IL REGNO (El reino) di Rodrigo SorogoyenSiamo stati per settimane a disquisire, ad esempio, dell’ultimo film di Tarantino, che - con tutta la coolness che volete - ha girato un lungo film che a sua volta gira a vuoto e non parla di niente, e si è parlato poco o nulla, ad esempio de Il regno, che è un film che parla della nostra società odierna e di situazioni che ci riguardano molto da vicino. Il regno è un film spagnolo, come in Italia forse sull’argomento non se ne sono ancora mai fatti. Eppure della corruzione e della perdita di etica della politica siamo probabilmente tra i campioni europei, se non mondiali, con un’esperienza storica (poco) invidiabile. Perché di questo si tratta: siamo nel 2007 in una grande città spagnola e Manuel López-Vidal è un esponente di spicco di un importante (ma innominato) partito politico. Sembra giunto per lui il momento per spiccare il volo dalla dimensione locale a quella nazionale, ma qualcosa si frappone sul suo cammino e rischia di portarlo alla completa rovina. Uno scandalo politico-finanziario lo travolge, e il partito, un po’ per la pseudo-vocazione moralizzatrice del nuovo responsabile, un po’ per bieco calcolo cinico, è pronto a tagliare il ramo improvvisamente marcito, prima che le indagini possano allargarsi e risalire ad altri livelli altrettanto malati e corrotti. Il problema è che Manuel non è affatto disponibile e rassegnato a perdere cariche politiche, prestigio sociale, benessere e privilegi economici, autorevolezza famigliare, e ingaggia una disperata lotta di difesa e di sopravvivenza, senza rinunciare a nessun mezzo, neppure a quelli più estremi, e a nessun espediente, neppure a quelli più meschini, pur di salvare non la propria vita (quando la lotta si farà senza esclusione di colpi arriverà alla fine anche quel momento) ma il proprio status economico e sociale. Sorogoyen, che ha scritto la sceneggiatura insieme a Isabel Pena, inquadra Manuel al centro esemplare di un sistema politico profondamente e radicalmente corrotto (il fatto che il partito non sia mai citato non è solo un indice di prudenza, ma anche l’allusione all’universalità e alla pervasività di meccanismi di gestione del potere arroganti e disonesti) , dove nessuno può chiamarsi fuori; prodotto da una società altrettanto corrotta e per la quale funge da modello e da esempio negativo. Se la politica non è più il perseguimento del bene comune, visione di una società e del modo per farla progredire, ma solo uno strumento funzionale alla realizzazione personale, attraverso mezzi illeciti ma garantiti dalla posizione del potere e dalla rete di alleanze dove tutto si tiene, dove tutti concorrono agli stessi reati, dove tutti possono ricattare tutti, non migliore appare la cosiddetta società civile, dove ognuno appare tentato dalla disonestà a favore dei propri interessi. E’ solo una questione di livelli e di possibilità, di macro e di micro, ma tutti sembrano coinvolti in uno stesso degrado morale. I commentatori del film si sono trovati a discutere della moralità del film stesso (che in patria ha sbancato comunque ai premi Goya, aggiudicandosi sette statuette): il seguire per tutto il tempo, con un andamento e una suspense da trhiller le disperate manovre di Manuel, inducendo lo spettatore a identificarsi con lui e a parteggiare per la sua salvezza, è sembrato ad alcuni recensori una maniera per sminuirne le responsabilità morali, per suscitare l’empatia verso un personaggio negativo. Un personaggio amorale, quindi, e mostrato come tale, ma con un trattamento narrativo a sua volta amorale che finisce per giustificarlo, quasi fosse una vittima in pericolo, e non un delinquente che combatte in solitudine una sporchissima guerra tra bande. Non sono di questo parere: il film non risparmia nulla al suo personaggio, che usa metodi meschini e abietti per cercare di salvarsi, e che spesso viene ignominiosamente smascherato e umiliato, sia dalla polizia che dai suoi stessi ex-complici. Il finale sembra rimetterlo tutto sommato in piedi, davanti alle telecamere di uno studio televisivo, a raccontare indomito la propria interessatissima verità, a portare alla luce le prove, ottenute fraudolentemente, con cui spera di sminuire le proprie colpe coinvolgendo altri. Tutti colpevoli, nessun colpevole, e se lui deve cadere, il rumore della sua caduta sarà sommerso dal fragore del crollo di un sistema intero. Ma quello con cui non ha fatto i conti è che una giornalista può non prestarsi supinamente al suo gioco, e anche solo con le parole, ma davanti agli occhi di tutti gli spettatori, sarà in grado di inchiodarlo alle proprie responsabilità morali. Il soggetto, lo si sarà capito, è ad altissimo rischio di retorica, ma Sorogoyen fa di tutto per evitarla. Fionda gli spettatori in media res (mi ha ricordato per certi versi l’inizio di Michael Clayton), non fornisce spiegazioni né preamboli (lo spettatore dovrà ricostruire da sé, mentre il film si svolge, il mosaico delle informazioni frammentarie sparpagliate durante la narrazione), e conferisce al film un andamento tesissimo, ansiogeno, da thriller. Antonio de la Torre interpreta il suo ruolo con un piglio deciso e battagliero, che lo fanno assomigliare, grazie anche a tratti somatici simili, a un James Bond in giacca e cravatta (firmati) alla Daniel Craig. Ulteriore adrenalina viene continuamente pompata al ritmo del film dalla colonna sonora di Olivier Arson, che a volte sembra riprendere anche delle lastre sonore simili a quelle utilizzate da Jóhann Jóhannsson per Sicario, ma che a volte lascia spazio anche al silenzio, come nella parte noir del finale, capace, ancor più della musica, di suscitare angoscia e tensione. In un film molto parlato, ambientato tra gli asettici luoghi del potere politico e ambienti domestici che in nome del lusso e della modernità emanano altrettanta freddezza, Sorogoyen, sempre impegnato a rimuovere qualsiasi sospetto di rigidità o di staticità al suo racconto, ritaglia qualche momento memorabile di cinema puro, come nella splendida concitata sequenza in cui Manuel tenta di recuperare della documentazione compromettente a casa di un ex-complice, scontrandosi con l’inaspettata resistenza di un gruppo di giovani che vi ha organizzato una festicciola promiscua a base di stupefacenti. Con Stockholm, suo film d’esordio, e con Che Dio ci perdoni (già interpretato da de la Torre), Sorogoyen aveva già ricevuto numerosi premi internazionali e una mezza dozzina di candidature ai Goya, e con un suo cortometraggio aveva ottenuto la candidatura all’Oscar: converrà tenerlo d’occhio.
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LE VERITA' (Le vérité - The Truth) di Hirokazu Kore'edaKore'eda Hirokazu ha evidentemente gradito le atmosfere francesi (il suo Un affare di famiglia aveva vinto la Palma d'oro l'anno scorso al festival di Cannes) tanto da girarvi il suo nuovo film. L'oggetto del suo cinema è sempre lo stesso, film dopo film: la famiglia e i legami di sangue (reali o presunti) tra i protagonisti. Non cambia tematica con Le verità, ma, per non fare passi falsi nel contesto cinematograficamente esotico sembra situare la sua opera al punto esatto di mediazione tra altri due film francesi recenti. In Sils Maria (2014) di Olivier Assayas, la Binoche era un'attrice al vertice di maturità della propria carriera, che come in Eva contro Eva si trovava a fare i conti con un'attrice molto più giovane e spregiudicata (interpretata dalla Grace-Moretz); in Quello che so di lei (La sage femme, 2017) di Martin Provost, Catherine Deneuve era una donna esuberante e estroversa che torna a sconvolgere la vita della figliastra seria e responsabile. Ne Le verità, la Deneuve è Fabienne, un'attrice cinica e tagliente - che ha sacrificato qualsiasi affetto alla sua carriera e alla sua vocazione, forte come un destino - che deve fare i conti con un'attrice molto dotata con cui si trova a recitare sul set di un nuovo film (con una crasi del suo ruolo in La sage femme e di quello della Binoche in Sils Maria), mentre la Binoche passa al ruolo della figlia seria e risentita che in Quello che so di lei era affidato a Catherine Frot. Anzi, da Sils Maria sembra mutuato anche il tema del rapporto paradossale tra presente e passato delle protagoniste: nel film di Assayas la protagonista interpretata dalla Binoche si trova a girare un revival della commedia che interpretò da giovane, ma trovandosi stavolta nel ruolo dell'antagonista matura; qui la Deneuve è addirittura sul set di un film di fantascienza intimista, in cui ha il ruolo di una donna che invecchia, mentre sua madre, autoesiliatasi nello spazio per sfuggire a una malattia, rimane sempre giovane. In entrambi i casi c'è un cortocircuito tra giovinezza e maturità, presente e passato, che dovrebbe sfociare in esiti paradossali e conturbanti (anche se lo spunto fantascientifico ne Le verità rimane un'enunciazione, senza che Kore'eda si sforzi a trarne suggestioni visive). Come i film citati, anche Le verità indaga sul particolare rapporto che si instaura tra madri e figlie (in Sils Maria la Binoche si confrontava non solo con il doppio “negativo” dell'attrice giovane, ma anche con quello “positivo” di una fedele assistente interpretata da Kristen Stewart), risultando probabilmente un film più vicino all'animo e alle esperienze del pubblico femminile. Kore'eda gira un film forse non strettamente necessario, ma elegante, servito dalle grandissime rappresentanti di due diverse generazioni del cinema francese, girato con grande sobrietà e quello che si potrebbe quasi definire pudore. Il suo è ancora più del solito un film “da camera”, con poche ambientazioni e quasi tutte in interni. Ai locali della villa di Fabienne, dove la figlia Lumir si è recata in visita in compagnia del marito americano e della figlioletta, o nel giardino di casa, si contrappone, in rappresentazione del mondo esterno, l'ortus conclusus del set cinematografico, altrettanto chiuso e autosufficiente, dove si giocano altri dramma materni-filiali: sia nella rappresentazione (le protagoniste del film nel film sono appunto madre e figlia, anche se le rispettive età sono paradossalmente invertite), sia nella trama principale, dove Fabienne si trova a fronteggiare una rivale che potrebbe avere l'età di sua figlia (e che, per complicare le cose, assomiglia fisicamente e artisticamente ad un'amica-rivale della stessa Fabienne, morta anni prima in un incidente che potrebbe essere stato un suicidio, e al quale lei non è forse estranea). La partita si gioca a quattro, perché oltre a Fabienne, oltre alla figlia Lumir e all'attrice giovane, c'è un quarto personaggio femminile (quelli maschili sono accessori: mariti disoccupati sempre a rischio alcolismo o relegati al ruolo di cuochi, assistenti servili come maggiordomi, ecc.) a completare il quadro, la bimba figlia di Lumir. C'è in effetti nel film un altro tema, oltre a quelli enunciati, insito in modo eclatante nella professione della protagonista Fabienne, e in modo più latente anche in quella di sceneggiatrice di Lumir: è il tema del rapporto tra realtà e finzione (anche se bisogna dire che il plurale del titolo c'è solo nella versione italiana). C'è ovviamente la realtà, anche psicologica, e la finzione mimetica del cinema; c'è l'ambiguità delle motivazioni umane (l'amica di Fabienne si è suicidata? Fabienne è responsabile della sua morte?); c'è la realtà dei fatti e il racconto soggettivo dei personaggi (l'autobiografia di Fabienne, appena pubblicata, è zeppa di falsità e omissioni); ancora c'è la bugia metaforica e il regno della fantasia (dove il nonno potrebbe essersi trasformato in una tartaruga e viceversa). Se quindi una riconciliazione ci sarà, sarà propiziata ancora una volta con le armi della finzione: una falsità scritta a tavolino, recitata con innocenza dalla voce più innocente di tutte: e allora anche una vecchia diva come Fabienne/Catherine può abbassare le sue difese e forse aprire il suo cuore. MADEMOISELLE (Ah-ga-ssi o The Handmaiden) di Park Chan-wookCerto non si può pretendere che un regista faccia sempre lo stesso film. Eppure mi rattrista il confronto tra Mr. Vendetta (2002), un capolavoro sporco, crudo e crudele, in cui i personaggi si dibattono tra le maglie del fato cieco e dell'ingiustizia, e Mademoiselle, con la sua fredda geometria narrativa, la sua eleganza manierista, il suo erotismo patinato da rivista vintage per soli uomini. Ancora in Stoker, malgrado lo sradicamento geografico-culturale (il film è un una produzione statunitense firmata da Ridley e Tony Scott e interpretata da Mia Wasikowska e Nicole Kidman), Park Chan-wook sembrava aver trovato nella sceneggiatura di Wentworth Miller molti dei temi a lui congeniali: la sessualità, l'erotismo, la malattia, la violenza, la morte. In Mademoiselle, invece, pur tornando a scrivere la sceneggiatura, e in collaborazione con un suo fido collaboratore come Jeong Seo-Gyeong, sembra girare un film meno personale, o meglio trasformare le proprie tematiche in un esercizio manieristico e sterile. Eppure il film è ricco di spunti potenzialmente fecondissimi, a cominciare dal confronto tra le culture, che schiera un maniero gotico-vittoriano (e stanze segrete e biblioteche proibite e sotterranei che nascondono mostri) che rimanda a quella europea, i personaggi popolari coreani, l'aspirazione alla raffinatezza e all'eleganza – anche morbosa e sadica - della cultura giapponese, incarnata da Hideko - l'unico personaggio principale realmente giapponese della vicenda (ma l'attrice è in realtà anch'essa coreana...) - ma anche rappresentata dagli abiti, gli accessori, gli ambienti e gli arredi, e pure citata più volte attraverso la tradizione nipponica degli shunga, le stampe esplicitamente sessuali in cui si esercitarono anche sommi esponenti dell'arte figurativa come Utamaro e Hokusai, il cui Sogno della moglie del marinaio da immagine si incarna quasi in un motivo narrativo. La storia è quella di Sook-hee (la frizzante Kim Tae-ri), giovane coreana cresciuta in un ambiente di ladri, trafficanti e truffatori nell'epoca dell'occupazione nipponica della Corea, che viene fatta assumere al servizio di Hideko (Kim Min-hee), una nobildonna giapponese, per propiziarne la seduzione da parte del sedicente conte Fujiwara, in realtà un truffatore coreano che medita di liberarsi di Hideko facendola internare in manicomio dopo essersi impossessato del suo patrimonio. Hideko è concupita però anche dallo zio Kouzuki, un coreano che aspira a sua volta ad assurgere al rango della nobiltà giapponese, e che ha allevato la giovane in un'atmosfera di vizio e di depravazione dopo la scomparsa della moglie. Già da queste poche righe di riassunto si capisce come uno dei temi che stanno a cuore a Park in questo film è quello della menzogna e della dissimulazione. Sook-he si finge domestica, Fujiwara, il cui incarico è di produrre libri falsi, si finge nobile e giapponese e la sua seduzione ha un secondo fine. A scompigliare qualsiasi piano però interviene il desiderio, con i suoi obiettivi dichiarati e previsti e quelli dissimulati e soprattutto quelli inattesi. Desiderio di denaro, di potere, di prestigio sociale, di amore, di sesso, di piaceri morbosi, di dominazione. La storia si falsifica, di divide in tre parti, in ciascuna delle quali lo sguardo narrativo cambia, e come in un gioco di specchi gli stessi fatti vengono visti e rivisti da prospettive differenti; e dove le alleanze, i tradimenti, i giochi di attrazione e di seduzione mutano continuamente la loro conformazione geometrica. Poiché i protagonisti sono in realtà quattro e non tre, ai tre atti segue un epilogo che vede rientrare in gioco in prima persona il perverso zio di Hideko, cui viene affidato da Park Chan-wook il compito di iniettare nella storia la dose di violenza sadica che nei suoi film non può mai mancare. Il film però, seguendo le evoluzioni di una trama che sembra scritta da Boileau e Narcejac (i formidabili autori di Les diaboliques), allunga i suoi tempi (il cinema coreano non sembra conoscere la concisione), si ripete (dove un film occidentale a sorpresa avrebbe risolto le rivelazioni con fulminei flashback, Park Chan-wook torna indietro a riraccontare pedissequamente, a chiosare e precisare), per avvoltolarsi alla fine in una serie di finali cui non giova il rilievo che assume il personaggio un po' macchiettistico (e afflitto da un trucco posticcio) di Kouzuki. Di sicuro Chan-wook ha voluto giocare come il gatto con il topo con lo spettatore, non solo facendolo entrare in un labirinto narrativo in cui le aspettative di chi guarda sono continuamente disattese e spiazzate, ma anche mettendolo in un'ambigua situazione voyeuristica, ponendolo, mentre assiste a diverse sequenze di levigato sesso saffico, nella stessa situazione premasturbatoria degli ospiti (rigorosamente maschili) di Kouzuki, invitati nella sua villa per assistere e ascoltare le letture di libri pornografici, spesso di argomento sado-masochistico, tenute da un'impassibile geisha cui è permessa solo qualche goccia di sudore. Forse Mademoiselle avrebbe potuto e voluto essere un capolavoro di cinema di squisito e perverso erotismo orientale, un noir torbido e conturbante, una riflessione beffarda sul voyeurismo spettatoriale, una riflessione sui difficili rapporti storici tra Corea e Giappone, e su quelli affascinanti e problematici tra la cultura (anche erotica) occidentale e orientale. Ma purtroppo è un film prolisso, manierista, addirittura lezioso, che fruga tra le pieghe dell'erotismo (evocando la letteratura e l'arte figurativa) fino a evocare i fantastici amplessi tra donne e piovre di Hokusai, ma autoimponendosi dei limiti precisi nelle scene di nudo. In Mr. Vendetta una donna malata geme per la sofferenza; al di là della parete, dei ragazzi equivocando i suoi gemiti si eccitano e si masturbano. A mio parere vale più questa singola crudele, straziante sequenza, che mescola sesso, malattia, caso, incomprensione tra esseri umani, incolpevolezza della colpa, senso dell'assurdo e mancanza di senso, equivoco del peccato, che l'elegante ridondante sontuosa costruzione narrativa di Mademoiselle. JOKER di Todd PhillipsDon't you love farce? My fault, I fear. I thought that you'd want what I want. Sorry, my dear! But where are the clowns? Send in the clowns! Don't bother, they're here (da Send in the Clowns, di Stephen Sondheim) La tragedia di un uomo ridicolo (o la commedia di un giovane tragico) Arthur Fleck è lacerato tra la dimensione tragica della propria frustrante realtà, segnata dalla malattia e dal fallimento, e quella da commedia cui inutilmente aspira (commedia romantica con la vicina di casa, commedia come professione sulle pedane dei club, notorietà televisiva). L'oscillazione tra la due dimensioni esce dal suo asse in modo inevitabile, ma inaspettato. Arthur, avviandosi a diventare Joker, scopre la possibilità di una mostruosa sintesi grazie ad un atto di violenza. Anche in questo caso Arthur agisce sotto la copertura di un costume clownesco, che di conseguenza diventa la sua nuova identità, già corredato del suo definitivo make-up, di un appariscente abito di scena, di un nome d'arte fatale, della scoperta di una vocazione alla violenza e alla distruzione. Tragedia e commedia si fondono in una farsa in cui il Joker si muove a passo di danza macabra grazie ad un'inedita leggerezza. La caratterizzazione di Arthur/Joker (come sempre più spesso succede nel cinema di genere da Star Wars in poi: v. ad es. il prossimo Gemini Man, in cui il rapporto di sangue tra i protagonisti è ancora più stretto di quello tra padre e figlio) è incardinata sulla storia famigliare, qui completamente radicata in un passato di malattia, violenza, impostura, tanto che Arthur potrebbe essere la versione adulta del bambino abusato protagonista di Ingannevole il cuore più di ogni cosa. Ma Arthur è in definitiva un meccanismo celibe (che può distruggere la madre e contemporaneamente tornarne nel grembo rappresentato dall'Arkham Asylum) e infecondo, incastrato in un sistema che gli nega visibilità, relazioni, espressione della propria (presunta) creatività. E' proprio nel suo crimine, fatale, casuale, che trova la possibilità di esprimere tutte le potenzialità che gli sono negate: sia in forma fantasmatica attraverso fantasie allucinatorie, sia in quella concretamente realizzata della conquista della fama, di un imprevedibile proselitismo, di una visibilità che si trasforma addirittura in iconicità. Se il sistema delle relazioni e del riconoscimento sociale è precluso ad Arthur, e gli preclude ogni possibilità di realizzazione, la vendetta e il destino di Joker saranno diventare un fenomeno sociale, virale, generativo; un ribelle esemplare, un'icona, un leader involontario che incarna la volontà di distruzione del sistema. In una scena che diventerà da antologia, il clown in fuga, inseguito dalla polizia, si troverà a saltare su un vagone di metropolitana pieno di pagliacci che, a sua immagine e somiglianza, vanno a manifestare la propria rabbia rancorosa per le strade della città, indossando o dipingendosi in volto una maschera che è già un segno identificativo di disobbedienza, come fu per il viso stilizzato di Guy Fawkes in V for Vendetta, scritto da Alan Moore, lo stesso che già in The Killing Joke aveva raccontato l'origine del Joker a partire da un comico fallito. Virus infestante e proliferante, Joker darà alla fine origine al proprio anticorpo, alla propria nemesi (oscura e tragica nell'aspetto quanto lui invece è variopinto e ilare). I tunnel visivi (treni e binari, lunghe ripidissime scalinate lungo le quali Arthur arranca gravato dal fardello delle sue pene e dei suoi fallimenti, e che discende invece come se fosse in un musical di Broadway, grazie alla nuova levità conferitagli dalla malvagità), come anche la musica ossessiva della violoncellista islandese Hildur Guðnadóttir (Soldado, Chernobyl) stanno a testimoniare che quello di Joker è un destino tracciato, inesorabile. Le mille luci di Gotham City La lacerazione interna di Arthur/Joker viene proiettata all'esterno, nella rappresentazione cinematografica di una società divisa tra il sogno americano di una vita leggera come una commedia (cui alludono i titoli di testa e coda in stile vintage, ma anche la colonna sonora che rievoca il jazz spensierato di Broadway e la souplesse di Sinatra) e l'amara frustrazione di una Gotham-New York City lurida, incarognita, violenta, sopra le quali splendono le mille illusorie luci dei grattacieli, già percorsa dalle metaforiche scorrerie dei ratti. D'altra parte le fonti d'ispirazione del film si possono rintracciare in quel quindicennio - fecondo per il nuovo cinema americano, ma oscuro per il degrado della città di New York -, che va dal 1967 di New York ore 3 – L'ora dei vigliacchi (The Incident) all'83 di Re per una notte (The King of Comedy), attraversando i seventies che videro le performance del non stand up comedian Andy Kaufman (portato sullo schermo da Milos Forman e Jim Carrey nel '99 in Man On the Moon), la deriva agghiacciante di un uomo comune in Taxi Driver, la morte in diretta televisiva di Quinto potere (Network). Il debito iconico e poetico verso il cinema di Scorsese (che avrebbe dovuto essere tra i produttori del film) è d'altra parte esplicitamente dichiarato grazie alla presenza di Robert De Niro, che fu sia l'indimenticabile giustiziere Travis Bickle di Taxi Driver che il velleitario comico fallito Rupert Pupkin in King of Comedy e che in Joker interpreta l'omologo di quella che fu la sua controparte, il conduttore televisivo allora interpretato da Jerry Lewis. D'altro lato Phillips fa piazza pulita, comprensibilmente, di buona parte della narrazione - fumettistica, televisiva, cinematografica (peraltro irrimediabilmente contraddittoria) - lungo la quale si sviluppa la storia del Joker nell'ambito del multiverso DC e della sequenza multiforme di incarnazioni del personaggio (da Cesar Romero a Heath Ledger e Jared Leto, passando per Jack Nicholson). Un Joker per tutti, tutti per il Joker Qualcuno ha in effetti visto negativamente l'dea di porre il Joker come unico baricentro di un film nel quale il suo nemico storico è assente (se non in nuce) e il protagonista non ha reali antagonisti. Ma proprio su questo si basa la forza del film, sulla centralità di un personaggio altrove inafferrabile, inconsistente sotto la sua buffonesca mascheratura, cui l'azione congiunta di Phoenix e Phillips conferisce uno statuto effettivamente tragico, giocando sulla magrezza dell'attore (dimagrito 24 chili per il ruolo) sui suoi difetti fisici, sul suo viso ambivalente che passa dall'innocenza ingenua alle espressioni sinistre e inquietanti, dalle strazianti e stranianti risate alle esplosioni di paura e di rabbia. Joker, sorprendente Leone d'oro alla Mostra del cinema di Venezia, è in definitiva un film di potenza compressa ma toccante, che trova un equilibrio non scontato tra uno stilizzato intimismo psicologico e l'impressionante performance fisica attoriale di Joaquin Phoenix; tra i richiami al cinema degli autori della nuova Hollywood e l'omaggio agli stereotipi del cinema di genere (ed è genere all'ennesima potenza: il cinema superomistico di derivazione fumettistica); e infine nelle allusioni ad uno spirito dei tempi (anche se le scene della rivolta di massa nel sottofinale sono forse la parte meno riuscita del film) che vede anche nelle insospettabili culle delle democrazie occidentali la rivolta dei gilet gialli e l'imperversare degli haters nei social media; il livore italiano dei vaffanculo o dell'intolleranza leghista e il rancore dell'America trumpiana: le manifestazioni dell'odio montante delle classi realmente o immaginariamente emarginate, il senso di rivalsa e di ostilità verso le élite economiche e politiche, lo spirito nichilista e luddista delle masse disposte a vedere morto chi non possono essere, a distruggere ciò che non possono avere. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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