ELEGIA AMERICANA (Hillbilly Elegy) di Ron HowardE' difficile capire il livore delle stroncature che negli Stati Uniti si sono accanite contro Elegia americana. Stroncature già entrate nella leggenda, che lo definiscono "ridicolmente orrendo", "terribile", "uno dei film più vergognosi dell'anno", il “peggior film di Ron Howard” e così via: tutte definizioni che vedrebbero ben altri titoli più degni di candidatura. (...) Certo, chi preferisce l'Howard più effettistico qui non troverà pane per i suoi denti: niente ricerche del Santo Graal, niente astronauti, niente mostri verdi che rubano il Natale (quest'anno ci pensa già il Coronavirus); per citare un suo titolo d'epoca, qui siamo piuttosto dalle parti di parenti, amici e tanti guai, della parenthood. Siamo cioè nel mondo dell'ordinary people, della gente normale, con i piccoli e grandi problemi della vita reale. La recensione completa di ELEGIA AMERICANA è sul numero 227 di SegnoCinema in uscita a gennaio.
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HIS HOUSE di Remi WeekesSe a volte il film di genere allude a problematiche contemporanee in modo allusivo o metaforico (ad esempio, per restare sul tema, il fantascientifico District 9 sul tema dell'immigrazione o l'horror Get Out su quello del razzismo), His House, ospitato da Netflix, è estremamente esplicito. La cosa che più mi è sembrata interessante nel film è proprio la sua dimensione realistica da social docu-drama, il suo aggancio dichiarato e puntuale con l'attualità più bruciante. Rial e Bol sono una coppia di immigrati provenienti da un Paese africano in guerra (presumibilmente il Sudan, ma nel film non è esplicitato), che chiedono asilo nel Regno Unito. La loro richiesta viene accolta e viene loro assegnato un appartamento in una periferia inglese senza nome (“Siamo a Londra?” chiede lui al barbiere che gli risponde “Londra? Magari!”) e un appannaggio economico per il loro mantenimento. I servizi per l'immigrazione controlleranno sul loro comportamento e sulla loro capacità di integrarsi. La descrizione di questa situazione è realistica e precisa, delineata appunto con uno stile quasi documentaristico, da dramma sociale. L'appartamento grande ma squallido e disadorno, la spazzatura accumulata dai vicini davanti alla porta di casa, l'illuminazione che funziona ad intermittenza; e all'esterno un paesaggio grigio e sconosciuto, alieno, dove ad essere irridenti e poco solidali sono anche persone che hanno il loro stesso colore della pelle. Ma alle “normali” difficoltà di adattamento e di integrazione di chi si trova catapultato dall'altra parte del mondo, portando con sé ben poco del proprio, in un ambiente estraneo dove la lingua e le abitudini di vita non suonano famigliari, si aggiunge ben presto altro. Tra le poche cose che Rial è riuscita a tenere con sé dal viaggio alla ricerca della salvezza c'è una bambolina, con un filo di perline ad ornarle la gonna che per lei diventa una collanina. Perché, scopriamo presto, sull'imbarcazione che li ha portati in Europa attraverso un mare tempestoso c'era anche una bambina. Che adesso non c'è più. C'è un terribile lutto da elaborare, e questo lutto sembra animare l'appartamento di rumori, ombre, fantasmi, apparizioni spaventose. Sia Bol che Rial sono perseguitati da visioni terrificanti e minacciose. Qualcuno li ha seguiti dall'Africa o dall'oceano che ha inghiottito la bambina, e ora li perseguita. Lo stilema della casa infestata viene rinnovato da His House con due determinanti novità: l'abitazione stavolta non è un castello gotico, un'antica magione, o una capanna in un bosco, bensì un anonimo appartamento della periferia britannica; e i perseguitati non sono dei nobili decadenti o il solito gruppo di giovani o adolescenti, bensì una matura coppia di origine di colore, per cui anche l'immaginario spaventoso che li tormenta nella nuova abitazione esce dai miti e dalla religiosità (o piuttosto dalla demonologia) africani. La donna si abbandona senza riserve alla credenza nelle apparizioni, l'uomo resiste, lotta, brucia tutti i loro pochi effetti personali; sfonda i muri dove si nascondono i fantasmi e li rattoppa; chiede aiuto ai servizi sociali che evidentemente non possono aiutarlo a sconfiggere o dissipare i suoi fantasmi. La narrazione si sdoppia e si scinde: ad un presente in cui alla realtà corrisponde una dimensione terrificante e onirica, si contrappone un racconto in flashback, che racconta della fuga dal Paese devastato dalla guerra, la forza della disperazione, la traversata fatale, ma che ha anch'esso un corrispettivo onirico e minaccioso. Nel momento in cui presente e passato si fondono, in cui realtà e allucinazione diventano un'unica dimensione, emerge una verità ancora più lacerante e dolorosa del lutto che affligge i protagonisti, che a che fare con il prezzo che si è disposti a pagare per la propria sopravvivenza, e il senso di colpa devastante che deriva dall'aver accettato di pagarlo. Con pochi ambienti e pochi personaggi (ben interpretati) il promettente Remi Weekes, al suo primo lungometraggio dopo alcuni corti di allenamento allo spavento (Tickle Monster si può vedere su Vimeo), costruisce un ottimo racconto di tensione, spaventoso ma senza gore, vivificato da un immaginario originale e sostanziato, come si diceva all'inizio, da un efficace radicamento nella realtà. Ma se il genere serve ad affrontare tematiche e problematiche attuali e assai scottanti, si ha volte qui l'impressione che al contrario le tematiche siano usate strumentalmente al servizio del genere. Se i protagonisti hanno una consistenza un po' naïf (si trovano a disagio a mangiare seduti al tavolo usando le posate, sono degli animisti che cedono senza troppe remore alla credenza in forze soprannaturali), vedere i migranti cadere in acqua e affogare, come purtroppo accade quasi quotidianamente nella realtà talvolta documentata dai soccorritori, “solo” per costruire una trama horror, un po' di disagio lo procura. LA REGINA DEGLI SCACCHI (The Queen's Gambit, miniserie) di Scott FrankLa regina degli scacchi (miniserie Netflix in sette puntate da un'ora circa ciascuna) deve parte del suo successo ad una mossa vincente, appunto il queen's gambit del titolo originale. E' infatti un gioco al femminile; non credo che l'esito sarebbe stato lo stesso se la serie (e il romanzo di Walter Tevis da cui è tratto) avesse avuto al centro un bambino e poi un ragazzo con la passione e il talento per gli scacchi. La scelta di una protagonista femminile (immaginaria, forse vagamente ispirata alla personalità di Bobby Fischer) permette infatti di declinare in modo assai più ricco e sfaccettato la storia di emancipazione che ne è al centro (un po' come accadeva ne Il diritto di contare, storia di emancipazione femminil-razzial-intellettual-professionale negli Usa della corsa allo spazio). La storia di Beth, ambientata a cavallo tra gli anni '50 e '60, è innanzitutto una storia di emancipazione individuale ed esistenziale, che allude e riflette comunque l'evoluzione progressista e libertaria della società a lei contemporanea. All'inizio della storia Beth è una bambina orfana ricoverata in un istituto; scopriremo poi che il padre l'ha rifiutata in quanto frutto di una relazione adulterina, che lei viveva in una roulotte con la madre, e che quest'ultima si è suicidata provocando un incidente stradale nel quale avrebbe dovuto trovare la morte anche la bimba. Alla fine è una giovane donna realizzata e di successo, che ha conquistato agiatezza economica, fama e ammirazione universale. La sua evoluzione è resa visibile: quando ritroviamo Beth adolescente, conserva ancora aspetti della Beth bambina, con i capelli tagliati corti, la frangetta ai minimi termini che le lascia nuda la fronte, la divisa dimessa dell'orfanotrofio sostituita da abiti ancora monacali dal taglio castigato e dai colori spenti, ma il maturare e il consolidarsi della sua personalità si manifesta nella scelta di abiti sempre più originali e raffinati e in acconciature sempre più curate ed elaborate. La trasformazione del visibile, abilmente mostrata attraverso l'evoluzione del look e degli outfits, è il segnale di trasformazioni più profonde. Benché a lungo dipendente prima di psicofarmaci – scoperti in orfanotrofio, dove venivano somministrate alle ospiti per tenerle tranquille – e poi dell'alcol, Beth afferma la sua faticosa emancipazione anche in campo sentimentale e intellettuale. Orfana non solo dei genitori ma anche degli affetti (il suo mentore scacchistico è un custode scorbutico, taciturno e misantropo, la sua madre adottiva stenta a trovare il suo ruolo materno, mentre il padre adottivo rifiuta puramente e semplicemente la paternità come anche lo stato maritale), Beth appare attratta precocemente dalle manifestazioni di affettività e di erotismo che si trova più a volte a spiare, ma non finisce prigioniera delle possibilità di relazione che le si offrono, proseguendo in un'esplorazione inconclusa dei propri sentimenti e delle esperienze amorose (con un'incursione anche in territorio omosessuale). Il cerchio si chiude comunque nel finale, quando la donna che fin da bambina non ha più una casa propria (la casa paterna negata, la roulotte, l'orfanotrofio, la “casa d'altri” dei genitori adottivi, l'ospitalità inospitale di Bennie, le camere d'albergo...) acquista l'appartamento d'adozione, ritrova l'amica-complice dell'infanzia, riscopre l'affetto taciuto di Shaibel (forse l'unico suo vero padre putativo), scopre intorno a sé l'affetto e l'amicizia dei ragazzi che ciascuno a proprio modo le hanno voluto bene. Nello stesso tempo Beth sceglie l'indipendenza intellettuale rifiutando le pressioni degli sponsor bigotti o del governo statunitense, che vorrebbero usare la sua immagine e la sua fama crescente in chiave propagandistica contro l'Unione Sovietica atea e socialista. C'è un'altra forma ancora di emancipazione che manca al catalogo, quella razziale (negli anni in cui si svolge la vicenda in molti Stati Usa erano ancora in vigore legislazioni segregazioniste) e Scott Frank lo affronta lateralmente attraverso il ritorno nell'ultima puntata di Jolene, compagna di reclusione di Beth, che si è evoluta da ragazzina orfana afroamericana che nessuno vuole adottare a giovane donna futura avvocato e attivista dei diritti civili. A restare forse più sfumata, è la forma di emancipazione più ovvia, quella relativa a una donna che si fa strada e conquista le posizioni più elevate e prestigiose in un mondo e in un ambito di totale dominio maschile. Benché Beth incontri una sola avversaria donna, in uno dei primi tornei per dilettanti cui partecipa, l'atteggiamento dei suoi avversari – e spesso campioni – maschi non dà mai veramente segni di aperto maschilismo, di sciovinismo o di paternalismo. Beth nella sua ascesa sembra suscitare molto più stupore che ostilità. Il sostegno dei suoi (battuti) ex-avversari e l'abbraccio finale dell'impassibile Bergov sono anche in questo caso la chiusura di un cerchio che ha cominciato a disegnarsi in uno scantinato dell'orfanotrofio con uno scorbutico e laconico custode al di là della scacchiera: un segno definitivo di riconoscimento e di accettazione. Alla felice riuscita dell'operazione - che si basa in effetti su un gioco del tutto sedentario e antispettacolare come gli scacchi e su uno sviluppo narrativo lineare e prevedibile che accompagna la scalata al successo di Beth – contribuisce certamente la scelta di cast che ha assegnato a Anya Taylor-Joy la parte della protagonista, centro assoluto della narrazione. Con il suo visino affilato, i capelli rossi, gli occhioni grandi e magnetici, la bocca piccola a cuore, il fisico minuto, la Taylor-Joy è praticamente perfetta nell'incarnare un'eroina scostante ma bisognosa di amore e di riconoscimento, fredda eppure vulnerabile, ferreamente determinata eppure piena di incertezze, posseduta da un'astratta ossessione ma nello stesso tempo turbata dalla seduzioni del mondo. Se poco azzeccata mi è sembrata la trovata delle visioni di Beth, che vede disegnarsi sul soffitto delle sue stanze la scacchiera su cui si muovono a testa in giù come strane stalattiti i pezzi degli scacchi, e sono forse un po' deboli i flashback che forniscono le informazioni sulla vita di Beth con la madre, prima del ricovero in orfanotrofio, tutta la macchina della produzione è perfettamente oliata; d'altra parte, La regina degli scacchi, ha la compattezza e la coerenza di un progetto squisitamente d'autore, visto che Scott Frank (che ha scritto film celebri celebri come Out of Sight e Minority Report, e che aveva già raccontato la storia di un bambino prodigio ne Il mio piccolo genio), insieme ad Allan Scott e alcuni altri, ha ideato, sceneggiato, prodotto e diretto il film. Molto ben riuscita è la ricostruzione d'epoca, con accattivanti scenografie vintage (firmate da Uli Hanisch) piene di tappezzerie fiorite e con credibilissimi e suggestivi campi da gioco scacchistici, fantastici costumi (creati e scelti da Gabriele Binder, “visitabili” nella mostra virtuale proposta dal Brooklyn Museum) e location molto ben scelte - considerando che quasi tutte le riprese, sia che la storia fosse ambientata nel Kentucky piuttosto che a Las Vegas, a Parigi piuttosto che a Mosca, sono state effettuate a Berlino (o nell'Ontario). Ottima e brillante anche la scaletta della colonna sonora, in cui alle composizioni originali di Carlos Rafael Rivera si aggiungono, a rievocare l'epoca, evitando stereotipi e luoghi comuni, brani evocativi tra jazz e il pop nascente. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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