GLI OSCAR 2024Massì, è andata come doveva andare, con Oppenheimer che fa incetta di Oscar; Emma Stone giustamente riconosciuta come fuoriclasse al secondo dei suoi meritatissimi Oscar (a Margot Robbie, altrettanto brava e capace di mettersi in gioco, è stata inflitta l'ingiusta umiliazione della mancata candidatura); Povere creature! che si fa valere per il suo aspetto visivo immaginifico; la miglior sceneggiatura oculatamente assegnata a Anatomia di una caduta e il premio come miglior film internazionale a quello che era il miglior film internazionale, La zona d'interesse.
D'altra parte mi pare che la selezione dei film da Oscar quest'anno fosse particolarmente azzeccata. Nella decina nessuno demeritava veramente, anche se alcuni film spiccavano tra gli altri. Oppenheimer non mi ha fatto impazzire, tutt'altro; riconosco che però è un progetto d'autore e di ampio respiro. Tra gli altri film nominati i miei preferiti erano La zona d'interesse (che però aveva già la sua zona d'interesse in cui vincere, quella dei film internazionali) e Povere creature!. Entrambi oggetti d'autore alquanto bizzarri, ideali per i cinema d'essai ma stupefacenti (soprattutto il primo) in una selezione per l'Oscar. Una conferma della svolta autoriale degli Academy Award, sempre più lontani da blockbuster spettacolari o dai grandi filmoni per tutti e per tutta la famiglia. I film di Glazer e di Lanthimos contribuivano quindi decisamente a tenere alta l'asticella della qualità, insieme a film come Anatomia di una caduta (in cui ritroviamo Sandra Huller, in qualche modo una vincitrice morale, essendo protagonista anche de La zona d'interesse) o Killers of the Flower Moon, con l'ottuagenario Scorsese sempre in forma perfetta, con uno dei suoi grandi affreschi della storia americana come storia criminale (averlo escluso dai premi è terribile). Ma c'era anche Barbie, che è riuscita nell'impresa non facile di trasformare quella che poteva essere una bieca operazione di marketing in un eccentrico pamphlet femminista ribaltando gli stereotipi di partenza. E c'era Maestro, con Bradley Cooper che ha tentato attraverso la figura di Bernstein di fare il film della propria vita, con l'aspirazione di ritrarre una personalità bigger than life. E c'era American Fiction, che ha portato agli Oscar la questione afroamericana ribaltandone i luoghi comuni e intercettando temi di grandissima attualità come la cancel culture, l'ideologia woke, il blackwashing. Nella mia scala d'interesse gli ultimi posti sono occupati da The Holdovers e da Past Lives, che sono comunque dei film con una loro dignità e che hanno trovato un loro pubblico di estimatori. Apro qui una parentesi. A me sembrerebbe opportuno che anche gli Oscar, come i Golden Globe, anziché ammassare dieci titoli nella categoria principale del Miglior film, istituissero una sezione per i film drammatici e una specifica per le commedie o simili. E' vero che non sempre è facile attribuire con certezza un film ad una delle due sezioni (Povere creature!, ad esempio - con la sua natura mutante, poliforme e teromorfa - che cos'è?), ma l'esclusione (quasi) totale di Barbie dal palmares (perfino nei reparti artistici) la dice lunga. Far vincere un film su una bambolina contro film sui dilemmi morali del creatore della bomba atomica, o sulla mancanza di dilemmi morali del comandante di Auschwitz, o sugli scrupoli o mancanza di scrupoli degli sterminatori di nativi americani, appare davvero dura. E infatti. Politicamente corretto e sensibilità #MeToo non hanno condizionato più di tanto i risultati. Gli afroamericani sono accontentati con il premio ad American Fiction e quello a Da'vine Joy Randolph, ma la tentazione di premiare la prima attrice nativa americana candidata agli Oscar non è stata sufficiente a far superare la superlativa, strabordante Emma Stone alla pur brava Lily Gladstone di Killers of the Flower Moon (non molto protagonista però e impegnata in una gamma espressiva decisamente più limitata). Anche Celine Song, donna, coreana, autrice di un melodramma femminista, non è arrivata più in là della candidatura con Past Lives. Il kolossal femminile-femminista tutto rosa confetto, poi, si porta a casa per far compagnia alla bambolina una sola statuetta per la miglior canzone. Anche la cinquina dei film internazionali era di ottimo o buon livello. Magari in giro per il mondo c'erano altri titoli meritevoli, ma questi erano davvero buoni. Erano interessanti già per l'audacia del progetto produttivo La zona d'interesse, su un tema ostico e sgradevole, in cui un regista inglese si accampa ai piedi del muro di Auschwitz senza mai mettere piede all'interno, ricostruendo con rigore filologico ambiente e vicende e adottando uno stile di ripresa freddo e impersonale; o Io capitano (che NON è un film su Schettino e il disastro della Costa Concordia, come diceva Televideo nottetempo, e neppure sul capitano dei verdebruni), film italiano che non si svolge in Italia, dove non si parla italiano (ma prevalentemente wolof) e dove l'Italia non si vede mai; o ancora Perfect Days, con il regista tedesco che torna in Giappone per pedinare un pulitore di cessi. Non male anche La società della neve, girato in ambienti proibitivi, che adotta uno stile cronachistico piuttosto piatto ma suscita e lascia dentro un'angoscia notevole, e La sala professori, thriller scolastico con tema da dibattito (non solo tra insegnanti). A proposito di cinema internazionale, apro qui una seconda e ultima parentesi. Mi sembra assai significativo che i premi rappresentativi per antonomasia del cinema americano e della sua industria siano andati, tra gli altri, a registi inglesi, giapponesi e ucraini; ad attori irlandesi e afroamericani; a sceneggiatori afroamericani e francesi; a direttori della fotografia olandesi, a scenografi inglesi e ungheresi, a costumisti, truccatori e tecnici del suono britannici, a creatori di effetti speciali nipponici, a musicisti svedesi. Diciamo che almeno al cinema sembra che i confini siano diventati permeabili e che lo sciovinismo hollywoodiano sia decisamente e ampiamente in fase di superamento.
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I miei commenti all'edizione 2023 dei Premi Oscar.Credo di non essere mai stato meno d’accordo sulle scelte dell’Academy in tutta la mia vita, almeno per quanto mi ricordi. Forse vi potrà sembrare che all'Academy non importi tanto del mio dissenso; forse è così, ma uno ci rimane male lo stesso. Il trionfo di Everything, Everywhere, All At Once mi è francamente incomprensibile e già altrove (basta cliccare sul titolo per spostarsi in un'altra dimensione del metaverso dove si trova attualmente la mia recensione) avevo espresso tutte le mie perplessità e anche la mia frustrazione per non riuscire a comprenderne l’eventualità genialità. Tutto del film, in ogni sua parte, e tutto in una volta, mi è sembrato insulso, esagitato e lontano dal mio gusto, tra stupidaggini, attrezzi infilati nel culo, assurdità un tanto al chilo, interminabili combattimenti di arti marziali, recitazione sopra le righe, montaggio a chi più ne ha più ne metta e filosofia del multiverso a pioggia a giustificare qualsiasi baggianata. E’ il cinema del futuro, in attesa del passo ulteriore del cinema interattivo vero e proprio, punto finale di fusione tra narrazione cinematografica e video-game? Non lo so, ma spero di no. Quello che so è che quest’anno la decisione da prendere era tra cinema classico e cinema sedicente contemporaneo, tra il classicismo di uno Spieberg che racconta la nascita del cinema (in se stesso) e il suo farsi e il modernismo dei “Daniels” che ne raccontano invece le derive narrative, la sua virtualizzazione nell’universo digitale, la sua dissoluzione (ma che è al contempo la sua provvisoria ricomposizione). Spielberg, che pure è stato un rivoluzionario della New Hollywood e un padre fondatore del nuovo concetto di blockbuster a forza di effetti speciali, si ritrova qui, totalmente, sprezzantemente ignorato dal gioco delle statuette dorate, relegato al ruolo di vecchio dinosauro imbalsamato, quasi non si fosse mai mosso dai superotto, dai plastici e dai modellini e dall’estetica vintage di The Fablemans. In The Fablemans John Ford insegna al giovane Spielberg dove collocare la cinepresa. Nei film dei Daniels sembra non esserci più un posto dove collocarla, perché l’occhio della camera è ovunque, in questo e in altri universi; e alla fine il dubbio è se allora in fondo importi ancora qualcosa, cosa si veda e da dove.Discorsi da anziano, forse. Comunque, nella gara tra i peggiori della top ten candidati a miglior film, Everything, per quanto mi riguarda, se la giocava sul fondo solo con Top Gun, con Avatar solo un pochino sopra a tenersi a galla a forza di computer graphic. Per la regia avrei preferito chiunque della cinquina, lo stile umanistico e appassionato di The Fablemans (Spielberg), e se non quello algido ed ellittico di Tár (Field), o quello algido, ellittico e provocatorio di Triangle of Sadness (Östlund), o ancora quello metaforico e sanguigno insieme de Gli spiriti dell’isola (McDonagh). Perfino come montaggio avrei preferito quello pirotecnico e circense di Elvis (o quello altrettanto esplosivo di Babylon, non candidato) al forsennato dripping digitale di Everything. A Michelle Yeho come miglior attrice avrei preferito la performance a tutto campo della De Armas, in un ruolo pazzesco e già in partenza votato allo scacco, nel controverso Blonde, nel tentativo disperato di resuscitare Marylin e di farla amare di nuovo, quasi uguale, un po’ diversa, un po’ più finta, un po’ più vera. Un’impresa impossibile, in cui l’attrice si è gettata ad anima e corpo morto, senza sfigurare. La Blanchett è superba come sempre, ma la sua bravura altera e febbrile ci è già nota, e l’Oscar per Tár sarebbe stato meritato e in certo modo quasi scontato. Tra le attrici non protagoniste alla Jamie Lee Curtis infagottata e grottesca avrei preferito la Condon, sorella razionale e affettuosa ne Gli spiriti dell’isola, e tra gli attori maschi, sempre presi dallo stesso film, avrei sicuramente preferito Gleeson (ingiustamente piazzato, da autentico coprotagonista, in questa categoria di secondo piano) o l’ottimo Keoghan, che è un valore aggiunto in quasi tutti i film che interpreta. Se poi le candidature agli Oscar possono essere considerate uno specchio dei tempi, la galleria di personaggi maschili in lizza sono decisamente preoccupanti: nessun maschio alfa, ma neppure beta e gamma da queste parti; siamo piuttosto nei dintorni del maschio omega, con un un padre fragile e solo; un animo semplice ripudiato perfino dal suo miglior amico; un obeso patologico e misantropo destinato a morte imminente; una rock star tormentata e succube destinata a morte prematura; un vecchio burocrate malato terminale destinato a morte vicina. Ci mancava solo l’anziano burbero e misantropo aspirante suicida e destinato invece per sua fortuna a malattia mortale interpretato da Tom Hanks in Non così vicino. Sarà per il prossimo anno. Intanto per quest’anno anche nella categoria che si sarebbe potuto intitolare “Ciao maschio” vince forse il peggiore, Brendan “la mummia” Fraser sepolto e impedito dal trucco prostetico versione balena, unto di sudore e con gli occhioni acquosi per suscitare compassione. Il film, sopravvalutatissimo, claustrofobico, ricattatorio e privo di sorprese, è naturalmente The Whale. Se avete letto fino a questo punto avrete capito che per la sceneggiatura originale NON avrei mai premiato Everything, bensì chiunque altro (da manuale The Fablemans, originale Gli spiriti, intellettuale Tár, astratta e ideologica Triangle of Sadness). Degno di nota comunque che tutte le sceneggiature in gara fossero scritte dai rispettivi registi. Con sceneggiatura non originale ne ho visti tre su cinque e nessuno mi ha colpito particolarmente; forse avrei scelto Niente di nuovo sul fronte occidentale, ma con una motivazione che ne avrebbe parafrasato il titolo. Tra i film di animazione ho visto solo Pinocchio di Guillermo Del Toro, che ho trovato eccessivamente cupo e corrusco; tra i film internazionali (mi mancano EO e Close) non avrei premiato Niente di nuovo (appunto), ma invece Argentina 1985, film di impegno storico-civile con un monumentale Ricardo Darín. Purtroppo l’uno e l’altro, tra follia della guerra e crimini delle dittature, molto molto attuali.
Potrei fermarmi qui; aggiungo solo che secondo me ancora nel reparto artistico (fotografia, scenografia, costumi, trucco e anche colonna sonora) meritavano di più e almeno qualcosa un paio di film, ignorati, che hanno avuto il coraggio di (ri)pensare in grande lo spettacolo e il suo mondo (non a caso, passato): Babylon (pur nel suo essere un film profondamente non riuscito) e un altro grande escluso (ingiustamente) dal podio, Elvis. Per capirci e per essere onesti, ecco cosa non ho (ancora) visto (limitandomi alle categorie principali): Women Talking, Living, To Leslie, Causeway, Wakanda Forever, Close, EO, Bardo, La signora Harris va a Parigi. I DAVID DI DONATELLO - edizione 2020Non so a chi possa importare, ma racconto qui le mie preferenza rispetto ai film candidati al David di Donatello. Quasi tutti li ho recensiti su questo sito; se vi interessa leggere le mie argomentazioni potete cliccare sui rispettivi titoli nella colonna delle categorie qui sulla destra (quindi non sto a rimettervi i link nel testo). Non scandalizzatevi perché l'avevo già detto, ci sono un paio di film italiani che proprio non mi sono piaciuti per niente e che hanno ricevuto diverse candidature ai David di Donatello. Sono Martin Eden e il Suspiria di Guadagnino, per cui non li vedrete tra le mie preferenze, in qualsiasi categoria concorrano. Detto questo iniziamo con le mie scelte (accanto ad ogni categoria indico per correttezza quanti dei film candidati ho visto).
FILM STRANIERO: ex-aequo (so che così me la cavo troppo facilmente) JOKER e PARASITE. Parasite se lo merita, ma è da The Host che credo in Bong Joon Ho e sono contento dei suoi trionfi. Da Todd Phillips invece un Joker così non me lo aspettavo proprio e ho avuto il piacere di essere spiazzato e sorpreso. Entrambi film che ci dicono qualcosa dei tempi e delle società in cui viviamo. Molto attuale, anche se ambientata nel passato, la storia dell'affare Dreyfuss raccontata dal grande vecchio Roman Polanski ne L'ufficiale e la spia, in un film molto formale e un po' impettito. Al quarto posto il C'era una volta a Hollywood di Tarantino, che gira a vuoto (piacevolmente - e poi ci sono Pitt e la Robbie, benché zittita) per due ore per poi arrivare ad un finale “a sorpresa” che avevamo già visto in Unglorious Basterds. Lascio in coda Green Book, che (tanto per chiudere con una nota che procurerà nemici), mi è sembrato un film ruffiano, già visto nella dinamica tra i protagonisti, un po' ipocrita nella retrodatazione in tinte pastello di un antirazzismo piuttosto di maniera...LE MIE SCELTE: I MIGLIORI E I PEGGIORI FILM ITALIANI DELL'ANNATAAssegnerò ora, monocraticamente e insindacabilmente, i miei personali David di Donatello.
Tra i candidati secondo me spiccano alcuni titoli (Ammore e malavita, A ciambra, Gatta Cenerentola, Sicilian Ghost Story); altri li ho detestati (La tenerezza, The Place) per cui state pronti.
Riassumendo:
E passiamo ora alle note dolenti. I Golia, il premio da me istituito per i film italiani più brutti o più deludenti della stagione. Leggetela così: La tenerezza di Gianni Amelio e The Place di Paolo Genovese conquistano i rispettivi premi non perché siano realmente i più brutti, ma perché sono le delusioni più cocenti, in quanto film assolutamente sbagliati di autori che in passato avevano realizzato film ottimi, come Il ladro di bambini e Perfetti sconosciuti. Analogo discorso vale per gli attori. A volte non è colpa loro.
Bene, le elezioni sono andate come sono andate (è la democrazia, bellezza), e anche l’assegnazione dei premi Oscar non mi ha consolato granché. Hanno vinto i diversi, si direbbe, meglio se a rischio di abusi: la minorata fisica relegata a umili fatiche e oggetto di molestie sessuali sul luogo di lavoro e l’uomo pesce che suscita voglie vivisezionistiche (La forma dell’acqua); i coloured usati come riserve umani di sostanze rigeneranti per wasp decrepiti (Get Out); bambini messicani repressi da equivoche tradizioni famigliari (Coco); trans malmenati e mal sopportati (Una donna perfetta); adolescenti omosessuali benché, bisogna ammetterlo, né repressi né tantomeno discriminati (Chiamami col tuo nome). Le polemiche degli ultimi anni sul ruolo delle donne, quelle sull’assenza di premiati di colore, infine lo scandalo Weinstein forse non orientano le scelte ma hanno creato senz’altro un’altra atmosfera tra chi deve scegliere e votare. Tant’è. L’orgoglio nazionale è salvo, ma per finta. Nei titoli degli articoli e dei servizi si rivendica come un premio italiano l’Oscar assegnato alla sceneggiatura (dunque a quell’elemento del film che gli preesiste e che prescinde a priori dalla qualità successiva della messa in scena) scritta dal più britannico dei registi americani, James Ivory, in debito di Oscar da tutta una lunga vita e carriera, tratta da un romanzo americano (quindi nella categoria non originale), e anche piuttosto tradita dalla messa in scena di Guadagnino. Chiamami col tuo nome mi è parso inoltre un film molto più di regia (corpi, contatti, suoni, musiche, rumori, luce, ombre) che di scrittura; ma in questa categoria non è nemmeno stato candidato. Non ce l’ha fatta nemmeno il giovane Timothée Chalamet, che pure avrebbe meritato, come anche il Day-Lewis de Il filo nascosto, forse alla sua ultima occasione prima del ritiro definitivo. Non posso dire nulla di Gary Oldman premiato per L’ora più buia, che non ho visto; non amo molto i film storici e ancor meno quelli biografici, quindi non posso giudicare né la sua performance né l’operazione mimetica messa in atto dai suoi premiati truccatori. Bene ovviamente il premio alla McDormand, che preferivo alla Streep e alla Hawkins (le altre due non le ho viste), e benissimo per la statuetta a Sam Rockwell, poliziotto stupido, cattivo, violento e mammone, per il quale avevo già speso parole di lode nel mio articolo su questo sito. Malissimo invece non aver premiato la sceneggiatura di Martin McDonagh per Tre manifesti a Ebbing, Missouri: la più bella, la più forte, la più originale e sorprendente tra quelle in gara. Davvero un peccato. Non ho ancora visto Lady Bird, le altre mi sono sembrate tutte inferiori, compresa quella di Jordan Peele premiato per Get Out, un horror che di spaventoso ha solo la sua esilità. Society di Brian Yuzna aveva già trattato uno spunto simile quasi 30 anni fa con ben altra radicalità. Ah, già, qualche statuetta se l’è portata a casa anche la favoletta freak de La forma dell’acqua, tipo miglior film, miglior regia (Guillermo Del Toro: è il quarto Oscar alla regia ad un regista messicano negli ultimi 5 anni, con i due di Iñarritu e quello di Cuarón), miglior scenografia, miglior musica (Alexander Desplat). Forse sapete già come la penso, altrimenti potete andarvi a leggere il mio articolo. Non mi ha dato soddisfazione nemmeno la premiazione del miglior film straniero: niente da ridire su Una donna fantastica di Lelio, ma mi è spiaciuto molto non vedere premiato lo svedese The Square, che a mio parere è un gioiello di intelligenza, profondità, originalità e humor senza pari nella scorsa stagione. Di forte impatto anche il russo Loveless, di impianto più retorico il libanese L’insulto. Per completare la cinquina mi manca ancora Corpo e anima. Il miglior film d’animazione è naturalmente Coco, a marchio Pixar, anche se Loving Vincent aveva un’idea di base molto forte, trasformare i personaggi e i paesaggi di van Gogh in un cartone animato interamente pittorico. Il filo nascosto, che a molti è parso un capolavoro, è stato relegato al riconoscimento più ovvio, prevedibile e scontato, quello ai costumi disegnati da Mark Bridges. Altrettanto “inevitabili” gli altri riconoscimenti nelle categorie più tecniche: a Blade Runner 2049, che è ben lungi da essere quel film epocale che molti si aspettavano (e che qualcuno ha creduto comunque di vedere) gli effetti speciali e la fotografia di Roger A. Deakins, che fa centro alla quattordicesima candidatura; a Dunkirk il montaggio dell’australiano Lee Smith, montatore di fiducia di Cristopher Nolan, e il miglior sonoro e il miglior montaggio sonoro, a rimarcare la consapevole natura audiovisiva del kolossal di Nolan.
Chiuso il sipario. Il 21 marzo appuntamento con i film italiani al David di Donatello. Secondo me c’è della roba buona. Speriamo in bene. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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