UNA SERIE DI STRAVAGANTI VICENDE - Un omaggio a Edgar Allan Poe scritto, diretto e illustrato da Ferdinando Bruni e Francesco FrongiaUna vena neogotica ha attraversato la stagione teatrale milanese di quest’anno. Ne abbiamo visto almeno un paio 'di esempi. All’inizio dell’anno è stata la volta di Dame oscure, messo in scena nella piccola Sala della Cavalerizza del Teatro Litta, in cui Debora Virello, all’interno di una gabbia/uccelliera posta al centro della sala, con il pubblico disposto su tre lati, dava arditamente vita - e passione, tic, boccacce e ammiccamenti - a un paio di eroine ispirate alla letteratura anglosassone neogotica di fine ‘800-inizio ‘900, diciamo tra Bram Stoker e Henry James, evocando sulla scena spoglia visioni che sembravano uscire dalla pittura romantica. Qualche giorno fa è toccato invece a Una serie di stravaganti vicende, in scena nella sala Fassbinder del Teatro Elfo Puccini, un omaggio che Ferdinando Bruni ha voluto rendere a Edgar Alla Poe, il padre fondatore di tutto un immaginario neogotico che ha influenzato in misura incalcolabile la letteratura, le arti figurative e il cinema a venire. Se l’impulso iniziale è presumibilmente di Bruni (lo dimostra anche la mostra esposta nel foyer del teatro, cui accennerò in seguito), Una serie di stravagante vicende può essere considerata a tutti gli effetti un’opera teatrale a sei mani. L’elemento scenico, così come il contesto acustico, costituiscono in effetti elementi fondamentali dell’opera, che gli conferiscono carattere, originalità e fascino. Ferdinando Bruni è solo sulla scena, incarnazione nello stesso tempo dell’autore letterario e dei suoi personaggi, a dare corpo e voce a personalità malate, febbricitanti, allucinate, alle prese con le visioni dello straordinario e con la costante presenza della morte. Sopra il protagonista si levano in volo due ali scure, immediato riferimento alla poesia più famosa di Poe, Il corvo, che diventano poi il complemento di una figura femminile lugubremente appesa nell’aria sopra la scena, sinistro angelo della morte con le fattezze delle donne amate e precocemente scomparse presenti sia nella vita di Poe (la moglie, cugina sposata tredicenne e stroncata giovanissima dalla tubercolosi) che nelle sue opere in versi e in prosa. La piccola scena è a sua volta avvolta da teli-sudari, che strabordano dal palco verso il pubblico e su cui vengono quasi costantemente proiettate delle immagini: corvi in volo, scritture, segni astratti, accenni di paesaggi desolati; l’effetto è quello di produrre una fantasmagoria ipnotica (in una rigorosa bicromia) che evoca un ambiente continuamente cangiante, mobile, colmo di suggestioni visive, che anima quasi in continuazione la quarta parete e che modifica la profondità stessa della scena in un gioco continuo di luce, materia, segni, trasparenze e opacità. L’esito visivo, opera dello stesso Bruni e di Francesco Frongia (già assiduo e geniale collaboratore di Bruni e dell’Elfo), è di grande impatto, e ricorda a volte gli esiti del cinema (un po’ troppo precocemente trascurato) di Peter Greenaway, teso alla creazione di ipertesti visivi dove arti figurative, scrittura letteraria e cinema trovassero un nuovo punto di equilibrio. Egualmente affascinante è la componente sonora, affidata alla ricca gamma timbrica della voce di Bruni, qui ovviamente calibrata soprattutto su toni profondi, e dalla partitura sonora di Theo Teardo (compositore che frequenta tanto il cinema, con collaborazioni tra gli altri con Sorrentino, Salvatores, Vicari, che il teatro, con lavori per Motus, Societas Raffaello Sanzio, Elio Germano), che amplifica e sottolinea le suggestioni di testi e scena con rumori, tonfi, echi, accenni melodici che diventano addirittura canzoni straniate e dolenti nella recitazione di alcune delle più celebri liriche di Poe, come il già citato The Raven o Annabel Lee. La scelta dei testi è evidentemente tesa a costruire una sorta di apocrifo autoritratto psicologico dell’autore americano, quasi che i brani narrativi o poetici da questi scritti per descrivere lo stato mentale dei propri tormentati protagonisti diventassero una sorta di frammentaria autoanalisi dello scrittore stesso, spinto, anche dalle dolorose vicende biografiche, a fantasie morbose e all’uso e all’abuso di alcol e droghe. I due frammenti narrativi più lunghi, tratti da Il cuore rivelatore (di cui mi piace ricordare una messa in scena di anni fa, intitolata Luce nera, con la regia e l’interpretazione di Patricia Zanco, come anche la geniale trasposizione a fumetti di Alberto Breccia) e da Eleonore, rimangono interrotti, sospesi, privi di scioglimento. Il cuore rivelatore è addirittura il solo momento dello spettacolo in cui la macchina scenica audiovisiva si ferma, e il protagonista oltrepassa il velo della quarta parete per presentarsi direttamente, in un certo senso “nudo”, davanti al pubblico. E’ un vero peccato, però, non poter vedere il sofisticato apparato sonoro e figurativo messo alla prova con problematiche narrative e più propriamente drammaturgiche, anziché rimanere il preziosissimo involucro che avvolge come un bozzolo un testo che rimane quindi su un piano quasi astratto, o comunque non narrativo. Il titolo dell’intera operazione, a proposito, è a mio parere completamente fuorviante: non si tratta propriamente di una serie di vicende, poiché la narratività del racconto è in realtà continuamente frustrata e incanalata in una biografia immaginaria e immaginifica, e il termine stravaganti sembra inoltre introdurre un elemento di leggerezza e di eccentricità a vicende che sprofondano invece negli abissi della mente, del cuore e dell’umano dolore. D’altra parte, il fatto che da parte di Bruni non si tratti di un interesse né occasionale né superficiale è testimoniato dalla mostra Favole della buonanotte, una serie di tele su tavola esposte nel foyer della sala. Le Favole nascono dalle fotografie raccolte in un vecchio album comprato dall’autore alla bancarella di un rigattiere di Portobello Road. Si tratta di una sequenza omogenea di composizioni dove i soggetti (uomini, donne e bambini) in posa davanti a una macchina fotografica ottocentesca, diventano gli abitatori involontari di mondi allucinati, dominati dalle cupe e spente tinte del nero, dei grigi e dell’ocra, avvolti dai vortici delle pennellate, resi mostruosi dall’intervento del pittore, relegati nei piccoli quadratini delle cornici che non li difendono dal caos né gli permettono di raggiungere le piccole scale, irraggiungibili vie di fuga, che a volta figurano sullo sfondo. Piccole realtà di vite borghesi, stravolte dal tempo e dalla morte, dal caos che le avvolge e se ne fa beffe. Non molto dissimili dagli antieroi di Poe (o da Poe stesso), signori dell’800, che ci somigliano, alle prese con il disordine dell’esistenza e con il terrore della morte che distrugge le vite e gli affetti.
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AutoreMauro Caron possiede, tra i suoi molti talenti, quello della culturagenerale. Tra gli altri suoi pregi, è superficiale, non sa parlare in pubblico (intendendosi per pubblico assembramenti di persone da una in su) - ecco perché la scelta del blog -, è pigro ed incostante - ecco perché il blog non durerà. Archivi
Aprile 2024
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