HAPPY END di Michael Haneke(Se Michael Haneke parla di happy end c’è di che far tremare le vene dei polsi. In Funny Games (giochetti divertenti) una famigliola innocente veniva sequestrata, torturata psicologicamente e sterminata per diporto; Amour (amore) parlava di malattia, solitudine e sofferenza, e del momento in cui l’unico gesto d’amore eventualmente possibile è dare la morte alla persona amata. Qui va ancora bene, in famiglia c’è solo la ragazzina (la fantastica Fantine Harduin) che uccide un criceto e la propria mamma; il patriarca malato di Alzheimer che, dopo aver soppresso la moglie malata – cosa che Trintignant, già padre della Huppert, aveva già fatto in Amour, che ne risulta pertanto una sorta di prequel apocrifo –, ora desidera solo la morte anche per sé; il nipote frustrato e forse alcolizzato; la figlia anaffettiva; il figlio che intrattiene relazioni adulterine sadomaso coltivate in Internet. E’ forse proprio l’effetto “catalogo”, la dimensione collettiva, a togliere un po’ di forza al film di Haneke, che ci aveva abituato con poche eccezioni a opere molto più concentrate e compatte. Il ritratto famigliare (con corredo di collaboratori e animali domestici e di bebè) di borghesia corrotta e perversa rischia di suonare parecchio programmatico e dimostrativo. Happy end in effetti non è il migliore dei film del regista austriaco (qui ancora una volta con ambientazione e – lussuoso – cast francofono con Trintignant, Huppert e Kassovitz), pur conservandone temi e stilemi. Il pessimismo cosmico di Haneke ha qui echi marcatamente sociali, con la presenza in un paio di occasioni di immigrati di colore (in un caso si tenta di reclutarli per un’eutanasia in cambio di un orologio, nell’altro li si invita a guastare una festa borghese con la loro presenza incongrua e inopportuna), di domestici servili e di rappresentanti dei ceti popolari (i parenti dell’operaio rimasto coinvolto in un incidente nel cantiere edile di proprietà dei protagonisti). Ma i personaggi del regista rimangono sempre in una dimensione solipsistica, dove l’unica forma di comunicazione possibile con gli altri sembra essere la sofferenza inflitta, subita o agognata. Dal punto di vista stilistico Haneke ci tiene a rimarcare la sua distanza entomologica dai propri personaggi, inquadrati in sequenze a camera fissa, a volte in campo lungo in lontananza (tanto che un incidente letale “accade” semplicemente, a margine, in un’inquadratura neutra e impassibile), a volte addirittura spiati attraverso lo schermo del cellulare di una bambina cattiva che, contrariamente a quanto ad un certo punto si è indotti a sperare - e a rimarcare che l’animo umano non è buono e che per l’umanità non c’è futuro -, non si redimerà arrivando a provare dei sentimenti empatici con chi le sta vicino. Non è l’unico caso in cui Haneke si diverte a giocare con le aspettative dello spettatore: esemplare è infatti la circonvenzione messa in atto riguardo all’individuazione dei protagonisti della chat erotica, in cui la regia fa la misteriosa e induce a false piste. Frequenti sono inoltre i casi in cui ci vengono mostrate immagini che troveranno spiegazioni solo alcune sequenze più avanti. Insomma, il cinema freddo, spietato, cinico, crudele e privo di consolazioni di Haneke ha prodotto non pochi - spiacevoli - capolavori. Non è il caso di Happy End, ma sono ragionevolmente certo che altri ne verranno.
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THE BIG SICK di Michael ShowalterThe Big Sick è stato salutato come una delle migliori e più originali commedie sentimentali degli ultimi anni. Il film ha a priori un valore aggiunto: si tratta della vera storia, benché romanzata e adattata a esigenze drammaturgiche e cinematografiche, accaduta a Kumail Nanjiani, attore prevalentemente comico, statunitense di origine pakistana, che nel film interpreta se stesso, e di Emily Gardner, attualmente sua moglie, interpretata nel film da Zoe Kazan (nipote del grande regista di origine armena Elia). I due hanno scritto a quattro mani la sceneggiatura che racconta i fatti a loro realmente accaduti, affidando la regia a Michael Showalter, per la produzione di Judd Apatow, considerato uno degli innovatori della commedia brillante contemporanea. Personalmente, tuttavia, continuerei tutta la vita a votare La la land come miglior rom com del secolo, e, forse, (500) giorni insieme come una delle più originali dell’ultimo decennio. Con La la land The Big Sick ha anche qualche elemento comune (le ambizioni artistiche del protagonista, la collisione tra il momento dell’occasione professionale e quello della crisi sentimentale), e il film vanta indubbiamente alcuni pregi. Molti hanno parlato della levità con cui tocca il tema delle differenze etniche e culturali e la leggerezza del tocco registico, che induce al sorriso o alla commozione senza mai calcare la mano sui toni. Un esempio dello stile di sceneggiatura e di regia può essere individuato nel modo di tratteggiare le pretendenti che la famiglia presenta al protagonista (accompagnate con tanto di foto e di curriculum), tentando di indurlo ad un matrimonio combinato: in molti sarebbero caduti nella tentazione di farne delle macchiette sfruttando le relative occasioni comiche; invece le ragazze pakistane descritte sono di gradevole aspetto e rivelano nelle brevi sequenze loro dedicate una rispettabilissima personalità. Da notare inoltre che nessuno dei due protagonisti è dotato della tipica avvenenza hollywoodiana che si è soliti ritrovare nei prodotti mainstream. Il tratto più originale di The Big Sick mi è sembrato però risiedere nel modo in cui la storia d’amore viene sviluppata attraverso l’elemento del tempo. Assistiamo nella prima parte alle prime fasi dell’innamoramento e dell’inizio di una relazione; come talvolta accade, i due sembrerebbero essere male assortiti: lui ha la pelle scura e i capelli neri, è pakistano, aspira a diventare uno stand up comedian (che gioca con gli stereotipi della propria etnia e della propria cultura) e ama vecchi horror di serie B; lei è una biondina wasp aspirante avvocatessa che sopporta i tentativi di seduzione cinefili di lui con divertita insofferenza. Eppure la scintilla del desiderio reciproco scocca immediatamente; ma quando le cose sembrano farsi più serie, Emily scopre che Kumail - assillato dalle proposte famigliari di matrimonio combinato, che pure ripudia con ostinazione e disinteresse -, nel momento in cui si trova costretto a scegliere tra l’amore di lei e la propria famiglia, non avrà la forza di rinunciare alla seconda. La rottura del rapporto è seguita dalla malattia di lei: la grande inspiegabile malattia diventa all’improvviso una grande parentesi narrativa (se il titolo fosse stato The Big Coma sarebbe stato possibile parafrasarlo in The Big Comma), in cui Emily viene messa da parte, in coma indotto in un letto di ospedale, mentre Kumail si ritrova a viverle accanto, insieme ai genitori di lei (la madre è Holly Hunter, indimenticata protagonista di Lezioni di piano) accorsi a Chicago per assisterla. Da questo momento il film diventa una commedia romantica davvero strana, anzi, per meglio dire, cessa di esserlo per trasformarsi in una commedia di caratteri, con la protagonista accantonata e la storia che si concentra sul rapporto tra Kumail e i genitori di Emily, apparentemente uniti nella disgrazia ma in realtà a loro volta stressati da una crisi coniugale. L’asimmetria di partenza tra i personaggi si estende ora anche alla dimensione della coscienza e del tempo, scaglionandoli su piani differenti. In questa grande parentesi statica, l’amore di Kumail, che sembrava essersi arrestato, si rimette in moto e ricomincia a macinare la distanza che lo separa da Emily. La sorpresa (anche se è naturale che sia così) è che lo sfasamento che si crea tra i due personaggi, uno che rielabora il proprio innamoramento, l’altra incapace di intendere e di volere, permane anche quando Emily riprende coscienza. Il metaforico bacio che Kumail ha continuato a darle nel periodo della sua assenza non resuscita per incanto l’amore della “bella addormentata”: i due si ritrovano ancora una volta in dimensioni sfalsate; mentre Kumail ha avuto il tempo di rielaborare il senso e l’importanza della sua relazione con Emily, per lei il tempo si è fermato al “tradimento” di Kumail: per lei nulla è cambiato, non c’è nessun motivo per riprendere la relazione interrotta. Se questa asimmetria psichica e sentimentale riuscirà ad essere superata, se i pianeti dei due giovani torneranno un giorno a riallinearsi, solo il tempo - di nuovo - potrà dirlo; gli sceneggiatori e il regista si prendono fino all’ultimo minuto per abbozzare quella possibile risposta che determinerà il futuro del loro amore, oltre che l’appagamento o lo scoramento di spettatrici e spettatori. UNA QUESTIONE PRIVATA di Paolo TavianiConfesso subito: a me i fratelli Taviani non mi hanno mai convinto, nemmeno ai tempi dei consensi unanimi per La notte di San Lorenzo, nemmeno ai tempi della riconsacrazione festivaliera internazionale (dopo i premi di Cannes degli anni '70-80) per Cesare deve morire. Per non parlare di come ci eravamo lasciati (male) con il tutt'altro che meraviglioso Maraviglioso Boccaccio di un paio d'anni fa. Sono andato quindi a vedere Una questione privata, tratta dal romanzo breve di Beppe Fenoglio (autore che invece amo), con tante aspettative negative che adesso, avendolo visto, sono quasi deluso dal non esserne rimasto deluso tanto quanto mi aspettavo. Non che mi sia piaciuto, ecco. Ma mi è dispiaciuto meno di quanto mi aspettassi (mi vengono ancora le scalmane quando penso a vent'anni di distanza a quel terribile passo falso del cinema resistenziale “moderno” e di Daniele Luchetti compiuto con I piccoli maestri. Certo che già dalle prime inquadrature quando si vede quella nebbia che sa di posticcio, e si ode quel continuo fischio del vento (con la nebbia?), che sa di posticcio pure lui, ci si aspetta il peggio. C'è una villa incongrua in una zona di montagna, una ragazza molto più leziosa che affascinante, un soldato che risponde al telefono mentre a due metri infuria una battaglia mortale, il fascista batterista prigioniero che fa il buffone a beneficio proprio e del perplesso spettatore, ci sono i personaggi in pose plastiche. Alla fine, anche una scena muta, sobria e straziante come quella della bambina della strage che si alza per bere d'acqua turba, ma nello stesso tempo, visto il contesto, lascia in bocca un indesiderato sapore di artificiosità. NAPOLI VELATA di Ferzan OzpetekLa stupenda scala a spirale inquadrata dal basso nella prima inquadratura rimanda subito ai vortici dei titoli di testa di Vertigo e ai morti che vissero due volte. Ci aspettiamo quindi ad assistere ad una storia di paura e desiderio, di corpi doppi, di mistero e delitto: Entre le mortes si intitolava il romanzo di Boileau e Narcejac da cui è tratto La donna che visse due volte, ed effettivamente la professione della protagonista di Napoli velata ci porta letteralmente in un obitorio dove si praticano autopsie. In realtà il seguito del film sembra spostare l'orizzonte di riferimento piuttosto dalle parti della declinazione depalmiana del cinema di Hitchcock (personaggi duplici, doppie personalità, complessi di colpa radicati nel profondo della storia famigliare, omicidi a luce rosse), non esente da echi di epigoni ancora più recenti alla Basic Instinct (non solo per la torrida scena di sesso ad inizio film – e a spettatori ancora “freddi”). Ovviamente le influenze sono declinate al modo di Ozpetek, iscritte nel suo orizzonte tematico (come ha messo in evidenza Marzia Gandolfi su Mymovies, si tratta ancora di una storia centrata sull’oscillazione tra una perdita e un incontro), tra l’autocitazione (torna qui in chiave drammatica la casa infestata dai fantasmi di Magnifica presenza) e il compiacimento nella composizione della corte di bizzarri personaggi che generalmente fanno da sfondo e coro, spesso irriverente, ai suoi protagonisti. Ma è con un film contemporaneo, di questa stessa stagione, che Napoli velata rivela coincidenze e affinità straordinarie e inaspettate. Si tratta di Personal Shopper, premio per la regia all’ultimo festival di Cannes. In entrambi i casi c’è una donna alla ricerca della propria identità, che ha appena perso una persona amata che torna a manifestarsi in forma fantasmatica, e che viene indirettamente coinvolta in una storia delittuosa con risvolti polizieschi. Addirittura i finali dei due film rimano nel rimando ad una dimensione metafilmica: la Maureen di Personal Shopper interroga lo schermo e lo spettatore chiedendo, dopo essere stata visitata di nuovo da un’entità misteriosa, “o sono solo io?”; l’Adriana di Napoli velata, dopo aver ricevuto nuovi segnali da parte di quello che si era già ormai rivelato un suo puro fantasma mentale, gira un angolo di strada e scompare a sua volta come un fantasma. Finali entrambi che insinuano un dubbio sulla realtà ontologica o finzionale dei personaggi, che mandano in corto circuito il rapporto fiduciario autore-personaggi-spettatore. Il chiamare in causa una dimensione metaforica non è d’altronde fuori luogo nel caso del film di Ozpetek. Il suo è un film che parlando del vuoto dell’assenza (propriamente dell’horror vacui) adotta una strategia barocca, dove lo spazio filmico e narrativo deve essere comunque riempito con qualsiasi mezzo o presenza (fantasmi, amici, parenti, poliziotti, sensitive, invitati, anziani, performer, musicisti, ecc.). Ma in questa sovrappopolazione che distrae l’attenzione sono individuabili alcune ricorrenze visive alle quali può, o almeno così mi sembra, essere attribuito valore di metafora. Così è ad esempio per la disseminazione visiva di scale (rampe, trombe, spirali, scalinate, scale mobili) lungo l’iconografia del film. La prima sequenza inquadra una scala dal basso; il primo movimento della mdp ci conduce a salirne i gradini, immediatamente verso il cuore della tragedia. E’ un movimento che già rivela tutto il portato simbolico della scala, che collega nello stesso tempo luoghi e tempi (il presente della visione e della narrazione a seguire vs. il passato tragico), la dimensione conscia e il rimosso, l’inganno (allo spettatore) e il suo disvelamento. Un’altra figura simbolica è già d’altra parte preannunciata dal titolo: il velo. Anche in questo caso Ozpetek enuncia la sua funzione nei primissimi minuti: la seconda sequenza si conclude infatti con una donna (quella tra l’altro che conosce la verità che la protagonista ha preferito relegare nell’oblio dell’inconscio) che tira un sipario tra la scena e la mdp/schermo proclamando che gli uomini non sopportano troppa verità. La figura del velo ritorna nell’utero velato della Farmacia degli incurabili, sul corpo del Cristo (velato ma prodigiosamente ri-velato) del Sanmartino, mentre una maschera, che di nuovo gioca a nascondere i volti nel momento stesso in cui svela allo spettatore una parte del mistero del film, è il mcguffin che si capisce aver scatenato la catena degli eventi. Mentre gli occhi di Adriana vedono contemporaneamente troppo poco (il proprio passato traumatico) e troppo (la presenza di un amante inesistente), il film è disseminato di ipervisioni (la veggente, Pasquale morente che vede il volto della madre, il poliziotto che ha immediato accesso, ancora prima di conoscerla, all’intimità senza veli del corpo di Adriana) e di occhi ciechi (quelli strappati al corpo di Andrea e simbolicamente restituiti sotto forma di portafortuna al suo fratello gemello Luca, ma anche la scala stessa dell’incipit, occhio ellittico che porta alla visione primaria, o l’utero-occhio che allude a una visione non oculare ma intestina). Napoli velata, ambientata sulla superficie di una città storica e moderna insieme, affonda infatti nello stesso tempo, come la Roma stratificata cui Freud paragonava le dimensioni psichiche, nella profondità dell’ancestrale, qui strettamente intrecciata alla storia e al mito di Napoli (con echi della mitopoiesi malapartiana). Sono richiami che da una parte alludono alla dimensione della sessualità e della generazione (il parto dei femminielli, l’eros antico ed eterno della “stanza segreta” del Museo archeologico), dall’altra a una dimensione vitalistica e primitiva che pulsa sotto la superficie della vita borghese (i tamburi tribali che risuonano sotto le volte dell’ottocentesca Galleria Principe), e dall’altra ancora ai miti sapienziali che mirano ad attingere a una conoscenza non razionale (la sibilla, la numerologia cabalistica). Il passato individuale, ontogenetico e freudiano (la scena primaria rimossa dell’omicidio-suicidio) affonda quindi le sue radici in un passato mitico-archetipico, filogenetico e junghiano. Sotto un velo da squarciare, per fissare ciecamente quel mistero che era - da sempre - sotto i nostri occhi. leggi anche il Face/Off di Oruam Norac e su SEGNOCINEMA 210 "Napoli velata" allo specchio con "Personal Shopper" di Olivier Assayas e "L'amant double" di Francois Ozon... UNA DONNA FANTASTICA di Sebastián LelioSantiago del Cile, oggi. All’inizio del film vediamo Orlando andare a prendere Marina, che canta in un locale notturno. I due si conoscono, hanno una relazione. Li vediamo andare al ristorante, poi rientrare a casa. Si baciano più volte, vediamo l’inizio di un rapporto sessuale. Di notte, Orlando ha un malore. A nulla vale la corsa in ospedale. Mentre vediamo Marina affrontare il duro colpo della perdita improvvisa e inaspettata della persona amata, cominciamo a renderci conto (a che punto?) che Marina non è una donna come le altre. Marina è una donna fantastica allo stesso modo in cui parliamo di creature fantastiche; creature cioè che esistono nell’immaginario, che hanno forma e figura, ma che non esistono nella realtà. Una chimera, la definisce la moglie di Orlando al loro primo incontro. La scommessa – vinta -, prima di sceneggiatura (premiata a Berlino) e poi di regia di Sebastian Lelio, che già aveva raccontato una storia di solitudine femminile dedicata ad una bruttina stagionata in Gloria, è precisamente questo: mettere al centro dell’inquadratura un corpo con il quale non possiamo identificarci (e che lascia disorientati anche molti dei personaggi del film, incerti tra desiderio e ripulsa, tra solidarietà femminile e incapacità di comprendere), e al centro della drammaturgia un personaggio con il quale invece empatizzare, alle prese con l’esperienza comune e a tutti comprensibile del lutto per una persona cara. Una scena mostra icasticamente la doppia natura di Marina, la sua doppia immagine e la sua doppia identità: nella sauna entra, uomo con immagine da donna, nella sezione femminile; quindi, raccolti i capelli dietro la nuca, passa con immagine da uomo nella sezione maschile. E’ l’attraversamento di un diaframma in cui sembra di vedere l’immagine e il suo negativo, una faccia e la faccia opposta. Lelio non inquadra mai le parti sessuali di Marina, rispettandone il pudore e il segreto; ma, di nuovo, trasla il suo dilemma attraverso le immagini: l’uso della metafora degli specchi non è certo nuovo quando al cinema si parla di identità doppie o scisse, ma Lelio la usa con pertinenza, coerenza e una certa raffinatezza. Non solo l’immagine di Marina si riflette, si sdoppia, si moltiplica, si frantuma più volte durante il film. Durante una scena sospesa la donna-chimera si trova in mezzo alla strada, immobilizzata davanti ad uno specchio trasportato da due operai, che ne riflette per qualche attimo l’immagine mobile e deformata. In un’altra scena, ancora più esplicita, Marina scruta il proprio volto riflesso da uno specchietto tondo che le copre il pube. In un altro momento ancora sarà nel finestrino di una macchina che Marina esplora il proprio volto, sconciato dal nastro adesivo dopo un’aggressione violenta, per trovarvi le sembianze di quel mostro che taluni sembrano e vogliono vedere in lei. Si perdona volentieri al film qualche inessenziale scena onirica o fantasmatica, mentre è efficace la polimorfa colonna sonora di Matthew Herbert; nel film fa capolino anche Luis Gnecco, interprete del Neruda firmato da Pablo Larraín , che produce questo film (insieme anche alla Maren Ade autrice di Vi presento Toni Erdmann); ma è sul viso, sul corpo, sulle movenze di Daniela Vega che si gioca l’intera partita del film: impegnata nel doppio salto mortale di essere una donna che recita un uomo che si vuole donna. WONDER di Stephen ChboskyWonder è l’esemplificazione e l'essenza del feel good movie, i film per sentirsi bene. Lo è fin dalla prima sequenza, in cui vediamo il protagonista, un ragazzino di dieci anni, August detto Auggie, levitare in tuta da astronauta davanti ad una parete azzurra piena di stelle in stile naïf, mentre la sua voce fuoricampo racconta di se stesso, fino alla rivelazione, tolto il casco da astronauta sotto il quale spesso si rifugia per sfuggire allo sguardo degli altri, che un’anomalia cranio-facciale che gli ha causato 27 interventi chirurgici e lo ha lasciato con buone funzionalità ma con il viso tuttora deforme. E’ chiaro fin dal primo istante che parteggeremo per lui, che lo accompagneremo nel suo percorso scolastico (finora ha studiato a casa con la mamma), soffriremo per le sue difficoltà di farsi accettare, gioiremo quando e se verrà accolto, accettato e apprezzato. Così è, e tutto funziona come previsto: da una parte il senso di spontanea repulsione che il suo aspetto suscita negli altri, gli episodi di scherno e di bullismo cui è sottoposto, i momenti di scoramento; dall’altra il nascere di nuove amicizie, la capacità di farsi apprezzare per la sua intelligenza, il suo spirito e la sua gentilezza e il conseguimento di nuovi obiettivi. Un percorso prevedibilissimo, costellato per lo spettatore da moltissime lacrime di commozione empatica e anche da numerosi sorrisi, che però si snoda con sensibilità e credibilità. Chbosky (con gli altri sceneggiatori, che rielaborano un romanzo di R.J. Palacio) struttura il racconto snodandola lungo le scadenze del calendario scolastico, tra Halloween (la festa preferita da Auggie che ha la possibilità di nascondere legittimamente il suo volto sotto una maschera, mentre tutti intorno diventano mostri al pari di lui), festività natalizie, recite e gite scolastiche, cerimonia di chiusura dell’anno scolastico. Ma, e qui sta forse l’idea vincente del film, dedica pure attenzione a molti dei personaggi-satellite che ruotano (quasi letteralmente) intorno al protagonista, soffermandosi ad esplorare i sentimenti e le emozioni di ognuno: oltre ad Auggie quindi, un’adeguata attenzione viene dedicata a Jack, un amico vero, all’amorevole (malgrado la disattenzione dei genitori tutti concentrati sui problemi del fratellino) sorella Via, ma anche alla sua (ex) miglior amica Miranda o al suo nuovo boy friend Justin, oltre che ovviamente ai due genitori, la determinata mamma Isa e l’ironico ma vicino padre Nate (tutti i membri della famiglia sono chiamati con diminutivi), oltre che personaggi di minor peso come la ragazzina Summer, il bullo Julian, o perfino la cagnolina di famiglia Daisy. Malgrado la dedica di alcuni segmenti narrativi ad altrettanti personaggi principali, non si può parlare precisamente dell’adozione di diversi punti di vista, né di un strutturazione drammaturgica adottata rigorosamente, ma è comunque un segno di sensibilità e di attenzione alle motivazioni e ai sentimenti di ciascuno. Tutti i personaggi (o quasi), anche quelli apparentemente (con la “e”, lo specifico per quelli che hanno già visto il film) negativi, hanno il loro portato positivo. Tranne gli antipatici genitori di Julian (che fanno capolino in una sola sequenza del film, ma già sufficiente per dare una giustificazione all’arroganza del figlio), tutti gli adulti, genitori, preside, insegnanti sono personaggi ampiamente positivi, così come lo sono in fondo i ragazzi, visto che anche quelli che sbagliano hanno la possibilità di pentirsi e di rimediare ai propri errori. La lezione sull’accettazione della diversità e sulla necessità di guardare oltre all’apparenza esteriore delle cose e delle persone (già presente in vari film di animazione e per ragazzi) scorre lieve nel flusso delle emozioni senza risultare troppo didascalica o greve. Dove forse il film esagera, è nel concedere generosamente ad Auggie e a Via di conseguire puntualmente, superate le iniziali difficoltà, qualsiasi massimo risultato possibile, si tratti di recite o di gare scolastiche, di risse o di giochi, o di pubblici riconoscimenti, e di circondare il protagonista di persone bellissime anche fisicamente (l’amico Jack e le amiche Summer e Charlotte, l’amica e il ragazzo di Via, genitori e insegnanti). Tutti gli attori, grandi e piccoli, sono ovviamente all’altezza; i genitori sono Julia Roberts e Owen Wilson; il protagonista Jacob Tremblay (già ottimo coprotagonista dell’intenso Room) è penalizzato ad una certa inespressività dal pesante trucco facciale, mentre si fa notare la giovane Izabela Vidovic nel ruolo della sorella Via. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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