qualche fila di sedie di cinema rivolte verso il pubblico, alle spalle la torretta della cabina di proiezione, sul pavimento, risporcato a ogni buio in palcoscenico, i resti lasciati dagli spettatori dopo la fine del film: pop corn, cartoni, sacchetti di patatine, resti di insalata e macchie di bibite. Siamo dentro al Flick, un vecchio cinema dove si proiettano ancora film in 35 mm, mentre tutto il resto del mondo sta passando alla proiezione in digitale. I personaggi (tranne uno spettatore addormentato) sono solo tre: Rose, la proiezionista, Sam e l’ultimo arrivato, Avery, addetti alle pulizie, al botteghino e al bar. Niente cambi di luce, se non l’accendersi e lo spegnersi delle luci in sala, o su in cabina, o il fascio di luce che ogni tanto esce dalle finestrelle di proiezione. E niente musiche o rumori aggiunte, se non il ronzio del proiettore in funzione o qualche brano di colonna sonora, o “Le tourbillon”, la canzone cantata da Jeanne Moureau in Jules e Jim, il film di Truffaut che, guarda caso, parla della relazione tra due uomini e una donna. Perché di questo parla The Flick, nella sua essenzialità: di due uomini e una donna. Tre persone trovatesi insieme per caso, sullo stesso posto di lavoro, a ripulire lo sporco lasciato come scorie materiali dal passaggio dell’immaginario e dalla condivisione di sogni, a condividere una quotidianità che inevitabilmente porta alla confidenza, e al complicarsi dei rapporti. Gradualmente, scena dopo scena, mentre si discute di cinema e della cresta da fare sui soldi incassati per integrare la sottopaga, di merda da pulire nei cessi e di dolori personali, di problemi famigliari e di film che contano veramente. Avery è un cinefilo duro, appassionato e enciclopedico, per il quale l’amore per i film (mentre il suo lavoro è spazzare i pavimenti di un cinema) funziona anche da filtro nei confronti di un mondo in cui non si sente a proprio agio (e se nel mondo tutti recitano una parte, allora è preferibile il mondo dichiaratamente fittizio del cinema); Sam, non più giovane, ma rimasto confinato nella più umile delle mansioni, cova sotto l’apparente bonomia dispiaceri famigliari e soprattutto il dolore di un amore inappagato; Rose ha un’apparenza dura, tanto da poter sembrare una lesbica, ma convive con la sofferta e consapevole incapacità di mantenere una relazione sentimentale stabile. Avery, Sam e Rose sembrano vivere ciascuno in una propria bolla esistenziale, in cui stabilire un vero rapporto con gli altri è problematico. Eppure nella sala cinematografica deserta, giorno dopo giorno, si dipana e si scatena la dinamica dei rapporti, tra amicizia, amore, desiderio, gelosia, invidia, senso del tradimento, simpatia, condivisione della propria intimità. Il testo di Annie Baker (poco più che trentenne quando The Flick vinse nel 2014 il premio Pulitzer), disegna il delinearsi e lo svilupparsi dei caratteri e dei rapporti con ammirevole finezza e naturalezza, prendendosi il lusso di una lunghezza inusuale, accumulando quadri su quadri in cui nulla sembra accadere mentre in realtà tutto cambia insensibilmente e tutto acquista senso. Tra chiacchiericcio (con tanto di “normale” turpiloquio) e citazione cinefile, umorismo e malinconia, il testo restituisce alla fine tre ritratti generazionali delineati con grande umanità e tenerezza. Pur essendo un testo estremamente contemporaneo nel linguaggio, nel contesto e nei personaggi - tre giovani o diversamente giovani alle prese con precariato lavorativo e con una difficile definizione di un’identità sociale, sessuale e esistenziale -, The Flick appare nello stesso tempo anche come un testo profondamente cecoviano. Le vicende dei tre, sognatori che non sanno fare abbastanza per realizzare i propri sogni, romantici sospesi tra le velleità di una vita differente e una sorta di abulia o di sospensione esistenziale che blocca ogni loro tentativo di azione, si stagliano significativamente nell’epoca del passaggio dalla proiezione da pellicola a quella in digitale. La vendita di The Flick, l’acquisto da parte di un nuovo proprietario che si disferà del vecchio proiettore spezzando il cuore di cinefilo romantico di Avery e che vieterà a Sam di portare l’inseparabile cappellino che ne nasconde la precoce calvizie, sta a The Flick come la vendita e il taglio degli alberi sta a Il Giardino dei ciliegi cecoviano: il cambiamento ineluttabile anche se indesiderabile, e anche l’implacabile avanzare della realtà prosaica che spazza via velleità e sentimentalismi. Silvio Peroni, amante del teatro contemporaneo, in particolare di quello anglosassone, asseconda perfettamente il testo, mantenendolo nella sua nuda eppure ricca essenzialità, non risparmiando sulla durata (ma potrei citare innumerevoli spettacoli in cui la visione di dieci minuti affaticava di più delle due ore e 40 minuti di durata di The Flick), gestendo con autorevolezza anche i silenzi e i momenti di imbarazzo, con una regia invisibile che esalta la scelta naturalistica (o iperrealistica) della narrazione. Di grande efficacia il lavoro con gli attori, tutti perfettamente allineati sulla linea di una credibile e godibile naturalezza: da Sara Putignano (già diretta da Peroni in Cock), che evita abilmente le trappole del personaggio forse più a rischio di stereotipizzazione, ad Alberto Malanchino, il ragazzo forte in cinefilia e fragile nella vita, e a Mariano Pirrello, che conquista il cuore con un’interpretazione mimetica piena di umorismo e di malinconia. Di sabato sera, il teatro Verdi (il testo è in prima nazionale) non era molto affollato (forse lo sarebbe stato di più se la pubblicità avesse insinuato - cosa d'altra parte letteralmente vera - che ci sono due che scopano per tutto lo spettacolo?). Un vero peccato, perché The Flick è uno spettacolo intelligente, emotivamente coinvolgente e divertente che merita di essere visto da tutti (affrettarsi: è in scena fino al 19 marzo; ma dal 21 Peroni rimette in scena la Baker con The Alien, stavolta al Filodrammatici). E per i cinefili (quale io mi reputo) è assolutamente da non perdere: da culto, il giochino sui gradi di separazione che separano gli attori, in cui bisogna risalire da un attore all’altro ricostruendo la catena di chi ha lavorato con chi in quale film, o le discussioni sui film americani veramente grandi degli ultimi dieci anni... SMITH & WESSON di Alessandro Baricco. Regia di Gabriele Vacis. Teatro stabile del Veneto, Teatro stabile di TorinoSmith & Wesson prende spunto da una storia vera, quella di Annie Edson Taylor, una vedova sessantreenne che nel 1901, al fine di raggranellare un po’ di denaro per affrontare una più serena vecchiaia si gettò dalle cascate del Niagara all’interno di una botte. Fu il primo essere umano a compiere l’assurda impresa; sopravvisse, ma venne truffata dal proprio agente che le rubò i denari e... la botte! Baricco sembra da sempre interessato a esplorare quel confine in cui la realtà sembra precorrere la fantasia, superarla o almeno farle una spietata concorrenza. Nel suo testo la donna temeraria ringiovanisce fino a un’ardimentosa ventitreanneità, incarnandosi in Rachel, aspirante giornalista in cerca di gloria e di una fortuna che, se non si presenta, o se viene negata da una società maschilista, va creata con le proprie mani e il proprio ingegno; e per compagni d’avventura, coinvolti dalla sua irruenza, le pone a fianco un recuperatore di cadaveri (le cascate sono meta, oltre che di lune di miele, di numerosi aspiranti suicidi) e un serafico truffatore ricercato ma aspirante metereologo, i Wesson e Smith del titolo. Alla fine, dopo l’esito dell’impresa (che era anche tecnologica e economica), i due uomini si troveranno vestiti da guitti, a portare in giro per il Messico un baraccone di tirassegno, per adempiere ad una sorta di bizzarro voto e rendere un bizzarro omaggio al coraggio di Rachel, che come l’Amélie cinematografica aveva recitato le proprie idiosincrasie, i desideri e le piccole manie che fanno di ciascuno di noi un’identità irripetibile. La prima domanda è: cosa ha spinto Baricco a raccontare questa strana storia (poco teatrale inoltre, considerata la necessità di avere sulla scena una cascata)? La risposta, forse, più che nella morale interna che della storia trae la signora Higgins - e che riguarda l’elogio del rischio, dell’immaginazione, della follia, del talento, l’importanza del prendersi cura degli altri, la consolazione del ricordo – sta nel gusto ludico dell’affabulazione, nella sperimentazione giocosa dei toni e dei registi. Così la commedia parte come una buddy comedy, con il confronto tra il linguaggio aulico di Smith e le parole povere di Wesson, prende brio con l’arrivo di Rachel, gioca con il meccanismo delle conferenze stampa, accelera in ritmi screwball verso il climax, diventa astratto linguaggio visivo e sonoro nella scena del salto, precipita verso toni gravi con la comparsa della Higgins (personaggio che ha una pura funzione di racconto, quando la vocazione alla narrazione era la prerogativa vitale dell’aspirante giornalista Rachel), si risolve nella malinconia dolceamara e circense dell’epilogo. Forse allora la motivazione del testo sta nascosta in quello che appare un inserto marginale, la lettura o recitazione degli appunti di Smith, che, nel tentativo di rendere statistica la previsione del tempo meteorologico, accumula annotazioni sul suo taccuino, raccogliendo aneddoti da testimoni e documenti; ne nasce una sequenza di tranches de vie, brandelli di vita di uomini e donne non illustri, per citare Pontiggia, che lo spettacolo inscena con suggestioni visive e sonore (a cura di Indyca/Michele Fornasero e di Roberto Tarasco): il terreno della narrazione si spacca rivelando mille germogli potenziali, perché ogni vita è una o più storie, e ogni storia merita un racconto e qualcuno che la racconti. Meglio che può, “ogni volta come fosse la prima, o la più bella”; e stando attenti alle parole che si usano, perché le parole sono “piccole macchine molto esatte” da maneggiare con cura e con amore. La messinscena di Gabriele Vacis dribbla elegantemente la sfida della cascata e impernia la scena su un graticcio cubico, che cambiando inclinazione e altezza rispetto al palco diventa di volta in volta una baracca, un pontile, una music box, una botte, un baraccone di tirassegno. La regia asseconda le variazioni di registro volute da Baricco, sfruttando al meglio le occasioni umoristiche, assecondate dalla strana ma ben calibrata coppia formata da Natalino Balasso e Fausto Russo Alesi. Completano il cast Camilla Nigro nel ruolo di Rachel e Mariella Fabbris in quello della signora Higgins. La Compagnia del Sole è in scena fino a domenica 27 novembre al Teatro Verdi di Milano, gestito dal Teatro del Buratto, con 2MA NON2, tratto da O di uno o di nessuno di Luigi Pirandello (strana la scelta di cambiare il celebre titolo, assumendone più decisamente più criptico). Marinella Anaclerio prende la novella e la commedia di Pirandello e ne fa un ibrido teatrale, alternando alle parti recitate altre didascaliche e narrative - utilizzando le parole della novella -, sfrondando la storia dai personaggi minori e chiamando in causa lo stesso autore, che, pirandellianamente, sale più volte sul palco a presentare e commentare la propria opera. Un ibrido efficace, che riassume in uno spettacolo di poco più di un’ora l’intera vicenda, che ancora una volta mette in luce la straordinaria modernità – e lo sconvolgente anacronismo rispetto alla sua epoca – di Pirandello. La vicenda è quella di due giovani impiegati che per non assoggettarsi agli obblighi e ai carichi di un vero e proprio matrimonio mantengono e condividono la stessa amante, pianificando razionalmente un modello antifamigliare che soddisfi i loro bisogni emotivi e biologici. Tutto funziona nel migliore dei modi per tutti e tre, finché la ragazza, Melina, rimane incinta, non sa di quale dei due uomini. A quel punto tutto si incrina, il rapporto amicale tra i due, il rapporto amoroso dei due con la ragazza. Nessuno dei due maschi si sente né di condividere né di assumere in pieno una paternità incerta e indecidibile. Si pensa ovviamente anche di sbarazzarsi del bambino, in qualsiasi modo; ma i due non hanno fatto i conti con Melina, che, se anche i due decidessero di tirarsi indietro, vorrà avere il figlio, a costo di farsene carico da sola. Non dico come fa a finire, ma prima della soluzione si attraverseranno il dramma, la commedia, la farsa, la tragedia, e si avrà occasione di riflettere sui temi della paternità e della maternità, dell’amicizia e dell’amore, delle forme delle relazioni e della loro immagine sociale, dei ruoli di genere maschili e femminili. Vedere nel 1929, settimo anno dell’era fascista, pregna degli umori e dei disvalori che ben sappiamo, un disinvolto e inizialmente pienamente soddisfacente ménage à trois (fate conto, tanto per prendere le misure, che il proverbiale Jules e Jim è stato pubblicato nel '53 e il film che ne ha tratto Tuffaut è del '62) e un’eroina protofemminista come Melina, capace e forte abbastanza da decidere della propria vita, dev’essere stato sicuramente una scossa per il pubblico dell’epoca, ma può essere salutare ancora oggi. Lo spettacolo è consigliabile: agile, leggero nelle scenografie e nei toni, affidato ad un bravo quartetto di attori; Antonella Carone è Melina (e poi il piccolo Ninì), mentre Simone Castano e Tony Marzolla risultano efficaci nel rendere fisicamente, plasticamente e psicologicamente le diversità complementari dei due padri putativi, e infine Dino Parrotta si prende il ruolo dell’autore-anfitrione e di qualche personaggio secondario, tra cui il libertino Merletti cui è affidato lo sguardo beffardo che all’inizio coglie il lato comico e grottesco della vicenda. P.S.: a proposito di maternità, ruoli sessuali e relazioni anticonvenzionali, proprio la sera prima aver visto lo spettacolo mi è capitato di vedere in tv Two Mothers, un film di Anne Fontaine tratto da Le nonne di Doris Lessing. Il film si svolge ai giorni nostri, e mostra un inedito sguardo sull’emancipazione femminile e sui rapporti tra uomini e donne, mettendo in scena un ménage à quatre in cui due madri ancora giovanili ed avvenenti avviano appaganti relazioni erotiche ciascuna con il figlio dell’altra, dando luogo ad una strana famiglia edipica incrociata. Progetto interessante, realizzazione che sembra rimanere (volontariamente) in superficie: quella delle onde su cui i ragazzi fanno surf, o quella della pelle levigata e tornita del quartetto di protagonisti (le mamme sono Robin Wright e Naomi Watts, anche produttrice). |
AutoreMauro Caron possiede, tra i suoi molti talenti, quello della culturagenerale. Tra gli altri suoi pregi, è superficiale, non sa parlare in pubblico (intendendosi per pubblico assembramenti di persone da una in su) - ecco perché la scelta del blog -, è pigro ed incostante - ecco perché il blog non durerà. Archivi
Aprile 2024
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