Dopo aver parlato dei film migliori della stagione, per me, passiamo a parlare delle delusioni. Delusioni d'autore, intendiamoci, quindi film che suscitavano aspettative positive. So in questo modo di andare a toccare nervi scoperti e di suscitare malcontenti perché nominerò film che a voi magari saranno piaciuti molto, che avrete amato o che considerate dei capolavori, ma mi assumo ovviamente la responsabilità dei miei gusti (eventualmente discutibili) e delle mie (opinabili) preferenze, tanto più che in questa temporanea black list finiscono anche autori che altrove ho amato, e anche molto, e che spero di tornare ad ammirare in futuro. Non è che liquido lapidariamente i film in due parole: di molti titoli (quelli evidenziati con link o che trovate nella colonna qui a destra), trovate se avete voglia recensioni più ampie e ragionate. La maggior delusione in casa nostra è decisamente rappresentata in questo senso dai Tre piani di Nanni Moretti. Il film concentra i tre racconti alla sua origine in un'unica narrazione sovraccarica di temi drammatici. Nanni Moretti incarnò al massimo livello la propria generazione anagrafica con un cinema satirico, geniale ed urticante. Ma Tre piani mi è sembrato un'opera senile (simile forse a quanto Nanni avrebbe detestato da giovane), mal scritto, non sempre ben recitato, un po' asfittico. Due opere senili e un po' polverose mi sono sembrati anche Boys, di Davide Ferrario, con una fasulla nostalgia per la purezza del rock e un quartetto di attori in età tenuti sempre sotto le righe, e Comedians, ritorno alle origini di Gabriele Salvatores, che torna a rigirare in una prospettiva forse più filologica, ma senile e un po' lugubre, l'opera teatrale che aveva già portato brillantemente in palcoscenico negli anni '80 e che aveva poi poi espanso sullo schermo in Kamikazen. Un film sulla comicità, interpretato da comici, che si impone di non far ridere; e purtroppo ci riesce. Cinema medio e dignitoso (come altri film di cui parlo qui, potrebbe senza troppo sforzo fare un salto di lista e andare ad accodarsi ai titoli più graditi), sentito ma senza sostanziali novità, in 3/19, ultimo titolo firmato da un altro regista milanese, Silvio Soldini, con la professionista arrembante (la Smutniak) che rivaluta tutta la sua vita a causa di un incidente in cui si trova coinvolta. Un'altra delusione da un autore con cui scoccò il colpo di fulmine, tanti anni fa, con Rosso sangue: da allora Carax non mi ha mai più convinto, e Annette è un'altra cocente delusione; non funziona come musical (il trailer saggiamente ne nasconde accuratamente la natura), è discutibile come atto di autoanalisi, non contiene (a mio parere, e contrariamente a quanto altri hanno scritto) particolari pregi in termini di visionarietà dal punto di vista visivo, tiene la Cotillard in disparte per toglierla d'impaccio a metà film, elimina l'altro comprimario, riduce la figlia a una (letterale) marionetta e lascia tutto lo spazio ad un insopportabile e dilagante Adam Driver. Forse ci fosse stato Denis Lavant il film avrebbe conquistato un pizzico più di pietà, ma così è solo un lungo irritante tormento. Non so se Julia Ducournau possa essere considerata un'autrice, ma la Palma d'oro a Cannes sembra elevarla verso questo rango. In Titane però conserva tutta la sua enfatica voglia d'epater les bourgeois già dimostrata ampiamente in Raw, ma perde la coerenza (se così si può chiamare) del film precedente; Titane infatti, oltre a cercare di accumulare tutte le tematiche cronemberghiane in un film solo, è in realtà tre film in uno – un horror-thriller con una serial killer psicopatica; in cyberpunk erotico e gravidico; e un melodramma grottesco con un impossibile riconoscimento tra padre e figlio/a - non ben amalgamati e nessuno dei quali ben riusciti. Non mi ha soddisfatto nemmeno Il potere del cane, opera di un'autrice storica come Jane Campion, che firma un western revisionista totalmente privo di “veri” uomini, lento e velenoso, problematicamente collocato tra l'epoca della Frontiera e la modernità. A proposito di atipici western a firma femminile (ma anche qui i protagonisti sono tutti di sesso maschile), non mi ha detto praticamente nulla First Cow, modesta storia di mungitori abusivi di mucche in un West decentrato e compresso in un formato antipanoramico, che gode di un consenso critico che mi risulta (problema mio?) del tutto incomprensibile. Dopo Parasite il cinema coreano (ma in realtà si tratta in questo caso di una storia di emigrati coreani negli Usa) attinge di nuovo agli Oscar, ma con il modestissimo Minari, la cui ideologia sostanzialmente conservatrice è stata benevolmente accolta al pubblico in nome dell'esotismo bucolico (tra parentesi, una radicata propensione per l'esotico ha portato a premiare anche a Locarno l'indonesiano Vengeance Is Mine, All Others Pay Cash, visto al Noir In Festival: un bel titolo da spaghetti western, ma nei fatti un pastrocchio che mischia melò, arti marziali e iconografia vintage, con un eroe impotente e un'eroina romantica che mena peggio di Bruce Lee). Poco mi hanno convinto anche due tentativi di trasportare poetiche rohmeriane in Estremo Oriente, come ne The Woman Who Ran del coreano Hong Sang-soo (visto alle giornate coreane a Sesto San Giovanni) e ne Il gioco del destino e della fantasia, del giapponese Ryusuke Hamaguchi, entrambi film episodici, inerti e verbosi, con pochissima regia. Non ho ancora visto Drive My Car, sempre di Hamaguchi, ma il fatto di ritrovarlo nelle prime posizioni in quasi tutte le classifiche che vedo, mi ha convinto a vederlo appena possibile. Molto premiato e gradito anche il danese Un altro giro, di Vinterberg, su un gruppo di professori che per esperimento si dà all'alcol. Chiaramente l'esperimento sfugge di mano, ma la morale rimane ambigua fino all'ultimo. Programmaticamente fiacco Sull'infinitezza, dello svedese Roy Andersson, che persegue una sua poetica minimalista in cui l'accumulo di episodi poco significanti dovrebbe dar luogo ad un affresco della condizione umana. Eppure sembra essere il momento del cinema scandinavo (ben presente anche nell'edizione 2021 del Noir in Festival): ha riscosso gradimento critico anche il norvegese La persona peggiore del mondo, di Joachim Trier, presentato a Venezia, ritratto femminile ad episodi, tra commedia e dramma; il riferimento potrebbe essere lo statunitense 500 giorni insieme, ma il risultato è nordicamente meno brillante e divertente. Da parte sua, il cinema anglo-americano infila una serie di flop con The Midnight Sky, un depresso film di fantascienza apocalittica ma intimistica di e con George Clooney, che altrove si era impegnato in progetti ben più pregnanti sia cinematograficamente che politicamente; con Notizie dal mondo, in cui un ottimo regista di cinema d'azione e con sottofondo politico come Paul Greengrass si cimenta infelicemente (in compagnia di Tom Hanks) con un western buonista e inerte; e con La donna alla finestra, con cui Joe Wright si impegola in un thriller psicologico di dichiarate ascendenze hitchcockiane, ma senza spremerne nulla di più di qualche risaputa citazione. Anche l'altro regista inglese di nome Wright, Edgar, non centra del tutto il bersaglio con Ultima notte a Soho, in cui, amante dell'ibridazione, mescola commedia nostalgica, bullismo, cinema fantastico, viaggi nel tempo, psicodramma, zombi, horror. Numi tutelari tra gli altri Polanski e Hitchcock, e forse Argento, ma la carne al fuoco è decisamente troppo e raggiungere un equilibrio anche precario si rivela pressoché impossibile. Quest'anno ho visto pochi veri horror; tra gli altri L'uomo invisibile e Antebellum. La fattura media del secondo è parzialmente riscattata da una forte svolta a sorpresa nella sceneggiatura; non inedita, ma politicamente significativa. Cambiando completamente genere, mi ha deluso anche Soul, film di punta del 2021 targato Pixar. Filosofia piuttosto involuta, storia contorta, poco jazz in un film con protagonista jazzista ma soprattutto personaggi ridotti (letteralmente) a evanescenti silhouette. Uno dei più prolifici (e anche apprezzati) autori francesi di oggi, Francois Ozon, gira con Estate 85 il suo tempo delle mele in chiave omosessuale e con sovrastruttura melodrammatica. Direi complessivamente inattuale e di scarso interesse.
Passando in Italia, piuttosto freddo mi ha lasciato un'opera celebrata come Il buco di Michelangelo Frammartino, impasto di facili metafore (la discesa speleologica nelle viscere della terra che si contrappone all'ascesa del boom economico) e retorica sul rapporto uomo-natura. Olmiano, ma lontano dalle mie corde. Antinarrativo, ma con un taglio più sociologico, per così dire, è Atlantide di Yuri Ancarani, dove giovani che non sembrano avere molte prospettive sfrecciano nella laguna veneziana a bordo di barchini veloci. Basico nella (non)narrazione e nella (non)recitazione, si risveglia all'improvviso a storia già finita, con un trip attraverso i canali veneziani che sembra in piccolo quello oltre Giove e l'infinito di 2001: Odissea nello spazio. Si esce un po' frastornati, con un decimo di stupore ammirato dopo nove decimi di insofferenza. Leggi anche: 2021: IL MEGLIO DEL CINEMA D'AUTORE (secondo Into the Wonderland...) 2021: I FILM ITALIANI DI GENERE (da Freaks Out a Diabolik)
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Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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