DON'T WORRY DARLING di Olivia WildeAnni '50. Alice è la moglie bella bionda e innamorata di Charles e sembra vivere nel mondo delle meraviglie. La giovane coppia vive in un moderno e utopistico villaggio nel cuore del deserto, dove Charles lavora al misterioso progetto Victory. Il mondo in cui vivono sembra il migliore tra quelli possibili, o quasi. Giovinezza, amore, appagante sesso coniugale, un lavoro gratificante (per Charles), lavori casalinghi eseguiti alla perfezione e shopping selvaggio (per Alice), una casa lussuosa e bellissima, un leader (e capo della comunità) carismatico e motivante, vicini e colleghi simpatici e allegri. Tranne Margaret, la cui apparente nevrosi apre delle crepe nella serenità di Alice, che comincia a sua volta a soffrire di incubi, allucinazioni da sveglia, flash di memoria, non si sa se reali o allucinatori. D'altra parte se un film si intitola Don't Worry Darling è prevedibile che ci sia qualcosa di cui doversi preoccupare, ma di cosa? Della salute mentale di Alice? O di qualcosa di molto strano che sta succedendo a Victory? Finché il mistero regge regge anche l'interesse dello spettatore, intrigato dal glamour dei protagonisti (Florence Plough e Harry Styles), dall'eleganza dei costumi e delle scenografie, dalla curiosità e dallo stile sovrabbondante (finché non rischia di diventare irritante) della Wilde, che mescola colori pastello di abiti e macchine, interni eleganti e soleggiatissimi esterni, riprese in plongée su paesaggi e dettagli, colonna sonora pervasiva e onnipresente che alterna melodie e canzoni jazzy, suoni inquietanti e vocalizzi ipnotici. L'ossessione della simmetria, della coordinazione, del controllo che vigono a Victory viene fatta propria anche dalla regista, che fa partire in elegante sincrono le colorate auto dei mariti mentre le rispettive mogli innamorate salutano dal prato davanti alle ordinatissime villette a schiera. Tutto troppo perfetto per essere vero, e perfino gli incubi di Alice sono elegantemente coreografi - tra eleganza, kitsch e horror - con lo stile dei musical di Busby Berkeley. Non a caso l'iconografia creata dalla regista predilige le linee sinuose e le figure circolari, caratterizzanti dello stile visivo ma anche investite di un portato metaforico. Il film inizia ad esempio con i circoli disegnati dall'auto di Alice e Charles nel deserto notturno e si conclude con la fuga di lei lungo una strada a spirale in salita che conduce a una costruzione circolare. Ma i problemi nascono dal momento in cui il mistero viene svelato. Non tutti i conti narrativi e simbolici tornano, comincia una serie di inseguimenti piuttosto convenzionali, e soprattutto il formidabile salto ontologico impresso al racconto è difficile da conciliare con uno sviluppo narrativo che sembra ignorarlo con una disinvoltura decisamente eccessiva. La Wilde e la fida sceneggiatrice Katie Silberman raccontano una trama che affonda le proprie radici nella fantascienza sociologica che dagli anni 50 in poi (da Dick a Levin) ha immaginato distopie del controllo sociale e la possibilità di vivere in dimensioni alternative e allucinatorie, poi ampiamente confluite al cinema (da La moglie perfetta a The Truman Show, con tutte le possibili varianti). Le tematiche sono sempre e più che mai attuali: il controllo sociale, la delega al leader carismatico, la chiusura delle società opulente che scelgono di ignorare cosa succede al di là dei loro confini per proteggere la propria confort zone, il ruolo della donna nella famiglia e nella società e le discrepanze tra immaginario maschile e femminile a tale proposito. La Wilde, anche attrice nel film, dove riveste un ruolo secondario ma significativo, cerca di rinnovare il tema della città ideale e della moglie perfetta mescolando e ribaltando i generi (d'altra parte che dietro i favolosi anni '50 si nascondesse il volto dell'orrore ce lo aveva già raccontato visionariamente David Lynch), con ambizioni stilistiche e iniezioni di regia, a volte interessanti a volte al limite dello stucchevole. La Pugh (Lady Macbeth, Midsommar, Piccole donne) è sempre una conferma, e Styles (che ha sostituito Shea LaBeouf durante una lavorazione piuttosto polemica e travagliata) esordisce sullo schermo con una prestazione dignitosa e con grande clamore mediatico.
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SETTEMBRE di Giulia Steigerwaltettembre, come si conviene al mese del titolo che preannuncia l’autunno, è un film sottovoce, una commedia dolceamara dove l’intenzione è che la sensazione finale che deve rimanere in bocca a spettatori e spettatrici sia quella della dolcezza. Il film racconta tre storie, ognuna delle quali ha al centro una coppia (ed eventuali derivazioni). Francesca, malmaritata con un marito che la trascura, quando le viene comunicato un sospetto tumore e quindi una possibile prospettiva di vita limitata, decide di farsi avanti e di rivelare all’amica del cuore Debora che quella che prova per lei, corrisposta, non è solo simpatia ma anche un’attrazione fisica e sentimentale, per vivere con pienezza, senza ipocrisie e rimpianti, i suoi ultimi mesi di vita; Guglielmo, maturo professionista che frequenta la giovane prostituta Ana fin da quando lei era minorenne, scopre che la ragazza si è innamorata di un fornaio, al quale lei non può ovviamente rivelare la propria professione, e cambierebbe volentieri vita; l’adolescente Maria, per prepararsi all’appuntamento con il ragazzo che le piace, si fa dare lezioni di educazione ed etichetta sessuale (o così crede) da Sergio, un coetaneo poco meno esperto di lei. Le tre storie si intrecciano debolmente, perché si dà il caso che Sergio sia figlio di Francesca e Guglielmo il suo dottore (e poi confidente). Date le premesse, e intuite dai toni adottati le intenzioni dell’autrice Giulia Steigerwalt, regista e sceneggiatrice, nata in Texas e già attrice di cinema e tv in Italia, non è difficile indovinare come le tre storie andranno a finire. Ogni personaggio del film – compresi, in negativo, quelli che subiscono le conseguenze altrui, come i mariti di Francesca e Debora – è destinato a cambiare nel corso del film la propria prospettiva sulla vita e sul prossimo, in un processo di maturazione e di apertura agli altri, e nella ricostruzione della propria rete di affetti. Una cosa ho trovato singolare nel film: che pur essendo il tema del sesso centrale in tutte e tre le storie (il sesso “diverso” che sperimentano insieme Francesca e Debora; quello il cui esercizio definisce insieme la professione di Ana e la natura del legame con Guglielmo; quello a cui si deve far istruire Maria), la commedia mantiene un tono pudico (forse troppo), con il chiaro obiettivo di mettere in primo piano i sentimenti mettendo da parte (e letteralmente fuori scena) l’aspetto fisico delle relazioni. L’attenzione ad evitare riferimenti espliciti al sesso diventa quasi buffa: così Francesca e Debora, pur avendo fatto presumibilmente l’amore, vengono mostrate sdraiate sul divano, ma vestite; la prostituta Ana, anche quando è in servizio, si veste come la più morigerata delle universitarie e i suoi rapporti con Guglielmo, mai mostrati nemmeno per allusioni, diventano sempre più casti; e nulla ci viene mostrato dell’apprendistato erotico di Maria. Niente amaro quindi ma neppure niente pepe o altre spezie, per questo feel good movie all’italiana che si è aggiudicato il Nastro d’Argento per il miglior regista esordiente, dove la coppia più simpatica è forse quella formata da Barbara Ronchi e Thony, mentre al Bentivoglio che interpreta Guglielmo basta il mestiere senza la fatica. AFTER LOVE di Aleem KhanAfter Love ha fatto incetta di premi ai British Indipendent Film Award e ha avuto diverse nomination ai Bafta (l'Oscar del cinema inglese), dove ha vinto il premio per la miglior interpretazione; quindi sarà senz'altro un bel film. E' stata molto lodata l'interpretazione della protagonista Joanna Scanlan (non farlo sarebbe stato politicamente scorretto, vista la fisicità eterodossa dell'attrice), ma anche l'accorta regia di Aleem Khan, regista di origini pakistane. Eppure c'è qualcosa che non mi ha convinto. Tento di spiegarmi. La storia si impernia su Mary, una corpulenta signora inglese di Dover, sposata con Ahmed, di origini pakistane, impiegato sulle navi che fanno la spola tra una sponda e l'altra della Manica, per amore del quale si è convertita all'Islam. Quando lui muore improvvisamente (pudicamente, in un piano sequenza che lo tiene distante e fuori scena), la sua vita entra in crisi, e si sconvolge ancora di più quando lei scopre che il marito aveva una relazione con una donna francese a Calais, sull'altro lato del Canale. Il film accompagna quindi Mary sulla costa francese e racconta il rapporto che si sviluppa tra Mary, Genevieve, l'amante francese, e Solomon, figlio adolescente di Genevieve e Ahmed. Khan racconta con delicatezza l'evoluzione di Mary, che passa dal dolore allo stupore, poi alla curiosità e infine al risvegliarsi di un'affettività che fa parte della sua natura buona e materna (il suo bambino è morto neonato). La macchina da presa la segue da vicino, con riprese che sono insieme di scabrosa intimità eppure rispettose e compassionevoli. Il racconto procede senza bisogno di molte parole, seguendo il torpido risveglio dell'attonita Mary, costellato da simbologie immediate e trasparenti ma efficaci, tutte intese a illustrare icasticamente il venir meno delle certezze di Mary e lo sgretolarsi della sua vita e della sua identità: la frana lungo le scogliere di Dover (bianche come il monumentale vestito a lutto che Mary indossa nella sequenza precedente), il soffitto che si crepa e si sfarina sopra di lei, il suo abbandonarsi alle onde del mare che la percuotono e la sballottano, l'immagine appannata del proprio volto da cercare di far riemergere con l'asciugacapelli al di sotto della patina di vapore che offusca lo specchio. La scoperta post mortem del tradimento di Ahmed non è difficile: l'uomo – chissà perché – aveva in tasca addirittura un documento dell'amante, con foto, indirizzo e tutto, e il suo cellulare rivela subito messaggi piuttosto espliciti e compromettenti. Ma la sospensione dell'incredulità si incrina (proprio come il soffitto di Mary), quando la donna si presenta in Francia alla porta dell'amante del marito, viene scambiata da questa per la donne delle pulizie (probabilmente anche per il suo apetto infagottato, velato e dimesso) e, senza rivelare la sua identità, senza quasi proferire verbo, senza alcuna resistenza, si lascia assumere passivamente e si mette al servizio della donna che per una ventina d'anni (!) ha condiviso part time, a sua insaputa, nel letto e nelle gioie famigliari il suo amato marito, dal quale ha avuto perfino quel figlio che a lei invece la sorte ha negato. E' vero che non battiamo ciglio se Peter Parker spara ragnatele dai polsi, ma accettare che una donna si metta a rassettare coscienziosamente la casa dell'amante del marito mi riesce quasi ancora più difficile. Eppure Kahn gestisce abilmente la situazione grazie alle ellissi, ai silenzi, alla triangolazione linguistica tra i personaggi (Mary parla con Genevieve in inglese, Genevieve con Solomon in francese, Solomon con Mary in pakistano), spesso chiusi negli ambienti domestici. Il fatto che Ahmed avesse una seconda donna (la poligamia in Pakistan è accettata, ma almeno la moglie precedente deve dare il proprio consenso al nuovo matrimonio del marito) e un figlio segreto, che la ingannasse da decenni vivendo una vita parallela e a lei ignota e preclusa, che trasgredisse ai precetti dell'Islam bevendo birra a garganella (lo si vede in un video in cui Ahmed si gode la sua second family), sembra passare in secondo piano per Mary, che forse ha trovato a sua volta una nuova famiglia. In fondo tutti amavano e continuano ad amare il buon Ahmed: Mary che ha vissuto con lui anni si suppone sereni benché fondati sulla falsità; Genevieve che ha avuto un compagno e una famiglia all'interno di un rapporto appagante ma basato sull'ipocrisia; Solomon che compensa forse con l'omosessualità l'aver avuto un padre ammirato e desiderato ma a mezzo servizio, e che mal sopporta la libertà sessuale – reale o presunta – della madre. Nell'ultima scena tutti e tre sono in cima alla scogliera, proprio sopra la frana che avevamo visto verificarsi all'inizio. Ma guardando verso quel mare che Ahmed era solito solcare quotidianamente o quasi, dove, su una sponda e sull'altra, era salutato e atteso, quasi nella speranza di vederlo ricomparire nella sua bianca divisa di ufficiale e gentiluomo. Quasi a volerci dire insomma che la vita continua, che gli affetti si riconfigurano, che una nuova strana famiglia può riformarsi, ma sotto l'egida maschile e patriarcale dell'uomo che ha elargito amore mentendo e dissimulando. Le loro vite si sono incrociate grazie all'ubiquo (onnipresente sulle due sponde della Manica), amorevole, ecumenico Ahmed, capace di soddisfare due famiglie contemporaneamente. E ora, a tenerli uniti, è il ricordo di Ahmed. Dopo l'amore, quindi, tanto amore per Ahmed. BELFAST di Kenneth BranaghSummertime / And the livin' is easy / (…) / Oh, your daddy, he's rich / And your ma', she's good lookin' / So hush, little baby / Don't you cry. / One of these mornings / You're gonna rise up singing / You gonna spread your wings / And take, and take to the sky / Until that morning / Ain't nothing can harm you / With daddy (daddy) and mammy (mammy) / standing by (oh, standing by) Summertime di George Gershwin E così anche Kenneth Branagh firma la sua opera (semi)autobiografica, il suo romanzo di formazione, collocandolo nel luogo e negli anni della sua infanzia, l'Irlanda del Nord degli anni '60. Il mondo rappresentato è quello visto dalla prospettiva di un bambino, e assomiglia a quello cantato della celebre ninna nanna scritta da George Gershwin per Porgy and Bess. Il papà non sarà ricco ma ha la statura di un mito infantile (anche se è a lungo assente per lavorare in Inghilterra), la madre è protettiva e good looking (anche se è preoccupata per debiti e bollette) e niente potrà nuocere ai bravi bambini che hanno a fianco il loro papà e la loro mamma (almeno finché non saranno in grado di dispiegare le proprie ali e la propria voce e volarsene via); la strada è un affollatissimo campo per giochi inesauribili, i vicini si conoscono tutti e vivono in uno spirito solidale e comunitario (a volte ironico e salace), e il cinema spalanca abissi di meraviglia e di stupore, tanto da saturare lo schermo - altrimenti in bianco e nero - di squillanti colori che riempiono gli occhi, e di riflesso le lenti degli occhiali della nonna, di visioni inaudite. Belfast per Branagh è il paradise lost dell'infanzia, colto proprio nel momento in cui nell'Eden si insinua il serpente del Male, rappresentato dall'odio e dall'intolleranza; è l'inizio dei troubles (in paradise, per parafrasare un altro titolo letterario), quando i protestanti cominciano a pretendere con azioni violente la cacciata dei cattolici dalle strade e dalle città in cui avevano fino a quel momento vissuto gomito a gomito. Ma anche gli eventi storici e drammatici sono visti attraverso la lente deformante degli occhi e della capacità di comprensione di un bambino; che vede sconvolto il suo mondo quando passa in pochi secondo da una lotta contro i draghi in cortile alla violenza reale, concreta e distruttiva dei disordini per la strada, con uno sconcerto reso icasticamente da una doppia carrellata circolare intorno al perno di lui immobile a bocca aperta in mezzo alla via, mentre infuria una violenza inaudita e incomprensibile, e prima che il coperchio del bidone dell'immondizia con cui stava giocando si trasformi favolosamente in uno scudo effettivo con cui la mamma li ripara dalle pietre scagliate con odio. Buddy è protestante, ma senza sapere bene cosa significhi, e con un'amichetta tenta maldestramente di incasellare i propri conoscenti, un mondo improvvisamente confuso e diviso tra cattolici e protestanti, in base ai nomi di battesimo. E se il padre di Buddy - colpevole di non schierarsi con i violenti – finisce nel mirino dei facinorosi protestanti, agli occhi del bambino anche questo contrasto si risolve attraverso una fantasia in cui il papà – tra due ali di poliziotti schierati ma impassibili – affronta l'avversario in condizioni di inferiorità (disarmato contro un uomo con la pistola), ma lo sconfigge, come Gary Cooper in Mezzogiorno di fuoco, con tanto di Do Not Forsake Me, My Darling che risuona nell'aria per la via di Belfast. La mamma e il papà sono giovani e belli (Caitrìona Balfe e Jamie Dornan sono entrambi modelli oltre che attori) perché tutti gli eroi lo sono, partecipi della dimensione di un'epica insieme omerica e proletaria. Quelle che alcuni critici hanno preso per leziosità, superficialità e ruffiana carineria (anche il bambino protagonista, Jude Hill, ha ovviamente faccino ed espressività accattivanti, e i nonni hanno il carisma rugoso di Ciaràn Hinds e Judy Dench) a me sono parsi invece tenerezza dello sguardo, capacità e umiltà di sapersi calare nella prospettiva ingenua dell'infanzia. Se le riprese dal basso non sono proprio “ad altezza da bambino” - ma rendono comunque la prospettiva degli eventi più grandi della (propria) vita che ogni bambino ha dovuto conoscere e misurare -, resta comunque l'eco del taglio visivo teatrale di Branagh, presente in sordina perfino nella coreografia delle scene più concitate, tanto che la visione dal basso potrebbe identificarsi anche con quella dello spettatore in sala che guarda gli attori recitare sul proscenio, e la strada di Belfast potrebbe stare quasi tutta nello spazio di un palcoscenico. Branagh d'altra parte è un cineasta navigato, che si è messo alla prova sia con il cinema d'autore che con quello superomistico ( nel film c'è anche una strizzata d'occhi a Thor), sia con Jack Ryan che con Cenerentola, sia con Shakespeare che con Agatha Christie, e quindi Belfast è anche un'opera squisitamente cinematografica. Non solo nell'uso abbondante dei primi piani, o nell'ariosità conferita alle scene dai cieli d'Irlanda (suggestivi anche nel bianco e nero di Haris Zambarloukos, all'ottava collaborazione con Branagh), o nell'uso in colonna sonora delle belle canzoni di Van Morrison (anch'egli originario di Belfast), ma soprattutto nell'uso raffinato dello spazio, dove interni ed esterni si mescolano continuamente grazie soprattutto alle finestre che si aprono continuamente sulla scena, permeabili e quasi osmotici, a mescolare la vita della strada e quella della casa, la dimensione individuale e quella sociale, a comporre una dimensione domestica dove la home è tanto quella dentro le mura domestiche quanto (come più volte ripetono i protagonisti, a proposito di un possibile trasferimento in Inghilterra) quella al di fuori, della comunità e degli affetti (e dove è anche difficile mantenere un segreto). Le cose dei grandi e della vita Buddy le origlia così, volente o nolente, dalle voci dei genitori attraverso una porta aperta o la tromba delle scale, come fanno i bambini, che sembrano non ascoltare nulla e invece ascoltano tutto, rielaborano a modo loro, e spesso capiscono o intuiscono l'essenza delle questioni, nel mezzo di un'educazione sentimentale dove si mescolano le preoccupazioni domestiche e il disordine del mondo, gli insegnamenti degli anziani e gli spauracchi dei preti che minacciano la dannazione eterna, la confusione delle amicizie e l'infatuazione per la ragazzina del primo banco, cattolica, con cui a stento si riuscirà a scambiare una parola. Don't look back, è l'ultimo lascito della nonna mentre l'autobus porta via i suoi cari. E invece Buddy, e Kenneth, sono partiti, ma si sono anche voltati indietro. UNA FAMIGLIA VINCENTE - KING RICHARD di Reinaldo Marcus GreenUna famiglia vincente – King Richard è un film ben fatto, che non annoia, ben recitato (a me sono piaciuti di più i comprimari, Aunjanue Ellis nel ruolo della moglie, Toni Goldwyn e John Bernthal nel ruolo degli allenatori, rispetto a un Will Smith alle prese con un personaggio non troppo simpatico e un po' manierista, forse per responsabilità del trucco – ma comunque premiato con Golden Globe). Con alle spalle una storia e dei personaggi reali e ben documentati (si vedano gli inevitabili filmati con i veri protagonisti posti sui titoli di coda), il film è l'ennesima versione sull'americanissimo tema della scalata al successo; con la variabile che stavolta il protagonista non è il o la giovane talentuosa ma di umili origini che scala le vette della propria ambizione sgominando competitori e avversità, bensì il loro padre. Il King Richard del film è infatti Richard Williams, padre di Serena e Venus Williams, due delle tenniste più grandi di tutti i tempi, spesso in competizione tra loro per contendersi il primo e il secondo posto sul podio della medesima gara. Reinaldo Marcus Green (su una sceneggiatura scritta da Zach Baylin), racconta le origini del mito delle sorelle Williams, quando sono ancora delle ragazzine che vivono con mamma, papà e le tre sorellastre. A trascinarle verso un futuro di gloria e di vittorie da record è il padre Richard, che resosi conto del loro talento, pianifica sin dall'inizio il loro futuro, sottoponendole a durissimi allenamenti, promuovendole con insistente petulanza presso agenti e allenatori, facendo lo slalom tra proposte sempre più allettanti, tenendo sempre ben fisso l'obiettivo finale, che è il massimo raggiungibile, spingendole e trattenendole quando reputa sia necessario, fino all'apoteosi dei successi planetari. Williams è consapevole della difficoltà del progetto che ha elaborato, che richiede un doppio salto mortale: prima strappare le figlie dal proprio ambiente e soprattutto dalla strada e dai pericoli che vi si trovano (tra bullismo, sessismo, droga, violenza); e quindi portare non una ma ben due ragazze ai vertici del tennis mondiale; e due afroamericane poi, cosa inaudita allora nell'ambito di uno sport tradizionalmente appannaggio delle élites bianche che mandano sui campi in terra rossa le proprie figlie esili, bionde e aggraziate. Serena e Venus sono invece nere e robuste, due piccole e tostissime macchine da guerra capaci di sgominare qualsiasi stereotipo e qualsiasi pronostico a colpi di potenza fisica e tecnica micidiale. Tutto bene, quindi? Forse, non fosse che il racconto e la relativa retorica del successo a tutti i costi (con quanto di stucchevole può portare con sé) hanno il vantaggio della prospettiva a posteriori. Richard, e il film non lo nasconde affatto, è una sorta di mitomane monomaniaco, arrogante e presuntuoso, un autocrate che tiene poco in considerazione il parere della moglie e che sottopone le sue allieve a prove estenuanti (tanto che i vicini di casa chiameranno addirittura la polizia per cercare di proteggere le ragazze) sprezzante verso tutti (compresi allenatori di altissimo livello, agenti, sponsor), capace di rifiutare proposte milionarie scommettendo d'azzardo sull'imbattibilità delle proprie campionesse; lo vediamo seguire le partite cruciali dai corridoi delle palestre, rigirandosi in bocca uno stuzzicadenti e lanciando intorno frecciatine sprezzanti. Sbagliando (il film insolitamente si conclude con una sconfitta anziché con un trionfo), ma indovinando (la carriera di Serena e Venus è appena iniziata e in breve travolgerà tutto e tutte). Abituato a subire una vita di discriminazione e di prevaricazione (anche da parte dei suoi stessi compagni afroamericani), Richard si piega (menato dai bulli di quartiere) ma non si spezza mai, inseguendo per interposte figlie un'emancipazione sociale ed economica e una rivalsa bruciante su tutte le umiliazioni subite, con gli occhi fissi al proprio miraggio. La storia (e il film) ci dice che aveva ragione, e che raggiungere il successo è una questione di talento ma soprattutto di tenacia, di volontà e di confidenza in se stessi; ma se Serena e Venus ce l'hanno fatta e sono entrate di diritto e di prepotenza nella storia dello sport, tante altre (e altri) come loro sono cadute lungo il percorso, per mancanza di quell'indefinibile quid che distingue un campione da un ottimo giocatore, di tenuta psicologica e nervosa, vittime delle ambizioni smodate di genitori che cercano di realizzarsi sacrificando la giovinezza dei propri figli ai sogni di riscatto delle proprie frustrazioni. King Richard racconta insomma la storia di un vincente, ma avrebbe facilmente potuto essere invece la storia di un simpatico aguzzino. MADRES PARALELAS di Pedro AlmodovarMadres paralelas (anche se sulla locandina ne rappresenta uno in atto, intenso e geometrico), è pieno di abbracci spezzati. Le madri partorienti sono separate (e il montaggio alternato si sofferma a mostrare il dolore fisico della separazione) dai loro nascituri; poi dai loro neonati; poi ciascuna dal proprio figlio; poi ancora dal bambino che una sorte maligna ha loro assegnato. E le madri sono state separate dalle proprie madri (a causa della morte, o del semplice egoismo quando la madre di Ana si invola per inseguire narcisisticamente la propria realizzazione individuale come attrice nel ruolo della Dona Rosita descritta da Garcia Lorca, una donna condannata – e autocondannatasi – alla solitudine e alla sterilità), e queste dai propri avi, in una catena dolorosa che risale di generazione in generazione. Una condizione esistenziale e antropologica tragica che segna la storia di ognuno, e che diventa Storia con la S maiuscola quando incontra la grande frattura, quella faglia storica, politica, familiare rappresentata dalla Guerra Civile. La guerra fratricida è stata ed è il grande rimosso non solo del cinema di Almodovar, che non ne aveva mai fatto cenno nei suoi film precedenti, ma della stessa Spagna democratica: la legge sulla “Memoria historica” viene approvata solo nel 2007, dal governo Zapatero, ma poi svuotata e di fatto azzerata dal Popolare Rajoy negli anni 2013-14. E' purtroppo una situazione che non riguarda la sola Spagna: da uno spunto assai simile (l'indagine di un giovane antropologo forense che indaga sui desaparecidos eliminati dalla dittatura) si muove anche un film recente come Nuestras madres, ambientato in Guatemala e che parla di tragedie molto più vicine ai nostri tempi. Si è sottolineato molto il ruolo dell'importanza della memoria celebrato da Madres paralelas, più volte ribadito nel corso del film dagli stessi personaggi ed esplicitata nella citazione finale dalle parole dello scrittore uruguayano Eduardo Galeno: “Per quanto si tenti di ridurla al silenzio, la storia umana si rifiuta di tacere”. Ma se la tragedia che mina le possibilità di felicità dell'essere umano è rappresentata dalla frattura e dalla separazione, e se la memoria è lo strumento per sanare questa frattura per così dire in verticale, nella dimensione della storia individuale e collettiva, è ancora una volta lo stare insieme il mezzo per combattere nel qui e ora la minaccia della lacerazione. Accanto alla fossa nel terreno (piena alla fine non più di scheletri, ma di persone), si riuniscono i vivi, avvinti da legami comuni di memorie e di affetto; si riunisce una collettività. Non contano (solo) i legami di sangue; in quella inquadrata nelle sequenze finali, a rendere omaggio agli avi, è una strana e nuova famiglia allargata composta da vedove, da donne di differente età, sole o con un nuovo compagno, con figli reali o putativi. Il passato si salda con il presente e le persone si stringono insieme per ricucire le ferite e trovare i modi e la forza per affrontare la fatica di vivere. Pedro Almodovar gira intorno a temi a lui consueti (il rapporto con le madri e la maternità, la formazione di “famiglie” anomale e allargate; il gioco del caso e del destino; il rapporto con la morte e con chi non c'è più), ma con l'avanzare degli anni sembra avere sempre più occhi e interesse per il dolor dell'esistenza - comunque esso si possa manifestare e qualunque origine abbia - più che per la sua gloria effimera (l'unico suo tentativo recente di tornare alla spensieratezza e al cinema sregolato e grottesco delle origini, con Gli amanti passeggeri, è stato un vero e proprio inatteso e inattuale disastro). La stessa scelta dell'espressione artistica, che nel precedente Dolor y Gloria sembrava offrire all'autobiografico protagonista un risarcimento attraverso il cinema per i dolori dell'esistenza, diventa qui, nella figura della madre di Ana, che antepone il teatro alla figlia, una scelta egoistica e crudele. La fotografia, protagonista dei titoli di testa – bellissimi come in tutti i film di Almodovar – compare più volte nel corso del film: è la professione di Janis, che all'inizio cerca di cogliere durante uno shooting fotografico la personalità di Arturo, di cui presto si invaghirà (ma rifiutandosi di fotografarlo con un teschio, simbolo della sua professione di antropologo forense); si degrada poi ponendosi al servizio dello spettacolo delle merci, quando Janis accetterà di prestarsi a conferire glamour e appetibilità a degli accessori di abbigliamento; si riafferma alla fine con una funzione nobile quando Arturo fotografa i resti nella fossa comune, restituendoli alla dignità della memoria. Dignità che non è toccata a Garcia Lorca, citato a più riprese nel film, il più famoso desaparecido della storia spagnola secondo Almodovar, fucilato di nascosto dai franchisti nel 1936, e il cui cadavere non verrà mai rintracciato, malgrado le ricerche effettuate tra il 2009 e il 2012. Penelope Cruz, al suo settimo incontro con Almodovar e vincitrice della Coppa Volpi a Venezia, è ammirevole per naturalezza e credibilità; ma anche la giovane Milena Smit, già notata nel notevole No mataras, è un'attrice da tenere d'occhio. ANNETTE di Leos Caraxl mio colpo di fulmine per Leos Carax è arrivato con Rosso sangue (ma in originale il sangue era mauvais, cattivo): con una Juliette Binoche poco più che ventenne, la faccia incredibile di Denis Lavant, la fisica presenza carismatica di Hugo Pratt, la poesia, la furia, la follia, la corsa fino all'ultimo respiro, disperata, liberatoria e disarticolata, con Bowie che dà la spinta cantando Modern Love. Dopo ho recuperato il suo primo film, Boy Meets Girl, e ho continuato ad attenderlo fiducioso a tutte le sue uscite successive. Non è stato difficile: nei 35 anni che sono seguiti a Rosso sangue Carax ha diretto solo quattro lungometraggi, appuntamenti ogni volta attesi e ogni volta disattesi, dal disastro de Gli amanti del Pont-Neuf (come mandare in fallimento una produzione per un film con due attori e un solo set), al dimenticato Pola X, all'enigma caotico di Holy Motors, fino alla cupa caverna musicale rappresentata di Annette (premio per la regia a Cannes 2021). Nel nuovo film, Henry è uno stand-up comedian in crisi esistenziale e d'ispirazione, che anziché divertirli ormai si limita a provocare i suoi sempre più perplessi spettatori proponendo nei suoi spettacoli le proprie angosce disturbanti. Mal sopporta di contro il successo e l'affetto che il pubblico continua a tributare a sua moglie Ann, amata e apprezzata cantante lirica. La nascita della loro figlia Annette (che in realtà viene impersonata da un'inquietante marionetta - il secondo bambino-mostro di Cannes, insieme a quello di Titane) non migliora le cose. La storia tra i due divi, uno in discesa e l'altra in ascesa, si deteriora sempre di più (puntualmente scandita dai resoconti di tabloid e giornali scandalistici) e culmina in una notte di tregenda, in cui Ann scompare nel mare in tempesta. Henry rimane solo con Annette e con la maledizione scagliata da Ann: la bambina si esprime solo cantando e con le sue performance raggiunge una fama planetaria che getta un definitivo cono d'ombra su Henry. Il film è introdotto da un prologo in cui viene prescritto agli spettatori come comportarsi nel seguire il film, e concluso da un epilogo in cui gli interpreti di personaggi vivi e morti sfilano in un corteo notturno e cantando prendono congedo dal pubblico in sala. Non l'ho ancora detto, ma senz'altro già lo saprete: Annette è un musical, e tutti i dialoghi sono cantati dagli attori sulle musiche appositamente composte dagli Sparks, l'eccentrico duo dei fratelli Mael, prossimo ai 50 anni di attività e recentemente celebrato in un film dedicatogli da Edgar Wright, il regista di Ultima notte a Soho. Annette impone le sue due ore e venti di racconto musicale, su atmosfere costantemente cupe, claustrofobiche, soffocanti (anche quando sono ambientate in spazi ampi come teatri e palazzetti o in mare aperto) e spesso funeree, nelle quali personalmente non ho riscontrato quelle invenzioni visive che mi aspettavo e di cui invece altri parlano. Abitato oltre che dalla marionetta da soli due/tre personaggi protagonisti, il film spreca la presenza di Marion Cotillard, eliminata a metà film, lascia sullo sfondo il deuteragonista interpretato da Simon Helberg (l'Howard Wolowitz di The Big Bang Theory), concentrandosi completamente sul protagonismo assoluto di Adam Driver (coproduttore del film) e sulle angosce di Henry. Nelle quali non è difficile intravedere quelle di Carax, cineasta alla costante ricerca di un cinema “altro” e che si fa un punto d'orgoglio nel confondere, stupire e irritare il proprio pubblico. E nelle quali risuonano gli echi di vicende personali, come il suicidio nel 2011 della compagna Katerina Gobuleva (che ha lasciato “vedovo” anche un altro regista, il lituano Sharunas Bartas, che alla sua memoria ha dedicato nel 2015 il film Peace To Us In Our Dreams). Il manifesto, con i due protagonisti abbracciati che sfidano onde immani e tumultuose che torreggiano su di loro, fa pensare ad un romanticismo dark che è invece assente nel film, interamente occupato dalla espansione narcisistica anche se autopunitiva del personaggio maschile; che ha inoltre l'imperdonabile difetto di impersonare un comico che, durante le lunghe sequenze che lo vedono sul palcoscenico, non fa mai una volta ridere il suo pubblico (o noi pubblico), nemmeno per distrazione, per deformazione professionale o per riflesso condizionato. Se il film è totalmente privo di umorismo, accumula invece diversi elementi spiazzanti: dal modo assolutamente anomalo con cui affronta un genere come il musical (le più riuscite a mio parere sono le scene in cui il cantato si applica al linguaggio ordinario o addirittura tecnico o burocratico, come in un ospedale o in una stazione di polizia); la messa in scena che riesce ad essere insieme minimalista e barocca, intrisa di oscurità; il tono generale che sommerge il realismo con la fiaba nera e il melodramma; la presenza freudianamente perturbante della marionetta al posto della bambina, che diventerà tale solo quando suo padre pentito riuscirà a stabilire con lei un primo vero rapporto umano e affettivo. Un rapporto umano e affettivo che stentiamo a provare verso e il film e il suo autore; forse sarebbe ora che qualcuno consigliasse a Leos Carax (uno che mescolando e anagrammando il proprio nome, Alex, e quello del premio Oscar si è composto un nome d'arte che suona anche come Le Oscar a X...) di scendere dal suo appartato piedistallo, di avvicinarsi a noi spettatori, e di guardarci per una volta negli occhi. TITANE di Julia DucorneauUna bambina molesta viaggia in macchina con il padre esasperato. Quando lei si slaccia la cintura di sicurezza e lui si volta stizzito per sgridarla, perde il controllo dell'auto che finisce fuori strada. La bambina si spacca la testa contro il finestrino; vediamo i chirurghi aprirle il cranio e inserire una piastra di titanio. Viene imbragata in una struttura di metallo e rieducata al movimento. Quando esce dall'ospedale con una terribile cicatrice sulla tempia abbraccia la macchina e la bacia amorevolmente. Qualche anno dopo si esibisce in un motor show in un ballo lascivo, strusciandosi sulla carrozzeria di un'auto coperta di fiamme. Quando esce viene abbordata da un ammiratore; mentre si baciano attraverso il finestrino dell'auto lei si sfila dai capelli uno stiletto e glielo pianta in un orecchio. Lui muore tra le convulsioni vomitandole bava su una spalla. Lei va a casa e si fa una doccia. Quando sente dei tonfi che fanno tremare le pareti della casa, esce nuda in garage e si fa scopare da una grossa Cadillac rombante e abbagliante che la mette incinta. Sto spoilerando? Un pochino sì, ma questo è solo quello che accade nei primissimi minuti del film, in un triplice prologo, a seguito del quale sorgono nello spettatore una constatazione e una domanda: la prima è che Titane non è un film per tutti i gusti; la seconda riguarda cos'altro la regista Julia Ducornau ha intenzione di farci vedere per il resto delle quasi due ore di durata del film. La risposta, non esaustiva, comprende rapporti sessuali lesbici e para-incestuosi, aborti e parti non ortodossi, scambi di genere e di identità, omicidi raccapriccianti e atti di autolesionismo, corpi nudi gonfiati dagli steroidi o da gravidanze mostruose, volti sfigurati e corpi bendati e mortificati, danze tra pompieri maschi e una colonna sonora eclettica e pervasiva (una delle scene più cruente – se è possibile fare una classifica – ha per sottofondo sonoro Nessuno mi può giudicare cantata da Caterina Caselli; nel precedente Raw – un horror alimentare – la rappresentanza della canzone italiana toccava invece a Nada). Quando la Ducornau pensava a come sarebbe stato definito Titane e il suo cinema, le venivano probabilmente in mente aggettivi come “disturbante” e “fiammeggiante”; in preda ad una sorta di horror vacui quindi aspira a riempire ogni inquadratura con gesti violenti o immagini repulsive - a cominciare dal volto maschile e deturpato della protagonista Agathe Rousselle o dal corpo gonfio e illividito di Vincent Lindon – e infarcendo la colonna sonora di inquietante sound design, della musica di Jim Williams, di canzoni pop e folk, di solenni echi barocchi. Titane discende evidentemente, in una prospettiva che possiamo definire approssimativamente come femminile, dal cinema di David Cronenberg, ma anche in questo caso l'effetto di accumulo e di saturazione prende alla gola: l'impressione è che la regista, tra gravidanze mostruose, confusioni gender, Nuova Carne e erotismo per le macchine abbia voluto versare tutti i film dell'autore canadese (da Brood a Inseparabili o a M Butterfly, da Videodrome a Crash), nel contenitore turgido di un'unica opera mutante. La sceneggiatura infatti non si accontenta di seguire una linea narrativa paradossale e grottesca, ma le moltiplica, intrecciandone diverse tra loro, e pretendendo inoltre di coinvolgerci pure in un melodramma psicologico tra padri e figli, facendo incontrare due personaggi che trovano l'uno nell'altra la compensazione alle proprie lacune esistenziali. Ma se il coinvolgimento emotivo, volenti o nolenti, è assicurato dal bombardamento audio-visivo che lascia poco respiro, la richiesta di immedesimazione deve superare, oltre che una gigantesca sospensione dell'incredulità, vista l'improbabilità estrema delle situazioni, anche la repulsione suscitata dai due protagonisti, sia fisica – il volto antipatico della Rousselle è ulteriormente e variamente sfigurato dai danni subiti e il corpo di Lindon è deturpato dai lividi delle iniezioni e da una muscolatura ipertrofica – che morale – alle prese con una psicopatica assassina non precisamente simpatica e con un uomo che vuole credere a ciò la cui incredibilità salta agli occhi, spingendo il povero Lindon in situazioni alle soglie del ridicolo. Un cinema che indubbiamente varca i confini: della logica, del buon gusto, della credibilità, della coerenza, delle identità, dei generi sessuali, delle differenze tra uomo e donna, tra corpo e psiche, tra carne e metallo, tra organismo e meccanismo, tra naturale e artificiale. E' la nascita (letterale) del nuovo cinema ibrido, fluido e mutante del futuro? Alcuni, tra cui i giurati del Festival di Cannes, l'hanno visto così. O è un film fatto per épater le bourgeois, fino alla sazietà e alla nausea, con un'operazione cyberpunk dal forte retrogusto anni '80? C'è chi dice no: leggi in Face/Off perché invece secondo Oruam Norac TITANE prefigura (?) il cinema del futuro. Mettete un like o un commento per farmi capire quale vi convince di più? QUI RIDO IO di Mario MartoneMario Martone si potrebbe definire un regista glocal: che affronta temi universali ma con un radicamento inestirpabile nel proprio territorio. I titoli stessi della sua filmografia marcano il territorio e geolocalizzano la sua opera, tra Capri e il Vesuvio, Napoli e il Rione Sanità. E gli stessi titoli ne rivelano la formazione e la passione per il teatro, dal Teatro di guerra al Sindaco del Rione Sanità.
Ancora teatro quindi, e ancora e sempre Napoli: dopo aver portato sullo schermo, attualizzata, la sua prima regia teatrale da De Filippo, affrontata con curiosa tardività con il già citato Il sindaco del Rione Sanità, stavolta il regista si e ci immerge in un sontuoso film che è doppiamente in costume, ambientato in una compagnia teatrale di inizio '900, per raccontare uno scorcio della vita di Eduardo Scarpetta, altro nume tutelare del teatro napoletano. L'assunto di fondo - teatro e vita si compenetrano e si confondono nella storia del grande drammaturgo - è chiaro fin dall'inizio, con l'andirivieni della macchina da presa davanti e dietro le quinte e con Scarpetta che tratta la compagnia come una famiglia e la famiglia come una compagnia teatrale, da cui attingere per affidare i ruoli. Scarpetta è così contemporaneamente e senza distinzione di ruoli autore e regista, capocomico e attore, pater familias e patrigno, marito e amante, in un corto circuito continuo tra vita e finzione teatrale. Gomito a gomito convivono come in un harem di cui lui è il sultano incontrastato la moglie, le amanti, le attrici; i figli e i figliastri. Dalla moglie ufficiale ha tre figli, ma uno è forse frutto di una relazione della moglie con il re Vittorio Emanuele II; dalla nipote della moglie ne ha avuto altri tre, che si chiamano Eduardo, Titina e Peppino (di cognome fanno De Filippo); e poi ne ha un'altra manciata non riconosciuta tra cui forse Ernesto Murolo. Perché in effetti l'altro grande tema sotteso a tutto Io rido qui (la scritta che campeggia sulla sua villa al Vomero, come a voler separare l'ambito pubblico da quello intimo e privato, la maschera dalla persona, cose che Scarpetta appare invece totalmente incapace di fare), è quello della paternità. L'argomento è tematizzato esplicitamente: come in uno specchio distorto e anche crudele, è Eduardo De Filippo, figlio illegittimo di Scarpetta, a dover recitare in Miseria e nobiltà un ragazzino che per un intrigo si finge figlio di un altro personaggio, fino al riconoscimento del proprio padre reale (che, sia sul palco che nella vita, è sempre Eduardo Scarpetta) e alla relativa agnizione (sul palco, ma non nella vita) con abbraccio. Il protagonista di Miseria e nobiltà, e la maschera preferita di Scarpetta stesso, è inoltre Felice Sciosciammocca, nato come una filiazione del personaggio tradizionale di Pulcinella, ma che di questi ha finito per prendere il posto per fama e favore popolare. In un'emblematica scena onirica, l'unica se non sbaglio di tutto il film, Scarpetta/Sciosciammocca sale sul palco di un teatro deserto dove giace disteso il cadavere di Pulcinella, che a sua volta nasconde sotto la mascherina nera il volto imbiancato di Scarpetta stesso. Scarpetta ha dunque ucciso il suo padre teatrale simbolico, ma tiene in mano con ferrea volontà le redini della sua famiglia allargata, resistendo al conflitto edipico con il figlio che ambisce ad avere una propria autonomia artistica, e replicando uno schema familista/autoritario dove il personaggio di Peppeniello di Miseria e nobiltà viene via via passato da un figlio all'altro, seguendo il ritmo implacabile della crescita anagrafica (e, ancora in una filiazione simbolica, sarà Totò ad ereditare la commedia e a renderla immortale anche dal punto di visto iconografico, grazie al cinema, che ai tempi di Qui rido io era ancora agli albori). Ancora una questione di paternità oppone Scarpetta al Sommo Poeta, quel Gabriele D'annunzio che ha da poco portato sulle scene teatrali il suo dramma La figlia di Iorio. Scarpetta si incaponisce a realizzarne una parodia, Il figlio di Iorio, per la quale si ostina a chiedere il permesso dell'autore, che nicchia, sembra divertito, non glielo concede mai esplicitamente, salvo querelarlo per plagio una volta che l'opera buffa arriva sul palco. Parodia o “contraffazione”? A chi spetta veramente la paternità dell'opera? Scarpetta lotta per difendere la propria, trovandosi a combattere non solo contro un nuovo padre nobile, ma anche contro i “figli” simbolici di questi, i propugnatori del teatro d'arte, nobile e impegnato, contro quello burlesco e ridanciano di Scarpetta. La Commedia che combatte contro la Tragedia – quella stessa affrontata tante volte e in tante declinazioni proprio dallo stesso Martone nella sua carriera teatrale -, la maschera che ride (“qui io rido io”) contro quella che piange, la Miseria contro la Nobiltà. Di nuovo insomma uno scontro tra un padre nobile – il teatro – e un figlio popolano e popolare – la farsa alla Scarpetta. Disattendendo le tesi difensive di Benedetto Croce, chiamato come perito a proprio favore, che ritiene che Il figlio di Iorio sia semplicemente e autenticamente “brutto”, ma non può essere considerato un reato, Scarpetta ottiene la sua vittoria legale e giudiziaria facendo quello che sa fare: recitando la propria ilare difesa in pieno tribunale, per la gioia di sostenitori e giudicanti, e per quella (ebbene sì, Servillo è da applauso in un ruolo che sembra cucito sulla sua misura) degli spettatori al cinema. Scarpetta dimostra di essere padre di se stesso facendo quello che sa fare - rappresentandosi per quello che è, essendo quello che non può fare a meno di essere, incarnando quella che è l'essenza della napoletanità –: 'nu teatro. E il cerchio si chiude. P.S.: detesto cordialmente la canzone napoletana. Nel film (con piena ragion d'essere, anche se a mio parere è troppa, soprattutto nelle scene in cui il cantato si sovrappone a scene dialogate) ce n'è una tonnellata... LA RAGAZZA CON IL BRACCIALETTO (La fille au bracelet) di Stéphane DemoustierIn questi tempi pandemici è difficile stilare un ordine cronologico delle produzioni cinematografiche, tra ciak, riprese interrotte, uscite sospese o rimandate, sortite fulminee e sfortunate. La ragazza col braccialetto, comunque, rimanda per assonanza ad un film quasi contemporaneo, Roubaix, une lumière (che ho recensito qui) per ragioni di cast e di assonanze tematiche. Il primo eclatante elemento è la carismatica presenza in entrambi i film di Roschdy Zem quale protagonista maschile; il secondo è quello della situazione e della struttura drammaturgica. Nell'uno e nell'altro caso ci sono al centro della narrazione giovani donne accusate di un efferato delitto; e se il film di Desplechin è occupato in gran parte dagli interrogatori dell'ispettore (interpretato appunto da Zem) alle due sospettate, in un'indagine che si fa quasi dostoevskiana, quello di Demoustier è ambientato in grandissima parte nelle aule del tribunale dove si svolge il processo ad un'adolescente accusata di aver ucciso a pugnalate la sua miglior amica. Nell'uno e nell'altro caso i personaggi interpretati da Zem sono impegnati in una terribile battaglia per comprendere la verità e le origini del male, ma mentre in Roubaix a condurre l'inchiesta è un ispettore di polizia, ne La ragazza è un padre sconvolto a dover cercare nel vissuto della propria stessa figlia le radici della possibilità o dell'impossibilità di un male insospettabile e devastante. Il contesto è differente; ne La ragazza con il braccialetto siamo lontani dal disordine e dalla marginalità sociale descritti in Roubaix. I Bataille sono una famiglia agiata e tranquilla; una coppia di professionisti, una figlia adolescente al liceo e un fratellino più piccolo; una bella casa, un'altra casa per le vacanze al mare. Una famiglia (che potrebbe essere) felice come tante. Ma da due anni, dopo che la sedicenne Lise è stata arrestata durante una giornata in spiaggia con la famiglia, la loro vita ha preso un corso completamente diverso. Lise ora porta un braccialetto alla caviglia ed è sotto processo per l'assassinio di una sua coetanea, l'amica del cuore. Aveva il movente e l'occasione per uccidere. Lo ha fatto veramente? Al processo Lise si trincera dietro un'espressione imperturbabile e impenetrabile, appena increspata a volte da un'ombra di nervosismo o di fastidio; le sue risposte sono secche, taglienti, ma i suoi frequenti silenzi sono impossibili da penetrare e da interpretare. I suoi genitori (Zem e la riluttante madre interpretata dalla Mastroianni) vedono dipanarsi lungo le ricostruzioni processuali e le ammissioni della ragazza un ritratto della propria figlia completamente differente da quello che pensavano di conoscere molto bene, un insospettabile vissuto fatto di promiscuità sessuale, di rancori profondi, di esperienze pericolose, di sentimenti insondabili. La ragazza con il braccialetto non ha nulla del romanticismo della ragazza con l'orecchino di perla; il suo “gioiello” non è un ornamento di bellezza, ma un marchio di sospetto e di infamia; è un braccialetto elettronico alla caviglia, per scongiurare i rischi di fuga, e la catenina con cui lo sostituisce nell'ultima sequenza è l'ultimo sigillo di un enigma tremendo e indecidibile. Demoustier si ispira al film argentino Acusada, del 2018, diretto da Gonzalo Tobal, scritto con Ulises Porra e presentato alla Mostra di Venezia, ma lo asciuga fino ad ottenere un dramma processuale freddo e rigoroso. Pochissima musica in colonna sonora, larghissima prevalenza dei primi piani, economia delle ambientazioni (la casa, l'aula del tribunale), parsimonia dei movimenti di macchina, rigido controllo espressivo degli interpreti, con un tour de force di indecifrabile impassibilità e di sfumature sottili imposto all'esordiente Melissa Guers, spesso inquadrata frontalmente, con lo sfondo rosso intenso delle pareti dell'aula processuale alle sue spalle. Demoustier, mentre mostra il duello formale tra un determinato Pubblico Ministero (interpretato dalla propria sorella) e un'avvocato che cerca di scongiurare il pericolo che Lise venga condannata per la propria amoralità percepita, anziché per il delitto ascrittole, lascia che l'incandescenza, che pure si percepisce benissimo, sia tutta interna ai personaggi familiari; nel mistero dell'animo di Lise e della sua verità; nello sgomento del padre Bruno che ha perso ogni certezza e non sa più a cosa credere; nell'inutile tentativo di sfuggire alla realtà della madre Cèline, alla fine costretta a costruirsi una propria intima presunzione d'innocenza e a perorarla in aula davanti alla madre della vittima. E' difficile stabilire chi ha ucciso l'amica di Lise; ma è impossibile comprendere davvero l'animo umano, anche delle persone che ci stanno più vicino. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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