COUS COUS KLAN, uno spettacolo di Carrozzeria Orfeo, drammaturgia di Gabriele Di Luca, regia di Gabriele Di Luca, Massimiliano Setti e Alessandro TedeschiNon è facile oggi scrivere una drammaturgia contemporanea che sia capace di attirare pubblico a teatro e che nello stesso tempo riesca a dirci qualcosa di cosa voglia dire essere uomo o donna nel nostro tempo. Gabriele Di Luca con la Carrozzeria Orfeo (cui già si devono diversi spettacoli premiati, come Animali da bar e Thank you for vaselina, in procinto di diventare un film) ci prova con buoni risultati con Cous Cous Klan, che già nel titolo preannuncia temi come l’immigrazione e il razzismo, presenti ma non centrali nell’opera, proiettando deformati in un futuro distopico temi e angosce del nostro tempo, ma osservandoli nello stesso tempo con la lente dell’ironia se non della comicità. Cosa non poco, Cous Cous Klan, pur nella rigidità della scenografia, costruisce in maniera visionaria un mondo altro, che riecheggia però in modo inquietante quello in cui viviamo. Due roulotte immobili e scalcinate, la carcassa di un automobile, una doccia che (forse) non funzionerà mai più: siamo in un futuro in cui l’acqua è stata completamente privatizzata, ed è diventata un bene raro e prezioso, oggetto di desiderio, di scambio e di mercimonio. Mentre i ricchi vivono conservando i propri privilegi in città recintate e blindate, noi ci troviamo di fronte una comunità di reietti: Caio è un ex-prete, sprofondato in un sarcastico nichilismo, che sopravvive derubando cadaveri insieme al fratello Achille, sordo e omosessuale, che cova razzismo e una violenza repressa; la loro sorella Olga, è una donna corpulenta e orba, ormai in là con l’età, che sogna di rigenerare quella figlia di cui si sbarazzò in gioventù, cercando di farsi fecondare da Mezzaluna, un immigrato mussulmano, omofobo, sospeso tra la tradizione religiosa e la corruzione del mondo in cui si trova a vivere, spalando rifiuti tossici; i nuovi venuti in questa bizzarra comunità sono infine Aldo, un pubblicitario che ha perso status, reputazione e lavoro a causa di un episodio di pedofilia e Nina, una ragazza che si prostituisce per procurare le medicine al padre e che è soggetta a comportamenti schizofrenici e paranoici dopo una notte di sesso e violenza con due potenti (un uomo di Chiesa e un magnate della finanza), che hanno in spregio la vita umana. In questo microcosmo, tra i rottami di una civiltà in rovina, nei pressi del “cimitero degli zingari” che allude ad ulteriori atrocità, si scatenano le dinamiche tra questo gruppo grottesco e male assortito. Razzismo, desiderio, voglia di riscatto, disperazione: tutto sembra avere una svolta con l’irruzione in scena (completamente nuda) di Nina, con la sua energia febbrile e ribelle, che sembra poter scuotere gli altri dal torpore coinvolgendoli nella più assurda delle imprese: rubare una sacra reliquia, il prepuzio di Gesù (sic), che potrebbe arricchirli e cambiare le rispettive vite. Sprofondati nelle miserie materiali e morali, in fondo tutti in personaggi si rivelano in cerca d’amore: Caio che, persa la fede, vorrebbe ridare un senso all’esistenza e al mondo, e intravvede una possibilità nell’amore per Nina; Aldo, un brav’uomo che vorrebbe rimediare al proprio errore infamante; Achille, che sotto i comportamenti e le minacce violente non desidera che un po’ di affetto; Olga, che vorrebbe riparare con una vita alla vita che gettò via; Mezzaluna, che vorrebbe una vita migliore sciolto dai legami dell’influenza dell’autorità paterna; Nina, che vorrebbe resuscitare dalla discarica di abiezione in cui è (stata) precipitata. Il finale rimescola le carte tra realtà e fantasia, ma rifiuta tanto la consolazione che il totale nichilismo. Se lo scenario è apocalittico, il testo (cinico e indifferente al politicamente scorretto, irriverente fino alla blasfemia) è costantemente virato dai toni più cupi grazie a una scrittura sapidamente ironica e da tocchi buffi e grotteschi, che rendono lo spettacolo assai godibile e divertente senza nulla togliere alla tragica umanità del quadro complessivo, alternando la trivialità delle situazioni rappresentate all’aspirazione a sentimenti inconsciamente sublimi. La scena (di Maria Spazzi), pressoché immutata dall’inizio alla fine, viene modificata soltanto dal gioco dalle luci (di Giovanni Berti), ma è la dinamica degli interpreti in scena a mantenere costantemente vitale (per una durata di due ore abbondanti senza intervallo) il ritmo dello svolgimento drammaturgico. Sembra impossibile, ma alla fine ci si affeziona un po’ a personaggi tanto estremi. Tra tutti, impegnati ed efficaci a dare carne e credibilità a maschere grottesche (in rigoroso ordine alfabetico, come da locandina, gli attori sono Angela Ciaburri, Alessandro Federico, Pier Luigi Pasino, Beatrice Schiros, e i due coregisti Massimiliano Setti - anche autore delle musiche – e Alessandro Tedeschi), mi sento di preferire l’interprete di Achille, il vulnerabile handicappato violento in cerca in tenerezza.
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AutoreMauro Caron possiede, tra i suoi molti talenti, quello della culturagenerale. Tra gli altri suoi pregi, è superficiale, non sa parlare in pubblico (intendendosi per pubblico assembramenti di persone da una in su) - ecco perché la scelta del blog -, è pigro ed incostante - ecco perché il blog non durerà. Archivi
Febbraio 2024
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