COSA SARA' di Francesco BruniHo visto Cosa sarà al Cinema Rondinella di Sesto San Giovanni, l'ultimo giorno di apertura prima del nuovo lockdown di ottobre. E devo dire che c'è una scena del film che mi ha lasciato basito. Il destino del film, d'altra parte, sembra legato all'altalena della pandemia in atto. Girato nelle ultime settimane del 2019, doveva uscire il 19 marzo (Festa del Papà) del 2020, con il titolo Andrà tutto bene. Non andò tutto bene e l'uscita fu rinviata a causa dello scoppio della pandemia; e il titolo del film diventò casualmente lo slogan scaramantico del lockdown primaverile. Uscito il 24 ottobre, con un titolo già meno ottimistico, è rimasto nei cinema per soli due giorni, prima della nuova chiusura delle sale. E d'altra parte il film di malattia parla. Francesco Bruni, che ha scritto e diretto il film (con un contributo di Kim Rossi Stuart in fase di sceneggiatura), vi racconta la propria autobiografica esperienza di incontro e scontro con una malattia potenzialmente fatale, e il film è dedicato a Mattia Torre, sceneggiatore e regista, autore del cult Boris ma anche de La linea verticale - a sua volta un racconto autobiografico e ospedaliero - che nella lotta contro la malattia ha avuto la peggio ed è scomparso l'anno scorso all'età di 47 anni. La scena cui accennavo, quindi. Il protagonista, Bruno Salvati (un nome e cognome che sono un'allusione al suo autore e al suo destino), è un regista cinematografico. Dopo che gli viene diagnosticata una mielodisplasia, viene ricoverato in ospedale per un ciclo di chemioterapia, in vista di un trapianto di midollo spinale. Il medico che lo ha in cura lo informa che in ospedale c'è una sala-cinema e gli propone di proiettare un suo film e di presentarlo. Arriva il giorno, e Bruno si presenta davanti allo schermo già provato dalla malattia e dalla terapia, in camice verde, mascherina, cappellino verde sulla testa rasata. Sdrammatizza, dicendo di essere la metafora del cinema italiano - eternamente e proverbialmente non in buona salute. Dice di non sentirsi molto bene, ma che altri suoi colleghi sono messi peggio di lui. E' una battuta, ma non fa ridere; la camera fa un controcampo sulla platea che assiste impassibile: una prima fila con gli allettati, quelli in sedia a rotelle, quelli con le flebo. Dietro, sulle gradinate dell'auditorium, gli altri degenti invitati alla proiezione, malati, la mascherina sul volto. Mi sono guardato dietro e intorno nel cinema, verso gli sparsi spettatori silenziosi, con la mascherina a coprire il volto, e mi si sono rizzati i capelli in testa. Lo schermo era come uno specchio e noi c'eravamo dentro; eravamo noi, siamo noi, potenzialmente malati, che stiamo assistendo (forse) all'ultimo spettacolo dell'ultimo film su grande schermo, senza sapere se - noi e il grande schermo - sopravviveremo e se avremo ancora possibilità di incontrarci in futuro. Il Covid-19 minaccia le nostre vite e minaccia la sopravvivenza del cinema. Cosa sarà? Andrà tutto bene? Ne usciremo migliori? A quest'ultima domanda, viste le cronache degli ultimi giorni, è ovvio rispondere di no, ma queste sono in fondo tutte le stesse domande che si pone il protagonista del film, autore di commedie che non fanno ridere, ma che magari fanno commuovere, uomo adulto che si porta dentro le fragilità di un'infanzia mai risolta, marito in crisi, padre insicuro, con tanta tanta paura di morire. Eppure Cosa sarà racconta la storia di un malato privilegiato, con una professione difficile ma bella, una moglie separata ma amica, una famiglia tutto sommato unita, affettuosa, solidale, con un padre fedifrago ma che non manca nel momento del bisogno; ricoverato in una clinica lussuosa, assistito da un ottimo medico (un anti-Caronte che che ogni anno organizza una gita sull'acqua imbarcando tutte le vite che ha salvato) e da un infermiere premuroso, e che può beneficiare di una donazione di midollo davvero insperata e inaspettata. Molto molto più fortunato, quindi, di tanti malati che hanno conosciuto la sofferenza e a volte anche la morte in questo 2020 sciagurato. Bruni (pluripremiato sceneggiatore di praticamente tutto Virzì e di Calopresti, già autore di film in cui è forte il tema del confronto intergenerazionale (Scialla!, Noi 4, Tutto quello che vuoi), impagina il racconto mescolando andamento cronachistico (diaristico quasi, nella parte ospedaliera), flashback (che arrivano a rievocare anche traumi e ricordi dell'infanzia del protagonista ) e scene oniriche; oscillando tra le cupe ambientazioni ospedaliere e quelle più ariose da commedia famigliare, ma con un'importantissima divagazione picaresca in una trasferta livornese; e alternando i toni lividi del racconto della malattia e della cura a quelli lievi e ironici, senza mai cedere alla disperazione e mantenendo sempre viva la fiamma della speranza. Al centro di questa tragedia di un uomo ridicolo, cui non si può non voler bene, malgrado difetti e debolezze quali tutti ne abbiamo, c'è Kim Rossi Stuart, a volte a rischio di overacting, ma coraggioso nel mostrarsi con la testa depilata e sofferente, e comunque credibile ed efficace in mezzo ad un cast che lo è altrettanto, in cui spiccano la Fiorella di Barbara Ronchi e la figlia Adele di Fotinì Peluso e in cui trova posto nel decisivo ruolo della dottoressa la consorte di Bruni, Raffaella Lebboroni, immancabile nei suoi film. E dopo, cosa sarà? Nessuno può saperlo; speriamo di ritrovarci un giorno, passata questa sporca bufera, sulla nave dei salvati, navigando verso il mare aperto, più consapevoli delle nostre fragilità e della nostra caducità, ma anche dell'importanza dei nostri affetti. E di ritrovarci tutti, un giorno, a viso aperto, a guardare di nuovo un grande schermo e una nuova storia.
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ROUBAIX, UNA LUCE NEL BUIO (Roubaix, une lumière) di Arnaud DesplechinRoubaix, une lumière parte in un modo e evolve in un altro, in un certo senso è un film doppio. Nella prima parte sembra descrivere la vita di un commissariato francese nella città di Roubaix (capolinea della storica gara ciclistica Parigi; città natale del regista e suo set prediletto; e oggi città degradata da attivissimo centro industriale a periferia povera, con problemi di immigrazione e di droga): una macchina incendiata lungo la strada, una violenta lite famigliare, un uomo che denuncia un'aggressione, un incendio in un caseggiato degradato, una minorenne scappata di casa, uno stupratore seriale. Tra ragazze sbandate, piccoli delinquenti, ragazzine in lacrime e genitori in ambasce prendono corpo due figure protagoniste: il commissario Zaoud, di origine algerina ma cresciuto umanamente e professionalmente a Roubaix, grande conoscitore del territorio e dei suoi abitanti, poliziotto dall'istinto sopraffino ma uomo chiuso e solitario, e Louis, l'ultimo arrivato nel commissariato, un giovane altrettanto solitario, tormentato spiritualmente, cui appartiene la voce narrante che ci descrive sia il contesto problematico della città che i propri rovelli interiori. L'andamento mosso e corale ricorda altri esempi di polar francesi, se non il più sanguigno 36 Quai des Orfevres almeno opere come Polisse, che descriveva la vita quotidiana dell'unità di polizia per la protezione dell'infanzia. Ma la forte impronta sociologica e descrittiva della prima parte del film si perde nella seconda parte, dopo la scoperta del cadavere di un'anziana donna, uccisa proprio nello stabile cui era stato dato fuoco. L'attenzione dei poliziotti e del film si concentra a questo punto sul caso di omicidio e su due giovani donne, una delle quali madre di un bambino dato in affido, forse amanti, già testimoni nel caso dell'incendio, e ora sospettate di assassinio. Le storie di contorno impostate nella prima ora di film sfumano e scompaiono, come scompare anche la voce di Louis, guida nei gironi di questo dimesso inferno quotidiano. Il riflettore della storia si concentra sempre più sulle indagini di Zaoud e di Louis, che, spesso separatamente l'uno dall'altro e spalleggiati dai colleghi, interrogano le due donne, sempre più tormentate e in difficoltà nel dimostrare la propria innocenza e nello spartirsi le responsabilità di un gesto criminale compiuto senza apparente ragione. Il dramma sociale assume quindi le cadenze di un dramma esistenziale, nella ricerca delle radici del male all'interno dell'essere umano, o metafisico, nella sua ricerca di una verità etica e fattuale insieme, come nella scena in cui l'assassinio viene ricostruito sulla scena del crimine, con la riproduzione minuziosa di ogni atto, di ogni gesto, di ogni parola compiuto o pronunciata. Zaoud procede dolce e implacabile, spingendo la sua dostoevskiana ricerca della verità sempre più a fondo, cercando di immedesimarsi con le storie delle colpevoli e nello stesso tempo evitando di giudicarle; Louis discende sconvolto negli abissi dell'animo umano, affrontando il suo primo caso di omicidio. Alla fine, risolto il caso e rapidamente riannodati alcuni dei fili lasciati in sospeso, i due uomini solitari si riconosceranno e si troveranno più vicini grazie alla comune esperienza del male. Nella seconda parte del film siamo quindi dalle parti del poliziesco claustrofobico e concentrazionario di Guardato a vista, il film di Claude Miller dell'81 (poi rifatto a Hollywood), anche se il regista dichiara esplicitamente di essersi ispirato a Il ladro di Hitchcock. Ma con una grossa differenza; mentre quest'ultimo faceva identificare lo spettatore con un innocente ingiustamente accusato, Desplechin si cala a tal punto - di proposito - nella residua umanità delle colpevoli, da generare addirittura qualche dubbio morale sul suo modo di procedere, vista la completa disattenzione riservata invece alla vittima, che nessuno reclama e di cui nulla viene raccontato. Roubaix e i suoi interni disadorni sono ripresi con una fotografia da polar, sporca e desaturata (firmata da Irina Lubtchansky), e un contributo decisivo alle atmosfere drammatiche del film viene fornito dalle musiche di Grégoire Hetzel. Per la riuscita del film poi sono decisive le prove attoriali: se Roschdy Zem domina sia la prima che la seconda parte del film con la sua presenza magnetica, emergono via via alla luce le due protagoniste femminili, indagate non solo dagli inquirenti ma anche dalla cinepresa, che ne scruta a distanza ravvicinatissima i volti e le minime espressioni. Sara Forestier trasforma la sua assassina in un uccellino spaurito e incredulo, mentre la “dura” Léa Seydoux si conferma ancora una volta, in un ruolo congeniale. come un'attrice sensibile e di grande intensità. NOMAD: IN CAMMINO CON BRUCE CHATWIN (Nomad: In the Footsteps of Bruce Chatwin) di Werner HerzogIn Nomad si incontrano (non per la prima e non per l'unica volta) due delle personalità intellettuali più eccentriche che abbiano percorso le strade del mondo negli ultimi decenni (e protagonisti di molte mie letture e visioni). Un inglese dall'aria da ragazzo che prima lavora nelle case d'asta, poi percorre le desolate strade della Patagonia zaino in spalla, indaga il mistero iniziatico dei canti aborigeni in Australia, un affabulatore affascinante e magnetico, un seduttore polisessuale, morto giovane come una pop star; e un tedesco ammaliato dal mondo e dal cinema, capace di girare film con gli attori sotto ipnosi, di scavalcare una montagna con un battello, di comporre un film di fantascienza girato in gran parte sotto i ghiacci con la colonna sonora dei Tenore di Orosei, e di fare gare con Klaus Kinski a chi era più fuori di testa... La recensione completa di NOMAD si può trovare sul numero 227 di SegnoCinema, in uscita a gennaio. LACCI di Daniele LuchettiSi intitola Lacci, come il libro di Domenico Starnone da cui è tratto (e i lacci ci sono, quelli veri delle scarpe da annodare – in un modo originale che sembra uno dei pochi lasciti “positivi” che il protagonista lascia ai figli – e quelli metaforici, che annodano inestricabili la coppia dei protagonisti, impedendogli di liberarsi e di non sprofondare nell'abisso di scontentezza di un rapporto deteriorato); ma potrebbe a buona ragione intitolarsi Ferite. E' una ferita quella che si apre all'inizio del film, dopo una festa di Carnevale, con la confessione del marito alla moglie di un relazione extraconiugale; ed è – scopriremo – una di quelle ferite che non cicatrizzano mai, che continuano a rimanere aperte e a spurgare per sempre. Ha una strana e complessa struttura, Lacci. Il film si svolge su due piani temporali. Al centro del primo c'è una coppia (Lo Cascio-Rohrwacher) in crisi, a causa del tradimento di lui, con accanto i due figli piccoli. Ad un certo punto della narrazione, ci si sposta all'improvviso su un secondo piano temporale, molti anni dopo, con la stessa coppia (stavolta Orlando-Morante) ancora insieme, ma ancora percorsa dalla crepa aperta quella sera in cui lui ha confessato la propria infedeltà. Lo sviluppo tuttavia non è cronologico, poiché dal secondo piano si torna spesso al primo, non solo per mostrarne i successivi sviluppi, ma a volte per tornare sulle stesse situazioni già viste e per mostrarle da un'altra angolazione e da un altro punto di vista. Non solo; al “termine” del secondo segmento, con una nuova cesura, se ne aggiunge un terzo, che lo precede di poco in termini temporali, ma la cui coppia di protagonisti è stavolta cambiata, vedendo in scena solo due personaggi, i figli della coppia ormai adulti (Giannini e un'irriconoscibile Mezzogiorno). C'è una ragion d'essere in questa complessità drammaturgica: se i primi due segmenti mostrano infatti gli effetti (letteralmente) devastanti della frattura tra i due protagonisti in termini “verticali”, ossia nel corso del tempo, il terzo ne mostra i disastrosi influssi in termini “orizzontali”, estendendone le conseguenze su altri personaggi, come se i cerchi del sasso gettato della crisi si allargassero nell'acqua. Quello a cui assistiamo è una sorta di carnage coniugale e poi familiare, un gioco al massacro tutto interno alla cerchia famigliare a cui nessuno riesce a sfuggire nemmeno potendolo fare. Un naufragio di cui entrambi i membri della coppia sono consapevoli e in qualche misura colpevoli, l'uomo con il proprio tradimento prima, poi con la propria irresolutezza, la debolezza che lo spinge in fondo a lasciare che siano “le cose che capitano”, o ancor più le altre (la moglie, l'amante, e poi ancora la moglie) a decidere del suo destino, senza mai veramente scegliere tra l'allettamento del desiderio e il dovere della fedeltà famigliare; la donna con la propria intransigenza prima, con un'isteria incontrollata che la porta fin sull'orlo del suicidio, poi con la sete di vendetta e di rivalsa con cui nutre un rapporto sfibrato e sadomasochista, lesionista e autolesionista. E' difficile soffrire in modo simpatico, afferma ad un certo punto il protagonista del film, e il film parla di sofferenza ed è quindi “antipatico”, claustrofobico, con la macchina da presa spesso a ridosso delle facce dei personaggi, a distillarne gli umori cupi, la rabbia, la disillusione, la recriminazione, l'acuta disperazione, il sordo rancore. Il pubblico esce perplesso, portato da una parte a ritenere “eccessiva” la vicenda narrata e gli esiti di una storia apparentemente ordinaria, e nello stesso tempo turbato dalla spaventosa verosimiglianza di una vicenda che - per l'appunto - non ha nulla di “eccezionale”. I personaggi scelgono di soffrire anziché di non soffrire, eppure ci si rende conto che in ciò non c'è nulla di strano o di insolito, che potremmo raccontare delle storie simili di persone che conosciamo, o che forse tutti l'abbiamo fatto qualche volta nella nostra esistenza. Nell'andamento altalenante della filmografia di Luchetti, direi che Lacci si situa in una zona mediana, ma tendente ai risultati migliori; e contro le aspettative non disturba più di tanto l'avvicendarsi nello stesso ruolo di due coppie di attori così famosi e così differenti. UN DIVANO A TUNISI (Un divan a Tunis) di Manele Labidi LabbéSelma, interpretata dalla franco-iraniana Golshifteh Farahani, con la sua bellezza particolare e esotica, a suo agio tanto nei blockbuster americani alla Pirati dei Caraibi che nelle produzioni indipendenti alla Jarmusch, tanto nel cinema iraniano che in quello hollywoodiano che in qullo europeo, è una psicoanalista di origini tunisine. Dopo aver passato anni di vita e di studi a Parigi, torna, in jeans e folta capigliatura riccioluta al vento, nel suo Paese d'origine, la Tunisia, appena uscita dalla cosiddetta Rivoluzione dei Gelsomini, che ha visto la fuga di Ben Ali e il ripristino della piena democrazia. In tanti nel film le chiedono “Perché?”, senza ottenerne una risposta precisa. Forse una nostalgia da esule, forse l'insoddisfazione per la vita in Europa, forse la voglia di ricominciare in un Paese che sta per ricominciare in una nuova primavera piena di aspettative e di voglia di rinnovamento. In effetti però viene da chiedersi se una pratica di terapia psichica ideata da un medico ebreo e basata sullo studio di impulsi sessuali inconfessabili perfino a se stessi, possa avere ragion d'essere in un Paese di cultura mussulmana, dove la religione ha una forte influenza sui costumi e i comportamenti, compreso il suo portato di maschilismo e di perbenismo ipocrita (non lontano in fondo dalla nostra tradizione cattolica). Eppure davanti allo studio sul tetto di Selma immediatamente si crea una fila di aspiranti clienti, desiderosi di raccontare i propri problemi e soprattutto, probabilmente, di essere ascoltati. Manele Labidi Labbé, alla sua prima prova registica su una sceneggiatura firmata di proprio pugno, esordisce con ambizioni molto alte: emulare la commedia all'italiana, secondo le sue stesse dichiarazioni (nella colonna sonora ci sono anche due canzoni di Mina, scelte con cura per la coerenza tra testi e situazioni filmiche); far metaforicamente sdraiare sul divano della psicanalista un intero Paese; e cimentarsi con un genere difficile come la commedia. Obiettivi raggiunti (ovviamente) solo in parte, ma con risultati non disprezzabili e godibili. L'autrice mescola commedia di situazione (molte scene ruotano intorno al divano della psicanalista) a quella di carattere (riservata soprattutto ai personaggi che ruotano intorno alla protagonista, che è invece seriosa e molto compresa nel proprio ruolo professionale e terapeutico, e un po' legata anche sul piano degli affetti personali), con l'aggiunta di pochi tocchi onirici (più che giustificati dal contesto, si potrebbe dire: in uno incontra una sorta di silente sosia di Freud in un viaggio notturno di autoanalisi; nell'altra sogna per se stessa un happy end sentimentale lasciato invece in stand by), e usando talvolta i toni del grottesco anche al servizio della satira di una società che, malgrado la rivoluzione, stenta a lasciarsi alle spalle la corruzione, la burocrazia distorta, il clientelismo, l'autoritarismo. Nello studio di Selma sfilano una parrucchiera esuberante che vomita quando vede sua madre, un uomo attirato dal travestitismo, un imam che tenta per conformismo di procurarsi fraudolentemente la zebība, il callo sulla fronte che distingue i bravi mussulmani dediti alla preghiera (ma c'è anche una giovane che si taglia e si colora i capelli, e sarebbe anche disposta a unirsi in matrimonio con un coetaneo omosessuale, pur di riuscire a lasciarsi alle spalle la famiglia, le convenzioni sociali, e la Tunisia). Forse in definitiva il disegno dei nevrotici che passano sul lettino analitico è un po' frenato, e un po' sprecate le occasioni sia umoristiche sia metaforiche che avrebbero potuto scaturirne. Dopo un inizio promettente, capace di stuzzicare la curiosità e l'interesse dello spettatore, il film effettivamente si impantana un po' in ripetizioni, senza riuscire a portare a compimento le varie storie abbozzate (la durata è del resto inferiore all'ora e mezza), allo stesso modo in cui ristagna l'attività professionale della protagonista, ostacolata da una burocrazia ottusa e da un poliziotto che pure potrebbe avere un suo interesse sentimentale (la scena del coup de foudre per mezzo di alcol test è una delle più esilaranti del film). Ma scoprire una giovane Woody Allen femmina e franco-tunisina che gioca con ironia con i generi e gli stereotipi, è una cosa che fa comunque piacere e fa ben sperare per il futuro (della sua carriera, degli spettatori - tunisini e no - e di un mondo che riesca a ridere delle proprie storture). MISS MARX di Susanna NicchiarelliC'è stato un periodo in cui il pensiero marxiano informava tutto il dibattito pubblico, permeando non solo la politica ma i più diversi campi del pensiero, dall'economia alla sociologia, dalla critica letteraria e cinematografica alla teologia.
Poi, negli ultimi decenni, Marx è diventato un nome impronunciabile, cancellato dall'orizzonte dei discorsi dal fallimento del socialismo reale sovietico (e relativo revisionismo storico) e dalla marea montante del pensiero unico del capitalismo avanzato. Ora, passato evidentemente il periodo di autoimposizione del tabù culturale, il vecchio Marx si riaffaccia, comparendo in un paio di occasioni nelle ultime stagioni cinematografiche. Trattandosi di cinema, ovviamente la prassi prevale sulla teoria, l'aneddotica sull'approfondimento. Prima di essere uno dei più grandi esponenti del pensiero critico nella storia dell'umanità, Marx diventa quindi un personaggio, approcciato lateralmente o tangenzialmente. Se il cosmopolita di origini haitiane Raoul Peck affronta la giovinezza di Marx (Il giovane Marx), dall'incontro con Engels alla pubblicazione del Manifesto del partito comunista, l'italiana cosmopolita Susanna Nicchiarelli lo relega sullo sfondo, concentrando la propria attenzione sulla figlia Eleanor, detta “Tussy”. Sesta figlia di Karl, Eleanor ne segue le orme diffondendo le idee del padre, traducendone gli scritti e impegnandosi in battaglie sociali e politiche, per i diritti dei lavoratori, l'emancipazione delle donne e contro lo sfruttamento del lavoro minorile. La Nicchiarelli, che già aveva dedicato la sua attenzione ad una donna in lotta con se stessa e il proprio mito in Nico, 1988, concentra la sua attenzione drammaturgica sulla contraddizione tra la vita pubblica di Eleanor, personalità forte e determinata nelle sue battaglia sociali e politiche, e la sua vita privata, incentrata sul rapporto con Edward Aveling, con cui condivideva la passione per il teatro e per l'attivismo politico, ma fedifrago e scialacquatore, e su quello con i padri "ingombranti", quello naturale, Marx, e quello putativo, Engels. Il contrasto tra gli ideali e il carattere apparentemente indomito e battagliero e un legame sentimentale che la rendeva invece succube e dipendente diventerà alla fine intollerabile per Eleanor, fino a portarla ad una scelta drammatica. Tuttavia il film, se non può rendere adeguatamente la dimensione intellettuale, nello stesso tempo rimane un po' esangue per quanto riguarda il racconto della storia e il disegno della protagonista, tanto che il finale tragico, che si svolge peraltro fuori campo, giunge impreparato e inatteso. Per attualizzare il soggetto, e togliere un po' di polvere dai costumi e dalle scenografie ottocenteschi (peraltro ben realizzati), la Nicchiarelli sceglie degli espedienti che richiamano quelli utilizzati da Marcello in Martin Eden, inserendo dei filmati d'epoca, ma evidentemente anacronistici, e dei brani di impronta punk nella colonna sonora, a dare evidenza all'animo ribelle e anticonvenzionale della sua Tussy. Le riscritture di classici del romanticismo da parte dei Gatto Ciliegia contro il Grande Freddo e soprattutto le riletture punk rock degli americani (comunisti) Downtown Boys (L'Internationale, Dancing in the Dark), per quanto paradossali rispetto al contesto, rischiano di essere le cose migliori del film, iniettando una dose di energia in un film narrativamente e drammaturgicamente un po' fiacco. PADRENOSTRO di Claudio NoceClaudio Noce aveva due anni quando suo padre Alfonso, vicequestore a Roma, fu ferito in un attentato dei Nuclei armati proletari in cui persero la vita un poliziotto e un terrorista. Suo fratello Valerio assistette alla scena dal balcone di casa. Oltre 40 anni dopo, Claudio mette in scena quella scena primaria, capace di segnare indelebilmente qualsiasi vita, e la racconta attraverso gli occhi di Valerio. La terribile scena dell'agguato, con gli spari, il padre che si accascia, i cadaveri rimasti sull'asfalto nel sangue, viene restituita per frammenti e da diverse angolazioni nel corso del film, che si svolge in gran parte nel “dopo”. Un dopo sul quale grava come una cappa soffocante e angosciante quel fatto terribile eppure ripetibile e eternamente minaccioso (i terroristi proclamano l'intenzione di portare a termine la loro malriuscita “missione”). Il padre granitico si è improvvisamente rivelato vulnerabile; la madre è perennemente nervosa; e qualunque cosa – un'assenza, un rumore, una moto che sorpassa un'automobile – può stendere un opprimente velo di minaccia e di terrore. Molto efficace sotto questo punto di vista, e nella stilizzata ma riuscita evocazione iconografica degli anni '70 in cui si svolge la vicenda, il film sceglie però a fini drammaturgici una strada più arrischiata, che materializza, dalle fantasie di Valerio che già nascondeva un amico immaginario nella soffitta di casa, un amico adolescente che rimane perennemente (fino al finale) sospeso tra fantasia e realtà. Emanazione della solitudine di Valerio, Christian sembra acquistare uno statuto di realtà nel momento in cui raggiunge il protagonista nella sua vacanza in Calabria, dove viene “visto” e accolto dalla famiglia. Per il giovanissimo Valerio sarà però un nuovo motivo di ansia, diviso a quel punto tra l'attrazione per quel ragazzo, più grande e libero di lui, e la gelosia per il rapporto affettuoso che sembra stabilirsi tra il padre e Christian, che insidia il suo solitario primato affettivo. La vicenda nasconde un segreto che porterà ad un drammatico scioglimento finale, mentre un prologo angosciante e un epilogo consolatorio offrono una cornice (ma di nuovo non è dato sapere quanto realistica e quanto frutto delle emozioni non ancora spente del Valerio adulto) alla vicenda al cuore del film. Difficile esprimere un giudizio puramente estetico su un film che tratta una vicenda autobiografica così incandescente per la vita del suo autore; la mescolanza tra la storia criminale del Paese, il punto di vista di un ragazzino, un registro che alterna il realistico e l'onirico, e anche l'ambientazione nella natura del nostro Meridione, mi ha ricordato molto l'operazione tentata da Fabio Grassadonia e Antonio Piazza con Sicilian Ghost Story, ancora più azzardata ma forse più efficace nel raggiungere un difficilissimo equilibrio tra materia e rappresentazione e tra i diversi toni della narrazione. Pierfrancesco Favino, nel ruolo del padre Alfonso, è una presenza anche fisicamente decisamente importante, ma sembra a volte girare un po' a vuoto; premiato con la Coppa Volpi nell'anomala edizione 2020 della Mostra del Cinema di Venezia, ha dato altrove interpretazioni più convincenti. STO PENSANDO DI FINIRLA QUI (I'm Thinking Ending Things) di Charlie KaufmanNota preventiva: poiché il film si basa su un'imprevedibile sorpresa finale, ho cercato nella recensione di evitare spoiler. Chi ha visto il film, capirà, chi non l'ha visto, spero troverà motivi di curiosità per vederlo. Accanto alla produzione e alla distribuzione mainstream, Netflix affianca una vera e propria politique des auteurs, con una meritoria azione di sostegno alla realizzazione di prodotti d'autore (a lei dobbiamo gli ultimi film di Cuaron, di Scorsese, dei Coen) o di nicchia. A sorpresa, quindi, ma non troppo, da settembre è presente sulla piattaforma l'ultima ambiziosa (più dal punto di vista intellettuale che produttivo, in realtà) opera di Charlie Kaufman, uno degli sceneggiatori/registi più atipici e fuori dai ranghi del cinema americano, autore delle sceneggiature di film come Essere John Malkovich, Human Nature, Il ladro di orchidee, Confessioni di una mente pericolosa e regista di Synecdoche, New York e Anomalisa. Com'era prevedibile, ne è scaturita un'opera dalla struttura narrativa involuta e labirintica, che affronta profonde tematiche esistenziali e filosofiche, e che si fonda in buona parte sull'ambiguità e sull'inganno percettivo, degli spettatori ma anche degli stessi personaggi (o forse sarebbe più esatto dire dello stesso personaggio?). I dubbi sulla fabula e sul punto di vista del film cominciano dal titolo stesso: quando si parla di “finirla qui” ci si riferisce a una relazione amorosa, quella tra July e Jake, o alla vita stessa? E chi è veramente l'io che si interroga? Nel corso del film tutte le ipotesi (e altre ancora) sembrano possibili. Il racconto è apparentemente estremamente lineare: il viaggio in auto, mentre fuori nevica, di una coppia di recente costituzione per la prima visita ai genitori di lui; la visita alla famiglia in una fattoria isolata nella campagna; il viaggio notturno di ritorno, mentre la nevicata si fa quasi tormenta. Eppure, ben presto, cominciano a manifestarsi incongruenze temporali e logico-narrative che fanno dubitare che si tratti di una semplice cronaca di coppia e famigliare; così come l'identità stessa della protagonista, attraverso i cui occhi seguiamo la vicenda ascoltandone perfino i pensieri intimi che vorrebbe tenere nascosti al partner, si sfrangia progressivamente mentre la vediamo cambiata d'abito, forse di nome, di professione, di atteggiamento. Nello stesso tempo alla vicenda dei due protagonisti e dei genitori di lui si mescolano inserti con uno sconosciuto anziano inserviente scolastico. Anzi, la narrazione sembra scorrere su un piano inclinato che accelera sempre di più nel corso del film; da un primo segmento improntato ad un realismo psicologico minimalista, ambientato nell'abitacolo di un'auto in movimento, dove solo i cambi d'inquadratura sui personaggi seduti in macchina accompagnano i dialoghi tra July e Jake e i pensieri di lei, si passa alla visita alla fattoria, in un'atmosfera già straniata, dove assistiamo ai comportamenti bizzarri dei genitori di Jake (e del suo stesso cane) e al crescente imbarazzo di lui, e ci troviamo di fronte a segnali e funesti (gli agnelli morti, il racconto dei maiali infestati dai vermi) e misteri (una porta su una cantina che come nei film dell'orrore non si deve aprire). La sensazione di disagio (di Lucy e insieme a lei dello spettatore) aumenta con lo sfaldarsi dei piani temporali, per cui nel corso della medesima visita i genitori di Jake hanno età differenti (fino a comparire sul letto di morte, o affetti da disturbi della memoria, o assenti), mentre affiorano dei pesanti indizi di dubbia identità (i dipinti di Lucy compaiono sui calendari appesi nella camera da ragazzo di Jake, ma attribuiti ad un altro pittore; la “sua” poesia che ha recitato in auto, spingendo Jake ad esclamare che sembrava scritta apposta per lui, appare in un libro già edito; la ragazza riceve sul cellulare telefonate da nomi femminili, ma rispondendo alle quali ascolta una voce maschile porle domande esistenziali e senza risposta). Il viaggio di ritorno assume contorni onirici e quasi felliniani nella sosta per comprare un gelato (in una tormenta di neve) in un chiosco isolato nel quale prestano servizio tre ragazze in maniche corte, una delle quali ammonisce Lucy a non proseguire oltre. Raggiunto con una deviazione notturna il vecchio liceo di Jake, è la forma stessa della narrazione a deragliare definitivamente, abbandonando qualsiasi residua pretesa di preudo-realismo per aprire le porte a doppi dei protagonisti, numeri danzati, inserti animati o sequenze miste di real action e animazione, teatralità onirica, numeri cantati da musical, finché la storia e l'immagine sfocano definitivamente nell'ultima inquadratura. Il passaggio da premesse quasi realistiche a livelli sempre più esasperati di sbandamento narrativo e delirio figurale, sebbene qui in forma molto più controllata, ricorda per molti diversi aspetti il progressivo deragliamento messo in scena nello sconcertante Madre! di Aronofski, anche se ci troviamo in effetti nel cuore dell'amarissima poetica kaufmaniana. Tornano i temi dei suoi script, la solitudine, la dannazione della memoria, il passare del tempo e l'incombere del non-essere e del non-senso, la fallibilità e la caducità della condizione umana, la ricerca nella relazione con l'altro/a di un'illusoria consolazione alla disperazione; ma immersi in una dimensione dalle caratteristiche estetico-tematiche lynchiane (ci sono le notturne strade perdute e i detour narrativi, la confusione delle identità, il grottesco e il mostruoso delle relazioni umane e famigliari, la distorsione dei canoni della rappresentazione, i teatrini onirici), mentre la premiazione di Jake al termine del film ci fa sospettare di aver assistito ad una versione deformata e degenere de Il posto delle fragole di Bergman. Ancora, il film sembra rievocare temi dickiani, come l'ambiguità e la fallacità della percezione umana e i diversi stati di coscienza (Ubik), o la condanna allo scacco dei tentativi dell'essere umano di contrastare un'entropia che è connaturata alla sua interiorità prima ancora che al mondo esterno (cfr. il racconto Spero di arrivare presto, che avrebbe potuto benissimo essere un titolo alternativo per questo stesso film). Le suggestioni riscontrate non devono stupire, visto che è il film stesso, nello svolgere il suo assunto esistenziale-filosofico, a disseminare i dialoghi di una quantità di citazioni, dotte e meno dotte – da Una moglie di Cassavetes al musical Oklahoma, dai saggi di Foster Wallace alla Società dello spettacolo di Debord, dalla poesia di Wodsworth a quella di Eva HD, dalla pittura di Wyeth a quella di Ralph Albert Blakelock -, che all'analisi non suonano mai casuali o gratuite, ma gettano lampi di luce sul discorso e sul senso dell'opera. Profondo, spiazzante, ricchissimo di implicazioni filosofiche e autoriflessive (da quelle sull'influenza delle madri sui figli a quelle sulla pittura e sulla necessità di un “testimone” emotivo all'interno del quadro), servito da un cast appropriato e adeguatamente poco glamour, con gli istrionici genitori di Jake (tra cui la sempre inquietante Toni Collette) a fare da controcanto ai protagonisti, Sto pensando di finirla qui è sicuramente uno dei film più conturbanti dal punto di vista intellettuale ed emotivo delle ultime stagioni; ma proprio nel suo rivolgimento finale (atteso ma non prevedibile) trova uno specifico punto di debolezza. Preparato meticolosamente con la disseminazione in una sceneggiatura geniale e genialoide di indizi di trama e di senso, rileggibili a posteriori, il cambiamento di prospettiva che il finale impone allo spettatore (sia pur in una chiave sfidante ed ermetica, e non quindi come il banale twist di molti smart movies delle ultime generazioni) è però troppo radicale e dissonante dall'impostazione narrativa del film e dalla sua coerenza narratologica per essere accettato senza un enorme sacrificio, e senza provare la sensazione di essere stati ingannati sin dalle prime inquadrature. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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