THE PALACE di Roman PolanskiPolanski ha avuto tra le sue corde, fin dai suoi esordi, quella del grottesco: ed è un tono che - a volte dominante, a volte come sfumatura - ricorre lungo la sua filmografia.
Il grottesco pervade interamente The Palace fino a non lasciare più nessuna via d’uscita, lo sommerge come la neve sommerge tombalmente l’albergo di montagna dove si svolge l’intero film. Il film potrebbe essere interpretato come la chiusura di un cerchio rispetto a Che?. Di nuovo, come nel 1972, un luogo di villeggiatura (là una lussuosa villa a Capri, qui un lussuoso albergo sulle Alpi), di nuovo (e come spesso accade nei film di Polanski), un luogo chiuso e claustrofobico (un cul de sac, tanto per citare un altro dei suoi titoli), di nuovo un gruppo di ricchi personaggi bizzarri che si affollano all’interno, di nuovo un miliardario morente, di nuovo la satira feroce e ghignante di un mondo corrotto e declinante. Di nuovo, perfino – sarà una coincidenza? - una coproduzione a partecipazione italiana. Che? Non era piaciuto molto all’epoca, tanto meno è piaciuto The Palace. La differenza, forse, è che Polanski oggi ha novant’anni, e quello che allora era un divertito excursus satirico oggi è un ultimo valzer che malgrado le risate a denti stretti ha un retrogusto un po’ funereo e senile. Quello che manca stavolta è il personaggio giovane e innocente capace di stupirsi di un mondo assurdo e ridicolo. Là una ventenne e sfolgorante Sidney Rome attraversava la galleria di mostri con stupore e meraviglia, e alla fine riusciva a sfuggire ad un mondo immobile che replicava i propri futili riti come i borghesi de L’angelo sterminatore, che Buñuel aveva chiuso in sontuose stanze una decina di anni prima. Qui Sidney Rome c’è ancora, ma come autocitazione temeraria, come maschera grottesca, con il viso invecchiato sfigurato dalla chirurgia estetica. Al posto di un Mastroianni che andava deprivato del suo charme, qui ci sono Barbareschi, che “mostruoso” lo è già consapevolmente di suo, e un MickeyRourke sformato dall’età e dagli interventi plastici. L’Alice nel paese delle meraviglie di un tempo ora è una giovane bene in carne che rimane incastrata sul pene dell’amante miliardario, infartuato per troppo Viagra, e che poi deve fingere di tenerlo in vita fino alla mezzanotte per far decorrere il termine per riscuotere l’eredità. Tra echi da fine del mondo e timori per il big bang del millenium bug, all’orizzonte della Storia, o della sua fine, si affaccia beffardamente dagli schermi televisivi il giovane Vladimir Putin - nominato Presidente erede da un Elstin bollito che decide di dare le proprie dimissioni il 31 dicembre 1999, l’ultimo giorno del millennio – che promette libertà di parola, di coscienza e di opinione: un momento di satira acerrima che non ha bisogno di aggiungere niente alla realtà. Giocando con le parole e le etimologie, le situazioni scatologiche del film, che ci sono e hanno fatto citare ad alcuni critici il cinema dei fratelli Vanzina, sembrano funzionali ad un’escatologia disillusa, disincantata, eppure ancora con il ghigno sulle labbra (come il miliardario di cui sopra, morto durante l’amplesso con un sorriso beato stampato sul volto cadaverico, oppure come l’anziana russa ritratta anche sul manifesto, che crolla ubriaca con la guancia spiaccicata sopra la montagna di caviale che ha nel piatto). The Palace (Hotel) non è più il luogo del circolo vizioso e dell’eterno ritorno di Che?; è invece il luogo della catastrofe, di nuovo inteso in senso etimologico. E’ il luogo da cui non si esce (e c’è chi rimane imprigionato due volte, dentro il sotterraneo/cassaforte, la cui chiave serve per entrare ma non per uscire), definitivamente. Un vuoto pneumatico riempito solo da volgarità, da una ricchezza inutile, e dalla decrepita illusione teratogena di un’eterna giovinezza, sommerso dalle musiche melense e fiabesche di Desplat e, dopo l'ultimo sberleffo, da una montagna di neve, bianca come la morte.
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TALK TO ME di Danny e Michael PhilippouIl cinema australiano vanta una discreta tradizione di film horror, da Patrick (1978), ambientato in un ospedale, a Wolf Creek (2004), ambientato invece negli immensi spazi dell'outback, fino all'inquitante Babadook (2014), cui hanno collaborato anche i due registi di Talk to Me, senza dimenticare quell'oggetto tuttora misterioso, affascinante e inclassificabile che è il Picnic ad Hanging Rock di Peter Weir.
Talk to Me sceglie un'ambientazione urbana e domestica, concentrandosi sulla giovane Mia, una ragazza di colore, e sul suo gruppo di amici e coetanei. Mia è ancora turbata dalla morte della madre, forse suicidatasi, e trova conforto nell'amicizia di Jade e del suo fratellino Riley, verso il quale nutre un protettivo sentimento da sorella maggiore. Ma la vita della comunità (il film è ambientato in un sobborgo di Adelaide) viene sconvolta da qualcosa di anormale. Già nel prologo un ragazzo invasato accoltella il fratello e poi si pianta un coltello nella fronte davanti a casa. Non si tarda a capire che l'episodio è collegato ad una moda che impazza tra gli adolescenti del posto, che inscenano una sorta di rito satanico utilizzando una strano mano di ceramica ricoperta di iscrizioni e scambiandosi i video di ragazzi e ragazze che cadono in trance dopo aver stretto la mano, invocato gli spiriti con la frase del titolo e lasciandosene possedere per un breve lasso di tempo. La mano sembra infatti mettere in comunicazione con gli spiriti dei defunti. Non solo Mia, disorientata e disprezzata e tenuta a margine da alcuni membri del gruppo di amici, si lascia tentare dalla prova, rimanendone sconvolte e indugiando per più dei 90 secondi concessi, ma permette che anche il piccolo Riley si sottoponga alla scioccante esperienza. Mentre la ragazza si troverà a fronteggiare gli incubi del proprio passato recente, Riley è preda di spiriti malvagi che lo inducono a spaventosi atti autolesionistici; e gli spiriti malevoli li spingono spietatamente uno contro l'altro. Nel film di Danny e Michael Philippou non ci sono gli ammazzamenti a catena di adolescenti, preda di maniaci assassini o di maledizioni demoniache, che in genere riempiono i teen-horror movie, anche se la presenza del manufatto di origini ignote e dotato di poteri sovrannaturali è un cliché che ha invece numerosi precedenti. Se in genere i giovani (e forse più spesso le giovani) vengono puniti con la morte inflitta con i metodi più orribili per le loro trasgressioni sessuali, qui il rito della mano, collettivo, condiviso, tramandabile, mistura di sensazioni eccitanti e nello stesso tempo spaventose, sembra piuttosto alludere all'esperienza della droga. I due autori giocano sulla curiosità morbosa e sulle fragilità degli adolescenti, per costruire un horror dove, tirando le somme, ci sono dei morti (pochi), ma non è l'omicidio, bensì piuttosto il suicidio il mezzo con cui giovani e meno giovani si liberano delle proprie ossessioni. Mia è il fulcro esemplare di queste fragilità: la ragazza, incrinata dalla perdita della madre (a lei sembra rivolto l'invito del titolo), è all'affannosa e confusa ricerca di un nuovo equilibrio, intimorita di non trovare nel padre un appoggio sufficiente, di non riuscire a recuperare un rapporto affettivo appagante (il suo ex-boyfriend ora sta con la sua miglior amica Jade) e di non essere accettata dal gruppo dei pari. Se è per questo che accetta di sottoporsi al rito della mano, è proprio quest'esperienza a distruggere completamente la sua personalità. In balia di spiriti malevoli e bugiardi, Mia finisce col fare il contrario di ciò che vorrebbe, e cioè nuocere a tutte le persone cui vuole più bene. Sulle spalle di Mia (o meglio sul volto di Sophie Wilde, che la interpreta), sta quasi tutto il peso del film; si potrebbe dire che Mia incarna da sola buona parte dei ruoli di un film horror, dalla vittima ingenua e incolpevole alla visionaria, dalla carnefice alla salvatrice, dall'adolescente inquieta allo spirito fantasma. Complessivamente un esordio convincente per i due gemelli trentenni youtuber, che realizzano un horror con la giusta tensione, ma non convenzionale né banale. KILLERS OF THE FLOWER MOON di Martin ScorseseLeo, Bob e Marty Scommetto che se vi chiedessi se Di Caprio e De Niro, attori feticcio a fasi alterne del regista, avessero lavorato insieme in un film di Martin Scorsese, prima di Killers of the Flower Moon, dopo averci fatto mente locale, avreste risposto di no. Eppure Di Caprio, prima di Killers of the Flower Moon, ha realizzato cinque film con la regia di Scorsese, dal 2002 al 2013, e De Niro addirittura otto, dal lontanissimo 1973 fino al 2019 di The Irishman; eppure i due sembrano non essersi mai incrociati sul set del regista. E invece sì. Nel 2015 Scorsese girò un cortometraggio, The Audition, che doveva servire in realtà a pubblicizzare una nuova rete di casinò orientali (Manila, Macao, Giappone) – lui che le grandi case da gioco li aveva descritti con ben altri toni in Casinò – in cui il regista in persona compare nel ruolo di se stesso: ovvero un regista con un nuovo progetto che invita, appunto, Robert De Niro e Leonardo Di Caprio a raggiungerlo in Oriente. Per un attimo i due pensano di recitare finalmente insieme in un film del Maestro, ma scopriranno immediatamente che entrambi si trovano in lizza per lo stesso ruolo, l'uno contro l'altro, con esiti spassosi. Ora che Martin e Robert hanno ormai superato ciascuno gli 80 anni d'età e Leonardo è sulle soglie dei 50, il momento e il piacere di vedere i due attori insieme in un “vero” film del loro mentore (in The Audition forse il ruolo verrà affidato al terzo incomodo Brad Pitt) sono finalmente arrivati e, lo dico subito, è valsa la pena di aspettare. Bob e Leo sono rispettivamente zio e nipote; il primo, William Hale è un possidente allevatore di bestiame in Oklahoma, uno dei cittadini più eminenti di Fairfax, che tiene buoni rapporti sia con la comunità bianca che con quella indiana, entro la cui riserva sorge la cittadina; il secondo, Ernest, è un nipote spiantato, reduce dalla Prima Guerra Mondiale (non proprio un eroe di guerra: lui si occupava delle cucine), che torna a mettersi sotto l'ala protettrice dello zio, che si fa amichevolmente e modestamente chiamare King, il re. Osage Nation e oro nero Ma c'è un prologo. Facciamo un passo indietro: Killers of the Flower Moon inizia in realtà con una sequenza ambientata tra i nativi americani della tribù Osage, che stanno seppellendo per sempre la pipa rituale (si dice che siano stati anche i precursori dei fumatori di marijuana): i tempi stanno cambiando, le tradizioni e la cultura originarie stanno sparendo e quelle dei bianchi stanno definitivamente prendendo il sopravvento. E' vero che le cose cambieranno, ma non esattamente come il chief Osage preconizza: gli Osage erano stati allontanati dapprima dal loro territorio d'origine, il Missouri, verso l'Arkansas, poi, mano a mano che l'avidità dei bianchi metteva gli occhi su nuovi appetibili territori, verso il Kansas, e infine verso l'Oklahoma. Ma qui, ironia del destino, il terreno in cui è insediata la riserva Osage comincia spontaneamente a eruttare petrolio. Siamo negli anni '20 del '900, quando i mezzi di trasporto a motore stanno iniziando a prendere il sopravvento su tutti gli altri, e i giacimenti di petrolio stanno già configurandosi come la meta di una nuova corsa all'oro (nero). Ecco quindi che la vita degli Osage cambia da un giorno all'altro: gli ex-cacciatori di bisonti e razziatori si trasformano in ricchissimi possidenti, acquistano case, macchine e abiti lussuosi (sia pur non rinunciando del tutto agli abiti tradizionali) e si permettono addirittura di assumere domestici e autisti bianchi al loro servizio. E' la loro fortuna e la loro rovina. La strage di Fairfax Ben presto infatti gli avvoltoi bianchi cominciano a volteggiare intorno a loro per approfittare, se possibile usurpandola, della loro inaspettata ricchezza. C'è chi lavora e tratta con loro, chi si fa loro compagno di gozzoviglie, chi gli vende merci a prezzi esorbitanti, perfino chi ne sposa le donne per avere accesso alle loro ricchezze. Ernest è uno dei questi, spinto dallo zio a corteggiare e sposare Mollie, una giovane Osage dal sorriso serafico, enigmatico e malizioso come una Monna Lisa, per cui lavora come chaffeur. Ma c'è chi non si ferma qui. Gli Osage, e le donne prima di tutti, cominciano a morire in circostanze sempre più sospette: chi muore per malattia o per consunzione, chi a causa dell'alcolismo, chi per incidente, chi si suicida, chi viene assassinato. Il numero e la circostanza dei decessi inducono però a sospettare qualcosa di strano, ed Ernest scoprirà che lo zio - sui terreni del quale il petrolio non ha mai fatto la sua comparsa - non si aspetta certo che il nipote attenda la morte per vecchiaia della giovane Mollie per ereditare le sue fortune. Gli Osage sono ormai in allarme e cercano di far luce sulla moria che sta colpendo la loro gente, assumendo investigatori privati (lo sceriffo del posto non sembra darsi molto da fare) e addirittura inviando emissari a Washington per chiedere aiuto al Governo federale. Ma, come dice un personaggio del film, è più facile che un uomo sia condannato per aver picchiato un cane piuttosto che per aver ucciso un indiano. Mentre le morti sospette si succedono e Molly, malata di diabete, malgrado le innovative cure a base di insulina, sta sempre peggio, fa infine la sua comparsa a Fairfax un impacciato agente del neonato Bureau of Investigations diretto da Edgar J. Hoover, e una squadra che comprende anche pellerossa venuti da fuori paese. La verità sgorgherà da Fairfax, come il petrolio è sgorgato dalla sua terra? E se sì, la giustizia farà il suo corso, visto che nell'intrigo è coinvolta mezza della Fairfax bianca, dai possidenti agli uomini della legge, dai medici al becchino del paese? Per dirci com'è andata alla fine, dopo tre ore e mezza di racconto, al posto delle solite didascalie, ci mette la faccia lo stesso Scorsese, nella messa in scena di un programma crime che racconta la storia per una televisione stle anni '50. Per poi lasciare la sequenza finale, com'era stato per il prologo, agli Osage: una loro danza tribale, ripresa dall'alto, a formare una specie di mandala colorato, simbolo di una cultura che ancora resiste malgrado le aggressioni e le angherie subite. Un finale che mi ha ricordato, a torto o a ragione, quello a colori di Schindler's List, quando gli ebrei sopravvissuti depongono una pietra sulla tomba del loro protettore. Una Storia americana Scorsese torna a rivisitare i miti delle origini della nazione americana (anche qui, come nel Birth of a Nation griffithiano, fa la sua comparsa il Ku Klux Klan), ma secondo la sua declinazione prediletta (che lo ha portato a girare alcuni dei suoi capolavori): ovvero una soggettiva all'interno di una comunità gangsteristica. Killers of the Flower Moon (basato sui fatti storici descritti dal saggio Killers of the Flower Moon: The Osage Murders and the Birth of the Fbi di David Grann, edito anche in Italia dal Corbaccio con il titolo Gli assassini della Terra Rossa: Affari, petrolio, omicidi e la nascita dell'Fbi. Una storia di frontiera) si può collocare temporalmente tra i proto-gangster ottocenteschi di Gangs of New York e quelli che attraversano un lungo tratto della Storia americana in Quei bravi ragazzi o The Irishman, fino alla polizia corrotta di The Departed o alla mutazione finanziaria di The Wolf of Wall Street. Quello delineato da Scorsese però, più che una storia del gangsterismo statunitense, si configura come il racconto della Storia americana come fondata – almeno in parte –, connaturata e intrecciata con la storia criminale. I suoi Stati Uniti si configurano paradossalmente - ma non troppo - come una nazione fondata sulla violenza, sul genocidio, sull'usurpazione, sullo sfruttamento dei vizi e delle debolezze umane. La tesi è particolarmente evidente in Killers of the Flower Moon, dove il futuro dell'America, il suo progresso tecnologico ed economico, affondano i propri piedi nel sangue, basati come sono sullo sterminio dei nativi e sulla spoliazione delle loro ricchezze. La posta in gioco è il petrolio, qualcosa che viene dalla terra, anzi da sottoterra (la terra che dovrebbe accogliere la pipa sacra e la fine degli Osage risponde invece facendo sgorgare ricchezza e dando il via ad un nuovo inizio): nativo e sorgivo come gli indiani che da quella terra sono nati e alla quale sono profondamente, religiosamente legati. Nel film si accenna anche alla parallela strage di Tulsa, altro episodio significativo della storia americana, dove, negli stessi anni in cui è ambientato Killers of the Flower Moon, per la precisione nel 1921, decine o centinaia di afroamericani vennero uccisi (il numero esatto non è mai stato accertato) e le case di circa 10.000 “negri” vennero date alle fiamme. Il film inizia con l'arrivo del treno - pieno di lavoratori e di avventurieri - simbolo (anche cinematografico, vedi come esempio tra tutti C'era una volta il West, altra elegia sul volgere di un'epoca) dell'avanzamento del progresso e della conquista del West da parte dei bianchi; ma poi è pieno di automobili, il mezzo di trasporto del futuro, che è anche inizialmente lo strumento di lavoro di Ernest, che proprio grazie al suo lavoro di autista conosce e circuisce Mollie. E' l'inizio di una nuova era, in cui la presenza dei nativi è solo un intralcio alla marcia del progresso e della ricchezza. Il bene e il male, il vecchio e il giovane Gli eroi di Scorsese si dibattono spesso (come enunciano i sottotitoli italiani di alcuni suoi film) tra chiesa e inferno, tra bene e male, tra la ripugnanza e l'attrazione per il male, la violenza, il potere sugli uomini, sulle donne, sul denaro. Il loro percorso si sviluppa classicamente tra la perdita dell'innocenza, il fascino del peccato, l'assunzione della colpa, la paura della punizione. E' la traiettoria che percorre anche Ernest (che, come ci ha insegnato Oscar Wilde, può essere letto anche come earnest, ovvero “onesto”), giovane volonteroso che si mette al servizio del potente zio e ne segue le direttive, spingendosi sempre più in là sul terreno della colpa. Come in altri film di Scorsese, il giovane eroe (o antieroe) subisce infatti la fascinazione di personaggi più anziani (capi gang o boss mafiosi come in Gangs of New York o in Departed), distorte figure patriarcali e paterne che svolgono un vero e proprio ruolo di mentori nell'avviamento sulla via del male dei rispettivi discepoli. Sia Ernest che Will Hale sono portatori di una doppia, ambigua e contraddittoria natura, in bilico tra bene e male. The King è amico di tutti, un generoso benefattore, sensibile verso la mentalità degli indiani e membro rispettato della comunità bianca, ma sotto l'apparenza melliflua e bonaria nasconde in realtà una natura malefica e predatoria (le donne indiane sono da lui chiamate spregiativamente “coperte”, blanket, per gli indumenti tradizionali che ancora indossano nella loro nuova condizione di ricche cittadine); lo sterminio e la scomparsa della nazione indiana è per lui non solo un obiettivo tenacemente perseguito, ma una necessità storica, un passaggio epocale ineluttabile. Ernest invece esibisce una natura spregiudicata, presta la propria colpevole e infame complicità ad una serie di atti criminosi ai danni non solo degli indiani (e di donne con le quali è ormai imparentato), ma anche di altri bianchi che sono d'ostacolo alle mire espansionistiche dello zio. Ma in realtà Ernest dietro i comportamenti criminali conserva un fondo di innocenza e di rimorso per le proprie azioni. Quando corteggia Mollie un po' segue diligentemente il mandato e le istruzioni dello zio, un po' se ne innamora veramente. Ma neppure l'amore per la donna e per i figli che nascono via via lo fanno arretrare quando si passa a progettare spietatamente la morte della sorelle della moglie, di sua madre, di altri indiani scomodi, e alla fine della stessa Mollie. Cattolicamente, Ernest avvelena la moglie e si commuove per il suo destino; si rende complice di omicidi e di terribili attentati dinamitardi salvo poi sbarrare gli occhi meravigliato e inorridito dai suoi effetti. Tutta l'ambiguità dei caratteri dei due uomini emerge nella contrapposizione all'interno del lungo finale, quando la malvagità di Hale è smascherata ma ancora dissimulata sotto l'apparenza dell'affetto parentale e del perseguimento del bene comune (della famiglia e dei bianchi, che continuano a sostenerlo); mentre Ernest è sommerso dai rimorsi, messo di fronte alle proprie colpe e allo sguardo dell'amata moglie che ha tentato di assassinare, ma nello stesso tempo impegnato a calcolare il proprio migliore interesse (a sua volta egoistico e famigliare) nella vicenda investigativa e giudiziaria che ormai li ha travolti. The Family Scorsese dispiega, nuovamente, tutte le sue abilità di narratore, seguendo una trama che ormai conosce più che bene, tanto nel porre le premesse della storia e innescare i caratteri, tanto nella descrizione meticolosa dei meccanismi e dei metodi malavitosi (adattati com'è ovvio al particolare contesto storico-geografico), tanto infine nel senso di panico, di sgomento e di rovina che, come altre volte nelle sue narrazioni precedenti, pervade la parte finale del film. Killers of the Flower Moon, nella sua versione attuale, avrebbe potuto benissimo essere una miniserie divisa in quattro o cinque puntate, non solo per la durata, ma per il gusto che si prende nel definire ogni dettaglio dell'affresco storico/malavitoso/famigliare e nell'abbozzare in modo rapido ma sicuro moltissime figure di contorno. Non tutto è necessario nei 206' minuti del film, ma tutto è godibile e lo spettatore è indotto ad abbandonarsi ad un flusso narrativo che si e gli concede anche il lusso del superfluo. A De Niro non sembra vero (anche dopo alcuni sbandamenti in film sbagliati in anni passati) di aver ritrovato il suo maestro e amico e un ruolo che sembra fatto apposta per lui (oltre ai characters già interpretati per Scorsese vengono in mente anche l'Al Capone di De Palma o il luciferino antagonista di Angel Heart), permettendogli di esprimere in magistrale souplesse tutto il suo dissimulato e violento cinismo; Di Caprio (anche se sulla carta troppo anziano per il ruolo del giovane che torna dal servizio militare) ha ormai una maturità artistica sufficiente e adeguata ad esprimere le sfumature e il tormento del suo personaggio. Lily Gladstone (appartenente alla Blackfeet nation) è la controparte femminile, vittima designata ma non rassegnata (è lei che, benché debilitata, si reca a Washington a chiedere aiuto al governo federale), anch'essa combattuta e divisa, fino all'ultimo, tra il sincero amore per il marito e il terribile sospetto che lui stia tramando per sterminare lei e tutta la sua famiglia. Tra i molti personaggi ed interpreti, tutti con le giuste facce e l'adeguato fisico del ruolo, spicca il flemmatico e bonario, ma tenace, agente del Bureau of Investigations interpretato da Jesse Plemons. In una sontuosa produzione da 200 milioni di dollari, Scorsese gioca sul sicuro attorniandosi dei propri collaboratori di una vita. Autore di una colonna sonora in buona parte basata su un continuo, lento, snervante tambureggiare di percussioni e di giri di basso, che tengono continuamente teso il filo della narrazione, Robbie Robertson era il collaboratore ideale: figlio di un'indiana Mohawk, già componente della band che accompagnò Bob Dylan, ricercatore appassionato della tradizione musicale dei nativi (celebre il suo Music for the Native Americans) e alla decima e ultima collaborazione con Martin Scorsese (il musicista è scomparso ad agosto di quest'anno). Altrettanto scontata la presenza di Thelma Schoonmaker al montaggio, fedelissima, immancabile collaboratrice di Scorsese fin dai tempi delle prime prove cinematografiche all'Università di New York (una collaborazione lunga una vita che le ha fruttato tre premi Oscar, oltre a cinque nominations e ad un'infinità di altri premi, tra cui il primo Leone d'oro alla carriera assegnato ad un montatore. Altro collaboratore abituale è il direttore della fotografia Rodrigo Prieto, che ha accompagnato la carriera di Iñarritu, fin dal memorabile – anche dal punto di vista fotografico – Amores perros, che ha già lavorato con Scorsese in diverse occasioni, ma che è anche l'insospettabile responsabile della fotografia lollipop di Barbie. Last but not least, da citare l'eccellente lavoro del veterano scenografo Jack Fisk, che ha contribuito alla realizzazione di alcuni capolavori del cinema statunitense. ASTEROID CITY di Wes AndersonAsteroid City è una località nel deserto del Nevada, sorta vicino ad un cratere provocato da un meteorite: una pompa di benzina con officina meccanica, un drugstore, un gruppo di bungalow, un binario ferroviario, un osservatorio astronomico e poco altro. Qui si ritrova un eterogeneo gruppo di personaggi, ragazzi prodigio inventori, giovani astronomi e cadetti dello spazio, famiglie, attrici in viaggio; e poi militari e scienziati; e poi folle di visitatori e commercianti, perché nel frattempo, a 50 minuti dall’inizio del film, sorprendentemente, un alieno silenzioso e furtivo è sbarcato sulle Terra. Malgrado le accoglienze controverse riservate da tempo ai suoi film, Anderson non sposta di una virgola il suo modo di fare cinema. Una parte della critica e del pubblico è sempre più convinta che il suo sia un cinema vuoto, freddo, manierista, tutto forma e niente sostanza. Un’altra parte lo adora per la sua originalità, la sua vena di astratta follia, lo stile inimitabile, l’eleganza formale e lo stralunato aplomb delle narrazioni. Dalla parte di questi ultimi si trovano evidentemente produttori e buona parte dello star system hollywwodiano, tutti pronti a sostenere un progetto astruso come Asteroid City, vuoi con finanziamenti per 25 milioni di dollari, vuoi con la presenza in veste di interpreti. I suoi film infatti sono ormai evidentemente percepiti dagli attori come un posto dove bisogna esserci, una specie di festa dove sarebbe disdicevole non essere invitati o non presentarsi: un effetto che ha permesso a Anderson di avere nel cast del suo ultimo film dive e divi come Scarlett Johansson, Margot Robbie, Tilda Swinton, Jason Schwartzman (quasi onnipresente nei suoi film), Tom Hanks, Edward Norton, Steve Carell, Willem Dafoe, Adrian Brody, Jeff Goldblum, e così via, a volte per un solo take o sotto travestimenti irriconoscibili. In effetti, è impossibile non rimanere a prima vista colpiti e sedotti dall’immaginario visivo di Asteroid City, ambientato in un americanissimo deserto vintage anni ‘50, western, cartoonesco e color pastello. In realtà dovrebbe trattarsi di un set teatrale, perché in Asteroid City tutto è in cornice (o tra virgolette), e il film sta dentro una trasmissione televisiva (in bianco e nero) che racconta la genesi e la storia di una dramma teatrale omonimo. In realtà Anderson ci tiene a strizzarci subito l’occhio e farci vedere che sta scherzando, inquadrando in un establishing shot propedeutico il set desertico in una panoramica a scatti, a 360°. Non c’è quarta parete, non c’è pubblico, il set è il mondo e il mondo è un palcoscenico: una finzione che sta dentro un’altra finzione che sta dentro un’altra finzione, in un gioco di scatole cinesi senza pareti definitive. Dove Anderson getta dentro di tutto un po’: il cinema, e ci sono inseguimenti polizieschi senza storia nel vuoto del deserto, alieni che scendono dai dischi volanti e che sembrano la versione timida dei marziani di Tim Burton, o ispezioni nei crateri che sembrano venire da 2001 Odissea nello spazio; il cartoon, e c’è un geococcyx californianus (filologicamente, quello che Chuk Jones prese a modello per il suo roadrunner Beep Beep) che passeggia sul set; c’è la pittura, con i volti dei personaggi che sembrano usciti dalle illustrazioni di Norman Rockwell; e c'è il fumetto con una ligne claire color pastelli e caramelle; e poi c’è la tv col suo formato quadrato e in bianco e nero, e c’è il teatro con le sue scenografie di cartapesta, e c’è la fotografia, con le stampe appese in camera (oscura). E c’è perfino la storia, con i funghi dei test atomici che si elevano sul deserto come fuochi fatui accesi là dove Opennheimer e il progetto Manhattan, ma in un altro film, preparano la bomba distruttrice di mondi. E poi c’è il cinema di Wes Anderson, con il suo stile inconfondibile, i suoi vezzi, le sue autocitazioni, i sui attori e i suoi collaboratori abituali, quasi dei coautori, come lo scenografo Adam Stockhausen (Oscar per Grand Budapest Hotel) o l’inseparabile direttore della fotografia Robert D. Yeoman. E forse c’è qualcosa di Wes Anderson stesso, con gli echi biografici che rimandano ad abbandoni infantili, a bambini prodigi, alle prove giovanili nel cinema, nella scrittura, nel teatro. E anche nel film Asteroid City, che contiene tutto questo, tutto sembra inscatolato e incorniciato, dentro bungalow, tende, padiglioni, camerini, quinte da palcoscenico, quinte di edifici, finestre, vetrate. Molti dei dialoghi principali tra due dei protagonisti, il fotografo Augie e l’attrice Midge, si svolgono con i due inquadrati dentro le rispettive finestre dei rispettivi bungalow che guardano l’una verso l’altra (e verso le rispettive vite, fatte di foto appese e di prove d’attrice dentro la vasca da bagno). Anderson conferma la sua predilezione per le inquadrature frontali e simmetriche, o laterali e speculari, ma sfonda anche spesso le inquadrature in primo piano con fughe in finta profondità verso orizzonti ingannevoli e artificiosi, senza contare che tutta la narrazione principale è ben incasellata in atti e scene preannunciati da puntigliosi cartelli didascalici.
Ma cosa c’è dentro tutte quelle scatole? Nel fondo di questa fuga infinita? Difficile dirlo, se anche l’attrice che impersona un’attrice che sta dentro un film che parla di una rappresentazione teatrale che sta dentro una trasmissione televisiva che a sua volta sta dentro un film a volte non recita se stessa, ma un altro personaggio proiettata verso un’altra dimensione finzionale ancora, ancora più remota, ancora più frammentaria e inafferrabile. E allora? E allora resta il gioco prospettico, e ci si accorge che forse non erano scatole, ma una sorta di libro per bambini a fogli trasparenti, dove ad ogni pagina si intravedono le successive, una successione di figure bidimensionali, senza spessore e senza consistenza. Resta una folla di personaggi senza profondità, una serie di gag che non fanno ridere, di storie che non approdano da nessuna parte. Non trovando appigli nella storia e nella narrazione, alla fine lo spettatore tenta di aggrapparsi al puro testo filmico per trovare un senso a tutto questo (anche se tutto questo, viene da pensare parafrasando Vasco Rossi, un senso forse non ce l’ha). E allora viene da pensare a quel meteorite (il film), una piccola palla di pietra che ha scavato un grande cratere nel nulla del deserto (il clamore mediatico suscitato dalla pellicola); o a quell’alieno che sbarca sulla terra, prende il meteorite, se lo porta via, poi lo riporta, senza che nulla cambi per nessuno; o ancora viene da paragonare il film a quel sovrappasso con la rampa interrotta che campeggia ad Asteroid City, una costruzione e un percorso celibi che non portano in nessun luogo. Oppure si è tentati di identificare Wes Anderson con quel ragazzino prodigio al quale viene chiesto perché tenti continuamente nuove sfide assurde. Qual è la ragione? Qual è il senso? gli chiedono. Non lo so; forse è perché ho paura che, altrimenti, nessuno si accorgerebbe della mia esistenza nell'universo, è la risposta. THE GREEN BORDER (Zielona granica) di Agnieszka HollandParadossalmente, un film che contiene un colore nel titolo poi, a parte la sequenza d’apertura in volo sopra i boschi, è in bianco e nero. Anzi, nerissimo. Il film tocca un tema doppiamente scottante: non solo quello delle migrazioni, che tocca da vicino anche il nostro Paese, in prima linea sul confine d’acqua del Mediterraneo (nella stessa Mostra del Cinema di Venezia in cui The Green Border riceveva il Premio speciale della giuria, Io capitano di Matteo Garrone, che descrive il viaggio dal Senegal alle coste italiane di due giovani migranti, ha vinto il Leone d’argento per la miglior regia e il Premio Mastroianni per il miglior attore emergente) ma anche quello dell’uso strumentale e cinico dei migranti usati da politicanti senza scrupoli per destabilizzare i vicini nemici. Il film si svolge ai nostri giorni (potrebbe svolgersi anche ora, nel momento in cui sto scrivendo, e anche forse nel momento in cui voi mi leggerete) in Europa, intorno alla frontiera tra Bielorussia e Polonia. Nel prologo un gruppo di viaggiatori vola in aereo verso un aeroporto bielorusso. Sono profughi da Paesi in guerra o problematici, ma hanno comprato regolarmente il biglietto aereo per la Bielorussia, da dove poi la maggior parte di loro conta di raggiungere varie destinazioni europee, dove spesso hanno già parenti o conoscenti che li aspettano e che li aiuteranno. Scopriranno ben presto che sono stati crudelmente ingannati: il regime filoputiniano di Lukashenko attira i profughi facilitandone l’arrivo solo per spingerli, anche con l’uso della forza e della violenza, oltre il confine polacco solo per mettere in crisi il vicino, membro dell’Unione Europea e della Nato e quindi nemico, ora più che mai nella contrapposizione attuale tra la Russia e i rispettivi alleati e l’Ucraina sostenuta dal fronte dei Paesi occidentali. I profughi sono pedine inconsapevoli, incolpevoli, ignare, che sono sfuggite a guerre e altre calamità solo per diventare contemporaneamente armi e vittime in un’altra guerra a loro ignota e dalle logiche a loro sconosciute. Da una parte e dall’altra della frontiera si fronteggiano eserciti in assetti di guerra, impegnati unicamente a rimpallarsi cinicamente i profughi (tra i quali ci sono anziani, donne, anche incinte, bambini), non senza approfittare della loro posizione autoritaria per depredarli in tutti i modi possibili, picchiarli, angariarli e umiliarli. Le didascalie impassibili, che ci hanno dapprima informati che siamo in Europa e che scandiscono laconicamente i rimpalli al di qua e al di là delle recinzioni di filo spinato che segnano il confine, altrimenti invisibile, introducono di volta in volta i nuclei di personaggi protagonisti: una famiglia siriana, con bambini al seguito, cui si aggrega una donna afgana; una guardia di frontiera sempre più in difficoltà nell’eseguire i compiti inumani che gli vengono affidati; gli attivisti polacchi che cercano di portare soccorso ai profughi (ma senza poterli trasportare o guidare, per non rischiare pesanti conseguenze giudiziarie); una psicologa che abita vicino alla zona speciale e che si fa coinvolgere prima emotivamente e poi operativamente dopo che ha visto morire un bambino sotto i propri attoniti occhi. Il film compone quindi un mosaico narrativo di cui sono protagonisti di volta in volta le vittime, aguzzini riluttanti (circondati da colleghi però assai convinti ed motivati, entusiasti del potere che è loro dato nei confronti degli indifesi), e i volontari che cercano di tradurre in azione concreta i propri sentimenti umanitari. Lo stile narrativo, soprattutto quando il racconto si concentra sui profughi, è frenetico, convulso, pieno di movimento, violenza, disperazione, angoscia, in gran parte nell’ambiente oscuro dei boschi, con sequenze spesso ambientate nel buio della notte. L’uso del bianco e nero contribuisce a rendere le immagini simili a quelle tragicamente associate alle memorie del nazismo, con uomini armati e urlanti, cani, filo spinato, deportazioni, violenze gratuite su vittime inermi (in qualche sequenza si sfiorano gli stilemi dell’horror, come nella sequenza statica in cui una donna, in un campo aperto, crede di aver trovato aiuto in un contadino, che invece, mentre lei si allontana, inquadrato di spalle, prende il cellulare, presumibilmente per denunciarla, e inducendola ad una nuova fuga disperata). La Holland non fa molte differenze tra bielorussi e polacchi, entrambi impegnati in operazioni disumane, che hanno fini diversi, ma estremamente simili nella brutalità e nel cinismo dei metodi. La regista e sceneggiatrice non risparmia neppure l’Unione europea, che preferisce ignorare quanto accade ai suoi confini, dove persone incolpevoli vengono trattate come animali e talvolta spinte verso la morte per incidenti, stenti, violenze subite. Un’immagine ci mostra icasticamente i superstiti della famiglia, falcidiata dalle avversità, seduti sconsolatamente davanti ad un muro dov’è dipinto un cerchio di stelle, simbolo di quella Unione europea che avrebbe dovuto garantire a tutti (o solo ad alcuni dei suoi cittadini?) libertà, eguaglianza e fraternità. Ma i suoi strali sono rivolti soprattutto verso i connazionali polacchi che, ai giorni nostri, si comportano come nazisti nell’ambito di un’Europa che dovrebbe essere il faro della civiltà e della democrazia (Europa Europa si intitolava già un suo film del 1991, che raccontava le peripezie di un ebreo tedesco sballottato durante la Seconda guerra mondiale tra la Germani nazista, la Polonia e la Russia bolscevica). Oltre alle azioni violente, la Holland mette in scena anche due scene parlate dal forte sapore politico: una concione fatta ad un ufficiale della polizia di frontiera ai propri uomini, per incitarli all’odio e al disprezzo, e una veemente invettiva contro la leadership polacca, urlata da un uomo con problemi psicologici, ma probabilmente molto condivisa dalla Holland. E’ interessante che il governo polacco abbia risposto al film (che ha avuto un ottimo esordio in patria in termini di spettatori) con azioni di boicottaggio e ritorcendogli contro (chissà in base a quale logica perversa) le accuse di nazismo. Se il Ministero dell’Interno ha obbligato a proiettare nei cinema, prima del film stesso, un video governativo che smentisce preventivamente quanto verrà poi mostrato nel film, lo stesso presidente Duda lo ha commentato con la frase “solo i porci si siedono al cinema”, rievocando uno slogan utilizzato contro i film di propaganda ai tempi del nazismo. Detto questo, a parte un approccio che vuoi per la struttura a mosaico vuoi per la distanza che la Holland mantiene dai suoi personaggi, anche nelle scene più convulse, non favorisce l’empatia con i protagonisti (è probabilmente una scelta di sobrietà: si assiste inorriditi ma a ciglio asciutto), ci sono un paio di cose che non mi hanno convinto nel film. La prima è un peccato (ammesso che lo sia) veniale: dopo un solo giorno dall’arrivo il patriarca della famiglia, che indossa le proprie scarpe, ha già le piante dei piedi orribilmente piagate. Mi è sembrata un’anticipazione un po’ forzata degli orrori che seguiranno. La seconda mi ha disturbato di più: nel finale tutti i protagonisti (per lo meno quelli sopravvissuti) si ritrovano al confine insieme ai profughi provenienti dall’Ucraina. La Holland intende sottolineare il diverso atteggiamento dello Stato polacco, che respinge crudelmente qualche decina di migliaia di profughi mediorientali, ma accoglie generosamente (una generosità che, proprio in queste ore, sta entrando anch’essa in crisi) milioni di profughi della vicina Ucraina. Ma nel rappresentare i profughi ucraini si mostrano, con un’insistenza certamente non casuale, gli animali domestici portati in salvo dai profughi ucraini: cagnolini, gatti, uccellini - che patiscono il freddo. Le situazioni di partenza sono certamente diverse, ed era giusto mettere in rilievo la differenza di trattamento tra i profughi ucraini e quelli extraeuropei; ma in questo modo mi pare che la stessa Holland rischi di classificare a sua volta i profughi in profughi di serie A e di serie B: da una parte i reietti mediorientali, i cui vecchi e bambini muoiono nel tentativo di attraversare il confine, dall’altra gli ucraini, che invece si prendono il frivolo lusso di salvare gattini e uccellini, forse dimenticando che anch’essi fuggono da una guerra d’invasione, da distruzioni, bombardamenti, violenze, deportazioni, dopo aver magari perso casa, beni e persone care. KAFKA A TEHERAN (Ayeh haye zamini - Terrestrial Verses) di Ali Asgari e Alireza KhatamiKafka a Teheran è dichiaratamente, fin dalla struttura paratattica e dallo stile di ripresa, un film a tesi. In 77 minuti il film racconta nove brevi aneddoti, che insieme compongono un quadro della vita e della società nell’Iran contemporaneo. Ma si ha la certezza che di storie altrettanto esemplari (in senso negativo) se ne potrebbero trovare molte ma molte di più, nella Teheran che nel prologo emerge dal silenzio e dal buio della notte fino alla cacofonia di voci e rumori man mano che progredisce la luce del giorno, e che quello proposto sia solo un umile e modesto campionario rappresentativo di una realtà ben più ampia e, purtroppo, più tragica. Se infatti è facile sorridere delle piccole vicende e dei soprusi minimali raccontati nei nove tablaux di cui si compone il film (e ispirati a casi reali di vita vissuta), è difficile dimenticare che nell’Iran che sta oltre lo schermo, solo nell’ultimo anno, a seguito delle proteste per la morte in una stazione di polizia di una ragazza fermata perché indossava male il velo, sono state uccise dagli agenti del regime teocratico oltre 600 persone ed effettuati oltre 20.000 arresti (si tratta nell’uno e nell’altro caso, in gran parte, di vittime giovani e giovanissime). Hanno fatto benissimo quindi le autorità iraniane, nella loro logica ottusa, odiosa e pervertita, a ritirare il passaporto ad Ali Asgari, che tornava in patria dopo la presentazione del film a Cannes, e a proibirgli di lasciare il paese e di lavorare ad altri progetti cinematografici. Se si pensa che in paesi come Russia, Algeria, Kuwait, Libano non si può proiettare Barbie (!), che in Polonia il governo polacco boicotta e insulta il film The Green Border della Holland, che l’Iran incarcera o impedisce di lavorare ad alcuni tra i suoi più acclamati registi come Jafar Panahi, ci si rende conto come il cinema sia anche oggi un’efficace e sensibile cartina di tornasole del clima e del livello di oppressione culturale oltre che politica che investe gran parte del mondo, dai regimi teocratici alle cosiddette democrazie illiberali che allignano nel cuore dell’Europa o ai suoi confini. Kafka a Teheran (un titolo più didascalico rispetto all’originale, traducibile in Versetti terrestri, e preso in prestito alla poetessa e regista Forough Farrokhzad, femminista ante-litteram nell’Iran degli anni ‘50-60) è in effetti un preciso e puntuale discorso sul potere, e nello specifico su come il potere politico-religioso venga esercitato in modo arbitrario e oppressivo nel regolare ogni anche minimo aspetto della vita delle persone, fino ad esiti grotteschi che conferiscono al film una sfumatura addirittura umoristica. Non si può dare al figlio il nome che si desidera, a meno che non compaia nella lista ufficiale dei nomi accettati (David non c’è); non ci può tatuare i versi di una poesia sulla propria pelle, pena vedersi rifiutare la patente di guida; se si è una bambina non si può andare a scuola in jeans e maglietta, ma bisogna impaludarsi in palandrane e sovrapalandrane per nascondere forme che neanche ci sono; se si lavora nel cinema può capitare di dover strappare dalla sceneggiatura pagine e pagine sgradite, sotto gli occhi dei membri della commissione di censura; non si può portare a spasso un cane, animale impuro, e ovviamente, se si è una ragazza, non si può salire in moto con un maschio o non si può avere un lavoro se non si è “carine” con il padrone o non ci si può togliere il velo nemmeno nell’abitacolo della propria macchina. Come in un universo kafkiano, tutti sono colpevoli di qualcosa, a prescindere, tutti sono giudicati da un potere superiore a volte senza nemmeno capire di cosa vengono accusati. Ali Asgari e Alireza Khatami adottano una precisa e radicale scelta stilistica, efficace e funzionale nella sua semplicità: i protagonisti dei singoli episodi, tutti ambientati in interni (e si capisce perché) vengono inquadrati frontalmente, a camera fissa, nell'opprimente formato 4:3, chiusi in una gabbia visiva senza vie d’uscita. Di contro, le loro controparti (presidi, datori di lavoro, censori, poliziotti, impiegati statali o comunali, o perfino commesse di un negozio di abbigliamento - declinazioni burocratiche che si insinuano fin nel quotidiano più ordinario della vita delle persone), rimangono costantemente fuori campo (al massimo intravediamo ai margini dell’inquadratura il gesto di una mano, oltre a sentire le loro voci), funzioni senza volto di una qualche forma di potere, sempre opprimente e vessatorio, onnipresente e vigile anche quando non è visibile. I dialoghi (che riecheggiano il "dibattito", una forma persiana di poesia a botta e risposta, ma anche stilemi del cinema iraniano, che se vuole essere significativo deve essere anche reticente) sono spesso iterativi, circolari: circoli viziosi dialettici da cui raramente si riesce a svicolare in qualche modo. Ma non è del tutto vero che in Kafka a Teheran siano assenti movimenti di macchina. Ce n’è in effetti uno, ma uno solo, nell’epilogo. Viene inquadrato un decimo personaggio, un uomo anziano che rimane muto davanti ad una scrivania, chiude gli occhi, piega la testa sul petto; alle sue spalle una grande finestra con vista sulla città, verso la quale, finalmente la macchina da presa avanza: supera il vecchio e si ferma davanti ai vetri, in una veduta dall’alto che ricorda quella del prologo. Ma, ad un tratto, dopo un rombo che aveva echeggiato anche nel corso di altri episodi, gli oggetti e i mobili nella stanza cominciano a tremare, e facciamo in tempo a vedere grandi edifici che crollano e si accasciano su se stessi nel cuore della città, prima che la ripresa si interrompa. La premonizione di un terremoto che verrà, atteso e temuto, una rovina da cui si spera possa rinascere una società più libera e giusta. Ma per ora dopo la distruzione c’è solo uno schermo nero. P.S.: proprio mentre scrivo questo pezzo, arriva la notizia dell'assegnazione del Premio Nobel per la Pace a Narges Mohammadi, che da anni si batte per la libertà, l'eguaglianza e la democrazia in Iran, e per questo arrestata 13 volte, condannata 5 volte, condannata a 31 anni di carcere e a 154 frustate. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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