PINOCCHIO DI GUILLERMO DEL TORO di Guilliermo Del Toro e Mark GustafsonNon c'è due senza tre: torno ad occuparmi di Pinocchio, dopo aver recensito per SegnoCinema il film di Benigni di vent'anni fa e aver disquisito sulla stessa rivista della versione di Garrone del 2019. Cominciamo col dire che guardando il Pinocchio di Guillermo Del Toro si ha l'impressione di vedere Pinocchio. Quello di Collodi, insomma. Invece è un'illusione ottica, perché si sta guardando, ovviamente, il Pinocchio di Guillermo Del Toro. C'è Geppetto padre amorevole, c'è il burattino di legno discolo e vivace, c'è il Grillo parlante, ci sono i libri di scuola e il circo, ci sono Lucignolo e il Pescecane. Ma poi? Poi c'è Guillermo del Toro. Che vira la fiaba sadica di Collodi in un apologo dark e politico che esalta la libertà e la ribellione l'autorità; che slitta l'epoca di ambientazione verso l'era fascista (analogamente, il franchismo faceva da sfondo a Il labirinto del fauno), dove le istanze dell'autorità messe in pagina da Collodi acquistano un altro più circostanziato risalto; cancella l'istanza femminile della Fata dai capelli turchini (compagna di giochi, severa maestra di morale, madre amorevole) per sostituirla con spiriti femminei e bluastri; fonde la negatività di Mangiafoco, del Gatto e della Volpe nel personaggio-crasi del signor Volpe, che sembra più vicino ai loschi manager de Il gatto e la volpe di Edoardo Bennato che al Mangiafoco collodiano; inventa un padre di Lucignolo fascista e guerrafondaio; cambia di segno al Paese dei Balocchi - convertendolo in un campo di giochi di guerra che prepara i ragazzini alla violenza e alla morte - e alla relativa punizione dei monelli edonisti, trasformandoli in virtuosi ribelli antimilitaristi; introduce un aiutante proppiano nella figura della scimmietta Spazzatura, inesistente nel romanzo (dove pure abbondano animali e personaggi zoomorfi), mentre lo schiacciamento del Grillo parlante (doppiamente parlante: sua è infatti anche la voce narrante del film) diventa un tormentone presumibilmente comico. D'altra parte la storia di Del Toro sembra prendere a rovescio il canovaccio collodiano: il film parte con un bambino “vero” (senza madre e con un padre molto anziano) e termina con un Pinocchio definitivamente orfano che è e sarà per sempre un burattino di legno. Lo stesso allungamento del naso, punizione umiliante per le bugie del monello, diventa un escamotage che garantirà fuga e salvezza ai personaggi rinchiusi dentro lo stomaco del pescecane. Pinocchio qui è molto più innocente, o per lo meno incolpevole, dell'originale e le sue sventure sembrano scaturire più da circostanze avverse che dai comportamenti avventati o disobbedienti del burattino: per fare un esempio, anche quando si brucia i piedi nel camino è su istigazione di Lucignolo e non per propria sventatezza. Collodi a Pinocchio gli amputa i piedi, lo impicca, lo fa condannare e imprigionare, lo fa ferire in una tagliola, ridurre alla catena come un cane, infarinare per essere fritto e mangiato; quindi lo trasforma in un asino, lo fa frustare, lo annega, lo fa ingoiare da un pescecane. La Fata turchina è continuamente oltre o in punto di morte, e anche l'amico Lucignolo muore senza mai redimersi dall'umiliante trasformazione in asino. Anche qui Pinocchio muore più volte, ma il suo andirivieni dal mondo all'al di là (dove i conigli neri, macabri becchini nel libro, nel film passano il tempo a giocare a carte) diviene un'oscillazione ritmica e quasi spensierata. Tuttavia l'operazione di positivizzazione morale e politica del personaggio e della storia non portano affatto ad una rappresentazione più allegra e giocosa, anzi. Fedele al proprio immaginario, Del Toro, con il coregista Mark Gustafson, impagina una fiaba dai toni gotici e lugubri, un universo corrusco e minaccioso abitato, questo sì in maniera consona al mondo di Collodi, da esseri mostruosi, tanto da renderne presumibilmente la visione poco adatta ai bambini più impressionabili. Se la scimmietta che diventa amica e alleata di Pinocchio è un essere brutto, sgraziato e guercio di nome Spazzatura, è sul personaggio di Geppetto che si può misurare la visione dell'autore: già vecchissimo fin dall'inizio, quando è padre del piccolo Carlo, alla fine del film, invece di ringiovanire come nel romanzo, muore, mentre Pinocchio, lungi dal trasformarsi in un bambino in carne e ossa, dopo la morte del papà e di tutti i compagni d'avventura, è condannato ad un'eterna esistenza da burattino; senza fili, certo, libero e svincolato dalle regole non solo sociali (il tema del lavoro come strumento di redenzione morale e di assunzione della responsabilità famigliare e sociale adulta è un'altra delle grandi assenze nel film) ma umane, compresa quella della caducità. Senza fili, senza regole, senza preoccupazioni, senza età - se non quella di un'infanzia eterna - senza legami, neppure più quelli degli affetti; ma pur sempre, e per sempre, un burattino di legno.
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SOUL di Pete Docter e Kemp PowersSoul è brutto. Si può dirlo? So che parlare male di un film Pixar è come bestemmiare. E che si potrebbe dirla in un altro modo. Però “brutto” è più brutale, più diretto, dice più le cose come stanno, le sfumature eventualmente possono venire dopo. Prima di tutto: sarei curioso di sentire un bambino (di qualunque età) che mi racconti Soul dopo averlo visto. Cosa ci avrà capito? Di anime perdute e mai nate, di oltremondi e antemondi, di ectoplasmi tutti con lo stesso nome e Io-seminari, di giovani anime femmine in corpi di maschi adulti, di anime di uomini adulti dentro gatti, di passioni che diventano ossessioni, di scintille che si accendono e si spengono, di pass e di jazz? Mah, forse non è un film per bambini, mi si dirà. I suoi temi esistenziali e filosofici lo dimostrano. E allora? E' un film per adulti? E poi c'è la poetica di Peter Docter, ormai purtroppo direttore artistico della Pixar dopo le dimissioni di John Lasseter. Così legata al tema della morte. In Up (2009) la protagonista femminile, sterile, dopo un prologo vertiginoso che riassume tutta una vita in lampeggianti frammenti, si ammala e muore senza aver mai realizzato il suo desiderio. Sono passati pochi minuti dall'inizio del film e nessun personaggio femminile prenderà il suo posto. In Inside Out (2015) la lezione da imparare per la piccola protagonista (in cui albergano tre emozioni negative, Rabbia, Disgusto e Tristezza e una sola positiva, Gioia), è che deve far morire dentro di sé la dimensione e i ricordi dell'infanzia, così come muore per permetterle di salvarsi l'amico Bing Bong. In Soul, Joe, frustrato insegnante di musica alle scuole medie e aspirante pianista jazz, nel giorno più felice della sua vita, dopo aver superato un'audizione con il suo idolo, una sassofonista dalla voce roca, al colmo della gioia cade in un tombino e muore. E' vero, le morali finali capovolgono o almeno virano in positivo le situazioni di partenza: in Up il vecchio ormai celibatario Carl trova una nuova ragione di vita nell'amicizia paterna con il giovane Russell; in Inside Out Riley trova nel distacco dal passato la forza per crescere; in Soul Joe trova grazie al rapporto paterno che instaura con l'anima 22 la gioia, il senso e il piacere del vivere; in sé, e cioè indipendentemente dai successi, dalle gratificazioni delle proprie passioni o dal raggiungimento di obiettivi (ma si noti che questo è possibile solo grazie all'improbabile concessione di una seconda chance di vita dopo la morte). Ma in realtà non è neppure questo il problema (anche se il costante ritorno di personaggi celibi segnati da un destino di morte in film destinati – continuo a presumerlo – all'infanzia, non è questione da poco): è che in Soul non c'è avventura, non c'è divertimento, non c'è commozione. Le vicende che si susseguono sono episodi piuttosto statici, dove il brivido della velocità, del rischio, della scoperta – insomma dell'avventura – è singolarmente assente. Anzi, una buona (e a mio parere eccessiva) parte della vicenda è ambientata in un Oltremondo di paesaggi indefiniti ed evanescenti, solcato da galeoni rosa con le vele arcobaleno che sembrano usciti direttamente dal corteo di un gay pride e popolato da silhouette senza carattere (infatti si chiamano tutti allo stesso modo) e da anime potenziali ancor più senza carattere (per statuto) che assomigliano notevolmente alle cellule della nota pubblicità di un'acqua minerale. L'umorismo e la comicità latitano in maniera grave; neppure la temporanea presenza dell'animale buffo, consueta spalla comica nei film di animazione, riesce a portare un po' di buonumore, senza contare che il gatto di Soul è uno dei più brutti felini della storia dell'animazione mainstream, in grado di rivaleggiare perfino con l'antipatico Lucifero di Cenerentola. Stesso discorso per l'emozione e la commozione (strano per un autore che aveva tematizzato le emozioni fino al punto da personificarle in Inside Out), che non scatta mai. L'aprirsi della mano di Joe, che lascia necessariamente andare 22 verso il suo destino e la sua vita futura, dovrebbe essere il climax emotivo, ma non riesce nemmeno a sfiorare la commozione suscitata dalle mani che in Toys 3 si serrano invece per tenersi vicine le persone amate, di fronte ad un incombente e apparentemente ineluttabile pericolo di morte. E in definitiva, Soul manca di personaggi. Il “corpo” e la figura centrali sono quelli di Joe Garner (un adulto nero, frustrato, celibe e morto precocemente), abitati però da due personalità differenti. Intorno al questo perno cosa troviamo? Una cellula senza forma dal carattere riottoso (designata non con un nome ma con un numero), un gattaccio temporaneamente posseduto dall'anima di Joe, qualche ectoplasma (tutti di nome Jerry), qualche personaggio di contorno - che hanno funzioni più di esemplificazione morale che narrative (la rude ma talentuosa sassofonista; la madre prima castrante poi finalmente fiduciosa nelle capacità del figlio; un barbiere incarnazione della possibilità di trovare appagamento pur avendo tradito la propria vocazione), e poco altro. Figure funzionali al messaggio, in un film (per bambini?) che mette al primo posto un percorso spirituale e morale a scapito di quello narrativo. Più che scaturire dalle vicende drammaturgiche, il messaggio ne prende il posto, e questo non mi è mai sembrato sano in un'opera di narrazione. Contrariamente alla loffiaggine della rappresentazione dell'Oltremondo, l'ambientazione urbana è realistica e ben riuscita, ma anch'essa sembra relegata in secondo piano, in scorci veloci. A ritmo di jazz? Ah già, perché c'è anche la musica, con le composizioni di Jon Batiste e gli omaggi ai grandi del jazz frammisti alle atmosfere prevedibilmente new age evocate da Trent Reznor e Atticus Ross per l'Oltremondo. Probabilmente un Oscar alla colonna sonora da mettere nel carniere, oltre a quello come miglior film di animazione. Ma ormai io vi ho detto come la penso. DOV'E' IL MIO CORPO? (J'ai perdu mon corps) di Jérémy ClapinSia il titolo italiano che quello originale assumono come propria la prospettiva della mano, che è una delle protagoniste del film (sarebbe stato un caso di scuola per il mio saggio “Mano e SuperMano”, pubblicato sul n. 143 di SegnoCinema). Per tutta la durata del film una mano cerca di ricongiugersi con il corpo da cui è stata incidentalmente e traumaticamente tranciata. Su un altro piano temporale e narrativo, viene raccontata in parallelo la vita del giovane Naoufel, prima fallimentare fattorino di pizzeria, poi garzone di falagnemeria per amore della nipote del proprietario. Il film di Jérémy Clapin (regista, sceneggiatore, storyboard artist e animatore), pluripremiato in diversi festival, si ispira forse alle sospese storie di giovani narrate dal maestro Makoto Shinkai e alle sue atmosfere visive. Effettivamente Dov'è il mio corpo? vanta delle soluzioni visive molto suggestive, e dà il meglio di sé nei flashback in cui Naoufel ripercorre il suo apprendistato sensoriale, durante un'infanzia felice poi funestata e stravolta dalla morte in un incidente di entrambi gli amati genitori. Vista, tatto e udito si uniscono in un'esplorazione e in un apprendimento del mondo durante un'infantile età dell'oro, che si tramuta poi nella grigia e insoddisfacente quotidianità dell'adolescenza, in cui solo l'incontro fortuito con Gabrielle sembra pote offrire una via d'uscita. Bella anche l'dea del registratore a cassette, con microfono, regalato a Naoufel, che diventa a sua volta dapprima uno strumento per indagare la realtà e per percepire quello cui di solito non prestiamo attenzione, e poi un medium attraverso cui rievocare i tempi e gli affetti del passato. In un film complessivamente di buona riuscita, la parte più debole mi appare proprio quella della storia della mano, i cui segmenti narrativi mi sono sembrati un po' ripetitivi, minati dalla scarsa espressività del membro protagonista (che però sembra dotato di vista e di udito) e dalla limitata gamma di avventure possibili. Poco incisivo mi è parso anche il personaggio di Gabrielle, una protagonista femminile complessivamente poco seducente (sembra più interessante e spiritosa quando è solo una voce in un citofono – una suggestione irresistibile per un audiofilo come Naoufel - e di spessore modesto. Il film è ora disponibile su Netlix. BENVENUTI A MARWEN (Welcome to Marwen) di Robert ZemeckisBenvenuti a Marwen è tratto da una bizzarra storia vera: un uomo, Hogancamp, pestato selvaggiamente durante un'aggressione omofoba, che gli procura anche un'amnesia rispetto al suo passato, si consola inscenando nel giardino di casa un teatrino di bambolotti che ricreano il paese in cui vive e i suoi abitanti e vicende immaginarie della seconda guerra mondiale. Le fotografie scattate al suo mondo kitsch e naïf lo renderanno un'inaspettata celebrità. Zemeckis non solo sceglie questa storia assurda per farne un (secondo, visto che era già stato realizzato sul personaggio e la sua storia il pluripremiato documentario Marwencol – Village of the Dolls, di Jeff Malmberg) film, ma addirittura la fa propria, e sembra proclamare nella sua trasfigurazione cinematografica – parafrasando il Flaubert narratore di Madame Bovary – Hogancamp c'est moi! L'autore non potrebbe essere più esplicito, e nel film abbondano esplicite strizzate d'occhio al proprio cinema, quasi a voler ribadire “Vedete? Sono proprio io!”. Così il camion dei traslochi con cui arriva Nicol reca la scritta “Allied”, che è il titolo del suo film precedente, le teste si girano all'indietro di 180° come in La morte ti fa bella, un'intera sequenza è un dichiarato omaggio a Ritorno al futuro e una delle pupe di Hogancamp è interpretata dalla moglie dello stesso regista. Del resto tutto il film può essere letto come una summa cifrata della cinematografia zemeckesiana, dove possono essere rintracciate molte delle sue ossessioni e delle sue tematiche; un piccolo repertorio, senza pretesa di esaustività, può annoverare: la commistione tra animazione e live action, e più in generale tra diverse dimensioni (fisica e virtuale, dimensioni temporali, ecc.); la riflessione sul corpo con la virtualizzazione dell'attore (o dell'ambiente in cui agisce) e l'uso ormai insistito, di film in film, della motion capture; il gusto del vintage (anche musicale) e l'interesse per l'epoca della seconda guerra mondiale; il solipsismo esistenziale dei suoi personaggi da una parte e la dimensione dell'avventura scanzonata dall'altra; il tempo, ça va sans dire; senza dire della dimensione del volo e degli aerei che puntualmente precipitano dal cielo nei suoi film. E' un autocitazionismo talmente pervasivo e insistito che sarebbe praticamente impossibile leggerlo come un mero vezzo autocelebrativo, soprattutto tenendo conto del contenuto della fabula al centro del film. Hogancamp è dunque leggibile come una metafora dell'autore-regista, i suoi set kitsch e infantili citano quelli più ambiziosi del cinema, le strampalate avventure che fa vivere ai suoi personaggi sono l'equivalente del racconto cinematografico, dove le regole dell'accadere non dipendono dalla casualità o dalla causalità fattuale, ma dall'estro e dalla fantasia, dai desideri e dalle paure, dalle fobie o dai capricci di chi scrive e dirige il film, del demiurgo-creatore che dà forma, sostanza iconografica e narrativa alle proprie fantasie, senza obbligo alcuno di realismo o di plausibilità. L'opera (in questo caso cinematografica) diventa quindi una forma di elaborazione della sofferenza personale e del lutto, un espediente terapeutico per sedare e tenere sotto controllo il male di vivere, un tentativo di affermare il principio del piacere contro quello della realtà. Il mondo di Hohancamp è un mondo dove alla fine tutto finisce bene malgrado le difficoltà, le disavventure e le sofferenze, dove tutto è replicabile all'infinito, tutto è rimediabile, dove anche i morti possono risorgere e dove il male è una presenza insopprimibile ma tutto sommato oppugnabile e controllabile. Zemeckis spinge la sua identificazione con Hogancamp fino a condividerne le passioni feticistiche: se il secondo ha armadi pieni di scarpe femminili (il suo eroico personaggio le indossa nella finzione dentro la finzione anche durante le più spericolate azioni belliche), per Zemeckis gli oggetti simulacri di piacere non potranno che essere, a loro volta, pezzi di cinema. Se il feticcio è un oggetto erotico che rappresenta l'intero con una delle sue parti, Zemeckis infila in una sola sequenza almeno tre citazioni del cinema di Hitchcok (già fonte d'ispirazione de Le verità nascoste), e in particolare dell'Hitchcok più morboso, fobico, malato: la lotta sul campanile del finale di Vertigo, la caduta sulle lance dell'inferriata nella scena primaria di Io ti salverò, l'eroe appeso e poi in caduta libera come nel prologo de La finestra sul cortile. Ma se dal punto di vista metacinematografico Benvenuti a Marwen è quindi un film originale, personale, sentito, quasi al limite dell'impudica autobiografia immaginaria, non altrettanto intrigante e riuscita è la realizzazione dal punto di vista filmico. Il film è lungo, prolisso, goffo (a volte i personaggi sembrano più imbambolati dei loro avatar virtuali, ma questo potrebbe essere voluto e coerente con la morale del film), appesantito dalla moltiplicazione di invadenti sottotrame sentimentali (che attutiscono la stravaganza e la natura queer del personaggio, inquadrandolo in una più rassicurante per quanto distorta prospettiva eterosessuale) e dalla reiterazione un po' stucchevole degli episodi action che vedono protagonisti i bambolotti. Forse sarebbe bastato un cortometraggio per dire tutto, o forse Zemeckis avrebbe potuto raccontare tutto al suo psicanalista. In definitiva, il suo piacere nel fare il film appare di molto superiore al nostro nel guardarlo. 5 CM AL SECONDO (Byosoku go senchimetoru) di Makoto ShinkaiIl tempo insieme dei giovanissimi Takaki e Akari, confinato nelle prime suggestive ed ellittiche del film, al tempo dei ciliegi in fiore, quando i petali si distaccano dai rami degli alberi e cadono lentamente come fiocchi di neve. Quindi è subito il tempo del distacco. Akari segue la famiglia in una città lontana, e la distanza e il tempo separano i due. Tempo e distanza attraversati solo dalle lettere che si scambiano, a tenere desta nella vita che continua nonostante tutto la nostalgia e il desiderio di rivedersi. Trascorrono le stagioni, finché Takaki riesce a programmare un viaggio per andare a trovare l'amata compagna. Ma, ancora una volta, lo spazio e il tempo congiurano contro il loro amore. Una nevicata eccezionale rallenta le linee ferroviarie, mette in forse le coincidenze, rischia di vanificare l'appuntamento fissato. Tempo e distanze implodono, si dilatano a dismisura. Tra tabelloni ferroviari e sguardi angosciati all'orologio, il montaggio e le inquadrature alternano i campi lunghi, con il lento inesorabile cadere dei fiocchi di neve, e i dettagli prosaici e allucinati delle stazioni e dei treni, dove Takaki è una presenza immobile e impotente, sempre più afflitta e rassegnata. Quello di Takaki e Akari è un incontro nato sotto il segno dello scacco, dove, se un incontro ci sarà, sembra già il preludio di un nuovo distacco. Il capitolo dei fiori di ciliegio è solo il primo dei tre segmenti di cui si compone 5 cm al secondo, forse il più bello e intenso, in cui è già pienamente dispiegata la poetica di Makoto Shinkai, oggi probabilmente il nome di punta dell'animazione giapponese, indicato come l'erede di Hayao Miyazaki, qui al suo secondo lungometraggio, girato nel 2008 ma solo in questi giorni distribuito su grande schermo in Italia, accompagnato dal cortissimo Cross Road del 2014. D'altra parte, tutto era già racchiuso nel titolo, apparentemente arido come una formula matematica. 5 cm al secondo è la velocità con cui discendono verso il suolo i petali di ciliegio, e nel titolo c'è già tutto: il tema del tempo e della distanza, la poesia ma soprattutto la caducità delle cose terrene. La bellezza, la poesia, l'amore: anche tutte le cose più belle che la vita ci possa offrire sono destinate a sfiorire, a cadere e a consumarsi. Siamo immersi nell'ukiyo-e, nel mondo fluttuante che gli artisti giapponesi da secoli cercano di fissare precariamente sulla carta (Un artista del mondo effimero si intitola un romanzo del premio Nobel Kazuo Ishiguro): all'uomo non resta che cercare di godere dei momenti di effimera felicità che gli possono essere concessi, nella consapevolezza dolorosa e struggente della precarietà degli affetti e delle cose, dell'impermanenza del nostro essere nel mondo (i latini e i pittori europei la chiamavano vanitas). Nel secondo capitolo (qualcuno erroneamente parla di “episodi”, ma i vari segmenti sono collegati dagli stessi protagonisti e da una sia pur ellittica continuità narrativa), Cosmonauta, ritroviamo Takaki, ancora solo. La giovane Kanae, non più bambina e non ancora donna, è perdutamente, dolorosamente innamorata di lui, ma non osa parlargli del proprio amore. Mentre i razzi partono per il cielo, Kanae si rende conto che il gentile Takaki è sideralmente lontano da lei e dai suoi sentimenti, perduto a sua volta in un rimpianto insanabile. Nel secondo capitolo la passione di Shinkai per i cieli fantasmagorici esplode, complice anche la sua propensione per i temi fantascientifici, qui appena allusi dal titolo metaforico del capitolo e dalla scena della partenza del razzo. Quello che mi stupisce sempre nell'animazione giapponese contemporanea tuttavia è l'enorme sproporzione tra la resa dei paesaggi, delle ambientazioni (con un raffinatissimo uso del "fuori fuoco"), della resa dei materiali, delle luci (vera punta di eccellenza dell'animazione nipponica), e lo stile invariabilmente naïf della resa della figura umana, con la rappresentazione stereotipata e piuttosto piatta dei personaggi. 5 cm al secondo non fa eccezione alla regola; i personaggi sono le solite figurette interscambiabili con i grandi occhioni e i nasi appuntiti, mentre paesaggi e cieli sono un tripudio di bellezza, di splendore e di poesia visiva. Resta da dire del terzo capitolo, che porta lo stesso titolo del film e che conduce rapidamente alla conclusione, utilizzando in un montaggio serratissimo diverse inquadrature dei segmenti precedenti. Takaki è ora un giovane adulto; l'amore per Akari appartiene forse al passato, eppure una donna intravista a un passaggio a livello ha ancora il potere di fargli battere il cuore. L'episodio conclusivo è forse il meno compiuto e convincente. Si esce un po' insoddisfatti, con la voglia di vedere di più, di prolungare un po' i 63 minuti di durata della narrazione. Ma bisognerà “accontentarsi” dei successivi film di Shinkai. 29a edizione del FESTIVAL DEL CINEMA AFRICANO, D'ASIA E AMERICA LATINA. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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