LA FORMA DELL'ACQUA di Guillermo Del ToroLa forma dell'acqua è il film perfetto per Face/Off, la rubrica di critica cinematografica schizofrenica che conduco su questo sito insieme al mio alter ego Oruam Norac: lui probabilmente direbbe che è un film visionario, poetico, con una sua visione etica e politica, denso di citazioni dalla storia del cinema ma infarcito anche di rimandi al fiabesco, con contributi tecnici di prim'ordine e un cast perfetto. Come dargli torto? Ma dato che la tastiera adesso ce l'ho io, dirò le cose a modo mio. Comincio dall'inizio, che pone una domanda. Nella prima sequenza, la camera da presa è in un ambiente subacqueo verdastro. Poi penetra in una fenditura (da subito un'allusione sessuale?), attraverso la quale il nostro sguardo entra in un appartamento pieno d'acqua. I mobili e le suppellettili fluttuano e danzano nell'acqua. Poi suona la sveglia, il sogno si interrompe e Elisa si sveglia nel suo letto. Poco dopo, di nuovo immersa nell'acqua della vasca da bagno, Elisa si dedica alla masturbazione; un'attività fisica ma nella quale l'immaginazione gioca una parte determinante. La domanda quindi è: l'intero film è un sogno di Elisa? La creatura marina è un'emanazione del suo desiderio sessuale, l'evocazione di una solitudine speculare alla sua, legata a fantasie liquide e bagnate? Un modo di sfuggire ad una quotidianità logorante, frustrante, degradante? Del Toro non agevola questa interpretazione, ma la teoria del sogno spiegherebbe tra l'altro le molte incongruenze del film: perché le cose più assurde accadano con tanta e tale naturalezza, perché Elisa possa mettersi a danzare con il mostro in una scenografia stile Broadway, perché si possa senza fatica riuscire a fare sesso con un uomo-pesce, perché si possa morire e poi resuscitare. Ma forse non è il film ad essere un prodotto del sogno, ma è il cinema stesso a crearne uno per gli spettatori. D'altra parte, Elisa è una donna dichiaratamente compromessa con l'immaginario: guarda i mondi irreali della televisione (quando questa mostra le immagini della realtà dei disordini razziali, si preferisce cambiare canale), vive sopra il tetto di una sala cinematografico a doppio spettacolo. E d'altra parte, Del Toro è un regista compromesso con l'immaginario, l'autore da sempre di un cinema fantastico, fiabesco, mostruoso, meraviglioso. Ma forse è proprio la quantità e la qualità di immaginario – sono consapevole, affermando questo, di mettermi in una sparuta minoranza - che si riversa nel film a costituirne uno dei punti deboli: il film rivela tutto forse troppo presto (l'aspetto della creatura; la fascinazione di Elisa, subito ricambiata, per un mostro – che ha appena tranciato due dita ad un addetto alla sicurezza – di cui indovina come per incanto gusti gastronomici e musicali) portandoci immediatamente dentro un mondo e una storia lontani dalla realtà, e i livelli sui quali viene chiesto allo spettatore di sospendere l'incredulità si moltiplicano, fino a quando, ad esempio, da un livello di rappresentazione “realistico” benché ampiamente incredibile si passa ad una dimensione ulteriore di irrealtà trasportando i protagonisti all'interno di un musical onirico. L'impianto stesso del film – narrativo e figurativo – mi è sembrato sotto più di un aspetto debitore verso Il favoloso mondo di Amelie (nonché in generale alle atmosfere del cinema di Jeunet e Caro): la ragazza un po' strana che cercando l'amore ribalta la vita di chi gli sta intorno; il pittore che guarda la tv (e che sembra la citazione più diretta); i bizzarri comprimari; l'etica manichea; l'ambientazione vintage; la fotografia sulle tonalità del verde (qui manca la complementarità del rosso, delegata al solo colore del sangue); la musica di Desplat impegnata ad evocare il fiabesco. Ma i debiti narrativi e figurativi spaziano oltre, dai più ovvi, il mostro della laguna nera (l'uomo-pesce viene dall'Amazzonia, proprio dove viveva il suo epigono del film del 1954: anzi forse potrebbe essere proprio lui un po' più maturo) riprodotto con fedeltà quasi filologica (anche nell'assenza – ma qui scopriamo solo apparente – di attributi sessuali), e tutte le storie cinematografiche di la-bella-e-la-bestia, fino all'apertura al musical alla La la land, alla spy-story vintage da guerra fredda (riportata sullo schermo da Il ponte delle spie), o ai riferimenti impliciti nel casting (Shannon paranoico come in Bug e bastardo come in 99 Homes, la Spencer ancora alle dipendenze di un'agenzia governativa nell'epoca della corsa allo spazio come ne Il diritto di contare). Qualche giorno fa è saltata fuori addirittura un'accusa di plagio (da Let me hear your Whisper, una commedia del premio Pulitzer Paul Zindel): probabilmente infondata e strumentale, ma significativa rispetto al senso di deja vu (gratificante o irritante a secondo dei casi) suscitato dalla visione del film. Non solo cinema: nel film si affollano anche riferimenti biblici – Elisa come Ruth che si oppone al sacrificio, Strickland e Zelda come Sansone e Dalila –, alle fiabe – la bella e la bestia, ovviamente, ma anche l'umile Cenerentola e l'uovo della moglie di Barbablù – così come alla loro categorizzazione proppiana. A voler essere ingenerosi, La forma dell'acqua è un patchwork dove il favoloso mondo di Amelie viene inaspettatamente rivisto in chiave di fiaba horror-freak alla Del Toro, e di metafora politica (l'America “perfetta” della famiglia da boom economico, sullo sfondo di anticomunismo, omofobia, razzismo-maschilismo – ad ognuno dei tre termini corrisponde uno dei complici di Elisa) e morale (il mostro è buono – l'umano è malvagio; le apparenze e l'aspetto fisico non contano - quello che vale veramente sono i sentimenti; l'amore è cieco e vince su tutto – anche sulla realtà). Del Toro imposta presto la narrazione lungo due assi primari: il primo è quello dell'antagonismo tra Elisa e Strickland che vede in gioco la salvezza o l'annientamento del “mostro”, complicato dal raddoppiamento dell'attrazione verso il diverso che vede Strickland morbosamente affascinato dalle menomazioni di Elisa e Elisa virtuosamente innamorata della diversità della creatura; il secondo è quello appunto del rapporto tra Elisa e la creatura, dove la comunicazione avviene per via emozionale, non verbale, tattile, sonora e musicale, visiva, corporea (con gli inaspettati nudi di Sally Hawkins). In questa seconda zona è la liquidità a dominare (la regia sinuosa potrebbe vincere l'Oscar), mentre il cattivo è legato soprattutto a una dimensione olfattiva sgradevole, segnata dagli odori escrementizi ma ancor più da quello del suo stesso corpo in putrefazione. La Hawkins, minuta e determinata, si trova a dover sostenere un anomalo sex-appeal; la Spencer è godibile nella parte dell'amica petulante ed è molto convincente, per quanto in un ruolo prevedibile, Michael Shannon, disturbato come sempre.
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TRE MANIFESTI A EBBING, MISSOURI di Martin McDonaghLa premessa, anche per una commedia nera, è delle più agghiaccianti: una ragazzina, a poca distanza dalla propria casa, è stata violentata, anche mentre agonizzava, e poi bruciata. E’ già un culmine di violenza efferata apparentemente insuperabile, ma non prima, né ultima. La morte della ragazza, e la determinazione della madre che chiede testardamente alla polizia di avere verità e giustizia, dà il via ad una catena di violenza esplosiva, con suicidi, pestaggi, incendi, attentati, che lascerà la maggior parte dei personaggi (sopravvissuti) con incancellabili cicatrici fisiche o psichiche. Non solo: in una tranquilla cittadina rurale, dove sembra che nulla - mai - possa accadere, il crimine porta alla luce l’esistenza di una violenza endemica, pervasiva, onnipresente, che si estende tanto nel tempo che nello spazio. Dal passato emergono stralci di violenza non solo famigliare ma anche poliziesca, di carattere razzista; e la violenza si proietta in un ipotetico futuro, lasciandoci con due personaggi in viaggio in cerca di vendetta, con un fucile nel bagagliaio. Ugualmente la violenza permea ogni luogo non solo della piccola comunità (dai prati dei sobborghi al pieno centro cittadino, dentro e davanti la stazione di polizia e lungo la main street), ma quasi ogni luogo immaginabile, oltre il confine dello Stato, ma anche in luoghi talmente lontani da essere solo immaginati e di cui non si sa praticamente nulla (“fa caldo”), dove la violenza si replica in maniera sinistramente simile, ma ancora più impunita e impunibile. La sceneggiatura, forse così compatta e coerente per essere dovuta a una sola firma, quella dell’anglo-irlandese Martin McDonagh, anche regista e produttore del film (oltre che dei precedenti e originali In Bruges e 7 psicopatici), è di un’audacia e di un’efficacia stupefacenti, riuscendo a costruire una storia dominata dalla violenza fisica, psicologica e verbale eppure mai scontata negli sviluppi e nelle soluzioni (compresa quella finale), dotata di una forte umanità, e punteggiata da episodi di black humour quasi impensabili dato il contesto tragico e brutale degli eventi. Ma non solo. Tre manifesti a Ebbing, Missouri è nello stesso tempo percorso, altrettanto inaspettatamente, da una sottile e puntuale riflessione sul linguaggio. Se il linguaggio del film è caratterizzato dal turpiloquio e dalla brutalità, perfino nelle situazioni più intime e domestiche, a disegnare un paesaggio di una società assuefatta a rapporti dominati dall’aggressività quando non dall’ostile disprezzo o dalla sprezzante ferocia, tutto il suo sviluppo è costellato da situazioni linguistiche: incomprensioni e equivoci (a cominciare dall’inizio, con il qui pro quo sull’“How come?” del terzo cartellone), scherzi linguistici (l’attribuzione shakespeariana piuttosto che wildiana di una frase oscena), discussioni sul linguaggio politicamente corretto (gli autori delle violenze dovrebbero dire più educatamente “pestaggio di un uomo di colore” e non “pestaggio di un negro”), battibecchi che lasceranno ferite indelebili (“anch’io spero che ti stuprino”). Significativamente, alcune delle comunicazioni più importanti del film avvengono per iscritto, anziché verbalmente: a partire dai tre tabelloni di Mildred Hayes in cerca di giustizia cui rispondono le tre lettere indirizzate dallo sceriffo Bill Willoughby ad altrettanti personaggi del film. Se il linguaggio è diventato un’arma devastante rozza e crudele, forse il finale, dopo tanta ferocia - ma anche dopo un percorso che ha portato diversi personaggi ad un evoluzione o a un cambiamento - è addirittura consolante, con due personaggi fatti per odiarsi a vicenda, diretti verso nuove violenze, che decidono di parlarsi, ovvero di riflettere con consapevolezza sull’ineluttabilità di una violenza infinita che forse dopotutto così ineluttabile non è. All’impatto di un film forte e originale, ricco di sfumature, contribuiscono senz’altro le interpretazioni degli attori: da quella della madre-coraggio di Frances McDormand (che incarna la derivazione, ma senza alcune soggezione né complesso di inferiorità, di Tre manifesti dalle black comedy dei fratelli Coen), al born-to-kill Woody Harrelson, più pensoso e umano del solito, fino ai personaggi di secondo piano (come la mamma Dixon di Sandy Martin); ma la mia nota speciale di merito va proprio all’officer Dixon, stupido, violento, razzista e succube della madre, interpretato con bella finezza da Sam Rockwell. COCO di Lee Unkrich e Adrian MolinaSembra evidente che ad ogni film la Pixar affronti e rilanci la sfida alla complessità. Pur trattandosi di film rivolti in primo luogo al pubblico infantile - ma programmaticamente scritte e realizzate per poter essere apprezzate anche dal pubblico adulto – i temi affrontati, lo sviluppo drammaturgico, l’attenzione dedicata agli aspetti visivi diventano infatti sempre più impegnativi e coinvolgenti. Due tappe fondamentali sono stati l’elegiaco Toy Story 3 (già firmato da Lee Unkrich e Adrian Molina) dove si parla della necessità della crescita, della ineluttabilità del distacco dagli affetti e dalla dimensione dell’infanzia, e della capacità di sacrificio cui deve essere disposto chi ama, e Inside Up, che sembra sviluppare ulteriormente la poetica del film già citato, con la sua teoria delle emozioni, ma soprattutto con la struggente poesia con cui parla della necessità di crescere e di lasciarsi definitivamente alle spalle le età della propria vita. Coco aggiunge altre tematiche alla filosofia della vita della Pixar, affrontando tra l'altro, attraverso la mediazione della cultura messicana, un argomento tabù - a maggior ragione per un pubblico di bambini - come quello della morte. Un fattore spiazzante è costituito innanzitutto dal titolo stesso, che, forse per la prima volta nella storia del cinema d’animazione, non è dedicato al protagonista della storia, bensì ad un personaggio apparentemente assolutamente secondario, opposto per età anagrafica al protagonista, invisibile e sospeso tra vita e morte per quasi tutto il film, e fino al finale praticamente ininfluente nello sviluppo drammaturgico del film. La bisnonna Coco diventa in realtà il ponte (umano – quello visivo e metafisico, stupendo, è fatto di fiori arancioni) tra il mondo dei vivi e quello dei morti, tra l’attualità del presente e il ricordo del passato, verso la possibilità di rifondare il futuro su nuove basi, una volta ristabilita la giustizia storica e la possibilità di una memoria che non sia limitante e castratrice. Inoltre, Coco, pur nella sua passività, in forza solo dell’amore che ogni bambina prova per il proprio papà, diventa l’elemento di rottura della linea famigliare matriarcale, in cui sono proprio le donne a detenere un distorto e negativo potere di interdizione nei confronti della musica, della ricerca della propria identità, del perseguimento dei propri talenti e della propria vocazione. Il film si configura come un raffinato apologo sul valore della memoria, instaurando una dialettica non banale tra il valore e l’ossequio della tradizione e tra il rispetto della famiglia da una parte, e la libertà individuale e il diritto a cambiare e a perseguire la propria strada individuale dall’altra. Nello stesso tempo il film riflette sulla dura legge dell’oblio cui gli esseri umani, tranne rare eccezioni, sono condannati. I morti esistono e continuano a vivere nell’aldilà solo finché nella terra dei vivi qualcuno si ricorda di loro, conserva una loro fotografia, rende loro simbolico omaggio e offerte nel rituale del giorno dei morti. Quando il ricordo scompare, anche i morti cessano di esistere per sprofondare in un nulla stavolta definitivo. Se l’arte (nel caso specifico la musica) ha il potere di prolungare la vita virtuale di chi non c’è più, il tema ha addirittura un autoironico risvolto metacinematografico, nel momento in cui proprio il cinema diventa il tramite del ricordo e della sopravvivenza dei morti: è attraverso una cassetta VHS che Miguel coltiva nel mondo dei vivi il culto della musica e del grande chitarrista scomparso de la Cruz, ed è sempre attraverso le immagini cinematografiche, proiettate perfino nell’aldilà, che lo stesso Miguel riuscirà a intuire la verità sulla perfidia di de la Cruz, e a riabilitare il derelitto Hector restituendogli i suoi meriti reali e offrendogli, anche attraverso la rievocazione dell’amore filiale di Coco, una nuova possibilità di sopravvivenza nel ricordo dei vivi e nel mondo dei morti. Parallelamente, come dicevo all’inizio, la Pixar porta avanti la sfida nei confronti dell’immaginario visivo (citazioni e suggestioni rimandano di volta in volta a Frida Kahlo – il cognome della famiglia di Miguel è tra l’altro Rivera, come il Diego Rivera pittore muralista messicano che fu marito di Frida - e a Tim Burton, a James Ensor e alla skeleton dance delle Silly Symphonies, con le quali la Pixar chiude un cerchio temporale che porta da Disney a Disney), costruendo universi sempre più complessi e fastosi, sempre più ricchi e articolati nell’animazione e con sempre maggiore raffinatezza nella cura dedicata al montaggio, alla simulazione dei movimenti di macchina, e, in modo ancora più notevole, alla stupefacente cura degli effetti luministici. Troppe sarebbero le scene e i particolari visivamente straordinari; ma mi piace citare come una bella trovata di regia l’inseguimento di Imelda da parte degli agenti della sicurezza e dello stesso de la Cruz, che sul palco si trasforma d’incanto in coreografia. Rimane da verificare quanto di tutta questa complessità sia percepibile agli occhi e alla mente di un bambino, che si ritrova alle prese con un film filosoficamente complicato, e con una trama in cui tra vivi e morti compaiono sullo schermo un gran numero di personaggi appartenenti a cinque generazioni successive, e in cui compaiono due padri e due chitarre, verità e menzogne, personaggi reali, personaggi morti e creature fantastiche. La sceneggiatura imposta abilmente la storia e la chiude con una perfezione ammirevole, in cui ogni tassello trova la sua sistemazione con una compiutezza drammaturgica e emotiva millimetrica. Soffre forse di qualche momento di stanchezza nella parte centrale, che avrebbe potuto essere abbreviata (il film sfiora le due ore di lunghezza, eccessive anche in considerazione del pubblico infantile) senza nulla perdere – anzi – in vivacità e compiutezza. THE POST di Steven SpielbergUna delle prime sequenze di The Post è ambientata durante la guerra del Vietnam. Seguiamo una pattuglia di soldati americani, in una boscaglia (che potrebbe essere dovunque), di notte (ma con una fasulla illuminazione cinematografica), finché non esplode il fuoco nemico. Si rimane stupiti, con la sensazione che ci sia qualcosa che non vada: perché una scena tanto corriva, da un regista che ha girato una delle scene belliche più memorabili di tutti i tempi in Salvate il soldato Ryan, in un prologo inessenziale al futuro sviluppo del film? L'unica spiegazione che sono riuscito a darmi è che Spielberg ci tenga a rendere visibile tutto, a costo di illuminare la notte pseudovietnamita con le lampade al quarzo, affinché il messaggio didascalico e idealistico del film risulti il più chiaro e comprensibile possibile. Messaggio che ben presto si può riassumere con: giornalismo buono, potere cattivo, o ancora giornalismo = democrazia, potere incontrollato = tirannia. Vari presidenti americani, democratici (Kennedy compreso) e repubblicani, ingannarono il popolo americano sulle vere ragioni, sulle strategie e sui successi e gli insuccessi della guerra in Vietnam; i giornalisti del Washington Post (approfittando della paralisi del New York Times soggetto ad un'ingiunzione governativa, li smascherarono con la pubblicazione dei Pentagon Papers, documenti riservati che non avrebbero mai dovuto essere resi pubblici. Grazie al coraggio e alla determinazione del direttore del Post, dei suoi collaboratori, e dell'editrice, che mise a rischio l'esistenza stessa del giornale alla vigilia della sua quotazione in Borsa. Sceneggiatori e regista sono certo benitenzionati, eppure The Post fa una certa impressione. Non che sia girato male, anzi. Tutto funziona come deve, le riprese sono da manuale, con la macchina a mano quando c'è da essere concitati, le carrellate, le inquadrature larghe per far rientrare tutti i soggetti e le forze in campo, quelle dal basso quando c'è da significare la donna sola che sfida il mondo del potere maschile all'interno dei suoi spazi monumentali, la macchina a stringere nei monologhi, o che gira intorno alla protagonista ad accerchiarla nelle sue responsabilità. Appunto: tutto da manuale. Ma da uno dei maggiori rappresentanti della New Hollywood, uno capace di costruire un'intera storia con un attore, un'auto e un camion; capace di raccontare la società americana con la storia di due giovani genitori incoscienti in viaggio su un'automobile; capace di suscitare dal nulla nuovi mondi dell'immaginazione e della fantasia; capace di raccontare l'orrore dei campi di sterminio in un'opera immaginifica e indimenticabile, continuiamo, forse sbagliando (una trentina di lungometraggi con la sua firma sono certo un fardello pesante), a sperare qualcosa di più che un compitino scolastico. The Post è un discorso retorico, che dice cose ovviamente condivisibili (figuriamoci! in era Trump! per non parlare di Cina, Putin, Erdogan, Egitto, e così via – e Malta, e l'Italia berlusconiana?), ma lo dice in modo convenzionale e un po' polveroso (malgrado gli ambienti tirati a lucido e i completi eleganti: The Post sembra un film più vecchio di quello che è ambientato in un'epoca più vecchia di quello che era), accompagnato dalla musica coerentemente convenzionale e retorica del consueto e fedele John Williams. A sostenere il film, due colonne, due mostri sacri e due beniamini del pubblico (e della critica) come Meryl Streep e Tom Hanks: ma al secondo tocca recitare tutto il film in un ruolo piuttosto monocorde, costantemente con la bocca tirata quasi fosse una maschera. Più propizio il ruolo per la Streep, nella parte di un'eroina dell'incertezza e del coraggio, trepida e intrepida insieme, una lady di ferro diafana ed esitante. Non basta. Magari buttare dentro un velociraptor in redazione non avrebbe guastato. Oruam Norac invece lo ritiene un film attuale e necessario: vedi la recensione in Face/Off Se la domanda è: ma Ella & John è un film di Paolo Virzì? Si riconosce l’italian touch in una produzione con ambizioni internazionali, con un’ambientazione statunitense e adottando uno dei generi americani per eccellenza, l’on the road, e che ha come protagonisti una perfetta inglese con ascendenze russe e un canadese (che pure ha esordito in Italia con un horror a basso costo, per essere diretto poi da Federico Fellini, Bernardo Bertolucci, Giuseppe Tornatore)? Sarebbe facile rispondere che in fondo Ella & John riprende lo schema del film precedente di Virzì, con la coppia di anziani malati che si mette sulla strada e che realizza un percorso esistenziale pieno di incontri, per darsi, con una pari dose di allegria e di disperazione, alla pazza gioia (o più moderatamente per cercare un po’ di svago, come dice il sottotitolo The Leisure Seeker). Ma è una risposta che rimarrebbe in superficie senza tenere conto dello stile e delle tematiche del film. La risposta è comunque sì, anche se la personalità della regia non è particolarmente visibile, se non in quella capacità che ha l’autore livornese di mescolare l’ironia e la malinconia, e di riuscire a parlare in modo leggero di cose anche estremamente serie. A ben guardare, in Ella & John non si ride mai apertamente, ma per rispetto dei personaggi, non si piange mai, ma perché bisogna conservare la dignità anche in mezzo alle avversità, non c’è mai veramente tensione, ma perché ormai non si ha nulla da perdere. Le situazioni non sono mai forzate, portate al climax del loro potenziale comico o drammatico. Vedi le scene con il poliziotto o con i rapinatori sulla strada, o con i ragazzi ubriachi che si avvicinano ai due nel campeggio; e non sto parlando di un difetto. C’è già abbastanza di buffo e di tragico nella situazione di partenza senza che la sceneggiatura e la regia debbano aggiungere altra carne a fuoco o calcare i toni del farsesco o del melodrammatico (non a caso John cita la difficilissima semplicità antiretorica della scrittura di Hemingway, che affermava che “la cosa più difficile che ci sia al mondo è scrivere una prosa assolutamente onesta sugli esseri umani”, corsivo mio). Se quindi la domanda è: ma Ella & John è un bel film? risponderei di sì. E’ ovviamente un film con due interpreti notevoli, un Donald Sutherland che riesce ad essere affascinante anche nella demenza che lo svanisce e una Hellen Mirren straordinaria con-e-senza parrucca, in un ruolo impegnativo che richiede molti differenti passaggi di tono, già candidata al Golden Globe per questo ruolo. E’ poi un bel film scritto con garbo, in punta di penna (la sceneggiatura, tratta da un romanzo di Michael Zadoorian, è stata scritta dal regista insieme a Francesca Archibugi – che ha già collaborato con Virzì per La pazza gioia - e Francesco Piccolo - che è al quarto script per Virzì e che ha scritto anche un paio di film della Archibugi -, e con il contributo americanizzatore di Stephen Amidon); un film che racconta della bellezza dell’amore (coniugale o monogamico) e del vivere insieme. Ma è anche un racconto, per quanto vintage, di ribellione, come fa capire la presenza in colonna sonora di un’icona degli anni ’60-70 come Janis Joplin, o l’insistenza sulla figura di Ernest Hemingway, uno spirito libero che decise come e quando mettere fine alle proprie sofferenze e alla propria vita con un colpo di fucile. Ella e John partendo dalla loro casa a bordo del loro fedele e vecchio camper sul quale hanno vissuto tante avventure sfuggono all’autoritarismo dei figli che vorrebbero essere responsabili al loro posto e in loro nome, e a un destino frustrante e medicalizzato già scritto e apparentemente immodificabile. Ella e John, invalidati dalle rispettive malattie, lui dalla mente brillante e colta minata dall’Alzhemeir, lei dalla personalità forte e decisa minata nel fisico debilitato, sono di nuovo, e fino alla fine, liberi, e insieme. Il loro è un viaggio insieme che parte dal passato, che Ella tenta continuamente di rinfocolare e di tenere vivo nella memoria di John, anche con tenere proiezioni di diapositive en plein air, destinata a perdersi un attimo dopo. Un passato, si scopre, non privo di insidie, anche se John nella sua temporaneamente deviazione ha sempre tenuto un percorso vicino e parallelo a quello di Ella, per poi ricongiungersi a lei. E’ un viaggio lontano da un presente invivibile, invaso dalla vecchiaia e dalla malattia (oltre che da Trump), dall’ansia dei figli e dalla brutalità burocratica della medicina. E’ un viaggio, alla fine, verso un futuro che non c’è più. Ella e John non tornano indietro non perché non possano e non lo desiderino, ma perché tornare non ha più senso. L’unica cosa che conta è arrivare là dove devono arrivare, ancora una volta, per l’ultima volta, insieme. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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