ROSSO ISTANBUL di Ferzan OzpetekRosso Istanbul è la storia di un artista che torna alla propria città di origine, a confrontarsi con le persone, gli affetti e i conflitti del passato, come già succedeva al Gaspard di E' solo la fine del mondo. Rosso Istanbul è la storia di uno scrittore e di un libro, in cui personaggi della finzione e i personaggi che li hanno ispirati si incrociano come in un gioco di specchi (e più volte i personaggi vedono gli altri su vetri specchianti). Rosso Istanbul è quindi un film che riflette, anche in chiave autobiografica, sulla responsabilità e sulla libertà creativa dell'artista, e sul prezzo che questa libertà comporta. Rosso Istanbul è infatti un duplice autoritratto d'artista, con il regista che passa a cimentarsi con la scrittura letteraria, come ha fatto lo stesso Ozpetek che nel 2013 ha dato alle stampe il suo primo libro, intitolato Rosso Istanbul, ma anche con l'intellettuale che torna in Turchia dopo aver a lungo vissuto e lavorato all'estero. Rosso Istanbul è un film alla Ozpetek, con l'attrazione omofila tra i protagonisti, con l'immancabile attrice feticcio Serra Yilmaz, e dove la famiglia reale e quella allargata e utopica si trovano sedute intorno allo stesso tavolo da pranzo. Rosso Istanbul è un omaggio alla narrativa di Pamuk, a cominciare dal titolo (Il mio nome è Rosso) e dal nome del protagonista (Orhan), alla sua poetica e alla sua città. Rosso Istanbul è un thriller in cui il protagonista insegue l'ombra di un amico scomparso senza lasciare traccia. Rosso Istanbul ha al suo centro un libro, nelle sue pieghe un lutto lontano, nelle sue ambientazioni il jet set intellettuale metropolitano, un po' come Animali notturni. Rosso Istanbul ha nel suo cuore un amore impossibile e tardivo. Rosso Istanbul è un film cechoviano, dove bisogna abbandonare la casa avita piena di memorie (ma non se ne capisce il perché...), e in effetti, detto in altre parole, Rosso Istanbul è un film che non sa dove andare a parare. L'accumulo di spunti e di stimoli non riesce a tradursi in ricchezza e in profondità, ma conferisce al film una serie di anime differenti senza che il regista sappia decidere quale gli interessi di più, quale intenda approfondire e mettere a fuoco, attraverso quale tentare di emozionare lo spettatore: che viene invece portato in giro di tema in tema, ammira bei panorami di una città che conosce esotica e che scopre moderna, apprezza la fotografia di Gian Filippo Corticelli (sue anche le luci e i colori di Fortunata), stenta a capire dove il film voglia andare a parare, si trova di fronte a ellissi buttate lì e non spiegate, come la morte di Yussuf, perde via via interesse e allenta la propria attenzione. Purtroppo poi, malgrado le libertà prese rispetto all'omonimo testo d'origine dagli sceneggiatori (oltre a Ozpetek Gianni Romoli e Valia Santella), opera dello stesso regista, la natura letteraria dell'ispirazione resta appiccicata al film in battute di dialogo sentenziose e libresche. Ozpetek, inoltre, tornato a girare in patria dopo 16 anni e altri 8 film, sembra rinunciare a priori a parlare delle contraddizioni della Turchia di oggi, avvitata purtroppo in un'inquietante e apparentemente inarrestabile spirale autoritaria e reazionaria, limitandosi a qualche criptico accenno alla questione curda (una famiglia in fuga, la protesta delle “madri del sabato”) e preferendo frequentare ambienti di alta borghesia politicamente anodini. Peccato: se Rosso Istanbul avesse scelto quale o quali film essere, magari avrebbe potuto essere un bel film.
0 Commenti
QUELLO CHE SO DI LEI di Martin ProvostQuello che so di lei (il titolo italiano assona un po' con quello del film della Hansen-Løve, Le cose che verranno: le cose che so di lei, quello che verrà...) è un altro di quei film molto francesi che non sono né commedie né drammi perché raccontano le cose della vita, che partecipano un po' dell'una un po' dell'altra. Se ne L'avenir a tenere lo schermo era l'assolo di Isabelle Huppert, qui la ragion d'essere dell'operazione sta nella presenza di un mostro sacro come Catherine Deneuve (non è difficile immaginarsi un Depardieu in un equivalente ruolo al maschile), che deve però dividere la scena con l'omonima Frot. E' quest'ultima la sage femme del titolo originale: termine che in francese indica la professione di ostetrica o levatrice ma che corrisponde anche al reale carattere della donna: sulla cinquantina, con un figlio grande, assennata, assestata su una linea di equilibrio un po' al ribasso, un po' repressa, alle prese con la difesa della tradizione umanistica (o si dovrebbe dire femministica?) del proprio mestiere (insidiata da una nuova organizzazione che vorrebbe trasformare il reparto ospedaliero in una sorta di infantificio asettico e tecnologico). A portare scompiglio nella sua vita ordinata arriveranno la notizia che il giovane figlio sta per diventare padre a sua volta e che ha intenzione di lasciare gli studi di medicina per quelli di ostetricia, seguendo le orme femminili della madre soprattutto per una questione di calcolo economico (tempo/soldi). Ma soprattutto a dare una svolta alla sua esistenza sarà il teatrale ritorno in scena di Béatrice, la donna che molti anni prima convinse il padre di Claire a lasciare la propria moglie per seguirla, lui e la giovane figlia, in avventure picaresche che si si conclusero con il brusco e inspiegato abbandono da parte della seduttrice. Ora Béatrice è gravemente malata e, tornata per cercare notizie del vecchio amore, che si era suicidato a sua insaputa in seguito alla sua dipartita, non trova di meglio che coinvolgere la compassata Claire nelle sue ultime fiammate di vita. Malgrado il tumore che la affligge, la donna è rimasta un'avventuriera e una libertina, che mette il piacere e la libertà davanti a tutto: così fuma, beve, mangia carne rossa, rischia i suoi residui averi nelle bische. Sedicente contessa, è nata povera e morirà senza lasciare nulla a Claire, se non un anello, un biglietto d'addio, e una rinnovata voglia di vivere, che Claire imparerà a condividere con un camionista suo vicino d'orto, provvidenzialmente comparso in coincidenza con l'arrivo di Béatrice, che la corteggia e la conquista con la sua gentilezza e il suo desiderio. Film di donne quindi, di madri e di figlie, ma scritto e diretto da un uomo, Martin Provost, che in qualche modo rivendica comunque spunti autobiografici. La Deneuve si impone con autorità e disinvoltura dall'alto di una carriera ultracinquantennale, tallonata dalla Frot che è però frenata da un viso un po' gommoso. Godibile anche l'interpretazione di Olivier Gourmet, attore dardenniano qui impegnato nell'insolito ruolo di amoroso. Forse il pubblico femminile gradirà, rivivendo gioie e dolori del parto nelle numerose scene con neonati emozionanti appena usciti tutti sporchi dai grembi delle loro mamme; e meglio si potranno immedesimare con Claire quelle che hanno avuto madri un po' ingombranti e conosciuto quel groviglio di sentimenti tra ammirazione, invidia, gelosia e senso di inferiorità. Ma c'è da dire che il film, una volta impostata la situazione di base: donna-matura-gaudente-ma-malata, donna-più-giovane-complessata-ma-per-la-quale-non-è-ancora-troppo-tardi, corteggiatore-paziente-e-appassionato, non offre molte sorprese e scorre senza sussulti, con qualche ripetizione e suscitando moderato interesse, verso il finale più prevedibile. CUORI PURI di Roberto De PaolisAgnese e Stefano appartengono a due mondi opposti, eppure contigui nello spazio fisico del quartiere della periferia romana in cui abitano. Lei è una diciottenne che vive sola con la madre, una fervente cattolica che la spinge a partecipare alla vita della parrocchia, alle attività di volontariato caritatevole e a contrarre la promessa solenne di conservarsi pura fino al matrimonio. Lui ha qualche anno in più, con dei genitori sbandati e problematici da accudire probabilmente più di quanto loro abbiano mai accudito lui, prima vigilante in un centro commerciale, poi sorvegliante di un parcheggio. Lei frequenta un gruppo di coetanei cattolici, in cui si parla di solidarietà, di amore, di sacrificio di sé; lui frequenta amici che vivono ai margini o oltre la legalità e passa le sue giornate nella solitudine di un parcheggio separato da un campo rom da una precaria rete metallica. Lei sente parlare il linguaggio dell'amore, per lui la violenza è un linguaggio naturale, il modo comune di rapportarsi con amici e nemici. Stefano ha i suoi problemi a far rispettare le regole nei suoi lavori, che gli chiedono di esercitare un controllo sugli altri, e nell'imporsi di odiare i suoi vicini, che non sono poi così abissalmente diversi da lui; Agnese invece ha delle difficoltà a conciliare le regole che gli altri le impongono con la propria naturale maturazione che la sta trasformando in una giovane donna il cui cuore e il cui corpo hanno un impellente bisogno d'amore. Detto in immagini, Stefano deve riparare la rete di recinzione divelta per ristabilire un confine fisico con l'esterno; Agnese è alle prese con i confini interiori, e nascosta in bagno abbassa gli slip per depilarsi e per preparare il proprio corpo ad un incontro con l'altro che sente ormai imminente. Questo gioco di ruoli tra chi deve controllare e chi subisce i controlli si riflette anche nei rapporti tra i due giovani, e si esplicita nelle due scene speculari di rincorsa che aprono e chiudono il film e l'arco della storia di Stefano e Agnese: se sono sempre le trasgressioni della ragazza (che durante il film incorre a dire il vero in diversi peccati mortali...) a scatenare l'azione, e Stefano è in entrambi casi impegnato a rimettere in qualche modo a posto le cose, a ristabilire un ordine e una giustizia, nel finale l'ordine nella corsa si inverte: nella prima scena era Stefano a inseguire Agnese dopo che aveva rubato un telefonino in un centro commerciale, nel finale è lei a rincorrere lui, per impedire che una sua bugia possa avere conseguenze fatali, e per riabbracciarsi all'amato dopo un rabbioso e sofferto abbandono. Nella vita squallida della periferia, nei contrasti con i genitori, nelle difficoltà di trovare un proprio posto nella società, nella difficile necessità di trovare un modo per rapportarsi al diverso da sé, Stefano e Agnese hanno una speranza, e quella speranza si chiama amore. Hanno avuto la fortuna di incontrarsi e di superare alcuni ostacoli; ora e per il futuro dovranno sicuramente combattere, per mantenere puri i loro cuori che lo sono ancora anche se i loro corpi non lo sono più. E' una morale semplice, ma non semplicistica e neppure moralistica (De Paolis si tiene lontano tanto dal politically correct quanto dalla facile retorica antireligiosa), e non meno vera e reale nella sua semplicità. Roberto De Paolis (fotografo, documentarista, autore di cortometraggi) al suo esordio nel formato lungo, gira un cinema molto molto fisico e che pure rivela una grande sensibilità, oltre che un'approfondita conoscenza del campo di azione (testimoniata dalle dichiarazioni del regista che racconta delle lunghe ricerche compiute prima di iniziare le riprese). Una conoscenza che gli permette di girare con freschezza e libertà, aprendo spazi all'improvvisazione degli interpreti, con il risultato di conferire un sapore di autenticità e di realtà al racconto (cui contribuisce, oltre che lo stile delle riprese e la scelta delle location, anche un'ottima presa in diretta del suono). Bisogna dire che questa impostazione beneficia anche della grazia del cast: se Barbora Bobulova (la madre di Agnese; e lo stesso si potrebbe dire di Stefano Fresi, nel ruolo del prete, alle prese però con un personaggio molto più monodimensionale) è l'efficace professionista di sempre, Selene Caramazza e Simone Liberati sono perfetti e quasi commoventi nella loro adesione ai ruoli e Edoardo Pesce (già apprezzato in Fortunata e già protagonista del corto di De Paolis Alice), nei panni di Lele, l'amico spacciatore di Stefano, si conferma un attore di grande qualità e presenza scenica, e sicuramente meritevole di maggiore visibilità. IL CITTADINO ILLUSTRE di Gastón Duprat e Mariano CohnCosa succede se il premio Nobel per la letteratura, sinceramente annoiato da tutte le celebrazioni, la mondanità e perfino dall'ambiente genuinamente culturale e intellettuale dell'intero pianeta decide per un impulso improvviso e irrefrenabile di tornare per un breve periodo nel suo paese natale, Salas, un villaggio dell'Argentina profonda, da cui è fuggito insofferente decine di anni fa ma che è rimasto vivo nella sua anima ad alimentare costantemente la sua vena creativa? Succede che all'accoglienza trionfale, anche se un po' intimidita, fanno seguito conflitti sempre più pesanti e aperti. Gastón Duprat (anche sceneggiatore) e Mariano Cohn (anche fotografo) non hanno dubbi sulla parte da cui schierarsi, e non è detto che sia la più scontata. Tonnellate di film avrebbero scelto sicuramente la strada della commedia sentimentale buonista, dove l'intellettuale inaridito e snob, a contatto con la vita semplice e genuina dei vecchi compaesani, che vivono più col cuore che col cervello, avrebbe riscoperto i veri valori della vita, avrebbe magari rimparato ad amare e avrebbe riconquistato la perduta vena creativa. Niente di tutto questo ne Il cittadino illustre, dove lo scrittore Daniel Mantovani, dal carattere tutt'altro che tenero e accomodante, ma ben disposto ad abbandonarsi per qualche giorno all'affetto e all'ammirazione che i vecchi compaesani si aspetta debbano tributargli, si trova immerso in una comunità vischiosa che si rivela sempre più ostile mano a mano che emerge l'indisponibilità del concittadino di fama e successo ad assecondarne le aspettative. Perché presto appare chiaro che ognuno da Mantovani si aspetta e pretende qualcosa; dal sindaco che lo vuole sfruttare per migliorare la propria immagine, alla giovane che gli si concede sperando di aprirsi una via di fuga dall'asfittica vita provinciale, al pittore mediocre che pretende la gratificazione da parte di un critico di prestigio, al vecchio amico che vuole vendicarsi del suo successo sbandierandogli la preda sottratta, e cioè l'antica fidanzata di Daniel, ora sposata con lui che la esibisce come una sorta di ostaggio o di alternativo status symbol. Tutti si presentano a Mantovani per chiedere: anche soldi, o financo l'umile soddisfazione di veder riconosciuto nei personaggi di fantasia dello scrittore l'eco di un parente che potrebbe averli ispirati. Duprat e Cohn fanno mantenere a Mantovani un atteggiamento dignitoso, a volte perfino duro, quando rifiuta l'aiuto economico a un disabile, a volte perfino grottesco, come quando elogia un quadro di un concorso di pittura (purché visto dal retro, dal momento che è stato dipinto su un manifesto pubblicitario riciclato, e quindi inconsapevolmente allude al rapporto tra arte e mercificazione); ma sempre dettato da una rigorosa onestà intellettuale. La rigidità di Daniel si scontra con una dimensione provinciale descritta come gretta, meschina, mediocre, interessata nel migliore dei casi alla personalità di fama piuttosto che al contributo culturale e intellettuale che questa potrebbe portare in dono alla comunità. La curiosità deferente e sospettosa di cui è fatto oggetto all'inizio si trasforma ben presto in distacco (il numero delle persone presenti alle sue conferenze diminuisce a vista d'occhio), poi in contestazione, infine in ostilità aperta e eclatante. La commedia buonista che avrebbe potuto essere si rivela invece una commedia nera, agra, a tratti sgradevole, problematica. Alla fine sembra quasi naturale che finisca in tragedia, alla Scene di caccia in Bassa Baviera, con il protagonista che diventa letteralmente (e cioè con un processo inverso a quello letterario che lui padroneggia così bene) la preda sacrificale di una comunità belluina e barbara che non accetta il diverso. Una tesi e un posizionamento “politici” non facili da accettare, ma che conferiscono al film a sua volta un'aura di originalità e di sincerità morale e intellettuale. La commedia agra strappa qualche volta sorrisi a labbra tirate, ma stimola la riflessione. Oscar Martínez si è aggiudicato con la sua interpretazione nel ruolo del protagonista la Coppa Volpi alla Mostra del Cinema di Venezia; ma la regia del film, malgrado quattro mani al lavoro, è piuttosto sciatta e scialba. L'unico guizzo registico, alla fine, rimane quello dei concittadini che, accogliendo Mantovani, mostrano con orgoglio un filmato in power point che ne ripercorre la vita e la carriera: orribilmente kitsch, ma che commuove Mantovani fino alle lacrime. Per un attimo, la vendetta dell'antiestetica, la rivalsa del sentimentalismo e del cattivo gusto che riescono a generare emozione in chi ha creduto di poter relegare i sentimenti nella sfera chiusa dell'estetica. RITRATTO DI FAMIGLIA CON TEMPESTA di Hirokazu Kore-edaHirokazu Kore-eda imposta spesso le sue analisi cinematografiche sulla famiglia nella società giapponese (scelta tematica per cui viene spesso accostato a Ozu) sull’espediente dell’estraneo. Per limitarci ai tre film distribuiti in Italia negli ultimi anni (la sua filmografia, che data dall’inizio degli anni ‘90, sfiora la ventina di titoli), in Father and Son, in Little Sister, in Ritratto di famiglia con tempesta, la molla narrativa è sempre la stessa: si prende una famiglia più o meno tranquilla e si introduce un corpo estraneo, e si osservano le reazioni: nel primo è un figlio che un padre scopre improvvisamente non proprio, scambiato nella culla; nel secondo la sorellina che il padre delle protagoniste ha avuto con un’altra moglie. In After the Storm (questo il titolo internazionale di Ritratto di famiglia, quello giapponese, tratto da una canzone, si traduce più o meno con “Più profondo del mare”) l’estraneo è lo stesso padre di famiglia, separato dalla moglie, autorizzato a vedere il figlio una sola volta al mese, autore di un solo libro di successo, e ora impegnato a giustificarsi della sua nuova attività di investigatore privato con il pretesto di raccogliere materiale per un nuovo romanzo. Ma non è finita qui: Ryota non paga gli alimenti alla moglie, ricatta i suoi investigati, tenta di derubare perfino l’anziana madre, sperpera i soldi in scommesse naturalmente perdenti. Sarà la ventiquattresima tempesta della stagione a Tokyo a riunirlo a moglie, figlioletto e madre nella casa di quest’ultima, in una notte in cui fare i conti col proprio passato per superarlo, per accettare il presente e per affrontare a testa finalmente alta un futuro comunque incerto. Può darsi che Oruam Norac vi parli di delicatezza di tocco, di profonda umanità, di un’antimelodrammatica accettazione della vita e di quella elegante saggezza orientale che riemerge anche in un contesto squallido come quello descritto dal film (che evita comunque toni malinconici o drammatici, attestandosi invece su un registro lieve e non privo di umorismo), ma non fa per me. Il regista si prende troppo troppo tempo per descrivere situazioni e caratteri, il film manca di tensione e di concisione. Confesso: io ho superato solo la prova di Father and Son, per Little Sister e per Ritratto di famiglia mi spiace ma rispettosamente passo la mano. LADY MACBETH di William OldrydNon date troppo retta alle suggestioni del titolo e del claim preso in prestito da Indiewire (“come se Alfred Hitchcok avesse diretto Cime tempestose”): la Catherine del film è accomunata dall'antieroina della tragedia shakespeariana solo dalla pervicacia con cui, affiancata dal proprio amante, non si ferma di fronte al delitto pur di ottenere i propri scopi; Cime tempestose potrebbe starci per ambientazione, epoca e per alcune tematiche (e per certi versi l'opera richiama anche la lady Chatterley di Lawrence), ma Hitchcock – a parte la generica presenza di una serie di azioni delittuose – c'entra davvero poco, o, meglio, nulla. Il riferimento cinematografico semmai va a certo cinema nordico contemporaneo, algido e crudele, come quello di Winding Refn, o di von Trier, delle cui eroine Catherine potrebbe essere una cugina non remissiva, portatrice libidica del caos del desiderio femminile in opposizione al principio sadico e maschile di autorità. Perché nel film a muovere le azioni della protagonista non è la sete di potere, bensì la forza selvaggia del desiderio, che da impulso sano e insopprimibile in lotta contro la (ipocrita) morale borghese vittoriana si trasforma in una lucida deriva verso il delitto priva di rimorsi. In effetti il titolo non si richiama direttamente all'opera di Shakespeare, bensì ad un racconto russo di Nikolaj Leskov (Lady Macbeth del Distretto di Mcensk), di cui fu già riconosciuto il potenziale spettacolare, al punto da essere tradotto per il palcoscenico negli anni '30 del '900 in un'opera firmata da Šostakovič. Dalla Russia zarista, quindi, la signora Macbeth torna in un certo a casa, nelle brughiere e nei boschi del nord dell'Inghilterra. Dove, nell'800 vittoriano, Catherine va in sposa a un marito possidente ma freddo e anaffettivo, che la trascura e la umilia. Un suocero altrettanto odioso la angaria perché non genera un erede, cosa abbastanza difficile visto che il consorte non la tocca con un dito e al massimo gode della visione di lei nuda masturbandosi senza guardarla in viso. Ma Catherine, e lo si è visto dalla prima sequenza, in cui da sotto un velo da sposa, in chiesa, non resiste a lanciare intorno occhiate vivide, curiose e intimamente divertite, è una ragazza sana, percorsa dagli appetiti di una giovane donna, avida di vita, di amore, di esperienze, di aria fresca, di sesso. Rinchiusa invece come una prigioniera tra le mura gelide di una casa di campagna, sorvegliata da una domestica che la invidia, forse la disprezza e infine impara a temerla, Catherine non tarda a gettarsi tra le braccia di un focoso stalliere. Ma la grande magione di campagna è troppo piccola per tenere un segreto e per contenere l'irruente passione di Catherine. Seguita dall'amante sempre più riluttante e sempre più avvinto, la donna elimina sistematicamente tutti gli ostacoli che si parano tra lei e la soddisfazione del suo piacere (vecchi e giovani, bambini e animali), fino a una conclusione in parte inaspettata che si discosta da quella del testo letterario d'origine. Se la trama è ricca di dualismi (il marito e il suocero, il marito e l'amante, Catherine e Anne, un bambino in grembo e uno piovuto dal cielo, gli interni domestici e lo spazio della natura), anche nelle riprese si alternano due stilemi: da una parte le vibrazioni della camera a mano, dall'altro la camera fissa che ritrae spesso Catherine in posizione frontale e centrale, a segnarne un progetto egemonico inteso a imporla come regina della casa e del desiderio, e perfino a restituirle una mistificante ma autorevole collocazione sociale. William Oldryd alla sua prima regia cinematografica dimostra inoltre la sua solida formazione teatrale componendo tableaux vivants con una raffinata attenzione alla disposizione strategica dei personaggi nella scena, anche e soprattutto nelle sequenze apparentemente prive d'azione riprese a camera fissa. La scena che rimarrà più impressa nel ricordo dello spettatore sarà probabilmente quella di un infanticidio osservato in un impassibile campo lungo. Alla suggestione figurativa contribuisce poi in modo determinante la fotografia di Ari Wegner, che alterna le luci, spesso livide, degli ambienti naturali agli interni illuminati dalla luce naturale proveniente dall'esterno o dalla luce fioca e ambrata delle candele, e che rende continuamente omaggio alla tavolozza luministica della pittura fiamminga. Ma uno dei fattori più importanti nella riuscita del film (tra i meno riusciti ci sono invece la debolezza di alcuni personaggi, compresi l'amante e il bambino, e la svolta della sceneggiatura che a metà film ne introduce inopinatamente di nuovi) è l'interpretazione di Florence Pugh, nel ruolo di una dark lady (analogo a quello recentemente interpretato dalla Cotillard in una proposizione ortodossa del testo shakespeariano) piccola e paffuta, che riesce a far trasparire, al di sotto dei corsetti e delle gonne a ruota, e sul proprio viso, di volta in volta, una freschezza infantile e la forza della passione, l'ironico disincanto e l'esuberanza conculcata, la sensualità sfrontata e la imperturbabilità luciferina. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
|