Ed ecco le liste dei film che mi sono piaciuti di più durante l'anno. Devo dire che l'annata non mi è sembrata affatto male, in particolare la ripresa della stagione, dopo i grandi festival e la consueta e tanto discussa pausa estiva. A parte le appendici, divido la selezione in tre categorie: i film che mi hanno più colpito al cuore, i film meritevoli di visione, vuoi per il risultato cinematografico che per i temi trattati (o per entrambe le cose), e i film che non metterei in primo piano ma che hanno comunque dei motivi d'interesse.
All'interno di ciascuna categoria non ho fatto graduatorie di merito, ma ho seguito l'ordine alfabetico (senza considerare l'articolo). Dei film visti in festival e rassegne, ma senza regolare distribuzione in Italia, ho inserito solo quelli che secondo me erano i più interessanti in assoluto. Buona lettura, e dite la vostra se vi fa piacere. IL 2016 AL CINEMA - I FILM DEL CUORE
IL 2016 AL CINEMA - FILM CHE VALE LA PENA DI VEDERE
IL 2016 AL CINEMA - I VEDIBILI Film che presentano dei motivi d’interesse contenutistico e/o estetico: ANTONIA di Ferdinando Cito Filomarino, CAPTAIN FANTASTIC di Matt Ross, LA CORTE di Christian Vincent, ERA D’ESTATE di Fiorella Infascelli, ESCOBAR – PARADISE LOST di Andrea Di Stefano, LA ISLA MINIMA di Alberto Rodriguez, LA MIA VITA DA ZUCCHINA di Claude Barras, MISS PEREGRINE – LA CASA DEI RAGAZZI SPECIALI di Tim Burton, UN PADRE, UNA FIGLIA di Cristian Mungiu, SELMA di Ava DuVernay, 7 MINUTI di Michele Placido, SNOWDEN di Oliver Stone, SUFFRAGETTE di Sarah Gavron, WHERE TO INVADE NEXT di Michael Moore IL 2016 AL CINEMA - GLI ATTORI DELL'ANNO Valerio Mastandrea (Fai bei sogni), per la generosità con cui sostiene progetti anche difficili (Fiore); Valeria Bruni Tedeschi (La pazza gioia, Il condominio dei cuori infranti); Marion Cotillard (per lady Macbeth, ma soprattutto per la Catherine di E' solo la fine del mondo) IL 2016 AL CINEMA - I MIGLIORI CLASSICI RIVISTI AL CINEMA
IL 2016 AL CINEMA - IL PIU’ BEL FILM VISTO IN TELEVISIONE THE NIGHTCRAWLER – LO SCIACALLO (Usa, 14) di Dan Gilroy, per lo sguardo nero, ironico e politico sulla “civiltà” dei media e per il sulfureo protagonista, il miglior Jake Gyllenhaal di sempre IL 2016 AL CINEMA - IL FILM PREFERITO DA ALESSANDRA THE BEATLES: EIGHT DAYS A WEEK – THE TOURING YEARS (Usa) di Ron Howard: un film (documentario) dove non muore nessun beatle, dove I Beatles non si separano, dove non arriva Yoko Ono, dove i quattro rimangono per sempre young and fabulous.
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IL 2016 AL CINEMA - INTRO
Fine anno, tempo di bilanci. Quindi mi sbilancio anch’io con un po’ di classifiche, per quello che valgono (probabilmente se le avessi scritte ieri sarebbero state diverse, e se le avessi scritte domani sarebbero state ancora diverse). Nel 2016 ho visto un centinaio di film al cinema, uno più uno meno (parecchi, visti in festival e rassegne, sono rimasti inediti in Italia o hanno avuto una circolazione limitata, per cui eviterò di citarli, tranne quelli che mi sono sembrati in assoluto più interessanti). Ammesso che interessi a qualcuno, vi dico cosa mi è piaciuto e cosa no, cosa mi ha colpito al cuore e cosa mi ha deluso, cosa consiglio di vedere e cosa mi è sembrato sopravvalutato. Non ho mai amato voti, pallini e stelline (benché abbiano una loro efficacia comunicativa sintetica), per cui opto per una distribuzione in categorie qualitative più che quantitative, con un minimo di argomentazione essenziale. Dei film brutti e sbagliati, di quelli che non mi sono piaciuti, o di quelli che mi hanno lasciato più o meno indifferente, mi sembra meglio non parlare. In certi casi si tratta di opere prime e mi sembrerebbe ingeneroso stroncarli negandogli una seconda occasione (o semplicemente un tacito oblio). Ho considerato solo i film visti dal 1° gennaio 2016 ad oggi, indipendentemente dalla data di produzione o di uscita del film; in ciascuna sezione indico i film in ordine alfabetico (senza tener conto degli articoli). Buona lettura a tutti, e se avete voglia dite la vostra. Cominciamo dalle delusioni; domani appuntamento con il meglio. IL 2016 AL CINEMA - I PIU’ CONTROVERSI Questi film potrebbero stare tra le delusioni, o tra i migliori. Li metto qui, ma lo spettacolo vale la pena del biglietto (sempre se non siete troppo sensibili, perché la violenza abbonda e in Tarantino straborda...) • ANIMALI NOTTURNI (Usa) di Tom Ford: pro: suspense, impaginazione visiva; contro: le due storie che costituiscono il film non legano • HATEFUL EIGHT (Usa) di Quentin Trantino: pro: l’abilità registica di Tarantino; contro: il compiacimento sadico, misogino e ginofobico, la lungaggine (non lunghezza) eccessiva, gli imperdonabili buchi di sceneggiatura • REVENANT (Usa) di Alejandro Iñarritu: pro: la grande abilità registica di Iñarritu, gli effetti speciali “naturalistici” (v. la sequenza dell’orso); contro: lo sviluppo narrativo convenzionale, l’eccessiva lunghezza IL 2016 AL CINEMA - I PIU’ SOPRAVVALUTATI Film premiati, stimati, ben recensiti, che però (a me) non mi hanno preso...
IL 2016 AL CINEMA - LE DELUSIONI Si intende delusioni d’autore, film dai quali, per i trascorsi dei rispettivi registi o per l’argomento, mi aspettavo di più...
PATERSON di Jim JarmuschAppena avete finito di perdonarmi per la citazione-parafrasi del titolo del post, potete cominciare a leggere la recensione. In effetti, Adam Driver interpreta il personaggio di un driver di autobus di nome Paterson che vive in una città che si chiama Paterson in un film intitolato Paterson. Qui però finisce l'ironico gioco nominalistico nome=cosa del film, che parla, invece, di quello che fa ed è capace di fare la poesia, grazie alla quale cose, persone, sentimenti, emozioni, pensieri trasfigurano e si trasformano in parole che dicono o alludono ad altre cose e persone ad altri sentimenti, emozioni, pensieri, pur non rinnegando completamente i primi. Paterson è un semplice autista di autobus, che ogni giorno si alza alle sei-e-qualcosa, saluta la moglie, fa colazione, va a lavorare, ascolta le lamentele dei colleghi, guida per la città prestando un orecchio alle chiacchiere dei passeggeri, torna a casa, ascolta i racconti della moglie, la sera porta a spasso il cane, si ferma in un bar a bere una birra e a scambiare due parole con il barman e ascoltare i discorsi dei clienti, abituali come un disco rotto. Jarmusch ha assunto uno dei rischi cinematografici più temibili, quello di raccontare l'ordinarietà, la quotidianità di una persona comune, una vita dimessa e abitudinaria che assomiglia a quella di molti di noi, e dove l'evento più eclatante della settimana rischia di essere un guasto all'impianto elettrico dell'autobus o un innamorato respinto che fa la sua scenata al bar. Ma Paterson è anche un po' diverso. Durante la giornata gira e rivolta parole nella sua testa, nella pausa del lavoro si siede su una panchina, tira fuori un taccuino e scrive. Paterson è un poeta. Magari non un grande poeta, ma uno che vede oltre le cose. Che dalla contemplazione di una scatola di fiammiferi può trarre una poesia d'amore; dai muri di mattoni del deposito degli autobus, dalle strade di una città in declino, dall'acqua che scorre in una cascata, dalle chiacchiere orecchiate per caso, dal viso innamorato della moglie, può trarre versi, poesia. Schivo e modesto, Paterson non sorpasserà probabilmente quel bancone del bar che lo separa dalla “parete dei famosi”, dove sono appese le fotografie dei personaggi famosi che sono nati, hanno vissuto o hanno frequentato la Paterson dei giorni migliori. Ma la sua vita è ugualmente appagata da quelle schegge di bellezza che lui riesce a cogliere - e che gli altri spesso non vedono -, e a trasferirle sul suo prezioso taccuino: come la vitalità esuberante della moglie o come gli incontri con le anime gemelle (di gemelli reali, germinati da un sogno, è costellato l'intero film) che incontra sulla propria strada, possano esse essere incarnate da una ragazzina di dieci anni o un giapponese che scrive poesie in una lingua intraducibile. Paterson è insieme film sulla poesia – pur senza rinunciare ad una dimensione ironica -, film poetico (malgrado la prosaicità della maggior parte delle sue immagini) e dichiarazione di poetica, che parla con pudore e commovente umiltà dello scarto tra la realtà bruta e la sua trasfigurazione artistica, che può concretarsi nei versi vergati su una pagina giallo paglierino, in vestiti, accessori, cup cakes creativi o canzoni country, come nel caso dell'entusiasta moglie di Paterson, o in cinema, come nel caso di Jarmusch, autore da sempre affascinato dalla marginalità sociale ed esistenziale. Driver, che vanta collaborazioni con Eastwood, Spielberg, i Coen e una partecipazione all'ultimo Star Wars, lo conosciamo in Italia (tra l'altro, curiosamente, Paterson è attraversato da citazioni che ci riguardano: da Dante e Petrarca all'anarchico regicida Gaetano Bresci) in particolare per essere stato interprete di Hungry Hurts di Costanzo, e presto lo rivedremo in Silence, l'ultimo Scorsese; Golshifteh Farahani, iraniana, è stata tra le protagoniste di A proposito di Elly di Farhadi, ha lavorato con Ridley Scott e ora, dopo aver lasciato il suo paese d'origine dove non è gradita a causa di comportamenti poco ortodossi - come presentarsi alla presentazione di un suo film senza un velo sulla testa -, vive in Occidente: la vedremo presto, truccata chissà come, nel nuovo capitolo della saga dei Pirati dei Caraibi... VI PRESENTO TONI ERDMANN di Maren AdeAbbiamo visto Toni Erdmann in anteprima italiana, grazie alla vittoria da parte del film del Lux Prize, assegnato dal Parlamento europeo al miglior film europeo dell’anno. Il premio è andato nelle edizioni precedenti a film sempre molto interessanti, come ad esempio il turco Mustang l’anno scorso e il bellissimo polacco Ida l’anno prima, e garantisce ai film vincitori il doppiaggio nelle 24 lingue dell'Unione (!) e la circolazione nei Paesi aderenti. E’ stata una fortuna, perché abbiamo potuto vedere il film non solo in lingua originale (anzi, nelle lingue originali, visto che i personaggi parlano a secondo delle situazioni in tedesco, inglese e rumeno), ma anche nella versione originale, lunga oltre 2 ore e mezza. In effetti la durata del film in questo caso conta, come avrò modo di dire in seguito. Tanto più che Toni Erdmann (o Vi presento Toni Erdmann, come probabilmente si intitolerà in Italia), vincitore oltre che del Lux di tutti i principali premi Efa per il cinema europeo (il che vuol dire film, regia, sceneggiatura, attore e attrice protagonisti), oltre che di numerosi premi in giro per l’Europa e per il mondo, e candidato ai Golden Globe e all’Oscar (come anche E’ solo la fine del mondo e La mia vita da Zucchina, di cui mi sono già occupato in questo blog), rischia seriamente, al di là del suo possibile esito commerciale, di essere il caso cinematografico dell’anno. Vi racconto perciò le prime impressioni, rimandando semmai un discorso più approfondito alle pagine del n. 204 di “Segnocinema”, nelle librerie a marzo. Il rapporto padre-figlia al centro del film e la comune ambientazione nella Romania dei nostri giorni richiamano immediatamente alla mente un altro film di questa stagione, Un padre, una figlia; ma Toni Erdmann ne è una sorta di rovesciamento. Se infatti nel primo c'è un padre che farebbe di tutto per favorire il futuro della figlia, qui c'è un padre che si impegna puntigliosamente a distruggerne la carriera. E', a suo modo, un tentativo di salvarla da una vita totalmente consacrata al lavoro (un lavoro, tra l'altro, che ha profonde ripercussioni negative sulle vite delle persone in gioco), senza più tempo per se stessa e per gli altri, e per cercare una felicità che non sia meramente una dubbia gratificazione professionale. E' così che Toni Erdmann, personaggio d'invenzione in cui il padre si trasforma, con l'aiuto di una parrucca dai lunghi capelli e di una dentiera dai denti sporgenti, si intrufola nella vita della figlia per destabilizzarla e cercare di restituirla a una vita più umana e sorridente, in una progressiva distruzione dei ruoli e delle immagini socialmente accettate e convenienti che vedrà alla fine i personaggi mettersi letteralmente a nudo, o finire sotto un assurdo costume che impedisce qualsiasi forma di comunicazione “civile”. Ma come il padre tenta di sabotare la vita della figlia, così sembra che la regista desideri sabotare quella della propria creatura, il film. Stravolgendo quindi le regole della commedia (cui Toni Erdmann dopotutto appartiene: si sorride, si sogghigna, si ride), Maren Ade depista il racconto in vicoli senza uscita, lo trascina su secche narrative o verso digressioni inessenziali. Se si resiste all'abnorme durata e ai détour drammaturgici, si finisce per capire che proprio questa è la chiave che non solo dà al film la sua originalità e particolarità e gli conferisce un insolito tono tra comico, malinconico e deprimente, ma ne costruisce il senso. La vita non è commedia, sembra dirci la Abe e Toni Erdmann, ma è bene fingere che lo sia, per ricordarsi di saper sorridere, e in questo modo rammentarsi di essere degli esseri umani, e non degli schiavi volontari del successo e del profitto. Non resta che sperare che l'edizione decurtata che apparirà sui nostri schermi non snaturi la lezione che questo clown bizzarro, folle e malinconico impartisce alla sua perplessa figlia e a noi spettatori; in certi momenti altrettanto perplessi, ma in fondo lieti di aver fatto la conoscenza dell'improbabile Toni Erdmann. E' SOLO LA FINE DEL MONDO di Xavier DolanStrano che Xavier Dolan abbia confessato di aver aspettato a lungo prima di portare sullo schermo la pièce di Jean-Luc Lagarce. C’era infatti tutto quanto lo poteva attirare: l’omosessualità del protagonista, la famiglia, il ritorno a casa; tutti elementi che costellano la sua filmografia, composta da sei titoli. Se vi sembrano pochi sappiate che il regista, canadese quebequois, ha oggi 27 anni e che il suo primo film l’ha girato a 19 anni su una sceneggiatura da lui scritta a 16. Dall’esordio di J’ai tué ma mère a Mommy, il cerchio delle tematiche di Dolan è quindi essenzialmente intimo (mamma-casa-famiglia-omosessualità) e il regista tende a rappresentare questa ristrettezza anche in termini cinematografici e iconici. Già in Mommy il formato dell’immagine adottato era ancora più compresso rispetto al tradizionale 4.3, che è il formato classico dell’immagine più stretto (e già raramente usato da un cinema che tende in genere all’espansione e al gigantismo), giungendo ad un formato di proiezione praticamente quadrato, in cui, per inquadrare più di un personaggio per volta, occorre stringersi. In E’ solo la fine del mondo Dolan riallarga lo schermo alle dimensioni consuete, ma stringe le inquadrature addosso ai personaggi, in maniera quasi invasiva, scrutandone i primi e i primissimi piani. Vado a memoria (tanto il risultato non cambia), ma mi pare che non ci siano campi a figura intera nel film se non all’arrivo in casa di Louis, con le donne in piedi nell’ingresso ad aspettare la sua entrata, nel breve respiro di una scena di danza al centro del film, e nel finale, quando Luis esce dalla scena del film, della casa e della vita. Analogamente, il film si svolge quasi totalmente in spazi chiusi, e le uscite all’aperto sono più apparenti che sostanziali (si rimane comunque nell’abitacolo della macchina, o sul terrazzino di casa: anche l’agognata visita alla vecchia dimora non verrà mai realizzata). Dolan sta addosso ai personaggi, gioca col fuori fuoco sfalsando i piani della visione e creando a volte un montaggio interno all’inquadratura (grazie alla fotografia molto bella di André Turpin), si sofferma a lungo sui loro volti, sembra scrutarli febbrilmente in attesa di poter penetrare nel loro animo, di cogliere nell’estremità di un’immagine quello che le parole non dicono o non osano dire. Perché E’ solo la fine del mondo, da cui si esce frastornati per l’eccesso di musiche, di parole, di urla e strepiti, è un film che si basa sul silenzio, sul non detto. Luis torna a casa ad incontrare la famiglia, per dire l’indicibile, per annunciare la propria morte. Tutte le urla e gli sfoghi rancorosi del film sono racchiusi tra due silenzi che vedono al centro della scena Luis e la cognata Catherine: quello in cui sprofonda Luis trasognato dal proprio dolore subito dopo essere entrato in casa, sotto lo sguardo partecipe e sgomento di Catherine (si rischia di commuoversi a pochi minuti dall’inizio del film, ed è un record), e quello che Luis impone o supplica a Catherine nel finale, dito sulle labbra. Nel mezzo, Dolan, che per la prima volta nella sua carriera ha a disposizione un cast stellare - che dispone intorno a Gaspard Ulliel, alla sua centralità silente e alla sua fossetta sulla guancia sinistra, Nathalie Baye, Vincent Cassel, Marion Cotillard, Léa Seydoux -, imbastisce sulla trama ordita da Lagarce un tessuto di confessioni, recriminazioni, sfoghi, scontri verbali, riempiendo di parole lo spazio dove la famiglia rielabora nello spazio di poche ore un rimosso dove si mescolano ammirazione e rancore, aspettative e invidia, rimorsi e rimpianti, elaborazione del lutto e incapacità di ritrovarsi. E’ una famiglia che deve ricominciare quasi da zero, dopo un’assenza di Louis durata 12 anni, durante i quali lui è divenuto un drammaturgo famoso mentre la famiglia ha continuato la monotona vita di provincia covando il senso di abbandono e di perdita. Mentre l’abile drammaturgo, letteralmente, non trova le parole e ciascuno deve reimparare da capo l’alfabeto elementare del linguaggio non verbale degli affetti familiari, dalle strette di mano agli abbracci ai baci. Nel gioco ardito e stridente tra l’isteria del parlato, cui pure cercano di sottrarsi la madre, che sogna un’impraticabile riconciliazione generale, e la timida cognata, impacciata e goffa malgrado avrebbe forse più di tutti da dire (un’adorabile Cotillard), e l’intensità lancinante e struggente delle immagini, si inserisce con un’enfasi calibrata, che aggiunge partecipazione emotiva senza strabordare nell’effettistica melodrammatica, la musica “sentimentale” di Gabriel Yared, già premio Oscar, di cui qualcuno ricorderà il tema di Betty Blue. D’altra parte, è nel titolo della canzone d’apertura, affidata alla voce di Camille, che si nasconde il definitivo senso del film: Home is where it hurts. MISS PEREGRINE - LA CASA DEI RAGAZZI SPECIALI di Tim Burton |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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