Del film che ha aperto il festival, I Am Not Your Negro, ho già parlato in questo stesso sito. Raoul Peck, regista di origine haitiane, che ha trascorso parte della sua vita in Congo, ha acquisito i diritti di un saggio incompiuto dello scrittore e saggista James Baldwin e lo ha affidato alla voce di Samuel L. Jackson, costruendo con le immagini, in gran parte di repertorio, un poderoso testo audiovisivo che costituisce il più importante contributo cinematografico al dibattito sulla questione afroamericana in una stagione pure affollata di titoli. Le immagini diventano parte integrante di una critica analitica (fondata anche sulll'autobiografia) non solo dell'ideologia ma anche di un immaginario intimamente compromesso con essa. I cortometraggi africani in concorso hanno offerto uno spaccato non solo di situazioni, tematiche (migrazioni, memorie e radici, metafore politiche, corruzione, condizione dell'infanzia, ecc.) e aree di produzione, ma anche di tecniche cinematografiche: fiction tradizionale ma anche cinema di animazione e found footage, per non dimenticare la sezione New Dimensions (fuori concorso) che ha proposto tre suggestivi esempi di film girati in realtà virtuale: grazie al visore e alle cuffie ci si ritrova immersi in un ambiente virtuale a 360°, di volta in volta in una sperimentazione videoartistica con danze e riprese subacquee (Nairobi Berries, Kenya), in una specie di videogioco in cui lo spettatore è la vittima sotto minaccia (Let This Be A Warning, Kenya) o in un festival d'arte all'aperto a Accra (Spirit Robot, Ghana). Ha vinto il concorso per i cortometraggi Un enfant perdu (di Abdou Khadir Ndiaye, Senegal), che segue l'odissea di un bambino di famiglia borghese che si perde all'uscita di scuola e scopre un mondo per lui sconosciuto. Tra i film che ho visto, sempre in tema di condizione dell'infanzia, ho trovato toccante (anche se forse tecnicamente è il più debole) Une place pour moi di Marie Clémentine Dusa bejambo (Ruanda), su una bambina che al suo ingresso nel mondo della scuola scopre la discriminazione superstiziosa cui ancora oggi sono sottoposte in certe parti dell'Africa le persone albine. Una discriminazione dolorosa cui reagirà mettendo per iscritto le sue semplici parole di bambina in una lettera, che la maestra fotocopierà e distribuirà ai genitori dei suoi compagni di classe. Passando al Concorso per lungometraggi “Finestre sul mondo”, mi è sfuggito purtroppo il film che si è aggiudicato il premio principale, House in the Fields (Marocco) di Tala Hadid, che racconta in forme semidocumentaristiche la vita e le tradizioni di una popolazione berbera dell'Atlante, concentrando la propria attenzione su due personaggi femminili. Perfettamente adeguato invece il premio del pubblico “Città di Milano”, andato a quello che secondo me è il film migliore del festival, El Amparo, una produzione venezuelana-colombiana, del giovane regista Rober Calzadilla. Negli anni '80 una battuta di pesca si trasforma (fuori schermo) in un massacro: verso il confine colombiano l'esercito venezuelano uccide 14 pescatori inermi scambiandoli per guerriglieri. Gli unici due sopravvissuti verranno imprigionati e sottoposti a enormi pressioni perché confessino di far parte della guerriglia, per evitare all'esercito e al governo venezuelano la vergogna di un errore letale. Film di dignità e di resistenza umana, stupendamente calato in una realtà locale ben caratterizzata, che dà risalto ai caratteri principali (la storia, vera, si era tradotta dapprima in un'opera teatrale) ma senza mai dimenticare la dimensione corale, collettiva, politica della vicenda. Una regia fluida, tesa, a suo agio tanto nell'uso della camera a mano nelle movimentate riprese in spazi aperti che negli spazi claustrofobici della prigione del paese, e un cast di attori perfetti. Se proprio gli si vuole trovare un difetto, il film procede in anticlimax, poiché le scene più drammatiche sono concentrate nella prima parte; ma in ogni caso è un grande film. In un'edizione del festival dove stranamente non si è parlato moltissimo, almeno in forma diretta, dei diritti delle donne, spicca A Day For Women (Yom Lel Setat), della regista egiziana Kamila Abu Zekri. In un quartiere popolare del Cairo apre una nuova piscina e, straordinariamente, la giornata della domenica viene riservata alle donne, altrimenti escluse dall'uso dell'impianto. La condizione collettiva, ludica, sensuale della piscina, che permette alle donne di stare insieme, un po' meno coperte del solito, a godere del sole, dell'acqua, della musica, della compagnia reciproca, avrà naturalmente un effetto benefico (salvo suscitare l'irritazione dei fondamentalisti, prontamente rintuzzati però dalla comunità), anche sulle tre protagoniste principali, una vedova inconsolabile che troverà una nuova ragione di vita, una modella per pittori che riuscirà a coronare un vecchio sogno d'amore e una ragazzina disinibita e considerata un po' pazza che a sua volta troverà qualcuno che la capisca e la apprezzi per quello che è. Un film non semplicisticamente propagandistico, ma capace di molte sfumature: la giovane regista si destreggia bene nel maneggiare diversi registri - il buffo, il patetico, il sentimentale, il drammatico – e chiude su una bella immagine subacquea di libertà. Un forte ritratto femminile viene delineato anche nel senegalese Félicité, di Alain Gomis, già vincitore dell'Orso d'argento alla Berlinale: una donna fiera e orgogliosa, ma anche arrogante e presuntuosa, che si guadagna da vivere cantando nei locali, ritrova la sua vita sconvolta da un grave incidente motociclistico in cui rimane coinvolto il figlio adolescente. Molta bella la prima parte, con una tesa linearità iterativa (alla Dardenne, o come certo cinema iraniano), finché Félicité fa di tutto per mettere insieme i soldi che servono all'operazione del figlio; poi il film si disperde e ristagna prima di arrivare a una conclusione. Non è facile in effetti trovare temi comuni tra i lungometraggi del concorso, se non genericamente l'emergere di storie individuali su contesti geopolitici, storici e socioeconomici sempre molto caratterizzati. Un altro dei film più direttamente impegnato in una polemica politica è Santa y Andrés, del cubano Carlos Lechuga. Nella Cuba anni '80 una commissaria del popolo, donna solitaria e segaligna, viene incaricata di sorvegliare Andrés, confinato in un isolamento rurale, scrittore omosessuale e accusato di idee dissidenti. Ovviamente l'incontro tra due solitudini e la conoscenza reciproca porteranno a un ben differente rapporto umano tra i due protagonisti, in una sorta di versione caraibica di Una giornata particolare. C'è il Bangladesh in preda a una crisi economica sociale invece sullo sfondo di Live from Dhaka di Abdullah Mohammad Saad. La situazione è bene impostata, la regia funziona e i due attori protagonisti, maschile e femminile, sono bravi; ma il film è afflitto da due problemi: una fotografia in un bianco e nero scialbo e poco contrastato (molte tra l'altro le scene notturne) e la sequela di sventure che colpisce il protagonista (è zoppo; sta perdendo tutti i suoi averi in speculazioni finanziarie; è perseguitato dai creditori; ha un fratello drogato – che gli ruba i soldi; che muore -; ha una fidanzata di cui è geloso – che rimane incinta; che ha bisogno di soldi per abortire; che non abortisce -; gli bruciano la macchina nei disordini; tenta di espatriare ma gli rubano i soldi, e via così, fino all'ultima sequenza e ben oltre) sono davvero troppe per un uomo solo. Va ancora peggio alla donna di una certa età protagonista di Burning Birds (Davena Vihagun, Sri Lanka) di Sanjeewa Pushpakumara: le milizie paramilitari anticomuniste le trucidano l'incolpevole marito; avendo otto figli da mantenere passa dal lavoro massacrante in una cava di pietre a uno rivoltante in un mattatoio; viene picchiata e stuprata a più riprese e da vari personaggi (tra i quali l'assassino del marito rincontrato casualmente); è costretta a darsi alla prostituzione; i figli vengono scacciati da scuola; viene arrestata e via così fino a un finale di sangue. Il regista cerca la bellezza nella sofferenza con riferimenti estetici alla pittura europea (lui fa i nomi di Caravaggio e di Rembrandt), ma il film è talvolta e nell'insieme piuttosto insostenibile. Molto funereo anche My Hindu Friend (Meu amigo hindu, evento speciale fuori concorso), girato da Hector Babenco (Il bacio della donna ragno, Giocando nei campi del Signore, Ironweed), già ammalato di cancro, che racconta se stesso facendosi impersonare da Willem Dafoe, che, prestigioso ospite d'onore alla proiezione, fa un'ottima figura, elegante, simpatico e cool. La prima metà si svolge prevalentemente in ospedale, in attesa e dopo un trapianto di midollo, ma tutto il film si rivela una cupa preparazione alla morte, anche quando sembra allontanarsene. Tra i molti film di registi che raccontano se stessi, i riferimenti più diretti sono all'All That Jazz di Bob Fosse, o a un altro film-testamento, il Radio America di Robert Altman, in cui la morte si aggirava tra le quinte in impermeabile. Personalmente non amo molto il registro del grottesco, e il film ne fa ampio uso, forse per esorcizzare i temi mortiferi, ma a mio parere con l'effetto di aggravare una situazione già difficilmente sostenibile. Un film decisamente poco riuscito, tra goffaggini di sceneggiatura e perfino di regia; la scena finale con la moglie (reale) di Babenco che balla nuda sotto la pioggia con l'accompagnamento (extradiegetico) di Dancing in the Rain mi ha imbarazzato. Più “leggero”, benché ambientato anche questo in una situazione di disagio sociale, El soñador del peruviano Adrian Saba, che più degli altri guarda a modelli occidentali – sia pure da cinema indipendente -, tra flashforward e sequenze oniriche, nel raccontare la storia di un ombroso adolescente, “fabbro” in una pandilla di scassinatori, che vedrà cambiare la sua vita dopo l'incontro con la sorella di uno dei complici, da lui ferito in uno scontro. E' un bizzarro oggetto cinematografico infine Honeygiver Among the Dogs (Munmo Tashi Khyidron), di Decher Roder. Tra le montagne boscose e nebbiose del Buthan e i suoi centri urbani si dipana un racconto che è di volta in volta road movie, commedia sentimentale, giallo (la trama si avvolge sul caso di una badessa scomparsa, forse assassinata, e sulle indagini di un giovane detective che si mette alle calcagna di un affascinante sospettata), il tutto spruzzato di misticismo buddista. Quindi paesaggi, schermaglie tra i due, femme fatale, visioni oniriche, indagini, colpo di scena, resa dei conti. Forse con un po' di stringatezza in più e nella mani di un regista più visionario avrebbe potuto diventare (a suo modo) un cult...
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PREMI DAVID DI DONATELLO 2017Okay, è una proporzione un po’ Davide contro Golia (lo dice il nome stesso), ma anche noi abbiamo i nostri Oscar, e la statuetta tanto per cominciare è senz’altro più bella della loro. La cerimonia probabilmente no, ma tanto io non guardo nessuna delle due, quella americana perché di notte dormo, quella italiana per deprimenti esperienze passate. Devo dire che forse mai come quest’anno la cinquina dei film candidati aveva la mia approvazione (lo dico subito così quelli dell’Accademia del Cinema che hanno assegnato i premi si sentiranno più tranquilli). Si tratta di cinque titoli a mio parere tutti validi, ovviamente con le dovute differenze. Veloce come il vento mi è parso un buon film di genere, come in Italia si stenta a farne, che raggiunge un buon equilibrio in quel mitico rapporto che sta la via Emilia e il West, cioè sull’adozione dei modelli, stilemi e anche stereotipi d’oltreoceano e paesaggi, ritmi e personaggi più intimi e nostrani. Tra le spacconate hollywoodiane insomma e l’understatement (anche se non si chiama così) all’italiana, quel modo di volare un po’ basso, di non prendersi mai sul serio fino in fondo, di mantenere un ironico senso delle proporzioni. L’anno scorso c’era stato lo splendido caso del sulfureo Lo chiamavano Jeeg Robot, quest’anno tocca al film di Rovere. Fai bei sogni poi è un film d’autore nel senso che è bellocchiano fino al midollo (tanto che mi ero divertito a raccontarlo tramite i titoli dei film precedenti), forse la prova migliore dai tempi di Vincere! Il film che ha vinto è forse il più classico, nel senso di più aderente all’eredità della commedia all’italiana, e di più tradizionale nella messa in scena (vince anche Virzì alla regia; i candidati registi corrispondevano senza molto fantasia ai film in lizza) e nell’uso degli attori. Non che sia un male: La pazza gioia è senza dubbio un bel film, che diverte e commuove. Più innovativi erano forse gli altri due titoli. Fiore è un dramma carcerario con una protagonista femminile straordinaria, un film che raggiunge il lirismo attraverso un realismo duro e senza molte concessioni. Indivisibili è un film potente nella concezione e nella realizzazione, che mescola descrizione sociologica e afflato antropologico con una visionarietà e una portata simbolica fuori dal comune. De Angelis trova due interpreti efficaci (gemelle nella vita e siamesi nel film), omaggia il Ferreri de La donna scimmia e il Browning di Freaks, ed esprime una grande idea di cinema e un senso del paesaggio quasi garroniano. Non mi piace dare stelline e fare graduatorie, ma avercene di annate così. Forse anche tra le sceneggiature le mie preferenze sarebbero andate a Fiore (Giovannesi con Gravino e Lattanzi) e Indivisibili (De Angelis con Guaglianone – già coautore di Jeeg – e Petronio). Ha vinto invece la coppia Virzì-Archibugi sempre per La pazza gioia. Nulla da obiettare. Per lo stesso film è stata premiata strameritatamente Valeria Bruni Tedeschi, per un’interpretazione che è forse la sua migliore di sempre, la summa di tutti i personaggi della sua carriera. Nevrotici, fragili, impulsivi, snob, autoironici. Peccato soprattutto per l’esordiente Daphne Scoccia, di straordinaria intensità in Fiore, e per la strana coppia delle altrettanto esordienti, e sorprendenti, sorelle Fontana. Qualche dubbio in più sulla statuetta come miglior protagonista maschile a Stefano Accorsi, sulle cui capacità interpretative nutro da sempre considerevoli perplessità. Qui è avvantaggiato perché il suo personaggio è un tossicodipendente un po’ fuori di testa, per cui la recitazione può stare tutta sopra le righe, e dalla cadenza emiliana che gli permette di giocare in casa. Ci può stare; personalmente avrei senz’altro preferito il Mastandrea di Fai bei sogni - per quanto in un personaggio un po’ monocorde, peraltro congeniale all’attore romano incline alla recitazione sommessa e sottotono -, che viene però comunque giustamente premiato come non protagonista per la bella parte del padre problematico in Fiore. Antonia Truppo infine si vede premiata per il secondo anno consecutivo, cosa insolita, ma con merito in entrambi i casi, come non protagonista: nel 2016 per Jeeg e nel 2017 per Indivisibili. Indiscutibili anche due ulteriori premi andati a Indivisibili: uno ai produttori De Razza-Verga, per avere sostenuto un progetto insolito e audace, e un altro (anzi due, di cui uno per la miglior canzone) a Enzo Avitabile, per una colonna sonora perfettamente organica e integrata al film. Un altro premio per lo stesso film sarebbe forse potuto andare a Guarino per le scenografie etnografiche e inventive in una Castel Volturno magica e sinistra, ma gli è stato preferito lo Zera de La pazza gioia, mentre in un campo affine Cantini Parrini si aggiudica la statuetta per i costumi del film di De Angelis. Veloce come il vento si aggiudica prevedibilmente anche i riconoscimenti più tecnici, come montaggio (Vezzosi), suono e effetti speciali. Tra i migliori film stranieri vince Animali notturni (cui io ho dedicato schizofrenicamente anche un Face/Off) su Captain Fantastic, Lion, Paterson, Sully. Tutti, ciascuno a suo modo, film degni di interesse. Ma sacrosanto a mio parere è il premio andato a I, Daniel Blake di Ken Loach come miglior film dell’Unione europea. Un film umanista e politico, struggente e arrabbiante, decisamente superiore a tutti i suoi concorrenti (Florence, Julieta, Truman, Sing Street) o per lo meno ai tre che ho visto io. 27° FESTIVAL DEL CINEMA AFRICANO, D'ASIA E AMERICA LATINA di MilanoIl Festival del Cinema d'Africa, Asia e America Latina, nato 27 anni fa a Milano per iniziativa del Coe (Centro orientamento educativo), sviluppandosi a partire da un'eroica rassegna ospitata al Cinema San Fedele, intitolata “Il lontano presente”, che portava nella nostra città, nel cuore dei rampanti anni '80, cinematografie di cui non sospettavamo neppure l'esistenza, è da sempre un'occasione tra le più preziose per gettare lo sguardo non solo al di là degli steccati della produzione statunitense ed europea, ma anche per aprire delle vere e proprie finestre sul mondo, per ampliare e approfondire la conoscenza di altri mondi, altre culture, altri uomini, donne e bambini che, ci piaccia o no, vivono sul nostro stesso pianeta. Frequentare il Festival non è una vacanza esotica all inclusive; lo spettatore non rimane rinchiuso nei recinti ben protetti dei villaggi globali, ma viene lasciato e spinto a vagare tra terre sconosciute, mondi ignoti, pieni di contraddizioni, di problemi drammatici e a volte tragici, ma abitati da persone che meritano comprensione e rispetto, basilarmente pervasi spesso dai nostri sentimenti, spinti dagli stessi nostri desideri di fondo. E' un viaggio se volete anche impegnativo, da cui si ritorna con molti ricordi e a volte anche con qualche amarezza in più (quest'anno, tanto per dire, non è stata realizzata la piccola sezione di commedie, che negli ultimi anni aveva un pochino alleggerito il programma del festival, tanto per dare un'idea di come vanno le cose nel mondo), ma che vale indubbiamente la pena di fare. I sapori talvolta sono forti, non sempre gradevoli per il nostro gusto, ma almeno non sono la solita minestra riscaldata in chiave hollywoodiana, o i cibi esotici normalizzati e addomesticati per i nostri palati abitudinari. Seguo con grande piacere e interesse il Festival da molti anni e anche quest'anno non mi sono sottratto, concentrandomi soprattutto sui due concorsi principali, vedendo una decina di lungometraggi (prevalentemente dalla sezione intitolata, appunto, “Finestre sul mondo”) e altrettanti cortometraggi (Concorso cortometraggi africani), 3 film in realtà virtuale a 360° provenienti da Kenya e Ghana, per un totale di 17 Paesi di provenienza (senza contare le coproduzioni), un paio di mostre fotografiche, una mezza dozzina di incontri con registi (tra cui Raoul Peck) e con la star hollywoodiana Willem Dafoe (un attore che non si tira indietro davanti a sfide anche ardite, uno che ha recitato con Scorsese, Stone, Friedkin, Ferrara, solo per fare qualche nome), ospite d'onore (piacevolissimo, elegante e spiritoso) in quanto protagonista dell'ultimo film del regista Hector Babenco, che, già malato di cancro, ha lasciato il suo testamento cinematografico con My Hindu Friend. Ah, e una degustazione di piatti e bevande africane, last but not least. Da molti anni, circondate da uno stuolo di collaboratori e di giovani e volonterosi volontari, sono le instancabili animatrici di questa bellissima iniziativa (è il festival di cinema più bello di Milano? direi proprio di sì), Anna Maria Gallone e Alessandra Speciale, che riescono a infondere il loro prezioso entusiasmo a chiunque stia loro di fronte o a fianco, superando con lo slancio della loro passione anche le difficoltà economiche che di anno in anno rendono sempre più impervia l'organizzazione di una manifestazione internazionale, che ogni anno porta a Milano oltre che i film registi, attori e rappresentanti culturali dei Paesi di origine. Seduta a un tavolino della Casa del Pane, il Festival Center situato nel Casello Ovest di Porta Venezia, Anna Maria ci ha raccontato che per la selezione di quest'anno ha visionato 581 film; i prescelti sono poi distribuiti poi nelle varie sezioni che oltre alle due già citate comprendono anche il Concorso Extr'A – Il razzismo brutta storia (film italiani sui temi delle migrazioni e dei razzismi), Where Future Beats, oltre ai Flash, agli omaggi e alle iniziative speciali. E per chi non si accontenta, non c'è solo il cinema: completano il programma serate musicali, presentazioni di libri, conversazioni e incontri, workshop per adulti e per bambini. Sì, ve lo dovevo dire prima; sarà per la prossima volta. Se volete sapere chi ha vinto il Festival, potete andare sul sito ufficiale. Se invece volete leggere la recensione di I Am Not Your Negro, il film cui è spettato l'onore di aprire il festival, uno dei più stimolanti contributi cinematografici al dibattito della situazione afroamericana, diretto dal regista haitiano Raoul Peck sulla base di un testo di James Balwin, la trovate già su questo sito. Dopodiché, nel prossimo post, se siete interessati vi racconto i film che ho visto io. IN VIAGGIO CON JACQUELINE di Mohamed HamidiCerto, per i francesi è un tuffo nel passato perché da loro La vacca e il prigioniero (1959) è Storia del cinema e Fernandel e la sua mucca delle icone nazionali. Ma diciamocelo francamente, a noi In viaggio con Jacqueline (in originale, semplicemente, La vache) è un film che ci piacerebbe non ci piacesse. Trattasi di un contadino algerino, Fatah (Fatsah Bouyahmed), che sogna di partecipare al Salone dell’Agricoltura a Parigi, e che pertanto, sbarcato a Marsiglia, si propone di attraversare tutta la Francia a piedi insieme alla sua mucca (Fernandel con la stessa compagnia doveva attraversare la Germania in un bizzarro tentativo di fuga da un campo di prigionia); e pertanto: contadino bonaccione ma dal cuore d’oro, ciarliero ma ben intenzionato; paternalismo dell’europeo colto e nobile (benché economicamente decaduto, interpretato da Lambert Wilson) che lo prende in simpatia; ritratto di un semplice di spirito che però per saggezza e buon senso può dare lezione a molti; racconto naïf in chiave di favola a lieto fine; paesaggi bucolici e aria di paese. Cose insomma, di cui avremmo anche fatto a meno. Eppure il film si conquista comunque la nostra simpatia, ridiamo di Fatah ma stiamo dalla sua parte, tifiamo per lui. Alla fine la generosità e la solidarietà delle persone che incontra, il favore mediatico che inconsapevolmente attira su di sé, la sua ingenuità a volte maliziosa ma intellettualmente onesta, il ritmo pacato di un viaggio a misura d’uomo e di animale, finiscono per disegnare un mondo che non è ma che sarebbe bello fosse, che ci fa sorridere ma anche intenerire. In viaggio con Jacqueline è insomma un film d’altri tempi, ma non ignaro dell’oggi, tra proteste degli agricoltori e risonanze social, e Fatah è una sorta di Forrest Gump che sa benissimo dove sta andando e qual è il suo piccolo sogno da realizzare. Arrivato a destinazione, il riconoscimento che gli verrà tributato, e non sarà l’agognato primo premio, sarà quello più meritato. I AM NOT YOUR NEGROI Am Not Your Negro, che ha aperto alla presenza del regista la 27a edizione del Festival del cinema africano, d'Asia e America latina di Milano, e che è attualmente in programmazione a Cinewanted e al cinema Beltrade, è probabilmente l'opera cinematografica più interessante e più stimolante per la riflessione e il dibattito tra i numerosi film sulla questione afroamericana usciti nelle ultime settimane sui nostri schermi (come Il diritto di contare, Moonlight, Loving e Barriere, alcuni recensiti in queste stesse pagine). Al contrario dei precedenti (tutti, tranne Barriere che era in origine un'opera teatrale, ispirati comunque a storie realmente accadute) anziché partire da uno spunto narrativo, I Am Not Your Negro è però interamente basato su un testo saggistico (“Remeber This House”), lasciato incompiuto alla morte (nel 1987) dallo scrittore afroamericano James Baldwin (tra i suoi romanzi “Gridalo forte” - “Go Tell It on the Mountain” - e “La stanza di Giovanni”; tra i suoi saggi destò scalpore “La prossima volta il fuoco”) e portato sullo schermo dal regista di origini haitiane Raoul Peck (tra i suoi fil più noti L'homme sur les quais e Lumumba). Anche questo film come quelli citati (con l'eccezione di Moonlight) affonda le proprie radici nel passato: il testo di Baldwin ripercorre infatti, anche in chiave autobiografica, dal momento che lo scrittore conobbe personalmente tutti e tre i personaggi, il periodo in cui vennero assassinati, uno dopo l'altro, i principali esponenti dei movimenti di emancipazione afroamericana: Medgar Evers, Malcom X e Martin Luther King. Prendendo spunto dai ricordi personali e dai sentimenti di dolore e frustrazione, lo scrittore innesca una riflessione a tutto campo che mette in discussione non solo la storia e lo stato dei rapporti tra bianchi e neri nella società americana, ma che si estende ai fondamenti e ai corollari ideologici e simbolici di tale rapporto. Da una parte quindi trattato di filosofia politica, dall'altro cultural study che ripercorre la costruzione di un immaginario, soprattutto cinematografico, che cela sotto la sua classicità e innocenza una mitopoiesi della Nazione americana che mistifica o occulta la realtà della schiavitù, dello sfruttamento della forza-lavoro, della discriminazione e dell'oppressione, così come anche il genocidio delle popolazioni native sterminate dai colonizzatori e l'espropriazione di territori e risorse. Peck sceglie di lasciare intatta e integra la letteralità del testo di Baldwin, cui si aggiungono le parole pronunciate dallo stesso scrittore in occasioni pubbliche (si dedicò anche all'insegnamento) di cui rimangono le riprese originali, ma compiendo un eccellente lavoro di ricerca di archivio e di assemblaggio che mette insieme un mosaico di filmati e fotografie provenienti da materiali documentari d'epoca, dalla pubblicità e dalla cinematografia, unendoli a riprese realizzate appositamente per il film e a reportage dei nostri giorni. Lasciando inalterato quindi un testo polemico ancora di grande e viva attualità, Peck anziché aggiungere parole commenta, chiosa e aggiorna il testo di Baldwin con la forza delle immagini, non solo esemplificative o illustrative ma a loro volta autonomamente portatrici di argomentazioni dialettiche. Così dall'immagine dei neri bonari e un po' tonti usati nelle réclame, dove l'esotismo viene esaltato e nello stesso tempo normalizzato dalle divise servili (che cancellano invece o sterilizzano o glissano sull'erotismo dei corpi), si passa alle manifestazioni di protesta dei nostri giorni o alle fotografie dei neri di oggi che ci interpellano con lo sguardo; dalle scene cinematografiche (ma anche fotografie dal vero del massacro di Wounded Knee) dello sterminio dei pellerossa (nella versione eroica alla John Wayne o in quella già critica di Soldato Blu) al pestaggio di Rodney King, massacrato di botte da un gruppo di poliziotti. Malgrado la visione del film sia piuttosto impegnativa dal punto di vista intellettuale e anche visivo, visto la quantità e l'eterogeneità dei materiali mostrati in un montaggio veloce e dinamico, non si potrà non notare il fascino sprigionato dalla voce profonda di Samuel L. Jackson, che assume l'onere e l'onore di dare voce alle parole di Baldwin. LOVING di Jeff NicholsRichard Loving, muratore con l’hobby della meccanica, sposa la sua loved Mildred. Ma lei è nera, è il 1958 e vivono in Virginia, dove i matrimoni misti sono illegali. Dopo essere stati arrestati un paio di volte, condannati a un anno di prigione o in alternativa a 25 anni di esilio dal loro Stato, Mildred scrive a Robert Kennedy, lui indirizza il loro caso alla American Civil Liberties Union, dove un giovane avvocato ambizioso e spregiudicato lo prende in mano e tribunale dopo tribunale lo porta fino alla Corte Suprema, che nel 1967 sentenzia che le leggi contro i matrimoni interrazziali sono incostituzionali. Il film è appunto la storia della storia d’amore tra i Loving, che finisce per diventare quella di Loving vs Virginia, ovvero dello scontro tra due persone umili e comuni e l’autorità statale. Quello che è certo, e che è stato sottolineato da pressoché tutti i recensori, in genere come elemento di valutazione positiva, è che Nichols, sia in sede di scrittura che di regia, abbia evitato non solo i toni enfatici e melodrammatici, ma anche spesso i leciti e possibili acuti drammatici, mantenendo tutta la narrazione su un piano sommesso e sottotono. Ma molti commentatori, forse travisati dal cognome del protagonista, assurto in un cortocircuito semantico a designare nel titolo – nomen omen – il sentimento che lega i due protagonisti, hanno visto un film in cui la narrazione si concentra sulla vita quotidiana della coppia e sul rapporto amorevole che li sorregge nell'affrontare le lunghe traversie giudiziarie al termine delle quali la loro unione sarà finalmente riconosciuta come legittima e tutelata dalla Costituzione statunitense. E' vero che, superata la prima metà del film, vengono definitivamente accantonati, con una mossa drammaturgicamente audace, i personaggi antagonisti (lo sceriffo, il giudice), che non verranno sostituiti da altri con la stessa funzione; e che nessun episodio eclatante di razzismo vede vittima i Loving; che le vicende processuali fanno il loro corso al di fuori della narrazione sullo schermo; e che nell'unica seduta cui siamo ammessi come spettatori – la decisiva – le facce dei giudici come degli astanti vengono tenute ostinatamente fuori fuoco e che non sentiamo pronunciare con le nostre orecchie la storica sentenza. Ma se è altro quello che interessa a Nichols, e cioè il sentimento alla base della storia più che la storia stessa, questo sentimento forse non è l'amore, ma la paura. Se Mildred infatti intraprende la sua lotta con umile ma fiduciosa determinazione, Richard è un personaggio che vive e agisce sotto il segno della paura. Le minacce dello sceriffo, le detenzioni, l'umiliazione dei processi hanno ottenuto il loro effetto. Richard, se non ha esitato a sposare la donna che amava e che aspettava un figlio da lui, ha paura tanto di esporsi e di rendere pubblica la propria situazione, che di minacce più reali, che però, e qui sta il punto, rimangono astratte e non si concretizzano mai nel racconto cinematografico. Se una macchina si avvicina troppo velocemente, Richard fa correre tutti a ripararsi in casa; se dietro la sua macchina c'è un furgone, Richard corre a prendere i fucili; se trova sul sedile della propria auto un mattone avvolto in un articolo che li riguarda, la sua paranoia ovviamente aumenta e lo spinge a scrutare con sospetto i colleghi di tutti i giorni. Richard vorrebbe vivere una vita normale, senza infastidire nessuno e senza che nessuno infastidisca lui, Mildred e i loro bambini, lontano dai riflettori e dall'attenzione pubblica. Una vita tranquilla, senza l'incubo continuo di una minaccia incombente, sia che provenga dall'autorità costituita che dall'ostilità di chi vive intorno a lui. La chiave del film sembra allora trovarsi in un altro film precedente di Nichols: Richard appare come una variante del protagonista di Take Shelter (lo conferma la presenza in entrambi i film, lì da protagonista, qui in un cameo, di Michael Shannon), che vive in un'ossessione paranoide, preparandosi alla catastrofe globale che prevede imminente e di cui lui solo scorge presagi inequivocabili. In Loving, i segnali della catastrofe si sono già manifestati a Richard, e la catastrofe si chiama razzismo. Non occorre che l'odio, l'intolleranza, la malvagità si manifestino in altre e magari più violente forme, perché questi sentimenti, come Richard ha già sperimentato, sono parte integrante del sistema mentale, sociale e culturale, a tal punto da aver impregnato quelle stesse istituzioni e quelle stesse regole che dovrebbero tutelare gli individui e i loro diritti. Il razzismo è una mano alzata pronta a colpire; non occorre che il colpo si abbatta: le sue vittime vivranno comunque nel terrore dell'attesa. Quello che Richard cerca, in definitiva, è precisamente un rifugio (shelter) che gli dia riparo; una casa in cui coltivare il suo amore ma anche dove ricoverare i suoi cari quando sente o teme la tempesta avvicinarsi. La casa che promette a Mildred all'inizio del film, e che le costruisce alla fine. Lungo tutto l'arco del film, con una voluta insistenza, ci viene mostrato Richard che svolge il suo lavoro: costruendo case, mattone su mattone, cementandoli con la calce e rifinendoli con la cazzuola. Tenacemente, pazientemente, silenziosamente, costruendo; dove gli altri vorrebbero distruggere. Leggi l'opinione di Oruam Norac su FACE/OFF ALLIED - UN'OMBRA NASCOSTA di Robert ZemeckisCredo che molti critici si siano trovati in imbarazzo davanti al nuovo film di Zemeckis e in difficoltà nel trovarci motivazioni che ne giustifichino l’interesse. Zemeckis non è un mestierante qualunque: esponente della Nuova Hollywood, allievo di Spielberg benché poco più giovane, Zemeckis ha sempre fatto un tipo di cinema il cui fine era lo stupore, la meraviglia. Per raggiungere il suo scopo tutto era lecito: i paradossi narrativi (sul corpo, sul tempo, sulla realtà e l'artificio) come gli effetti speciali forniti da una tecnologia sempre in evoluzione e di cui ha fatto spesso un uso pionieristico e sperimentatore, nell’ambito di prodotti sempre comunque pensati per il grande pubblico. Ci sediamo in sala quindi con grandi aspettative, favorite da quello che già sappiamo: i due divi protagonisti che garantiscono glamour a prescindere - infatti le locandine con loro due in abito da sera e mitra in pugno -, poi l’ambientazione esotica, la storia di spie che si insinua fino nell’intimo di un amore coniugale dove l’uno è portato a dubitare dell’altro. Le prime sequenze fanno ben sperare; delle dune sahariane dall’alto, un paracadute che plana, un appuntamento in mezzo al nulla come in un intrigo internazionale hitchcockiano. L’autista marocchino dice al protagonista “Cherchez le colibrì” ma pazienza, si pensa che sia una battuta sapidamente demodé. Max (Brad Pitt) è un agente segreto anglocanadese, paracadutato nel Marocco francese del 1942 in mano ai nazisti e al governo di Vichy: dovrà fingersi il marito di Marianne (Marion Cotillard), già introdotta nella buona società di Casablanca (attendersi citazioni!), e insieme dovranno assassinare l’ambasciatore tedesco. Che qualcosa non giri nel verso giusto si capisce già dalla prima parte del film. Anziché accrescere la tensione con i preparativi dell’attentato, Zemeckis preferisce passare il tempo a osservare la forzata convivenza tra i due agenti segreti, dove all’iniziale diffidenza dovrebbe sostituirsi il desiderio. Ma la Cotillard, brava attrice, non eccelle in sex appeal, e Pitt appare decisamente svogliato e poco interessato. Purtuttavia, dopo giorni di coabitazione in un appartamento dotato di tutti i confort propizi ad una logistica erotica, i due per il loro primo veemente amplesso scelgono l’abitacolo di una macchina in mezzo a una tempesta di sabbia. Ci si pensa di rifare con l’attentato in abito da cocktail, ma la regia non inventa nulla e allestisce una scena d’azione di una convenzionalità che sa di routine e di vecchio. Sfuggiti miracolosamente all’attentato, i protagonisti riparano in Inghilterra e si sposano. La scena del parto di Marianne sotto le bombe è il punto di svolta dopo il quale tutti i dubbi sono fugati: il set sa di set, gli attori sanno di attori che stanno recitando, i personaggi sanno di comparse che hanno ricevuto le istruzioni di correre di qua e di là. Ci si trova immersi in un cinema moderno nel senso di situato prima del postmoderno e anche del contemporaneo, old fashioned per chi apprezza il fascino del vecchio, dove sembra di sentire l’odore della naftalina degli armadi dove erano conservati i costumi di scena. Che si tratti di una festa in casa o di un’azione di partigiani francesi, tutto suona come una recita priva non solo di verità, ma anche di suggestione. Ci si sposta dal Marocco all’Inghilterra alla campagna francese, ma, indipendentemente da dove sia stato girato effettivamente il film, si ha sempre l’impressione di trovarsi in uno studio, dove girato un angolo a Casablanca ci si può trovare in una strada di Londra, l’una e l’altra di legno e cartapesta. La suspense legata all’identità di Marianne rimane a livelli modestissimi, e qualche abusatissimo specchio messo lì a ricordarci la doppiezza delle identità e la necessità di vederci doppio non riesce a dare spessore simbolico alla trama. Tutto è un po’ come ci si aspetta (certo, la Sinclair, la baby sitter, c’entrava col complotto, e così via); un aereo che cade dietro casa scuote le poltrone ma non gli spettatori, e si va verso la fine. Sperando fino all’ultimo minuto in un guizzo, in una sorpresa, in un colpo da maestro che ci ribalti dalla sedia, che ci faccia capire che Zemeckis ci sta provando ancora, che ha ancora voglia di stupirci. Non è così. Lui e lei si lasceranno in un aeroporto, sì, come nel film di Curtiz. Senza ulteriori verità nascoste, senza ritorni al futuro, senza colpi di genio. Poi c’è una lettera con voce fuori campo, una casa di campagna, una serie di foto in cornice. In un film di Zemeckis? Quello che ha fatto sposare un coniglio e una vamp, che ha fatto incontrare Forrest Gump con Kennedy e Nixon, che si divertiva col travelling matte, con l’overlapping edit, con la motion capture, col 3D e dio sa con cos’altro ancora ? Delle foto in cornice? che non si muovono? Davvero? Si è restii ad alzarsi, poi ci si rassegna: ci sono già i titoli di coda. MOONLIGHT di Barry JenkinsCerco di sgomberare la mente dai pregiudizi, ma è impossibile entrare al cinema senza pensare che si sta per vedere il film vincitore non solo del Golden Globe per il miglior film drammatico, ma anche di tre Oscar, tra cui quello per il miglior film in assoluto (con tanto di orrendo pasticcio di buste e proclamazioni al Dolby Theatre). E quindi? L’impressione, all’uscita, è che a Moonlight manchi qualcosa. La prima ipotesi è che qualcosa forse sia andato perduto dentro le ellissi temporali, che dividono il film in tre parti, intitolata ciascuna al nome e ai nomignoli che il protagonista assume nel corso delle età. Nella prima, “Piccolo” è un bambino schivo e riservato, preso in giro dai compagni e figlio di una donna tossicodipendente, che, in assenza di una reale figura paterna, troverà rifugio e consolazione in una coppia formata da uno spacciatore di droga di nome Juan e dalla sua materna ragazza. Nella seconda, “Chiron” (il suo vero nome) è un adolescente alle superiori, vittima dei bulli che gli rovinano l’esistenza almeno quanto la madre sempre più persa nelle sue storie di droga, che scopre il sesso insieme a un compagno di scuola, Kevin. Nella terza, “Black” (il nomignolo datogli da quest’ultimo), uscito di galera e diventato la copia fisica di Juan, di cui esercita lo stesso mestiere, ritorna da Atlanta a Miami alla ricerca del non dimenticato Kevin, anch’egli uscito di galera e diventato cuoco. Di episodio in episodio qualcosa prosegue come se non fosse passato del tempo (il rapporto con la madre e con Teresa), qualcosa cambia: in “Chiron” Juan non c’è più, in “Black” il delicato adolescente si è trasformato in un bestione pieno di muscoli e coi denti ricoperti d’oro (ma quanto c’è stato in prigione? ci si chiede perplessi) che mette paura solo a vederlo. Eppure gli spacciatori di Moonlight hanno il cuore tenero come pochi altri: piangono, si affezionano, amano i bambini, si innamorano. Si prenda Juan, ad esempio: è paterno, amico, simpatico, generoso, monogamo, sobrio e vive in una casa elegante insieme a una ragazza bellissima e carinissima di modi. E’ anche singolare che nel film non vengano mai mostrati episodi di violenza (confinata negli ambienti scolastici, ma assente dalle strade dello spaccio): lo stesso Juan muore in un buco della narrazione; probabilmente di morte violenta, ma invisibile. Così anche il degrado sembra assente: la casa della madre drogata sembra tutto sommato ordinata e pulita e quella del boss della droga (che va in giro con bandana e canottiera, orecchino di diamante e denti d’oro), è arredata con perfetto buon gusto borghese. Nello stesso tempo il film tematizza la scoperta dell’identità omosessuale, ma omette di rappresentare qualsiasi atto di sesso esplicito (se non un episodio di masturbazione ripreso pudicamente di spalle). Se si aggiunge che il film parla dell’identità afroamericana, ma evita di far entrare nel film qualsiasi personaggio di pelle bianca, sia pure secondario (si intravvede qualche avventore nel ristorante di Kevin verso la fine), sorge complessivamente il dubbio che il film eserciti qualche forma di reticenza. Appare comprensibile la scelta politico/estetica di evitare la rappresentazione di stereotipi razziali, di genere e sociologici, per sposare invece una visione e una presa di posizione sentimentale sulla materia (proclamata fin dal titolo), ma alla fine l’impressione è che si sia fatto vedere troppo poco, e che regista e sceneggiatori, evitando di mostrare quello che nel film non c’è, dietro l’apparenza filmica della verità e della sincerità del racconto, abbiano in realtà preso, consapevolmente o meno, una comoda e furba scorciatoia ideologica che elimina gli aspetti più disturbanti o problematici. Una certa ambiguità permane anche nella chiusa “morale” del film. “A un certo punto dovrai decidere da solo chi vuoi diventare. Non lasciare che qualcuno decida per te” è l’insegnamento fondamentale che Juan lascia in eredità a Chiron, che però lo segue solo a metà: quando lo lasciamo infatti sembra da una parte deciso a vivere la propria omosessualità attraverso l’amore, ma nello stesso tempo è fisicamente e esteticamente una sorta di copia conforme di Juan, di cui ha praticamente clonato professione, look, macchina (accessori compresi), modi di fare, rinunciando di fatto a una parte della propria originale personalità. Ovviamente Moonlight non è un brutto film, e Jenkins parte da un soggetto teatrale cercando di vivificarlo, di tradurlo in immagini, materia, suoni e silenzi. La camera è molto libera: riprese a distanza ravvicinata, fuori fuoco, steadycam, piani sequenza, mobili sequenze acquatiche; ma si ferma anche a scolpire primi piani in cui i personaggi cercano la propria essenza e ritorna all’ordine del campo/controcampo nei momenti importanti (le domande di Piccolo a Juan e Teresa, il colloquio di Black con la madre, l’incontro di Black e Kevin al ristorante). Gli Oscar, infine. La sceneggiatura, si sarà capito, non mi ha certo entusiasmato. L’interpretazione di Mahershala Ali (Juan) suscita simpatia (a me era piaciuto anche Lucas Hedges in Manchester by the Sea e avrei premiato il cinquenne Sunny Pawar di Lion, che però sfortunatamente non era candidato). Per il miglior film, La la land non è stato premiato per la legge secondo la quale quando un film drammatico incontra un film commedia quello commedia rimane a mani vuote; e poi perché ha avuto la sfortuna di capitare nell’anno in cui l’Academy si sentiva il dovere di tornare political correct, dopo le polemiche del 2016 con un palmares monocolore (tutto bianco). P.s.: ma l’omosessualità cinematografica invece è blu? Jarman ha scelto questo colore come titolo e come unica immagine per il suo film testamento; per Adèle il blu è un colore caldo; Chiron impara che la pelle dei neri sotto i raggi della luna diventa blu... T2 TRAINSPOTTING di Danny BoyleGli scrittori anglosassoni contemporanei, anche quelli main stream e non seriali, sembrano nutrire una sorta di affezione per i propri personaggi che li spinge a non abbandonarsi e a seguirli nella loro evoluzione di libro in libro. Penso ai Winshaw o alla banda dei brocchi del britannico Coe, o all’”eroe” irlandese Henry o al Jimmy Rabbite di Doyle, capace di superare l’esperienza adolescenziale dei Commitments per tornare da adulto in La musica è cambiata. Non è da meno lo scozzese Irvine Welsh, che dopo Trainspotting ha avuto il coraggio di resuscitare la sua banda di disperati e ilari drogati in Porno. Dopo molti molti anni (segnati anche da dissapori tra i protagonisti e soprattutto tra il regista e Ewan Mc Gregor, che non gli perdonò il fatto di essere rimasto escluso dal cast di The Beach) anche Danny Boyle l’ha seguito, riportando i suoi antieroi sullo schermo dopo lo strepitoso successo del film del 1996. Se T2 si prende molte libertà rispetto alle vicende di Porno, Boyle rimane invece molto fedele ai personaggi di allora. Le cose cambiano, ammette uno dei personaggi, ma loro no. Mark Renton rimane quindi il più lucido del gruppo, mentre Sick Boy coltiva nuovi equivoci sogni di (media) grandezza, Spud è il solito drogato perso, timido e spanato, e Begbie è sempre un delinquente paranoico e violento. T2 si svolge vent’anni dopo, come in Dumas, e i quattro moschettieri (oltre a Mc Gregor gli altri interpreti sono Jonny Lee Miller, Ewen Bremner e Robert Carlyle) finiscono per ritrovarsi dopo che Mark, che alla fine del primo film aveva fregato gli altri fuggendo con il malloppo, è tornato dall’Olanda , dove la vita che si era ricostruito non era poi un granché, Sick Boy si è messo nei guai per una storia di ricatti a luce rossa, Spud trascina la sua esistenza di fallimento in fallimento, e Begbie è evaso di galera e, dopo aver tentato di coinvolgere il figlio, aspirante hotel manager e quindi molto riluttante, nelle sue imprese criminose, non vede l’ora di vendicarsi dell’ex amico traditore. Perfino la dinamica occasione-tradimento è replicata, anche se ruoli e motivazioni sono stavolta differenti. Se c’è un difetto in T2, è forse proprio il mancato rapporto con il tempo presente. Se il primo film era conseguente e coerente rispetto alla sottocultura post-punk dell’Inghilterra di fine ’80-inizio anni ’90, in T2 ben poco si dice della società contemporanea. Paradossalmente, perché in realtà tutta sul rapporto tra presente e passato è basata la rilettura delle vicende odierne dei quattro: non solo narrativamente, con il riallacciarsi al tradimento di Renton, alla tardiva voglia di questi di rappacificarsi con i sodali di un tempo, e all’opposto desiderio di rivalsa e di vendetta di Sick Boy e Begbie, e non solo attraverso autocitazioni visive e musicali in varia forma, ma anche al ricordo nostalgico delle scorribande della gioventù, e ancora più indietro all’infanzia ancora innocente in cui nacquero le amicizie dei degenerati falliti di oggi. Un’elegia che malgrado i suoi esiti distruttivi rievoca una gioventù perduta e irrecuperabile, che probabilmente accomuna in parte tanto i personaggi che gli autori e gli interpreti del film. Per fortuna, però, T2 è ancora sorretto dal talento visionario di Boyle. Certo, lo shock estetico dell’acida e folle psichedelia, unito allo shock etico del tono scanzonato, vertiginoso, vitalistico e divertente con cui vengono raccontate le disgustose imprese di un gruppo di irredimibili antieroi, sullo sfondo di vicende delinquenziali e di tossicodipendenza oggetto generalmente di toni ben più seri, funerei e drammatici, è un ricordo lontano e irriproducibile (nello stesso anno vidi, entrambi dal festival di Cannes, Trainspotting e Le onde del destino: pensai che allora il cinema era ancora vivo e capace di spiazzare, meravigliare e sorprendere). Ma Boyle (insieme al fotografo “Dogma” Dod Mantle, al montatore Jon Harris e allo scenografo Mark Tildesley, che fa un ottimo lavoro sbizzarrendosi con pareti tappezzate e soffitti) sa ancora giocare con le immagini. Lo deve ai suoi personaggi, e la sua magia funziona ancora: si veda ad esempio solo il lavoro immaginifico fatto con le ombre: da quelle proiettate da Renton e dal padre, che rievocano sulla parete la madre morta; o quelle gigantesche scatenate che scorrazzano per le vie di Edimburgo sotto gli occhi allucinati di Spud. Molto belli anche i titoli di coda, dove si realizza in chiave visionaria un’utopia nichilista, e gli orrendi palazzoni delle periferie, virati in negativo, implodono e crollano al suolo (per poi tornare beffardamente in piedi nell’ultima immagine). LION - LA STRADA VERSO CASA di Garth DavisLion (il perché del titolo, enigmatico e poco produttivo, si scoprirà solo nei titoli di coda) ha una prima parte molto bella. Il film è ispirato a una storia vera: Saroo, un bambino indiano povero, segue il fratello più grande che si deve recare in un'altra località per svolgere un lavoro notturno. Mentre il fratello va a lavorare, lui si addormenta su un treno fermo in stazione, che però si mette in moto prima che lui riesca a scendere. Dopo giorni e notti di viaggio, riuscirà a sbarcare solo a 1600 chilometri circa dal punto di partenza, in una città sconosciuta, dove le persone parlano un'altra lingua. Saroo ha cinque anni, parla hindi, non sa il nome della sua mamma né quello della località in cui abita; si trova ora a Calcutta, il cui agglomerato urbano conta circa 14 milioni di abitanti, e dove si parla solo bengalese. L'infanzia povera ma spensierata di Saroo, il suo amore di bambino per la mamma e per il fratello maggiore, poi il viaggio assurdo che lo porta lontano da casa, la perdita, il senso di spaesamento e di smarrimento in una città sconosciuta e immensa, le avventure e le disavventure vissute a Calcutta, tra disperato anelito alla sopravvivenza e costante senso di stupore, sono narrate con grande abilità suggestiva da Garth Davis, grazie anche alla straordinaria prova di Sunny Pawar, il fenomenale piccolo interprete di Saroo, che un'Academy forse meno distratta avrebbe potuto candidare all'Oscar al posto di un Dev Patel, già a sua volta pluripremiato al suo film d'esordio, The Millionaire di Danny Boyle, ma qui a dire il vero un poco manierato. Bastano la statura di Sunny, davanti ai paesaggi troppo larghi e troppo alti in cui si trova perduto, e le espressioni e le emozioni che passano sul suo viso infantile per suscitare una profonda empatia con il personaggio. E' molto bello, come ha fatto notare Marianna Cappa nella recensione per MYmovies, un fil rouge nascosto che segna il percorso del protagonista nelle varie tappe della sua esistenza, passando dal riso mangiato con le mani da bambino in casa della mamma, al cucchiaio immaginario con cui, perso a Calcutta e affamato, imita in un gioco malinconico chi mangia al ristorante, e poi dalle lezioni di uso delle posate in attesa dell'adozione da parte di una coppia occidentale, al cibo di nuovo mangiato con le mani, già giovane uomo adulto, in Australia a casa di amici indiani, che risveglia in lui le reminiscenze del passato e il desiderio di ritrovare la propria casa e la propria famiglia. Dopo la rappresentazione dell'India vista attraverso gli occhi di un bambino, più sinistra che affascinante, dove Saroo mangia quello che trova per terra, i bambini dormono sui cartoni nei tunnel, bande di rapitori portano via i piccoli sotto gli occhi conniventi o complici della polizia e dove anche Saroo rischia di finire nelle maglie di un losco traffico, inizia la parte meno convincente del film, quando per Saroo ormai adulto, malgrado l'affetto che lo lega alla famiglia australiana, l'idea di ritornare al proprio luogo natale, di cui ricorda solo un nome storpiato e di cui ignora totalmente la collocazione, diventa una vera e propria ossessione. Lo strumento chiave per individuarlo sarà Google Earth, che Saroo compulsa per anni, calcolando il raggio ipotetico del suo viaggio in treno, ed esplorando palmo a palmo la superficie dell'India in cerca di un appiglio per i suoi ricordi infantili (una ricerca già anticipata dalle visioni zenitali di paesaggi australiani e indiani che scorrono nei titoli di testa). Alla prima parte asciutta e immaginifica, ne succede una seconda più convenzionalmente melodrammatica, con il protagonista che si macera nella sua ossessione diventando scontroso e cappellone, la ragazza che gli vuole bene e che pur allarmata capisce il suo dramma (Rooney Mara), la madre adottiva (una Nicole Kidman stavolta visibilmente invecchiata, candidata all'Oscar) che lo ama ma non ostacola la sua voglia di tornare a cercare la vera mamma. Una nota (positivamente) dissonante è data dalla presenza di un fratello, anche lui indiano, che contrappone all'esempio di un Saroo integrato e realizzato, pur se da un certo punto in poi tormentato dall'ansia del ritorno, un controesempio di adozione problematica e in certa misura fallimentare. Come si diceva la sceneggiatura del film (anch'essa candidata all'Oscar, insieme all'intero film e alle nomination già menzionate) è tratta da una storia vera, pertanto è fuori luogo interrogarsi sulla credibilità della vicenda. Alla fine Saroo ritrova il proprio paese, la propria casa e (ma solo in parte) la propria famiglia. Nei titoli di coda troveremo il racconto della sorte dei personaggi, le foto dei veri protagonisti della storia, e addirittura quelle dell'incontro tra la famiglia d'origine e quella adottiva. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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