DOGMAN di Matteo GarroneE’ già capitato altre volte che le uscite dei film di Garrone e Sorrentino si incrociassero nel giro di poche settimane. Autori di punta del cinema italiano contemporaneo, forse i due che al di fuori del macrogenere della commedia riescono ad ottenere la maggior attenzione sia dalla critica che dal pubblico, Garrone e Sorrentino mi sembrano incarnare negli anni 2000 quella dicotomia che divise il mondo del cinema e della critica nel periodo dell’ultimo dopoguerra, quello, per semplificare, tra felliniani e (neo)realisti. Evidentemente, prendendo per buona questa schematizzazione (che come tutte le schematizzazioni lascia un po’ il tempo che trova), Sorrentino appartiene alla discendenza dei felliniani (La grande bellezza è senza alcun dubbio una riscrittura aggiornata de La dolce vita), Garrone a quella dei realisti (si pensi agli esordi semidocumentaristici di Terra di mezzo e di Ospiti). Entrambi nell’ultimo film si concentrano a raccontare la storia di un uomo, e le scelte relative sembrano confermare questo paradigma: se Sorrentino in Loro 1 e Loro 2 ci narra la malinconica dolce vita dell’uomo più potente del mondo, al centro di una grottesca città delle donne, Garrone sceglie una storia ispirato ad un caso di cronaca nera realmente avvenuto, che ha al suo centro un uomo qualunque in una società men che normale, in una quotidianità e in un contesto sociale da anno zero. Sarebbe riduttivo però ridurre Garrone ad un registro realistico, e la fuga verso il fantasy puro de Il racconto dei racconti è illuminante su quanto questo abito possa stargli stretto. Basta vedere le ambientazioni di Dogman, che al di là di ambire a rappresentare un ambito reale (e, paradossalmente, pur riprendendo luoghi reali), sembra ricostruire un paesaggio il cui iperrealismo sconfina nel fantastico, per conquistare una dimensione metaforica. La commistione caotica del vecchio e del nuovo, il senso di incompiuto o di decadenza, le piazze inabitabili, gli edifici fatiscenti al margine di no man’s land che non sono più spazi umani e non sono di nuovo spazi naturali (tutt’altro che mitigati dalla vicinanza del mare), compongono un paesaggio post-apocalittico in cui le attività umane residue o sono criminali tout court o sono segnali del degrado sociale e materiale (il “compro oro”) e spirituale (il locale di videolottery), dove l’umanità lotta per la sopravvivenza, e dove i problemi si risolvono non rivolgendosi alle forze dell’ordine o alla giustizia, che già si sanno inefficaci, ma progettando ulteriori piani criminosi. In questo contesto abietto e degradato Marcello, nella sua dimensione naif, sembra mantenere un residuo di infantile umanità, fatta più di affettività esistenziale che di consapevolezza del vivere civile: affezionato ai cani che accudisce, amoroso nei confronti della figlia (ma inadeguato ad essere marito), amico fedele e devoto di una sorta di fratello maggiore, forte ma scapestrato e incapace di comportarsi. Marcello fornisce la cocaina a Simone, si rassegna al fatto che lui si droghi nel gabinetto del suo laboratorio, a pochi passi dalla figlia, lo accompagna nelle scorribande in discoteche/bordello, lo spalleggia in una rissa in cui Simone ha come al solito torto e fa valere le sue ragioni con la violenza bruta, gli fa da palo nelle rapine in casa (salvo correre dei rischi per tornare nella casa svaligiata per salvare un cane chiuso nel freezer), non riesce a denunciarlo neppure dopo che Simone l’ha fregato nel peggiore dei modi. Per Simone Marcello accetta di finire in galera, rinunciando per un anno a rivedere i propri cani e la propria amata figlioletta, sacrificando il proprio umile ruolo sociale nell’alienato microcosmo del quartiere. E’ il rifiuto di Simone a riconoscere e ricompensare il suo sacrificio la molla che fa scattare il sentimento di una dignità ferita, di una primitiva affettività tradita che va vendicata. In un film in cui i cani sono testimoni attoniti della violenza bestiale che esplode davanti ai loro occhi increduli (ne L’imbalsamatore Garrone rendeva invece un omaggio a Hitchcock citando gli animali imbalsamati di Psyco), si svolge un rapporto in cui le dinamiche uomo/cane si sviluppano in un paradigma che vede spesso invertirsi i ruoli: Marcello è in diverse occasioni il cane da guardia di Simone, ma è Marcello a volte che sembra dominare Simone inducendo una sorta di riflesso pavloviano in cui le dosi di droga assumono la funzione dei croccantini con cui premia e ammansisce i suoi cani; Simone è come un enorme mastino ringhioso, mentre Marcello è il cagnolino fedele incapace di tradire il padrone; e infine tocca a Simone finire in una gabbia per cani, e poi, letteralmente, alla catena, con un letale guinzaglio di acciaio a trattenerne la furia incontenibile. Come esplicitato dalla bella immagine della locandina, che vede il piccolo Marcello portare su una spalla il corpaccione esanime di Simone, è una lotta di Davide contro Golia, di un omuncolo contro un gigante dalla forza distruttiva e spaventosa (capovolgendo il rapporto di grandezza degli ambigui antagonisti de L’imbalsamatore). I due protagonisti si trasformano quasi in due creature fantastiche da Racconto dei racconti, dove l’inerme deve trovare nella propria astuzia e nei propri attrezzi miracolosi gli espedienti per sconfiggere la potenza brutale e incontrollabile dell’orco. Garrone, come ha tenuto a precisare in diverse interviste, non insiste sui particolari più efferati che avevano sconvolto l’opinione pubblica dell’epoca nel caso del canaro, anche se la lotta finale assume accenti orrorifici. Nelle efficaci sequenze finali, Marcello, sulle spoglie martoriate e mezze bruciate del gigante, rivendica urlando la propria impresa, convinto di avere con questa riconquistato il diritto alla riammissione a quel contesto pseudosociale dal quale era stato escluso per colpa di Simone. Ma ad ascoltarlo non c’è nessuno, la violenza non genera riscatto e viene come assorbita dal nulla del deserto morale e ambientale in cui vive. Marcello Fonte nel ruolo di Marcello ha trovato il ruolo della sua vita, al quale aderisce con perfetta e si direbbe quasi naturale mimesi fisica ed emotiva; mentre Edoardo Pesce, ormai il miglior cattivo del cinema italiano dopo le ottime prove di Fortunata e Cuori puri, benché con poche inquadrature in primo piano e le battute di dialogo a bofonchii gergali o ringhi rabbiosi, è di straordinaria efficacia nel rendere con la propria fisicità la spaventosa fisicità ciecamente distruttiva di Simone. Un grande contributo alla riuscita del film viene dato dall’ambientazione e dalla cinematografia: fantastico il lavoro del setting in una Castel Volturno trasformata in una città metafisica dell’abbandono e del degrado, immersa in un clima perennemente invernale, piovoso e nebbioso; ottimo il lavoro alla scenografia di Dimitri Capuani e fondamentale la fotografia di Nicolaj Brüel, desaturata e livida nelle tonalità e scabra nei contrasti (entrambi debitori degli analoghi ruoli svolti rispettivamente da Paolo Bonfini e Marco Onorato ne L’imbalsamatore).
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MEKTOUB, MY LOVE: CANTO UNO di Abdellatif KechicheMektoub, My Love: Canto uno (dal curioso titolo trilingue) si svolge nel Sud della Francia, all’interno di una comunità di arabi tunisini; nel periodo estivo vi arriva il protagonista Amin, che ha abbandonato la facoltà di medicina per dedicarsi alla scrittura e alla fotografia, e che ritrova parenti, amici e amiche, tra cui Ophélie, che conosce dall’infanzia e di cui si rivela ben presto innamorato, malgrado lei sia già impegnata a gestire diverse relazioni contemporaneamente. Arrivano anche i turisti, tra cui Camille e Céline, due ragazze nizzarde che vengono subito assorbite dal giro di amicizie (anche erotiche) di Amin e suo cugino Toni. Kechiche dipinge un’estate piena di calore, di amori, di desideri, di sfrenata voglia di vivere e di godere. Nella comunità dei protagonisti non si parla mai di politica (al contrario di quanto succede nel libro che è la fonte d’ispirazione – alquanto libera – del film: La blessure, la vraie, di François Bégaudeau, autore che aveva già ispirato La classe di Cantet) e non vige nessun tabù religioso: i protagonisti mangiano avidamente (arabo, asiatico, e spaghetti), bevono smodatamente (alcolici), le ragazze vestono abiti estivi (molto succinti) e ballano (in modo sfrenato e provocante); tutti desiderano tutti e si fanno desiderare e si scopa liberamente, senza pensare all’Aids o cose simili. A Kechciche è stata addebitata una visione voyeuristica e maschilista. E' indubbiamente vero che l'insistita morbosità con cui inquadra i culi femminili negli hot pants, in costume, o nei vestitini attillati (per tre ore di durata! – una vicina di visione mi ha detto che alcune scene sono state tagliate rispetto alla versione vista a Venezia, ma non si direbbe proprio) risulta sospetta e alla lunga addirittura fastidiosa, ma i personaggi femminili sono tutt'altro che dei semplici oggetti del desiderio, ma sono invece personaggi a loro volta desideranti, sfaccettati e con una loro evoluzione psicologica: se si dovesse dare un "peso" ai personaggi, anzi, si vedrebbe che i personaggi femminili hanno decisamente un maggior spessore e una maggiore importanza drammaturgica rispetto a quelli maschili. Kechiche racconta la sensualità e la carnalità dei piaceri della vita, ricercando, come è suo solito, la verità custodita dal fluire naturale del tempo: le sequenze, sebbene frammentate da un montaggio frenetico (dentro cui si muovono i personaggi, la mdp, le inquadrature), sono lunghe oltre qualsiasi convenzione narrativa cinematografica tradizionale, con un effetto naturalistico stupefacente ma non del tutto nuovo per chi conosce già l’autore e il suo stile (La schivata, Cous cous, La vita di Adèle). Zeppo di luce (spesso ammorbidita dal tramonto), di suoni, parole, musiche, personaggi, movimenti, Mektoub comunque non si limita a restare sulla superficie dei corpi abbronzati, dei volti arrossati dal sole o dall’eccitazione, dei vestiti succinti e provocanti. Se ambientazione e situazioni rimandano al Rohmer “balneare” (come Pauline à la plage o Un ragazzo, tre ragazze) e alcune tematiche al ciclo, sempre rohmeriano, dei “Racconti morali” (come La mia notte con Maud o Il ginocchio di Claire), il suo film porta anche a riflettere sulle teorie del cinema-movimento e dell’immagine-tempo formulate da Deleuze, che Kechiche aggiorna e personalizza ai tempi e alla propria poetica, o addirittura sul concetto di divertissment espresso da Blaise Pascal (il filosofo del ‘600 molto caro allo stesso Rohmer). Amin, che assiste dall’interno al ciclone di desiderio e di gioia di vivere che gli turbina intorno, ma che non vi partecipa mai veramente, finisce suo malgrado per gettare un’ombra sulla visione idilliaca ed edonistica di un’estate quasi troppo bella per essere vera (le ragazze sono tutte belle e disponibili, i ragazzi tutti conquistatori affascinanti), di cui è testimone e forse narratore (è pensabile che l’autore si rispecchi in qualche misura nel suo personaggio), ma anche un malinconico perdente che osserva la vita e le occasioni sfuggirgli sotto gli occhi incantati. Per ora mi fermo qui; ne riparliamo sul prossimo numero 212 di Segnocinema, nelle librerie Feltrinelli e dello spettacolo dal mese di luglio. QUELLO CHE NON SO DI LEI di Roman PolanskiIl titolo originale, D'après une histoire vraie, così declaratorio e didascalico, avrebbe potuto tradire l'intento antifrastico dell'assunto: se una dichiarazione del genere viene sparata fin nel titolo, anziché essere un credit che attesta la provenienza della materia trattata, e se per di più il film è firmato da uno come Roman Polanski che la storia vera l'ha, forse, affrontata solo ne Il pianista, facendo del resto della sua filmografia un monumento all'ambiguità e alle varie declinazioni del fantastico, qualche dubbio sulla veridicità di quello che si sarebbe visto nel film avrebbe potuto sorgere ancor prima di vedere la prima inquadratura. I distributori italiani hanno scelto d'altra parte un titolo, Quello che non so di lei, che, per la sua assonanza con titoli recenti (giusto l'anno scorso era sugli schermi Quello che so di lei!), tradisce da subito quel senso di déjà vu che costituisce forse il principale punto debole dell'ultima opera di Polanski. Una scrittrice in crisi creativa, bloccata nella scrittura, stressata dalla popolarità e angosciata dai sensi di colpa per aver tratto materia di narrazione e di successo dalle proprie dolorose vicende famigliari, stringe un'amicizia, che si fa sempre più anomala e morbosa, con una sua ammiratrice, una giovane ghost writer, che presto si stabilisce a casa sua. La giovane comincia ben presto a esercitare una sorta di dominazione psicologica nei confronti della scrittrice, e comincia perfino ad assumere la sua personalità nei rapporti con i conoscenti e addirittura in occasioni pubbliche. Chi scriverà dunque alla fine il “libro nascosto” che la giovane stimola in modo sempre più pressante la scrittrice ad estrarre dal proprio intimo tormentato? La trama appare intrigante e Polanski, come si diceva, è sempre stato un maestro a orchestrare ambiguità e morbosità. Il film poi di nobili padri ne ha due, essendo stato sceneggiato a quattro mani con un altro autore riconosciuto e stimato, Olivier Assayas. Ma il gioco dei rimandi, voluti o no, è subito ampio e si fa via via sempre più invadente e addirittura molesto. C'è la rivalità artistica femminile tra la giovane e la donna matura, come in Eva contro Eva, e c'è lo scrittore immobilizzato e preda del proprio fan come in Misery non deve morire. C'è Hitchchok (Hitchcock c'è sempre). E poi, pensando alla cinematografia di Assayas, ci sono le vampire (più o meno metaforiche) come in Irma Vep, ancora il rapporto tra due artiste come in Sils Maria e in modo più traslato in Personal Shopper; e pensando a Polanski ci sono rimandi agli sdoppiamenti e alle vertigini de L'inquilino del terzo piano, la psiche femminile disturbata di Repulsion, il rapporto realtà/immaginazione di Rosemary's Baby, il rapporto di dominazione erotica come in Luna di fiele e in Venere in pelliccia, la segregazione come ne La morte e la fanciulla, il tema della scrittura come ne L'uomo nell'ombra (The Ghost Writer!) e così via. Fin qui stiamo parlndo di un citazionismo verticale, e si può sostenere che stiamo parlando di riferimento ai classici, o della coerenza di autori che lavorano intorno a propri nuclei inesauribili di temi e ossessioni. Il problema è però se estendiamo il campo delle somiglianze in senso orizzontale, nel campo contemporaneo delle ultimissime stagioni: e allora troviamo anche i fantasmi creati dalla psiche femminile e il tema del doppio come, di nuovo, in Personal Shopper (la cui frase finale potrebbe servire come exergo anche a questo film) di Assayas, in Napoli velata di Ozpetek, ne L'amante doppio di Ozon (una tripla assonanza che mettevo in luce in un recente articolo pubblicato sul numero 210 di Segnocnema); c'è il rapporto morboso e c'è la cantina come in Elle di Verhoeven, e perfino il veleno e il personaggio in balia della propria “badante” come ne Il filo nascosto di Anderson ( e pure ne L'inganno della Coppola); o ancora, se si vuole, l'Autore che crea la propria opera evocando fantasmi come in Mother!... Non vorrei farla troppo lunga: l'impressione in definitiva è che D'après une histoire vraie abbia la sfortuna di arrivare buon ultimo in una stagione che aveva fornito già parecchi esempi delle stesse tematiche e delle stesse atmosfere. Non è un problema da poco per un film che aspirava evidentemente a fare dell'originalità, della sorpresa e dello spiazzamento dello spettatore uno dei propri punti di forza. Polanski è uno dei miei registi preferiti e un maestro indiscusso, ma classificherei questo film tra gli esiti meno brillanti. Gli addebito anche un gioco che si fa scoperto troppo presto, con la Green che comincia a strabuzzare gli occhi quasi da subito, come se fosse ancora la bizzarra istitutrice della Casa dei bambini speciali di Tim Burton, mentre Emmanuelle Seigner è forse migliorata nel tempo come attrice, ma l'età indurisce ulteriormente i tratti un po' legnosi del suo volto. Cinema di classe, s'intende, e potrei scrivere un Face/Off dove mettere in luce la maestria di Polanski nel gestire il gioco tra realtà e immaginazione, tra verità artistica e quella fattuale, e quello del problematico rapporto dell'artista tra la propria biografia e la propria opera (e l'autore ha vissuto più volte sulla propri pelle la criticità di questo rapporto); nel riproporre il concetto della seduzione intesa come gioco di potere e dominazione dell'altro, nel reinventare nuovi spazi chiusi e claustrofobici dove imprigionare i propri personaggi, nell'ironia con cui conferisce leggerezza ad una materia complessa, torbida e profonda, nel guizzo con cui trasforma il film dal realismo della propria parte in una fiaba gotica (con tanto di casa isolata, cantina, topi, veleno, fuga notturna nel bosco, ecc.); e così via. Potrei, ma sarà per un'altra volta. LA CASA SUL MARE (La villa) di Robert GuediguianGuediguian fa un cinema essenzialmente inattuale. Legato ai valori della sinistra, al ricordo nostalgico di un mitico impegno politico, all'affetto per la classe operaia. Inevitabile (?) che con il passare degli anni questo atteggiamento rivolto al passato si accentui. La casa sul mare incarna materialmente il riferimento ad un passato mitico e elegiaco, fatto di semplicità di vita, slancio della giovinezza, senso della famiglia e purezza degli ideali, svincolati da qualsiasi considerazione veniale o commerciale. Ne La casa sul mare tutto torna, Marsiglia (qui i suoi dintorni), i temi, gli attori di sempre: addirittura Ariane Ascaride, Jean-Pierre Darroussin e Gérard Meylan, i protagonisti, compaiono qui anche in un estratto di un vecchio film dello stesso autore: loro stessi, più giovani, a rimarcare la coerenza di un cinema che è fatto anche di rapporti umani e affettivi, e nello stesso tempo il tempo che passa (il cinema è la morte al lavoro, ma anche la vita lo è...): la giovinezza che si trasforma in altro, gli ideali che si confrontano con la durezza della realtà, il mondo che è cambiato con il trionfo del capitalismo e di una visione mercantilistica delle cose, delle persone, e dei sentimenti. Ma quanto potrà durare ancora un tipo di cinema siffatto? Alcuni si augurano certamente a lungo, il più a lungo possibile, auspicando la sopravvivenza di un cinema critico e resistente verso gli aspetti deteriori del presente, con un afflato ideale deluso ma mai spento, bello proprio per la sua inattualità. Ma a me La casa sul mare, proprio come le case abitate da soli anziani mi è sembrato sapere un po' di chiuso (malgrado i numerosi esterni) e di vecchio, un film tutto sommato passatista, incapace di innescare una reale dialettica con la contemporaneità. Che non è obbligatorio: ma è la qualità stessa della nostalgia a cominciare a sentire un po' di stantio. La Ascaride, moglie del regista, sessantreenne mai stata particolarmente avvenente, è un oggetto di desiderio sessuale sempre più improbabile (qui è implausibilmente concupita carnalmente da un bel giovine pescatore amante del teatro), Darroussin è un po' infiacchito e prevedibile nel rendere la commistione tra ostinata resilienza e disincanto, e la dialettica generazionale è resa un po' meccanicamente: i vecchi si suicidano, i maturi si arrovellano sulle proprie delusioni, i giovani hanno venduto l'anima al diavolo, i bambini salveranno il mondo (forse). La strada narrativa con cui Guediguian trova nella cronaca quotidiana dei nostri tempi (ma con toni semifiabeschi) il modo per uscire dallo stallo dello sterile rimpianto e rilanciare con un'apertura verso il futuro, facendo comparire dal nulla tre piccoli nuovi personaggi, quasi delle possibili reincarnazioni dei tre tre senili protagonisti, è imprevista, ma in fondo straordinariamente facile. Chissà se un giorno, nell'ultimo film di Guediguian, vedremo i tre piccoli, ormai cresciuti, rivedere le immagini di questo vecchio film, dove hanno conosciuto i loro genitori putativi, che magari gli avranno insegnato, con la dolcezza e la passione rimasta, a costruire un mondo migliore... LORO 2 di Paolo SorrentinoCi siamo chiesti spesso cosa rimarrà del berlusconismo (o cosa ne ritornerà, visto che proprio in queste ore il Tribunale di Milano gli ha restituito l’eleggibilità), ora possiamo chiederci cosa rimarrà di Loro, di Paolo Sorrentino, che a Berlusconi e al berlusconismo ha dedicato un dittico atteso con grande curiosità e giudicato in maniera contrastata. Un film epocale, che rimarrà a segnare un’epoca della nostra storia? O un elefante (circa tre ore e mezza di proiezione) che partorisce un topolino? Viene abbastanza naturale fare i paragoni con altri due grandi dittici del cinema italiano, come Novecento e La meglio gioventù (cha in realtà adattò al cinema la propria origine televisiva). Bertolucci e Giordana raccontavano entrambi una tranche di storia italiana che comprendeva diversi decenni, con un respiro corale, dove le vicende dei protagonisti si inquadravano dentro il contesto - nel bene e del male - epico della Storia con la S maiuscola. L’opus magna di Sorrentino abbraccia invece un periodo di tempo molto più ristretto, dividendo la propria attenzione in modo disomogeneo tra un gruppo di personaggi arrivisti, che seguiamo per gran parte di Loro 1, e la figura di Silvio Berlusconi, perno indiscusso della seconda parte, intorno al quale si dispongono in posizione ancillare tutte le figure minori, quelle già conosciute e altre nuove. Berlusconi diventa il motore immobile, l’astro intorno al quale satelliti, pianeti e stelline si dispongono facendo convergere verso di lui amore, ammirazione, invidia, desiderio, devozione, disprezzo, delusione, servilismo, opportunismo. Al ritmo frenetico dell’edonismo vorace e scatenato della prima parte, succede un ritmo più disteso e lento, già inaugurato alla fine di Loro 1 (fin dalla prima apparizione del vero protagonista, inizialmente una figura immobile su una sdraio in giardino, poi una bajadera che lentamente si alza per rientrare in villa, già iconica epitome di un vitalismo giunto ad estenuazione), in cui Berlusconi è al centro di inquadrature ampie e astratte, o protagonista di dialoghi – a tratti didascalici - a due personaggi (e non manca un faccia a faccia Servillo vs Servillo). Le due linee narrative disgiunte nella prima parte si ricompongono nella seconda, con il sospirato incontro con Berlusconi di Morra/Taratntini/Scamarcio, con tutta la sua corte di aspiranti-qualcosa (cosa? escort? prostitute? frequentatrici di cene eleganti? “divertimento dell’imperatore”?). Ma ormai Sorrentino ha spostato il fuoco sul grande protagonista, e quindi Morra come tutti gli altri entra nella schiera indifferenziata dei “loro”, in un coro petulante e indistinto che da divertente passa ad essere fastidioso e pletorico. Sorrentino dichiara di aver adottato, nell’approccio a Berlusconi, una chiave rivoluzionaria, quella della tenerezza. Quello che ne esce è quindi il ritratto della solitudine del potente, assediato da una corte servile ma prevalentemente interessata. Al di là della sete del potere, della lussuria dell’accumulazione di ricchezze smodate e inesauribili nel corso di una vita, del piacere della seduzione infinita e sconfinata, del gusto della eterna provocazione/prevaricazione, della soddisfazione di un persuasore infallibile, di un demagogo spudorato e senza scrupoli, a Sorrentino interessa il ritratto di un uomo che si dichiara predisposto a una longevità oltre ogni nostro timore, ma la cui più grande torturante paura è quella di invecchiare. Non è neppure la vanitas, il sentimento della transitorietà e dell’evanescenza dei piaceri e della vita stessa: è proprio la paura di invecchiare, che può voler dire perdere il tocco magico, la seduttività bastante a se stessa, la capacità di dominare gli altri, quella massa indistinta dei “loro”, considerati (e rappresentati) come dei minus habens smaniosi di genuflettersi davanti all’idolo sorridente del Grande Seduttore, o come creduloni felici di farsene ingannare. Servillo recita Berlusconi come una maschera perché rappresenta un Berlusconi costantemente mascherato: un rigore del volto atteggiato ad una perenne maschera di ottimismo, di sicurezza di sé, di sprezzo, di arroganza che si vorrebbe spensierata. Il resto, il Berlusconi oggetto di mille attacchi, di mille polemiche, di mille denunce, il Berlusconi condannabile moralmente, politicamente, giudiziariamente, appare solo nelle parole degli altri, un senatore ostile ma già pronto a farsi comperare, una Veronica Lario disamorata ma che volentieri sarebbe disposta a cedere ad un rinnovato tentativo di riconquista. A parte questa malinconia del satrapo/patriarca, che ne fa, fatte le debite differenze, un personaggio quasi marqueziano (Sorrentino come realista magico?) - ma, nella sua verità poetica, non necessariamente berlusconiano -, poco di nuovo il film ci dice sull’uomo e politico italiano di cui più siamo stati a parlare negli ultimi infelici decenni. Le domande espresse (da dove vengono i misteriosi miliardi all’origine delle fortune di Berlusconi? Nel Caimano di Moretti, altro ritratto berlusconiano imperfetto e insoddisfacente, cadevano dal cielo) e quelle inespresse ma latenti (cosa era realmente in grado di fare Berlusconi con la pletora di disponibilissime ragazze che lo ambivano al suo letto?) rimangono senza risposta, come rimangono senza risposta (e non poteva essere altrimenti) i mille misteri che circondano l’ascesa e l’incredibile vita del protagonista, avvincente e inverosimile come un serial noir. Sì, forse in definitiva due film – pur costellati di pezzi di bravura e di umorismo alla Sorrentino, che possano piacere o no - non bastano; forse ci sarebbe voluta - e non so se sarebbe bastata - una lunga serie tv in più stagioni per comporre un ritratto di Silvio Berlusconi. Anche se che continuiamo – stancamente, debolmente - ad augurarci che non avremmo più né la voglia, né il tempo, né l’interesse di guardarla. LORO 1 di Paolo SorrentinoHa senso recensire Loro 1 prima di vedere Loro 2? E’ discutibile. Soprattutto perché Loro 1 è la metà di un film a sua volta spezzata in due, con due segmenti (diseguali) che non comunicano tra loro. Inevitabile quindi attendere la seconda parte per esprimere un giudizio complessivo e ragionato. Che dire nel frattempo? Che Sorrentino gioca a fare Sorrentino, cercando di portare il suo cinema all’ennesima potenza. Il vitalismo kitsch de La grande bellezza, la rarefazione iconica pseudometafisica di Young Pope, la mascherizzazione sempre più spinta di Servillo, l’uso drogato della musica, la ricerca esasperata dell’immagine spiazzante e mai-vista, la fellinizzazione dell’attualità italiana. Sorrentino illustra il berlusconismo declinando tutto il paradigma dei nani e delle ballerine, survolta ogni sequenza, ipnotizza con i riff elettronici, inzeppa il film di trovate visive (a volte gratuite, a volta addirittura a-narrative, dei gorghi immaginifici fini a se stessi e non sempre necessari o semplicemente riusciti), a beneficio dello spettatore e dei critici che possono scegliere per le proprie citazioni all’interno di un ricco campionario che comprende acrobate oscene, rinoceronti in corsa e camion della spazzatura che si ribaltano per le strade della Roma notturna, impudiche feste in piscina come nei video dei rapper afroamericani, facce di Berlusconi tatuate sulle reni di ragazze scopate doggy style, in un accumulo barocco che stordisce, affascina e rischia contemporaneamente – paradossalmente - di tenere a distanza lo spettatore, che potrebbe cominciare a sospettare di venire considerato un borgeois da épater. In effetti l’impresa di fare un ritratto di Berlusconi, con Lui ancora in vita e pervicacemente impegnato a credersi uguale a se stesso, è un azzardo tremendo. Che presuppone una gigantesca domanda a monte: quale di approccio e chiave di lettura adottare? Sorrentino sembra scegliere innanzitutto la via dell’assenza (di Lui, perché di Loro ce n’è in abbondanza) e della distanza. L’uomo di potere che nel contesto geografico (rispetto ai suoi omologhi stranieri) e storico (rispetto a quanti l’hanno preceduto) ha fatto del proprio corpo (abbigliato con mille travestimenti come un Big Jim protagonista del proprio destino che decide del proprio immaginario e lo impone agli altri) e dei propri accessori (bandane, tacchi, doppiopetti, camice nere, ecc.) un discorso politico incarnato, rendendo consapevole oggetto del dibattito dell’opinione pubblica la propria altezza, i propri capelli (o la loro assenza), la propria pelle, la propria prostata, i propri organi sessuali, i denti del suo sorriso, nel film di Sorrentino, o almeno nella prima parte della prima parte, si configura come assenza, come entità metafisica, principio disincarnato, divinità inattingibile e invisibile. Il film infatti la prende alla larga; dopo una finta partenza in una villa in Sardegna deserta (in verità c’è una pecora, ma non dura molto), prende l’abbrivio in Puglia e si sofferma in una Roma, a sua volta deserta della presenza di Lui, ma affollata di Loro: un fittissimo, variopinto, pittoresco sottobosco dove si affollano arrampicatori di ogni livello, specie e genere sessuale, troie maschili e femminili (queste ultime preferibilmente nude o seminude) alla ricerca acida e spasmodica di un contatto con Lui (che per gran parte del film rimane invisibile e innominato, tre lettere sui display dei telefonini, un pronome personale generico ma sacrale, il riferimento ad un dio innominabile), il Signore di un Paradiso abbarbicato su una vetta inaccessibile da cui sembra di veder scorrere rivoli di droga, soldi, sesso, potere, fama, felicità. Solo a due terzi del film il nostro sguardo ha accesso a questa simbolica vetta. Che si trova in realtà nel paesaggio orizzontale di una villa in Sardegna, dove il ritmo rutilante della prima parte del film improvvisamente rallenta, si placa, s’ingolfa. E in vetta (cioè nella villa del prologo, in cui la pecora schiattava stroncata dall’aria condizionata), non c’è quasi nessuno. Una bajadera, che è Lui, un buffone che non riesce più a far ridere una moglie che era bellissima e che ora è annoiata, insofferente, lamentosa, nostalgica, disamorata. Lui, l’uomo dell’immenso potere colto durante un momento di panne, momentaneamente escluso dal governo, prigioniero della propria maschera e della propria (percepita) impotenza. Alla fine della prima parte, Lui e Loro rimangono lontani, a scambiarsi a distanza sguardi - inaspettatamente reciproci - di invidia e desiderio. La seconda chiave è l’assenza della politica. Non solo in senso stretto, ma in senso lato. Poco emerge dalla visione di Loro 1 di cosa siano stati, cosa abbiano significato Berlusconi e il berlusconismo, di come abbiano capito, assecondato e poi modificato e distorto la società italiana (ma facendone un modello esportabile anche all’estero). Tutto si riduce alla ricerca spasmodica di un edonismo sfrenato, autoconcluso e autosufficiente, una dolce vita cafona ma appagante, un nirvana o un paese dei balocchi fatto di sex, drugs - money - and electro funk. Il mondo del film non contiene che Lui e Loro. Sorrentino lascia risolutamente al di fuori tutto il resto, la storia, la genesi, le spiegazioni. Lascia fuori Noi, quello che siamo stati, e quello che stiamo diventando. Non che non sia un’operazione legittima, e che al cinema succede costantemente e normalmente (e che fonda in buona parte il fascino dell’esperienza filmica, il potersi astrarre da se stesso dello spettatore). Ma stavolta ci sentiamo troppo coinvolti, avremmo preteso, magari illegittimamente, qualcosa di più. Aspettando comunque Loro 2. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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