PERFECT DAYS di Wim WendersDedico questo articolo a mio papà, che sta vivendo i giorni meno perfetti della sua vita. Nel 1985 Wim Wenders si reca a Tokyo alla ricerca delle tracce del cinema di Yasujirō Ozu. Dal viaggio ha origine un film, Tokyo-Ga (che si traduce, appunto, “viaggio a Tokyo”) in cui Wenders si trova, in una condizione di spiazzamento culturale, a confrontare le immagini del cinema di Ozu, autore rigoroso e astratto per eccellenza (è stato definito “il più giapponese degli autori giapponesi”), con le immagini della città contemporanea, caotica, rutilante, e - agli occhi di un occidentale - a volte kitsch e a volte incomprensibile. Quasi 40 anni dopo, il regista tedesco torna a Tokyo sulle orme di un progetto bizzarro e mai realizzato (un documentario sull'architettura contemporanea dei bagni pubblici di Tokyo) e di una sceneggiatura scritta insieme a Takuma Takasaki. Di Ozu si porta dietro il cognome del protagonista, Hirayama, che è lo stesso della famiglia al centro de Il gusto del sakè, ultimo film del regista nipponico. Ma anche stavolta, Wenders compie (e fa compiere) nel corso del film uno slittamento, attraversando quello un concetto fondamentale dell'estetica nipponica, quello del mono no aware, ovvero “quel sentimento di assorta contemplazione che si vive di fronte alla natura, alle vicende umane e all'accadere delle cose e che porta alla consapevolezza del carattere effimero e transitorio del tutto, a una sorta di dolente e matura accettazione dell'ineluttabilità del cambiamento” (Dario Tomasi a proposito del cinema di Ozu). Perfect Days – il Giappone è una lingua che sembra avere una parola per tutto - potrebbe probabilmente essere definito un shomingeki, ovvero un film sulla gente comune: Hirayama svolge un lavoro umile, occupandosi della pulizia dei bagni pubblici. Tutta la prima parte del film ce lo presenta nella sua vita sempre identica a se stessa, fatta di piccoli rituali: la sveglia, il ripiegamento del tatami, l'innaffiamento delle piantine, le abluzioni mattutine, la pulizia dei denti, la cura minuziosa dei baffi; il viaggio per recarsi al lavoro in macchina, accompagnato dalla musica americana delle sue audiocassette; il lavoro scrupoloso e coscienzioso di pulizia e gli spostamenti da un bagno all'altro; la pausa pranzo su una panchina di un parco, dove scattare una fotografia al sole che filtra tra le mobili fronde degli alberi; la cena nel solito fast food dove è un cliente conosciuto; poi il rientro a casa, la lettura serale disteso a pancia in giù sul tatami, il sonno. I suoi giorni liberi, dedicati alla cura di se stesso, sono altrettanto ripetitivi e rituali: l'indossare l'orologio, che nei giorni di lavoro non porta, ad indicare un tempo che ha valore per sé; la pulizia del corpo in un bagno pubblico; una pedalata in bicicletta al di fuori del traffico urbano dei giorni feriali; la cena in un ristorantino la cui padrona ha un occhio di riguardo per lui. I giorni di Hirayama sono perfetti, perché privi di turbamenti come di desideri. Il suo è un mondo fissato in un cristallo di tempo, che è un tempo passato, intangibile da parte della modernità. Le canzoni che ascolta sono classici americani che non vanno più in là degli anni '70, incise su audiocassette e ascoltate su una vecchia autoradio; per fare le fotografie usa una vecchia macchina analogica con rullino; per muoversi nel tempo libero usa la bicicletta e per lavarsi, ai bagni ipertecnologici che pulisce per lavoro, preferisce vecchi bagni pubblici, dove gli uomini si insaponano e si lavano nudi seduti l'uno accanto all'altro su sgabelli di legno. Ma non è solo la modernità ad essere tenuta al di fuori del mondo di Hirayama; sono anche le persone. Gli unici esseri umani che sembrano interessarlo sono quelli con i quali non è tenuto a comunicare nella maniera naturale: un bambino piccolo che ha perso la mamma, un senzatetto fuori di testa, una ragazza che mangia muta sulla panchina accanto a lui, con l'aria inebetita, uno sconosciuto con cui intrattiene una partita a tris che prevede una mossa ciascuna al giorno, su un foglietto che ciascuno dei due provvede poi a nascondere dietro lo specchio di un bagno pubblico, affinché l'altro lo possa trovare. Lo spettatore occidentale è colpito e affascinato dalla visione di uno stile di vita improntato alla semplicità, alla frugalità, alla correttezza e alla gentilezza, all'attenzione alle piccole cose, in contrapposizione alla vita che ciascuno di noi si trova a vivere, dominata dalla complessità, dall'iperinformazione, dalla smania per le novità tecnologiche, dal consumismo sfrenato, dalla superficialità diffusa. Ma a ben guardare Hirayama è solitario fino al solipsismo, taciturno fino all'afasia, appartato fino all'anaffettività, immerso in un presente immemore fino ad essere completamente privo di prospettiva (alla nipote insegna pericolosamente e con insolita allegria che “adesso è adesso, un'altra volta è un'altra volta”). Facendo un salto mortale all'indietro, Hirayama non è forse così dissimile dal un altro antieroe wendersiano, Philip Winter, un giornalista tedesco che in Alice nelle città fugge dagli Stati Uniti per tornare nella vecchia Europa, e che attraversando una serie di non-luoghi cerca di catturare l'essenza delle cose attraverso il medium freddo della fotografia; salvo poi ritrovare la propria anima, la propria identità e i propri sentimenti solo grazie all'incontro fortuito con una bambina di nove anni che si accompagna a lui per un tratto del suo viaggio solitario. Hirayama tenta a sua volta di catturare l'incatturabile - la permanenza nel cambiamento o il carattere transeunte di una realtà che sembra immutabile - fotografando dal basso verso l'alto le foglie degli alberi, mosse dalla brezza e trafitte da un barlume di sole (ebbene sì, sembra impossibile, ma anche per tutto questo la lingua giapponese ha una denominazione: è il komorebi). Fa sviluppare e stampare e le foto, le inscatola, le etichetta con la data, le archivia in un armadio. E' un tentativo illusorio di incasellare la più effimera delle realtà, di dominare il tempo, di esorcizzare il cambiamento, mentre immagini, sentimenti ed emozioni tornano a mescolarsi nella loro natura caotica nei sogni che vengono a visitare le notti di Hirayama (le riprese dei sogni, in bianco e nero, sono state realizzate da Donata Wenders, moglie del regista, fotografa che predilige la poetica del mosso, del fuori fuoco, del controluce). Ma il cambiamento, inevitabile, arriva, quasi impercettibile: è il bacio di una ragazza che gli sfiora una guancia; sono le dimissioni di un giovane collega di lavoro; è l'arrivo di una nipote ribelle che aspira alla sua compagnia (e che lui denuncia ben presto alla madre benestante, che arriva subito a riprendersela, abortendo sul nascere quell'esperienza di condivisione che invece cambiava la prospettiva esistenziale del Philip Winter di Alice nelle città); è la visione fugace di un abbraccio; è l'incontro non cercato con un uomo malato. Hirayama, di turbamento in turbamento, è costretto ad apprendere che, sia pur impercettibilmente, le cose sono destinate a cambiare. Con l'amico di pochi notturni minuti, gioca a tentare di calpestare invano ciascuno l'ombra l'uno dell'altro, scoprendo che le ombre mutevoli si muovono e sfuggono; e infine rinuncia a riporre le proprie ultime fotografie dietro le ante morte del suo schedario. Per citare un altro titolo storico wendersiano, non è altro che un falso movimento: uno slittamento leggero in una vita che prosegue identica; ma che nella sequenza finale suscita sul viso altrimenti impassibile di Hirayama un turbinare di emozioni che mescolano il riso al pianto, la gioia ad una dolorosa malinconia. Forse anche Hirayama, come Winter - sotto la lente del cinema di Wenders, che fotografa “oggettivamente” e che contemporanea trasforma il proprio “soggetto” di osservazione - ha scoperto di essere un essere umano immerso nella condizione dolceamara, tragica e ridicola, insopportabile e inevitabile, dell'umanità. Hirayama si trovava già d'altronde tra i due poli della poetica wendersiana, l'attrazione per il mondo giapponese e quello americano: tra il rigore formale e la spiritualità dell'Oriente e lo spettacolo delle emozioni e della complessità dell'Occidente. Se Hirayama coltiva in casa il suo piccolo giardino zen, innaffiando amorevolmente piantine in germoglio colte nel giardino di un tempio, le sue frequentazioni letterarie e musicali sono prevalentemente americane. All'arte stilizzata del suo Paese, l'uomo delle pulizie affianca le letture di opere forti, di potente realismo narrativo e psicologico, come quelle di Faulkner o di Patricia Higsmith (sareste molto sorpresi leggendo in Urla d'amore il racconto La tartaruga, con il cui protagonista la nipote di Hirayama dice di identificarsi). E similmente affronta ogni nuovo giorno e ogni levarsi del sole (siamo nel Paese del sol levante...) ascoltando canzoni che parlano in lingua inglese della house of the rising sun o del morning sun che sale su una baia californiana (peccato che il distributore non abbia pensato di fare tradurre i testi delle canzoni); ed è ancora la voce ruvida e dolorosa di Nina Simone a ricordare ad Hirayama che un nuovo giorno inizia, e che ci si può sentire bene - malgrado tutto - in un'alba tutta nuova:
Birds flying high, you know how I feel Sun in the sky, you know how I feel Breeze driftin' on by, you know how I feel It's a new dawn It's a new day It's a new life for me, yeah It's a new dawn It's a new day It's a new life for me, ooh And I'm feeling good
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TALK TO ME di Danny e Michael PhilippouIl cinema australiano vanta una discreta tradizione di film horror, da Patrick (1978), ambientato in un ospedale, a Wolf Creek (2004), ambientato invece negli immensi spazi dell'outback, fino all'inquitante Babadook (2014), cui hanno collaborato anche i due registi di Talk to Me, senza dimenticare quell'oggetto tuttora misterioso, affascinante e inclassificabile che è il Picnic ad Hanging Rock di Peter Weir.
Talk to Me sceglie un'ambientazione urbana e domestica, concentrandosi sulla giovane Mia, una ragazza di colore, e sul suo gruppo di amici e coetanei. Mia è ancora turbata dalla morte della madre, forse suicidatasi, e trova conforto nell'amicizia di Jade e del suo fratellino Riley, verso il quale nutre un protettivo sentimento da sorella maggiore. Ma la vita della comunità (il film è ambientato in un sobborgo di Adelaide) viene sconvolta da qualcosa di anormale. Già nel prologo un ragazzo invasato accoltella il fratello e poi si pianta un coltello nella fronte davanti a casa. Non si tarda a capire che l'episodio è collegato ad una moda che impazza tra gli adolescenti del posto, che inscenano una sorta di rito satanico utilizzando una strano mano di ceramica ricoperta di iscrizioni e scambiandosi i video di ragazzi e ragazze che cadono in trance dopo aver stretto la mano, invocato gli spiriti con la frase del titolo e lasciandosene possedere per un breve lasso di tempo. La mano sembra infatti mettere in comunicazione con gli spiriti dei defunti. Non solo Mia, disorientata e disprezzata e tenuta a margine da alcuni membri del gruppo di amici, si lascia tentare dalla prova, rimanendone sconvolte e indugiando per più dei 90 secondi concessi, ma permette che anche il piccolo Riley si sottoponga alla scioccante esperienza. Mentre la ragazza si troverà a fronteggiare gli incubi del proprio passato recente, Riley è preda di spiriti malvagi che lo inducono a spaventosi atti autolesionistici; e gli spiriti malevoli li spingono spietatamente uno contro l'altro. Nel film di Danny e Michael Philippou non ci sono gli ammazzamenti a catena di adolescenti, preda di maniaci assassini o di maledizioni demoniache, che in genere riempiono i teen-horror movie, anche se la presenza del manufatto di origini ignote e dotato di poteri sovrannaturali è un cliché che ha invece numerosi precedenti. Se in genere i giovani (e forse più spesso le giovani) vengono puniti con la morte inflitta con i metodi più orribili per le loro trasgressioni sessuali, qui il rito della mano, collettivo, condiviso, tramandabile, mistura di sensazioni eccitanti e nello stesso tempo spaventose, sembra piuttosto alludere all'esperienza della droga. I due autori giocano sulla curiosità morbosa e sulle fragilità degli adolescenti, per costruire un horror dove, tirando le somme, ci sono dei morti (pochi), ma non è l'omicidio, bensì piuttosto il suicidio il mezzo con cui giovani e meno giovani si liberano delle proprie ossessioni. Mia è il fulcro esemplare di queste fragilità: la ragazza, incrinata dalla perdita della madre (a lei sembra rivolto l'invito del titolo), è all'affannosa e confusa ricerca di un nuovo equilibrio, intimorita di non trovare nel padre un appoggio sufficiente, di non riuscire a recuperare un rapporto affettivo appagante (il suo ex-boyfriend ora sta con la sua miglior amica Jade) e di non essere accettata dal gruppo dei pari. Se è per questo che accetta di sottoporsi al rito della mano, è proprio quest'esperienza a distruggere completamente la sua personalità. In balia di spiriti malevoli e bugiardi, Mia finisce col fare il contrario di ciò che vorrebbe, e cioè nuocere a tutte le persone cui vuole più bene. Sulle spalle di Mia (o meglio sul volto di Sophie Wilde, che la interpreta), sta quasi tutto il peso del film; si potrebbe dire che Mia incarna da sola buona parte dei ruoli di un film horror, dalla vittima ingenua e incolpevole alla visionaria, dalla carnefice alla salvatrice, dall'adolescente inquieta allo spirito fantasma. Complessivamente un esordio convincente per i due gemelli trentenni youtuber, che realizzano un horror con la giusta tensione, ma non convenzionale né banale. KAFKA A TEHERAN (Ayeh haye zamini - Terrestrial Verses) di Ali Asgari e Alireza KhatamiKafka a Teheran è dichiaratamente, fin dalla struttura paratattica e dallo stile di ripresa, un film a tesi. In 77 minuti il film racconta nove brevi aneddoti, che insieme compongono un quadro della vita e della società nell’Iran contemporaneo. Ma si ha la certezza che di storie altrettanto esemplari (in senso negativo) se ne potrebbero trovare molte ma molte di più, nella Teheran che nel prologo emerge dal silenzio e dal buio della notte fino alla cacofonia di voci e rumori man mano che progredisce la luce del giorno, e che quello proposto sia solo un umile e modesto campionario rappresentativo di una realtà ben più ampia e, purtroppo, più tragica. Se infatti è facile sorridere delle piccole vicende e dei soprusi minimali raccontati nei nove tablaux di cui si compone il film (e ispirati a casi reali di vita vissuta), è difficile dimenticare che nell’Iran che sta oltre lo schermo, solo nell’ultimo anno, a seguito delle proteste per la morte in una stazione di polizia di una ragazza fermata perché indossava male il velo, sono state uccise dagli agenti del regime teocratico oltre 600 persone ed effettuati oltre 20.000 arresti (si tratta nell’uno e nell’altro caso, in gran parte, di vittime giovani e giovanissime). Hanno fatto benissimo quindi le autorità iraniane, nella loro logica ottusa, odiosa e pervertita, a ritirare il passaporto ad Ali Asgari, che tornava in patria dopo la presentazione del film a Cannes, e a proibirgli di lasciare il paese e di lavorare ad altri progetti cinematografici. Se si pensa che in paesi come Russia, Algeria, Kuwait, Libano non si può proiettare Barbie (!), che in Polonia il governo polacco boicotta e insulta il film The Green Border della Holland, che l’Iran incarcera o impedisce di lavorare ad alcuni tra i suoi più acclamati registi come Jafar Panahi, ci si rende conto come il cinema sia anche oggi un’efficace e sensibile cartina di tornasole del clima e del livello di oppressione culturale oltre che politica che investe gran parte del mondo, dai regimi teocratici alle cosiddette democrazie illiberali che allignano nel cuore dell’Europa o ai suoi confini. Kafka a Teheran (un titolo più didascalico rispetto all’originale, traducibile in Versetti terrestri, e preso in prestito alla poetessa e regista Forough Farrokhzad, femminista ante-litteram nell’Iran degli anni ‘50-60) è in effetti un preciso e puntuale discorso sul potere, e nello specifico su come il potere politico-religioso venga esercitato in modo arbitrario e oppressivo nel regolare ogni anche minimo aspetto della vita delle persone, fino ad esiti grotteschi che conferiscono al film una sfumatura addirittura umoristica. Non si può dare al figlio il nome che si desidera, a meno che non compaia nella lista ufficiale dei nomi accettati (David non c’è); non ci può tatuare i versi di una poesia sulla propria pelle, pena vedersi rifiutare la patente di guida; se si è una bambina non si può andare a scuola in jeans e maglietta, ma bisogna impaludarsi in palandrane e sovrapalandrane per nascondere forme che neanche ci sono; se si lavora nel cinema può capitare di dover strappare dalla sceneggiatura pagine e pagine sgradite, sotto gli occhi dei membri della commissione di censura; non si può portare a spasso un cane, animale impuro, e ovviamente, se si è una ragazza, non si può salire in moto con un maschio o non si può avere un lavoro se non si è “carine” con il padrone o non ci si può togliere il velo nemmeno nell’abitacolo della propria macchina. Come in un universo kafkiano, tutti sono colpevoli di qualcosa, a prescindere, tutti sono giudicati da un potere superiore a volte senza nemmeno capire di cosa vengono accusati. Ali Asgari e Alireza Khatami adottano una precisa e radicale scelta stilistica, efficace e funzionale nella sua semplicità: i protagonisti dei singoli episodi, tutti ambientati in interni (e si capisce perché) vengono inquadrati frontalmente, a camera fissa, nell'opprimente formato 4:3, chiusi in una gabbia visiva senza vie d’uscita. Di contro, le loro controparti (presidi, datori di lavoro, censori, poliziotti, impiegati statali o comunali, o perfino commesse di un negozio di abbigliamento - declinazioni burocratiche che si insinuano fin nel quotidiano più ordinario della vita delle persone), rimangono costantemente fuori campo (al massimo intravediamo ai margini dell’inquadratura il gesto di una mano, oltre a sentire le loro voci), funzioni senza volto di una qualche forma di potere, sempre opprimente e vessatorio, onnipresente e vigile anche quando non è visibile. I dialoghi (che riecheggiano il "dibattito", una forma persiana di poesia a botta e risposta, ma anche stilemi del cinema iraniano, che se vuole essere significativo deve essere anche reticente) sono spesso iterativi, circolari: circoli viziosi dialettici da cui raramente si riesce a svicolare in qualche modo. Ma non è del tutto vero che in Kafka a Teheran siano assenti movimenti di macchina. Ce n’è in effetti uno, ma uno solo, nell’epilogo. Viene inquadrato un decimo personaggio, un uomo anziano che rimane muto davanti ad una scrivania, chiude gli occhi, piega la testa sul petto; alle sue spalle una grande finestra con vista sulla città, verso la quale, finalmente la macchina da presa avanza: supera il vecchio e si ferma davanti ai vetri, in una veduta dall’alto che ricorda quella del prologo. Ma, ad un tratto, dopo un rombo che aveva echeggiato anche nel corso di altri episodi, gli oggetti e i mobili nella stanza cominciano a tremare, e facciamo in tempo a vedere grandi edifici che crollano e si accasciano su se stessi nel cuore della città, prima che la ripresa si interrompa. La premonizione di un terremoto che verrà, atteso e temuto, una rovina da cui si spera possa rinascere una società più libera e giusta. Ma per ora dopo la distruzione c’è solo uno schermo nero. P.S.: proprio mentre scrivo questo pezzo, arriva la notizia dell'assegnazione del Premio Nobel per la Pace a Narges Mohammadi, che da anni si batte per la libertà, l'eguaglianza e la democrazia in Iran, e per questo arrestata 13 volte, condannata 5 volte, condannata a 31 anni di carcere e a 154 frustate. BARDO - LA CRONACA FALSA DI ALCUNE VERITA' |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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