C'E' ANCORA DOMANI di Paola CortellesiC'è ancora domani, che già di per sé è un titolo consolatorio, ha messo d'accordo tutti, pubblico e critica, come raramente succede - soprattutto per un film italiano.
E si tratta di un film in bianco e nero, in dimessa veste neorealista, che tratta un tema pesante come la violenza domestica e di genere; non insomma - con rispetto parlando - di un film di Checco Zalone o di Aldo Giovanni e Giacomo, di quelli che mettono d'accordo tutti sul piano di una comicità schietta con una problematicità tematica quasi sempre ridotta ai minimi termini o trattata comunque attraverso toni comico-satirici. I pregi del film sono già stati messi ampiamente in rilievo: il riallacciarsi ad una delle più gloriose eredità del cinema italiano (il neorealismo appunto, che qui già si vena di commedia, per quanto nera); la capacità di raccontare un tema grave con leggerezza; le invenzioni linguistiche (la violenza girata come un musical); l'uso di canzoni contemporanee; la capacità di riallacciare una vicenda individuale ad un cambiamento epocale della storia e della società italiana, ecc. Ma le reazioni che ho letto, anche sui social, con la loro forte componente affettiva ed emozionale, mi fanno pensare che il film abbia suscitato qualcosa di più che l'apprezzamento per un bel film, e che abbia invece intercettato qualche bisogno più profondo del pubblico italiano. Da una parte c'è indubbiamente la personalità di Paola Cortellesi, che non è solo una show woman eccezionale, che è riuscita in tutti i campi in cui si è cimentata (comica, cantante, conduttrice, attrice televisiva, cinematografica e teatrale, sceneggiatrice, regista di videoclip, ecc.), ma che ben può rappresentare l'emblema della donna contemporanea realizzata: coraggiosa, capace, intelligente, emancipata, artefice del proprio meritato successo; e tutto questo dando di sé un'immagine sempre sorridente, positiva, ironica ed autoironica. Proprio questa sua autorevolezza le permette di mettere qui in gioco con altrettanta credibilità una componente più dolente e drammatica – con il viso stesso esibito nella sua nudità e spigolosità -, nel ruolo di una casalinga-lavoratrice-moglie-badante-madre di famiglia, vittima, in ogni e ciascuno di questi ruoli, di una sopraffazione di origine patriarcale. Ma forse c'è qualcosa di più, e ho pensato che uno delle cause “nascoste” più rilevanti nel determinare il successo film sia proprio quella che è in realtà più eclatante e sotto gli occhi tutti, ovverossia la sua esibita matrice neorealistica. C'è ancora domani è lontanissimo dal cinema del reale così come lo concepiamo oggi, e il suo punto di partenza è quindi un modello squisitamente cinematografico e dichiaratamente finzionale. Ma forse il pubblico, tra le mille e mille proposte che il cinema e la televisione gli offrono, a volte in modo frastornante, nel campo della fiction, proprio di questo aveva inconsciamente bisogno: di un film diverso perché simile a quello lontano nel tempo, apparentemente dimenticato ma radicato nell'inconscio collettivo e di ciascuno di noi (persino, forse, degli spettatori più giovani); di una proposta dall'apparente semplicità e freschezza proprio perché assimilata ad un cinema passato (ri)nascente e quasi primigenio. Un film che riparte quindi dalle origini della storia (perché tutto ciò che sta prima del neorealismo appare davvero come preistoria), da un paese e da un cinema che deve ricostruirsi dalle proprie macerie materiali e morali, e perfino estetiche: C'è ancora domani riparte dal bianco e nero e grigio in appartamenti seminterrati; dai cortili popolari dove si parla e si sparla e dove i bambini corrono e schiamazzano; dagli uomini in canottiera e dalle donne in parannanza; da un epoca in cui la Repubblica italiana neppure esisteva. Nella musica è successo con i Måneskin, che hanno resuscitato dal tempo dei vinili l'energia basica del rock, intercettando un bisogno evidentemente latente, una nostalgia collettiva – dopo tutte le declinazioni di pop, rap, trap, techno, latino, e chi più ne ha più ne metta - che magari nessuno ancora sapeva di provare. E come i Måneskin resuscitano il rock, ma con la malizia e il bagaglio tecnico e musicale di chi fa musica oggi, e non nel negli anni '70 del secolo scorso, così Cortellesi reinterpreta il neorealismo e il cinema degli anni '40-50, ma iniettandovi una sensibilità tematica - etica e sociale - contemporanea e con una consapevolezza linguistica aggiornata ai tempi. Così ad esempio usa il ralenti dove il neorealismo nemmeno se lo sarebbe immaginato; fa una lunga carrellata circolare intorno a Delia e Nino, per mostrare la loro infatuazione, come Fassbinder girava intorno alla coppia dei suoi protagonisti (il primo esempio che mi ricordi) con una steadycam a 720°; usa una canzonetta come commento ad una scena di brutale violenza, come hanno fatto Kubrick in Arancia meccanica, o più recentemente Bong Joon-Ho in Parasite o la Ducorneau in Titane; usa canzoni contemporanee in contesti anacronistici come ha fatto, ad esempio, la Niccharelli in Miss Marx. Non sto parlando di citazioni o omaggi, né tanto meno di copiature; sto solo dicendo che la Cortellesi usa (naturalmente) un linguaggio contemporaneo impiantandolo sul modello di un cinema d'altri tempi. Parte da una sensazione di semplicità, quasi di naïveté, per introdurre uno stile e dei temi che trascendono il prototipo per farsi cinema dei nostri tempi, capace di attrarre l'attenzione e il favore dello spettatore contemporaneo. Mi sorge il dubbio di stare dicendo delle banalità, ma credo che proprio qui risieda la radice del fascino che il film ha riscosso tra gli spettatori; nel twist tra una promessa di rassicurante semplicità e una sensazione di gratificante complessità. Un'operazione analoga, e qui azzardo sempre di più, a quella compiuta dalla Gerwig con Barbie: partire da un gioco infantile universalmente riconosciuto e riconoscibile, a suo modo tranquillizzante, per iniettarvi poi un pensiero femminista molto contemporaneo e attuale, tutt'altro che puerile; e, per fare invece un esempio negativo, è l'operazione che invece non è riuscita ai Manetti Bros con Diabolik: anche loro sono partiti da un'icona “semplice”, ma hanno commesso l'errore snob di mantenerne filologicamente intatta la semplicità ingenua e vintage, pensando bastasse a se stessa, senza apportare forti elementi nuovi drammaturgici o stilistici. Non nascondo che non tutto mi ha convinto in C'è ancora domani, a partire da un didascalismo insistito e da alcune soluzioni stilistiche e narrative (tra queste ultime, ho trovato davvero fuori luogo quella relativa al nero della Military Police e all'attentato al bar dei futuri suoceri); ma onore a Paola Cortellesi per il risultato conseguito. Perché sembra facile ma non lo è; onore quindi al carattere che ha costruito (una Delia che sarebbe probabilmente piaciuto ad Anna Magnani); alla rappresentazione di un'Italia che rinasce ma che – tra delatori e borsaneristi – si porta non pochi pesi sulla coscienza; all'intuizione di un finale emozionante dove il riscatto da una sopraffazione individuale patita passa per un atto di libertà e di partecipazione collettiva, come le storiche elezioni del 2 giugno 1946; per avere avuto l'illuminazione di una sequenza finale che materializza visivamente l'inno resistenziale e resilienziale di Daniele Silvestri, che canta: E senza scudi per proteggermi né armi per difendermi Né caschi per nascondermi o santi a cui rivolgermi Con solo questa lingua in bocca E se mi tagli pure questa Io non mi fermo, scusa Canto pure a bocca chiusa ____________________________________________________________________________________________ ...ma al maligno Oruam Norac è rimasto qualche dubbio: leggi qui le sue riflessioni su Face/Off
4 Commenti
LUBO di Giorgio DirittiNell’incipit del film una compagnia di artisti da strada si esibisce nella piazza di una cittadina svizzera nel Cantone dei Grigioni, in un giorno del 1939. C’è un orso che balla, ma poi si accascia al suolo; ma non è un vero orso: il suo ventre si apre e ne scaturisce una zingara che suona un’armonica; ma non è una vera zingara: il suo volto è quello di un maschio baffuto. La scena sembra prefigurare il destino dell’uomo, Lubo, costretto prima a vestire una divisa militare invece dei suoi pittoreschi vestiti, poi a nascondersi sotto altri abiti e altre identità, fingendo e dissimulando per buona parte della sua vita. Siamo infatti alla vigilia della Guerra mondiale, e la Svizzera arruola forzosamente il nomade Lubo (appartenente all’etnia degli Jenitsch), per sorvegliare i confini nel timore di un’aggressione tedesca. Ma mentre Lubo è lontano dalla famiglia, entra in azione anche il piano del governo svizzero per aiutare i bambini di strada, un progetto pseudo-umanitario che si propone di sanare la piaga del nomadismo: ovvero, il governo si appropria dei bambini senza genitori o che vivono in situazioni disagiate e li ricovera in istituti, dove in teoria dovrebbero essere istruiti e integrati nella società, mentre in realtà vengono avviati all’adozione da parte di famiglie di svizzeri senza figli, o di contadini che hanno bisogno di braccia in più per i lavori pesanti. Da un giorno all’altro, Lubo, che sta prestando il suo servizio in mezzo alle montagne nevose, si trova privato di tutta la sua famiglia: i suoi tre bambini vengono sequestrati dal governo, sua moglie (incinta) muore in una colluttazione con i gendarmi che le stanno portando via i figli, e il resto dei parenti fugge cercando rifugio in Francia. Lubo continuerà testardamente per anni a cercare di rintracciare i propri figli, scomparsi e dispersi; ma, da vittima ferita profondamente nei propri affetti più cari, si renderà ben presto colpevole di atti nefasti, per i quali non sembra provare alcun rimorso ma che determineranno il suo destino. Divenuto improvvisamente e fortunosamente molto ricco, Lubo dapprima profonderà energie e ricchezze per ritrovare i suoi bambini; poi proverà a ricrearsi una propria famiglia assumendosene il carico, ma i suoi sforzi sono puntualmente destinati allo scacco. La storia di Lubo è destinata a ripetersi, stavolta a causa del suo peccato originale, e tutto quello che ha perso lo perderà di nuovo. Il film da un lato mette in luce un episodio reale e poco noto degli anni della Guerra, in cui, proprio mentre la Germania trascina l’Europa nell'abisso del proprio demenziale incubo razzista, anche la civile e ordinata Svizzera intraprende una sua operazione eugenetica di pulizia etnica e di deportazione ai danni delle minoranze e dell’infanzia; ma dall'altro sceglie come protagonista un “eroe” ben poco edificante, un uomo che si macchia a sua volta di un omicidio efferato ai danni di un innocente (tra l’altro ebreo) e della sottrazione di beni e identità altrui. Diritti espande in un film di quasi tre ore lo spunto narrativo contenuto nelle poco più di cento pagine de Il seminatore di Mario Cavatore, tralasciando tra l’altro le conseguenze e gli strascichi tragici della vicenda principale - narrati nel romanzo ma omessi nel libro - e mettendo in ombra un aspetto della vendetta messa in atto da Lubo e preannunciato dal titolo stesso dell’opera letteraria. Nel libro, infatti, Lubo intraprende una metodica opera di seduzione di donne svizzere, al preciso scopo di ingravidarle e perpetuare in questo modo quella “razza” bastarda che il buon governo svizzero tentava di eliminare. Nel film questo aspetto è molto più sfumato, e le operazioni di seduzione da lui messe in atto verso tre donne appaiono piuttosto dettate dal desiderio (la moglie di un funzionario di banca), dall’utilitarismo (una signora dell’alta borghesia introdotta nelle associazioni “caritatevoli” che potrebbe aiutarlo nella ricerca dei bambini scomparsi) o dell’affetto sincero (una cameriera d’albergo italiana già mamma). Il tema della vendetta si potrebbe forse individuare solo nel secondo caso, dove l’oggetto della seduzione si è appena espressa contro il razzismo nei riguardi degli ebrei – tra i quali vanta degli amici perbene – salvo concludere invece con candide dichiarazioni a favore della sterilizzazione degli zingari, per il bene della società e dell’umanità. Riportato al suo nocciolo essenziale, il Lubo di Diritti è la storia di un personaggio due volte vittima della Storia e della propria storia, che emerge dalla devastazione di una perdita solo per andare ad incontrarne una nuova; un personaggio contraddittorio che reagisce alla sua condizione di vittima incolpevole solo per farsi carnefice a sua volta e scontare alla fine un duro prezzo per i propri crimini. Il protagonista trova una convincente ma non scontata incarnazione nella presenza ambigua di Franz Rogowski (attore tedesco che nel Freaks Out di Mainetti stava dall'altra parte della barricata, in divisa nazista), uno “zingaro bianco” con baffetti e pronuncia blesa, spregiudicato e determinato fino all’ossessione ma sensibilissimo agli affetti famigliari. Il film si inserisce con coerenza nella filmografia di Diritti, per ambientazione fisica e storica. Il trattamento della materia narrativa, come si diceva, si dilunga in una durata importante, procedendo a passo lento e soffermandosi sulla cura di dettagli e su aspetti della storia forse non essenziali. Volti, caratteri, paesaggi e ambientazioni funzionano benissimo nel delineare luoghi ed epoche, ma considerata anche la lunghezza del film, si poteva forse lavorare maggiormente sulla fluidità e la credibilità di alcuni passaggi drammaturgici decisivi. Rimane comunque l'inusuale coraggio di Diritti di raccontare una colpa storica poco conosciuta, mettendo al centro dell'attenzione una vittima a sua volta colpevole. ANATOMIA DI UNA CADUTA (Anatomie d'un chute) di Justine TrietIn Anatomia di una caduta ci sono due cadute, e di conseguenza due esplorazioni anatomiche. C'è una caduta letterale, reale, fisica: Samuel è caduto (si è buttato, è stato spinto) dalla finestra di uno chalet sulle montagne vicino a Grenoble, dove da qualche anno si è ritirato a vivere con la moglie Sandra, facendo convivere l'attività di insegnante, le velleità da scrittore, la ristrutturazione della casa di montagna, la cura del figlio non vedente, il rapporto in crisi con la moglie. E' una caduta che viene esaminata analiticamente, per ricostruirne la dinamica, consultando diversi esperti, riproducendola in simulazioni virtuali (disegni, schemi, filmati) ma anche reali, con l'uso di un manichino al posto del corpo. Ma nello stesso tempo, e ancora di più, la caduta ha un valore metaforico, e trasforma il film nel racconto dell'anatomia di un matrimonio, di un rapporto di coppia entrato in crisi quando il figlio Daniel ha subito un incidente che l'ha privato della vista, della cui responsabilità Sandra accusa ingenerosamente il marito; al dramma sono seguiti i tradimenti di Sandra, che ha avuto relazioni sessuali con altre donne e di cui ha in parte informato il marito. Ad acuire la tensione c'è stata poi la diversa riuscita delle aspirazioni letteraria di entrambi i coniugi: brillante quella di Sandra, che ha pubblicato un libro dopo l'altro, attingendo spesso a piene mani dalla propria vita famigliare e dalle sofferenze ad essa legata; fallimentare quella di Samuel, che non è mai andata oltre la stesura di qualche progetto abortito, e la cui mancata riuscita lui imputa alla moglie, che non gli avrebbe dato il tempo necessario per poter dedicarsi alla scrittura. La sceneggiatura di Justine Triet e di Arthur Harari si concentra in modo analitico sulle diverse modalità di percezione della vita di Sandra e Samuel e del loro rapporto di coppia. A parte le foto di famiglia e un corpo esanime nella neve, Samuel è assente dal film, sia quando è in vita che ovviamente dopo la sua morte prematura, salvo comparire tardivamente in un lunga scena ambientata nel passato; tutta l'attenzione è concentrata su Sandra, ben presto sospettata di omicidio, a causa della strana dinamica che ha portato alla morte di Samuel, e sul figlio Daniel, oltre che sui personaggi (giudici, avvocati, investigatori, testimoni, funzionari) che cercano di ricomporre il puzzle intimo delle loro scene da un matrimonio. Il fascino paradossale del film deriva dal fatto che gli sceneggiatori e la regista non ci portano mai nell'interiorità di Sandra, lasciandoci costantemente nel dubbio riguardo la sua colpevolezza; la Triet sembra mettersi dei panni di uno degli spettatori, che assiste al tentativo di accertamento della verità, con la l'unica prerogativa di avere accesso ai differenti punti di vista, alle diverse percezioni della storia tra Sandra e Samuel e alle diverse ipotesi sulla morte di quest'ultimo. Il racconto ha un'apparente linearità (c'è un solo flashback), ma costruisce intorno all'ellisse centrale e fondamentale (l'omissione della scena primaria della morte di Samuel, che avviene fuori dal campo visivo e narrativo) un vero e proprio caleidoscopio in cui la storia dei due coniugi, e la personalità di Sandra, emergono gradualmente, per frammenti, senza mai dare una visione totale e definitiva. Ricostruire l'insieme dei punti di vista offerti del film è davvero sorprendente. Gli stessi protagonisti della tragedia, Samuel e Sandra, messi a confronto l'uno contro l'altro in una lunga scena di dialogo (un flashback scaturito da una registrazione audio di una loro discussione, presentata al processo), rivelano una percezione completamente opposta ciascuno dell'altro, della loro relazione, e dei motivi della crisi che ormai li divide. Il figlio ipovedente (se la cecità spesso nel cinema è una metafora, viene da dire che forse Daniel è il personaggio che alla fine “sa vedere” cosa – forse - è successo realmente) deve ricostruire attraverso l'udito e il sentimento che cosa sta succedendo o è successo tra suo padre e sua madre. Ma la relazione tra i due è raccontata per suggestioni anche nei libri scritti da Sandra, dove gli spunti autobiografici vengono forzati ad essere interpretati come conferma dei suoi sentimenti ostili verso il marito e dei suoi propositi omicidi. Una raggiera di altri punti di vista sono forniti dagli altri personaggi coinvolti: l'avvocato amico di gioventù di Sandra, e tacitamente innamorato di lei, ma in fondo in dubbio rispetto alla sua innocenza; l'accanito procuratore che vuole dimostrare la sua colpevolezza; il giudice che scruta tutti dall'alto del suo scranno; una giovane che si era recata ad intervistare Sandra nel suo chalet, forse oggetto di un tentativo di seduzione da parte della scrittrice; Marge, la giovane funzionaria incaricata di convivere con Sandra e Daniel (quest'ultimo è contemporaneamente un testimone chiave ma anche il figlio dell'unica indiziata) durante il periodo di svolgimento del processo; e poi i vari testimoni chiamati a dire la loro opinione o gli esperti che devono fornire le loro valutazioni tecniche; e, infine, ma importantissima, la registrazione audio che getta una luce (solo uditiva per gli spettatori del processo, messa in scena invece nel già citato flashback per quelli cinematografici) sulle tensioni tra i due coniugi, talmente ambigua da non riuscire neppure a chiarire con certezza chi, al termine di un diverbio sempre più acceso, abbia colpito chi. A moltiplicare il gioco degli specchi, perfino le lingue parlate sono due - il francese e l'inglese, come lingua mediana tra i due coniugi, uno francese e l'altra tedesca – e i nomi di moglie e marito sono gli stessi degli attori che li interpretano. La Triet alla fine si schiera e il film, senza sciogliere completamente tutti i dubbi degli spettatori, fornisce un finale comunque consolatorio, dove i sentimenti di molti dei personaggi sembrano convergere in un'unica direzione. I sentimenti, appunto, poiché in una realtà frantumata e indecidibile, alla fine, come Marge suggerisce a David, è solo il sentimento che può indicare la giusta direzione. Il film non è un thriller, come alcuni spettatori meno avveduti sembrano aver creduto, forse ingannati dalla locandina del film (che peraltro ha vinto la Palma d'oro al Festival di Cannes), ma regge benissimo per le due ore e mezzo di durata la tensione psicologica, prima durante le indagini preliminari, e poi nell'avvincente dramma giudiziario che occupa la seconda parte. A parte qualche zoomata un po' brusca e incongrua, alla riuscita del film contribuisce non poco la prova degli attori: al centro c'è ovviamente Sandra Hüller (già pluripremiata nel ruolo della figlia del bizzarro protagonista in Vi presento Toni Erdmann di Maren Ade), fredda e appassionata insieme, sospesa nell'ambiguità di un carattere di cui si fatica a cogliere appieno la verità e sul crinale di un personaggio non simpatico che pure finisce per suscitare empatia negli spettatori e nelle spettatrici; intorno a lei un convincente gruppo di attori tra cui Swann Arlaud (l'avvocato difensore), il giovanissimo Milo Machado Graner, nel ruolo del figlio David, e Samuel Theis, nel ruolo del marito, in una sola ma appassionata sequenza. TALK TO ME di Danny e Michael PhilippouIl cinema australiano vanta una discreta tradizione di film horror, da Patrick (1978), ambientato in un ospedale, a Wolf Creek (2004), ambientato invece negli immensi spazi dell'outback, fino all'inquitante Babadook (2014), cui hanno collaborato anche i due registi di Talk to Me, senza dimenticare quell'oggetto tuttora misterioso, affascinante e inclassificabile che è il Picnic ad Hanging Rock di Peter Weir.
Talk to Me sceglie un'ambientazione urbana e domestica, concentrandosi sulla giovane Mia, una ragazza di colore, e sul suo gruppo di amici e coetanei. Mia è ancora turbata dalla morte della madre, forse suicidatasi, e trova conforto nell'amicizia di Jade e del suo fratellino Riley, verso il quale nutre un protettivo sentimento da sorella maggiore. Ma la vita della comunità (il film è ambientato in un sobborgo di Adelaide) viene sconvolta da qualcosa di anormale. Già nel prologo un ragazzo invasato accoltella il fratello e poi si pianta un coltello nella fronte davanti a casa. Non si tarda a capire che l'episodio è collegato ad una moda che impazza tra gli adolescenti del posto, che inscenano una sorta di rito satanico utilizzando una strano mano di ceramica ricoperta di iscrizioni e scambiandosi i video di ragazzi e ragazze che cadono in trance dopo aver stretto la mano, invocato gli spiriti con la frase del titolo e lasciandosene possedere per un breve lasso di tempo. La mano sembra infatti mettere in comunicazione con gli spiriti dei defunti. Non solo Mia, disorientata e disprezzata e tenuta a margine da alcuni membri del gruppo di amici, si lascia tentare dalla prova, rimanendone sconvolte e indugiando per più dei 90 secondi concessi, ma permette che anche il piccolo Riley si sottoponga alla scioccante esperienza. Mentre la ragazza si troverà a fronteggiare gli incubi del proprio passato recente, Riley è preda di spiriti malvagi che lo inducono a spaventosi atti autolesionistici; e gli spiriti malevoli li spingono spietatamente uno contro l'altro. Nel film di Danny e Michael Philippou non ci sono gli ammazzamenti a catena di adolescenti, preda di maniaci assassini o di maledizioni demoniache, che in genere riempiono i teen-horror movie, anche se la presenza del manufatto di origini ignote e dotato di poteri sovrannaturali è un cliché che ha invece numerosi precedenti. Se in genere i giovani (e forse più spesso le giovani) vengono puniti con la morte inflitta con i metodi più orribili per le loro trasgressioni sessuali, qui il rito della mano, collettivo, condiviso, tramandabile, mistura di sensazioni eccitanti e nello stesso tempo spaventose, sembra piuttosto alludere all'esperienza della droga. I due autori giocano sulla curiosità morbosa e sulle fragilità degli adolescenti, per costruire un horror dove, tirando le somme, ci sono dei morti (pochi), ma non è l'omicidio, bensì piuttosto il suicidio il mezzo con cui giovani e meno giovani si liberano delle proprie ossessioni. Mia è il fulcro esemplare di queste fragilità: la ragazza, incrinata dalla perdita della madre (a lei sembra rivolto l'invito del titolo), è all'affannosa e confusa ricerca di un nuovo equilibrio, intimorita di non trovare nel padre un appoggio sufficiente, di non riuscire a recuperare un rapporto affettivo appagante (il suo ex-boyfriend ora sta con la sua miglior amica Jade) e di non essere accettata dal gruppo dei pari. Se è per questo che accetta di sottoporsi al rito della mano, è proprio quest'esperienza a distruggere completamente la sua personalità. In balia di spiriti malevoli e bugiardi, Mia finisce col fare il contrario di ciò che vorrebbe, e cioè nuocere a tutte le persone cui vuole più bene. Sulle spalle di Mia (o meglio sul volto di Sophie Wilde, che la interpreta), sta quasi tutto il peso del film; si potrebbe dire che Mia incarna da sola buona parte dei ruoli di un film horror, dalla vittima ingenua e incolpevole alla visionaria, dalla carnefice alla salvatrice, dall'adolescente inquieta allo spirito fantasma. Complessivamente un esordio convincente per i due gemelli trentenni youtuber, che realizzano un horror con la giusta tensione, ma non convenzionale né banale. FELICITA' di Micaela RamazzottiNon ho elementi né informazioni sufficienti per stabilire se ci siano delle radici o delle motivazioni autobiografiche dietro la finzione di Felicità. Quello che è certo che Micaela Ramazzotti rivendica convintamente, appassionatamente, la necessità di scrivere (la sceneggiatura è firmata da Isabella Cecchi e Alessandra Guidi), girare e interpretare questa storia. All'esordio come autrice, quello che mi ha sinceramente e profondamente stupito è l'adesione totale della Ramazzotti all'immagine cinematografica che altri autori (maschi) le hanno costruito – forse non a caso – addosso, dove perfino il titolo scelto, ironicamente beffardo, sembra perfettamente in linea con una carriera fitta di cose belle e cuori grandi, tenerezze e gioie pazze, anni felici e anni ancora più belli. Desiree, la protagonista del film interpretata dalla Ramazzotti, che porta a sua volta un nome antifrastico, è quindi una sorta di compendio e di miscuglio dei precedenti personaggi dell'attrice: è cioè di nuovo una giovane donna bionda, un po' svampita, spontanea, ingenua, incolta e un po' volgare, fin troppo sincera, che commette errori ma animata sempre da buoni sentimenti. In questo caso Desiree, parrucchiera per le produzioni cinematografiche, è succube di varie relazioni tossiche. Da una parte c'è una famiglia mostruosa, con un padre (Max Tortora, già cattivo padre ne La terra dell'abbastanza) intrattenitore televisivo di mezza tacca per emittenti di mezza tacca, che aspira velleitariamente a fare un salto di qualità nel mondo del cinema senza possedere alcun talento ma che intanto sfrutta la bontà della figlia per estorcerle denaro con ogni pretesto; una madre (Anna Galiena, già – allora seducente - parrucchiera ne Il marito della parrucchiera) complice del turpe marito; e un fratello (Matteo Olivetti, anche lui abitante de La terra dell'abbastanza) psichicamente problematico che non è in grado di badare a se stesso o di mantenersi con un semplice lavoro malgrado i finanziamenti della sorella. Dall'altra c'è Bruno, un intellettuale egocentrico che forse la ama davvero, ma non può esimersi dal trattare con irritata insofferenza l'impresentabile naïveté della ragazza. Sullo sfondo, un ambiente di lavoro dove tutti i maschi sono pronti ad attingere alla sua proverbiale generosità sessuale. Desiree è un cuore semplice (casualmente la protagonista del racconto di Flaubert che porta questo titolo si chiama Felicité) che, (fatte salve le debite innumerevoli differenze) come la Bess de Le onde del destino, si prodiga letteralmente anima e corpo per chi ama, fino al sacrificio, elargendo con generosità denaro, fiducia malriposta, protezione sororale, sesso e pompini, sempre alla ricerca morbosa e frustrata di quel riconoscimento che i suoi genitori le hanno sempre negato. Adeguandosi (come la Barbie Stereotipo del film con Margot Robbie) anche come interprete ad un ruolo-stereotipo che evidentemente sente proprio, la Ramazzotti autrice imposta su una chiave quasi macchiettistica anche gli altri personaggi, a cominciare dai due genitori, loschi come un Gatto e una Volpe pinocchieschi, eccessivi e sopra le righe; abbozzando senza troppo approfondimento il complessato fratello e mettendo addirittura in costume come una cosplayer la sua compagna d'istituto psichiatrico. Il personaggio forse più sfumato spetta forse al di solito istrionico Rubini, che qui disegna con finezza un personaggio che, per quanto antipatico, sembra tutto sommato quello più ragionevole. Anche il tono della narrazione si adegua all'impostazione generale, forzando alla ricerca di un verismo borgataro colorito e di un ritratto femminile popolaresco e fragile per cui tifare e simpatizzare. Un primo tentativo registico per la Ramazzotti forse non ancora maturo e ingabbiato dal proprio cliché interpretativo, ma indubbiamente – come l'avrebbe voluto Desiree - generoso: il pubblico le ha dato credito e ragione, attribuendole il relativo premio all'ultima Mostra del Cinema di Venezia. ENEMY (2013) di Denis VilleneuveGuardare e pensare a Following di Cristopher Nolan, alla vigilia ella sua uscita nei cinema italiani, a 25 anni dalla sua realizzazione, mi ha messo la curiosità di vedere altri film meno conosciuti ma seminali per il percorso di autori rivelatisi alla fine degli anni '90 e che hanno dominato o comunque animato la scena cinematografica degli anni 2000.
Dopo Nolan dunque è toccato quindi a Denis Villeneuve, di cui ho visto recentemente Enemy. Enemy, per il regista canadese di Blade Runner 2049 o di Dune, per citare solo i due esiti più recenti della sua filmografia, in realtà è tutt'altro che un esordio, anzi si colloca a circa metà della sua carriera. Villeneuve nel 2013 ha già realizzato una mezza dozzina di cortometraggi e quattro lungometraggi; ha già conquistato notorietà internazionale con La donna che canta, candidato agli Oscar nel 2011, e nello stesso anno realizza Prisoners. Eppure del film d'esordio d'autore Enemy possiede diverse marcature: è una storia basata su un paradosso narrativo, è a basso budget, girato per la maggior parte in interni, con quattro personaggi oltre ad un altro paio di ruoli parlati e se non è in bianco e nero, com'è quasi doveroso per un esordio d'autore, è ambientato in una Toronto grigia e anonima, dai colori desaturati e dalle architetture spersonalizzanti. Per sopraggiunta, Enemy, come accade talvolta agli esordienti colti, sembra dichiarare i propri numi tutelari e le proprie scene primarie; dai pedinamenti hitchockiani alla Vertigo ai minacciosi corridoi lynchiani; dalle duplicazioni polanskiane (L'inquilino del terzo piano) alle mostruosità tra le mura domestiche di Zulawski (Possession). Come in altri caso, Villeneuve prende in prestito un testo preesistente: in questo caso si tratta de L'uomo duplicato dello scrittore portoghese Josè Saramago, che replica, fatta salva la traslazione dell'ambientazione, abbastanza fedelmente, finanche nella denominazione dei personaggi principali. Ma il tema del doppio presente in Enemy, già esplicitato nel titolo del testo d'origine, non è affatto casuale, essendo presente in buona parte della sua filmografia. Rispetto al sovraccarico drammaturgico di diverse delle sue pellicole, Enemy ha uno sviluppo piuttosto lineare: un professore di Storia (Adam) apparentemente realizzato ma in realtà profondamente inquieto e insoddisfatto, scopre casualmente di avere un sosia, un attore di secondo piano (Anthony) che vive nella sua stessa città, Toronto. Dopo lo sbalordimento e l'incredulità iniziale i due decidono d'incontrarsi: si scoprono caratterialmente diversi, ma fisicamente identici sino all'inverosimile (hanno la stessa cicatrice sull'addome e perfino lo stesso taglio di capelli e la stessa lunghezza della barba). Sconvolti, diffidenti, ostili, i due non trovano di meglio che scambiarsi (a loro insaputa) le rispettive partner sessuali. Dopo la svolta drammaturgica piuttosto incongrua (ma già presente in Saramago), diverse cose incombono: la tragedia, una gravidanza (il nascituro sarà un'altra copia? di chi?), vite scambiate e forse nuove, ma anche il male e il mostruoso annidato accanto o dentro di noi. Il film non spiega, allude; forse i due sono gemelli, forse sono stati separati da un taglio all'addome, forse Anthony non è altro che la proiezione delle velleità attoriali di Adam e una compensazione fallace delle sue frustrazioni, o forse altro ancora. Forse il nostro peggior nemico giace in fondo ad uno specchio oscuro, forse nel nostro inconscio. Il doppio non è il solo dei temi ricorrenti di Villeneuve presenti in Enemy; un altro è quello della madre, la cui presenza è accennata da Villeneuve in modi diversi nel film: è una voce preoccupata registrata nella segreteria telefonica prima dell'inizio: è la compagna incinta di Anthony; è la madre reale di Adam (un cameo di Isabella Rossellini) che getta l'ombra del dubbio sul figlio; ed è la citazione della scultura Maman di Louise Borgeois - una cui versione è collocata permanentemente proprio in Canada, accanto alla National Gallery di Ottawa - ovvero un ragno mostruoso e gigantesco che vediamo in una sequenza svettare indecifrabile e minaccioso sopra lo skyline di Toronto. Già nel suo primo film , Un 32 aout sur terre, una procreazione era al centro della storia, ma è con il melodramma bellico La donna che canta (scritto per il teatro dal libanese-canadese Wajdi Mouawad) che tutto si intreccia ed esplode, con una maternità tragica, gemelli, separazioni e agnizioni, padri che sono anche fratelli e viceversa. Identità multiple e lo strazio e il tormento della genitorialità e della perdita sono al centro del thriller Prisoners; nel poliziesco Sicario la vendetta chiede il sangue dei figli in cambio del sangue dei figli, e ancora nel fantascientifico Arrival Villeneuve trova nel racconto di Ted Chiang gemelli alieni (Tom e Jerry nella versione italiana, Abbot e Costello, cioè Gianni e Pinotto, in quella originale), mentre una storia di maternità si dipana attraverso paradossi temporali (la mia recensione su Into the Wonderland è intitolata "Un'annunciazione"), ma comunque nella prospettiva di una tragica separazione. Prima della saga dinastica di Dune (di nuovo un film gemello, o quanto meno discendente da un film-madre), Blade Runner 2049 sembra allora, al di là delle vicende produttive e del mito degli originali, sia letterario che cinematografico, la conseguenza logica del percorso tematico di Villeneuve, quasi una variante de La donna che canta in versione sci-fi. Altre mani ancora di sceneggiatori gli offrono una storia di duplicazioni e di genitorialità: popolata di replicanti - quindi repliche per natura - di rapporti speculari ma anche filiali tra nuovi e vecchi protagonisti (Deckard e K), altri gemelli separati drammaticamente tra loro e dai genitori, figlie portatrici di futuro. Enemy non è un film completamente riuscito. Quasi privo di eventi drammatici, si dipana in una sequenza di indugi, dialoghi, camminate (che precorrono già le noiose scarpinate di K in Blade Runner) e si affida soprattutto alla colonna sonora per generare un senso d'inquietudine che – tranne le sequenze del prologo e dell'epilogo (poi autocitata in Arrival) e poche altre sequenze oniriche – altrimenti non sarebbe generata dalla visione delle sole immagini. Ma è comunque una sorta di prova del nove, a margine della sua filmografia più conosciuta e celebrata, che rivela e conferma i suoi temi prediletti e le sue ossessioni, tra maternità, filiazioni dal destino tragico, identità gemelle ma contraddittorie e laceranti separazioni. THE WHALE di Darren AronofskySto per farmi nuovi nemici. Gli estimatori di The Whale possono anche astenersi, così vivranno con animo più sereno e non mi odieranno solo perché sto per stroncarlo senza nemmeno un briciolo di pietà. Ero andato a vedere The Whale già qualche mese fa, con il film ancora fresco della presentazione alla Mostra del Cinema di Venezia. The Whale è il film in cui c'è il protagonista Charlie patologicamente obeso, mangione e con problemi cardiaci; che aveva una relazione omosessuale con un tizio suicidatosi per il senso di colpa; che a sua volta era il fratello della donna di origine asiatica che ora si prende cura di lui; lui che però ha anche una figlia adolescente con cui ora cerca disperatamente di recuperare un rapporto lacerato anni addietro. Tutto si svolge nell'appartamento di Charlie, in un atmosfera claustrofobica piena di sudore, lacrime e junk food. Nutrivo rispetto per Darren Aronofsky. I primi film sono impressionanti, The Wrestler mi era sembrato bellissimo e straziante (ne scrissi una lusinghiera recensione per SegnoCinema), Il cigno nero era un bel noir dell'anima. Però la sua filmografia contiene anche episodi imbarazzanti come Noah o quel megapasticcio galattico di Madre!. Ora torna a girare intorno ai temi del suo film più riuscito, il corpo e il rapporto tra padre e figlia. Qui al posto del corpo martoriato del wrestler c'è quello oversize del professore a distanza; al posto dell'icona degradata e desacralizzata di Mickey Rourke c'è un Brendan-la-mummia-Fraser sovrappeso. Ma l'opera teatrale e la sceneggiatura di Samuel D. Hunter rendevano l'impresa di fare un bel film estremamente ardua, e di fatto la conducono ad uno scacco inevitabile. Volenterosamente, diligentemente, in nome della tendenza al politicamente corretto, si mettono sull'asfittica scena tutti i possibili conflitti tra diversità: fisiche ed estetiche, generazionali, sessuali, etniche, religiose; si costruisce l'impalcatura della commozione per il povero Charlie che soffre tanto per problemi di salute, di cuore, d'amore, di rimorso, di vergogna, ecc.; si impone a Fraser una recitazione sudaticcia e lacrimosa che deve farsi strada tra i chili di trucco prostetico che lo sommergono. Tutto appare posticcio come il make up di Fraser, in un ruolo di freak dagli occhioni acquosi di quelli già pronti per l'Oscar (poi regolarmente arrivato); i colpi di scena latitano (il tormentone del famoso tema della figlia di Charlie alla fine non porta nessuna rivelazione, come invece ci si sarebbe potuti aspettare); la sgradevolezza programmatica serve solo a rivestire un insospettabile sentimentalismo stucchevole; il regista preme a fondo il pedale del patetismo, e per essere più chiari sul destino del povero protagonista, si continua a parlare di Moby Dick (ah già, la balena!). Madre! (cliccando sul titolo potrete leggere la mia doppia recensione) finiva in un inferno perpetuo, The Whale invece in un paradiso ritrovato con un'ascesa al cielo ridicola quant'altro mai. Mi fermo qui. Non voletemene. Mica sono il capitano Achab. A voi magari The Whale sarà sembrato bello. A me è sembrato brutto senza rimedio. TORI E LOKITA di Luc e Jean-Pierre DardenneUno degli aggettivi che ho sentito e letto spesso a proposito di Tori e Lokita è “solito”, nelle sue varie declinazioni: i soliti Dardenne, il solito film dei Dardenne, le solite storie, il solito stile. A Cannes c’è perfino chi lo ha fischiato, forse pensando che il solito parlare degli ultimi, dei senza difese, degli invisibili, sia motivo di scherno e di sprezzante dileggio. Io non la penso così, e anzi penso che Tori e Lokita sia un film bello e importante, più bello delle ultime prove dei fratelli, La ragazza senza nome e Le jeune Ahmed, quelli sì un po’ in difetto di ispirazione. Certo, il cinema dei Dardenne non strappa “oh” di meraviglia, non stupisce con ardite trovate narrative né tanto meno con scene spettacolari o effetti speciali. Ma è un cinema che fa riflettere, che fa indignare, che fa commuovere; ma senza farci versare una lacrima, perché non ci sono nemmeno effetti speciali drammatici o patetici. E non è che fa pensare perché imbastisca chissà quali teoremi filosofici o enunci chissà quali verità. Fa pensare perché mostra la realtà, anche quella che abbiamo sotto gli occhi e non vogliamo vedere, anche le vergogne della nostra società che sappiamo ma che non vogliamo riconoscere. Sono due invisibili Tori e Lokita. Un bambino e un’adolescente dalla pelle scura, arrivati in Europa dall’Africa attraverso la porta della Sicilia, con un viaggio pericoloso e dispendioso ancora da pagare. Tori è piccolo e riceve protezione, Lokita no. Si fingono fratelli per cercare di far ottenere anche a lei il permesso di soggiorno, anche se non lo sono per davvero, non attraverso il sangue almeno; e invece forse lo sono per davvero, per l’affetto che li unisce, per un legame spontaneo che li stringe perché le avversità della vita si affrontano meglio in due, con una solidarietà profonda e spontanea dell’uno verso l’altra e viceversa. Per sopravvivere, per pagare i trafficanti d’uomini che reclamano il loro pagamento, per cercare di mandare qualche soldo alla madre rimasta in Benin con altri figli, Lokita insieme al piccolo Tori si presta a distribuire droga per conto di un cuoco che ogni tanto pretende dalla ragazza anche qualche triste bonus sessuale. Finché Lokita non verrà rinchiusa in una sorta di bunker, isolata dal resto del mondo, prigioniera e guardiana di una coltivazione di droga. Ma Tori saprà trovarla anche lì, per aiutarla e per farla sentire meno sola. E’ ancora una volta ammirevole come i Dardenne costruiscano una storia tutta fatta di gesti, di azioni, con i dialoghi che dicono l’indispensabile, senza nessun tipo di orpello o di abbellimento, senza musica extradiegetica a sottolineare azioni e sentimenti. Una canzone c’è e rimarrà indimenticabile per chi l’ha ascoltata guardando il film: la cantano Tori e Lokita, per intrattenere i clienti del ristorante in cambio di una piccola mancia o un pezzetto di pizza. E’ Alla fiera dell’est, proprio quella di Angelo Branduardi, cantata in italiano, che descrive una piramide di soprusi, un mondo dominato dalla violenza e dalla sopraffazione. Qualcuno, ancora, ha lamentato che Tori nella sbrigativa sequenza finale enunci, dopo un finale amaro che non aveva bisogno di commenti, la morale del film: e cioè che se a Lokita fossero stati concessi i documenti che avrebbero regolarizzato la sua situazione le cose avrebbero potuto andare diversamente. Ma non è una didascalia; è una constatazione che per l’appunto anche un bambino è in grado di fare, ma che una burocrazia e una società basate sull’esclusione non sono state capaci di realizzare. Io sono contento che esistano dei cineasti come i Dardenne, con la loro coerenza nel raccontare le “solite” storie che pochi altri raccontano, il loro rigore senza concessioni, il loro inscalfibile umanesimo, la loro poesia umile e concreta. E di film così – anche se fanno male, anzi proprio perché provocano un salutare dolore - ne vorrei ancora, e vorrei che tanta gente li vedesse. Senza sbadigliare, e senza fischiare. BONES AND ALL di Luca GuadagninoVerrebbe da chiedersi come mai il cannibalismo, in varie declinazioni, è negli ultimi tempi al centro di tante narrazioni contemporanee. Ai casi d’autore si affianca tutta una produzione, molto spesso mainstream e rivolta al pubblico giovane o adolescenziale, che affronta il tema attraverso la riproposizione di figure classiche della letteratura e del cinema dell’orrore come i vampiri e gli zombi, che hanno dilagato ormai in forma coerentemente virale nelle filmografie di tutti i continenti e tutte le latitudini, e che hanno coinvolto anche figure insospettabili come l’Hazavavicius di Coupez! (“contagiato” dal nipponico Zombie contro zombie).
Siamo lontanissimi dallo sguardo compiaciuto etnico-morboso dei cannibal movie alla Deodato; i protagonisti non sono più i selvaggi che vivono in selve esotiche, ma le brave studentesse adolescenti di Raw della Ducorneau, le famigliole di Wea Are What We Are di Mickle, i raffinati intellettuali di Divorati, primo e finora unico romanzo del Signore del body horror filosofico, David Cronenberg. Siamo lontani anche dalle metafore socio-politiche di Romero, dalla concezione hobbesiana dell’homo homini lupus, o dalle divertite riflessioni sulla dimensione consumistica del cannibalismo dello stesso Cronenberg romanziere. Ad essere vampiri o cannibali sembrano piuttosto essere persone “normali” in una società “normale” o “normalizzata”, segnate da un destino iscritto nel sangue e nell’ereditarietà, che le rende aliene al consesso umano, diversi ed eccezionali, come copie invertite e negative dei supereroi, intimamente rosi dalla loro fame/sete e dal senso di colpa. Sono due adolescenti affamati, autoemarginati, orfani di genitori mostruosi, condannati ad una vita segreta e perennemente in fuga anche i due protagonisti del romanzo della scrittrice (vegana) Camille DeAngelis, adattato da David Kajganich e portato dallo schermo da Luca Guadagnino. Difficile dire cosa abbia portato il regista italiano (alla sua prima trasferta oltreoceano) a sposare il genere horror, prima rifacendo il Suspiria di Dario Argento, ora con Bones and All; poi progettando (a quanto dice lui stesso) addirittura un remake de La mummia. Bisogna dire però che, dopo un Suspiria goffo, poco pauroso e poco ispirato, infarcito di pretesti storico-intellettualistici (il terrorismo tedesco, i campi di sterminio) pseudo-nobilitanti, nel nuovo film sembra trovare una dimensione a lui molto più consona. Il contesto storico-politico rimane stavolta nello sfondo sonoro, evocato appena dalle voci delle radio o delle tv. All’interno di un contesto horror molto efficace, capace, com’è doveroso, di istillare disagio e disgusto nello spettatore, il film imbastisce invece una solida tessitura interna che parla delle relazioni umane e dell’amore; di amicizia, solidarietà, solitudine; della necessità di avere padri e madri e del bisogno di staccarsene; del bisogno di avere dei figli in cui rivivere e a cui trasmettere le proprie conoscenze; del tempo che passa e della memoria. Bones and All è uno strano horror on the road - e sempre per dirla all’anglosassone è anche un romance, un boy meets a girl movie, un coming of age - con ambientazioni open air o in ambienti domestici (tutti ben fotografati da Arseni Khachaturan) e ordinari, con pochissime uccisioni, moltissimi racconti raccapriccianti e profluvi di sangue, pervaso da una sporcizia sanguinolenta che cerca una nuova estetica della bellezza delle immagini e contemporaneamente genera una nausea disturbante. Ma tutto il suo percorso è costellato di separazioni e ricongiungimenti famigliari – in entrambi i casi traumatici -, di fotografie e memorie domestiche, di lettere e di audiocassette tramandate dai padri e dalle madri, di sorelle lasciate indietro e ritrovate, di madri che cullano neonati alla finestra, di vecchi che cercano di trovarsi la figlia che non hanno avuto respirandone l’odore (Mark Rylance, attore shakespeariano, è magistrale nell’impersonare un drop out malinconico e solitario, assettato di carne e di consanguineità), di cannibali che cercano di inventarsi fittizie e trasversali fratellanze, di appartamenti dove ogni dettaglio racconta una storia ed evoca un ricordo; di incolpevole rimorso verso il proprio passato e di preoccupazione per un futuro maledetto da una fame inesauribile. Belli e dannati, esemplari di una gioventù cannibale e legati da un amore altrettanto cannibale, Maren e Lee attraversano insieme la loro educazione sentimentale, sessuale e carnale; corpi estranei destinati a fondersi in un finale dovuto ma non del tutto convincente. Se precedenti di teen-horror romantici non mancano (la saga di Twilight tra tutti), Bones and All vira verso una dimensione più radicale. Come in Black Hole, la graphic novel archetipica di Charles Burns, la scoperta della sessualità passa attraverso la scoperta del proprio e dell’altrui corpo, in quella mutazione che trasforma i corpi dell’infanzia nei corpi dell'adolescenza, improvvisamente alieni, mostruosi, tentatori e ripugnanti, generatori al contempo di paura e di disgusto, di colpa e di attrazione, di meraviglia e di desiderio; di fame di un frutto proibito conturbante e carnale. Guadagnino fa una cosa che gli piace e gli riesce bene, filmando i corpi dei suoi adolescenti, quello efebico di Chamalet e quello imperfetto e acerbo della Russell (premiata a Venezia insieme alla regia di Guadagnino), ma glissa sulla rappresentazione del sesso (l’unica scena vista di scorcio riguarda un rapporto omosessuale che è in realtà una trappola mortale). In una storia carnale nella sua essenza, il regista mette in scena un amore adolescenziale sostanzialmente casto, cui fa da contrappunto la colonna sonora dalle tentazioni elegiache di Trent Reznor e Atticus Ross, una delle scelte a mio parere meno riuscite del film. Salvo diventare un amore bones and all, un amore che divora e si fa divorare. Da uno spunto risibile, il film complessivamente forse più convincente di Luca Guadagnino. IL COLIBRI' di Francesca Archibugirancesca Archibugi, fin dal suo primo film, Mignon è partita, datato 1988, ha sempre cercato, a volte partendo da soggetti originali, a volte da spunti letterari, di raccontare storie famigliari, di borghesie medie, tra gioie, dolori, amori e disamori coniugali, bambini e bambine preferibilmente con qualche problema di salute. Tutto ritorna ne Il colibrì, tratto dal libro di Sandro Veronesi: gente comune (benché molto benestante), le cose della vita (Les chose de la vie era il titolo di un film del 1970 firmato da Claude Sautet, che di queste cose se ne intendeva), un gruppo di personaggi che gira intorno al protagonista e alla sua famiglia, una bambina che pensa ci sia un filo che la tiene legata ai muri costringendola a preoccuparsi di non fare inciampare quelli che gli stanno intorno. Ha colpito molto la spiegazione che giustifica il titolo, che designa il protagonista, non solo perché era piccolo da bambino, ma anche perché si dice sia un uomo che impiega tutte le sue energie a rimanere fermo. Ma non mi sembra del tutto vero: in fondo Marco non è un conservatore che si sforza di rimanere immobile, ma un uomo comune intorno a cui accadono molte delle cose che nella vita possono accadere a tutti: occasioni che non si realizzano e amori che non si consumano; una bella carriera; una moglie (insoddisfatta) e una figlia (inquieta); la perdita delle persone care; le amicizie perse e ritrovate, quelle tradite e quelle che nascono. In più Marco è un ultrabenestante, con una meravigliosa casa sulla costa toscana. E' lì che si consuma un evento luttuoso, una delle scene primarie che dà una svolta fatale alla vita del giovane Marco, della sua innamorata, di suo fratello, e a cascata di molti altri personaggi che entrano nella vicenda. Da lì in poi non sono poche le sventure che toccano la vicenda dell'uomo comune protagonista, tra suicidi, disastri aerei, incidenti in montagna, bambine problematiche, disagio psicologico, diversi cancri, tradimenti coniugali e non. Il libro di Veronesi procede per schegge eterogenee (narrazioni, dialoghi, lettere, mail, chat, inventari, ecc.), rimescolandone inoltre il naturale ordine cronologico. Espedienti entrambi non nuovi (mi vengono in mente esempi rispettivamente di Stoker, di Camilleri o di Coe), che servono però a rivelare la storia pezzo per pezzo, come un puzzle di cui vengono fornite alla rinfusa le tessere di forma e colori differenti. La Archibugi e i suoi sceneggiatori riprendono la frammentazione cronologica, rendendo a loro volta il film un enigma narrativo che si svela a poco a poco. Il procedimento è suggestivo anche se alla fine non tutto torna e non tutto è chiarissimo. Minimalista da una parte (tutto ruota intorno ad un nucleo di personaggi legati tra loro), massimalista dall'altro (Marco viene seguito per tutto il corso della sua vita, dall'infanzia alla morte, con diversi attori ad interpretarlo da bambino e da ragazzo e Favino truccato per cercare di renderlo credibile sia come uomo maturo che come anziano), il racconto si ricostruisce a posteriori così ricomponendo l'ordine delle sequenze. E' strano che quando tutto sembra ricomposto e la storia avviata alla conclusione, si inserisca un nuovo episodio non “preannunciato”, quello di una partita a carte dall'altissima posta, che spezza il climax e la tensione emotiva che dovrebbero accompagnare lo spettatore verso il finale. L'Archibugi regista sembra più a suo agio con le scene intime o con pochi personaggi, mentre diventa subito più teatrale nelle scene più articolate, impressione aggravata quando interviene il trucco posticcio ad invecchiare attori e personaggi. Mi ha un po' colpito anche notare il diverso comportamento etico-sessuale attribuito ai personaggi maschili e femminili (da Veronesi prima e dall'Archibugi poi): se il protagonista è un uomo tranquillo, fedele alla moglie (anche quando il rapporto sta mostrando crepe preoccupanti), amante extraconiugale ma votato ad una rigorosa castità, ben diverso appare l'attitudine di tutti i principali personaggi femminili: una madre probabilmente adultera; una moglie che tradisce il marito a destra e a manca con uomini e donne; un'amante apparentemente pura e ideale, da amor cortese, capace però a sua volta di tradirlo perfino con il fratello; una figlia che rimane incinta non si saprà mai di chi, salvo partorire una creaturina di colore inaspettato. Forse lo dico male, ma in questo caso sì, il protagonista sembra sempre lì fermo come un colibrì, impegnato con tutte le sue energie a mantenere la posizione, mentre le donne della sua vita sembrano tutte molto più dinamiche, impegnate e in movimento a cogliere nettari differenti fior da fiore... |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
|