Tempo più o meno presente, ambientazione in una città che potrebbe essere Londra (o i suoi sobborghi). Un uomo ancora giovane ha perso le persone più amate in un incidente automobilistico. Gli si offre però il modo di ricontrarli nella casa che un tempo avevano abitato insieme (in una dimensione fantasmatica ma realistica nella rappresentazione), per un periodo limitato di tempo: sarà l'(ultima) occasione per confrontarsi di nuovo con un lutto mai completamente elaborato e risolto, per congedarsi da loro, ma soprattutto per affrontare e cercare di sciogliere dei nodi esistenziali ed affettivi rimasti in sospeso dopo la prematura scomparsa. Nel frattempo il protagonista intraprende una nuova relazione sentimentale, che sembra indirizzare la sua vita verso un'evoluzione più positiva. Ma non tutto è come sembra, e l'esistenza reale di uno dei protagonisti (non dico di più per non rovinare quella che deve essere una sorpresa per lo spettatore) viene rimessa radicalmente in discussione. Nell'ultima immagine, gli amanti dormono abbracciati in un letto, in un'immagine malinconica ed enigmatica. Sembrerà impossibile, ma questa è la sinossi non di uno ma di due film, che per una straordinaria coincidenza escono sugli schermi cinematografici italiani a distanza di poche settimane l'uno dall'altro. A me è capitato di vederli a pochissimi giorni di distanza e mi hanno provocato un tale corto circuito mentale che devo davvero fare uno sforzo per distinguerli l'uno dall'altro. Sono rispettivamente Estranei (All of Us Strangers), del regista inglese Andrew Haig (Weekend, 45 anni, Charley Thompson), uscito il 29 febbraio, e Another End, dell'italiano Piero Messina (L'attesa), previsto in uscita il 21 marzo. Certo, le differenze, ovviamente, abbondano: in Estranei i famigliari defunti sono due, il padre e la madre (Jamie “Billy Elliot” Bell e Claire Foy), morti sulla strada quando Adam (Andrew Scott), oggi uno scrittore adulto che si confronta con la propria storia famigliare, aveva solo 12 anni. Adam si incontra con i loro fantasmi (“presenti” in modo realistico; ma con l'età che avevano quando sono mortie consapevoli di esserlo) nella casa dell'infanzia. Adam ha così modo di rivelare loro la propria omosessualità, che al momento della loro scomparsa era, in lui ragazzino, solo latente, e cerca disperatamente da loro comprensione, rispetto, accettazione. Il suo nuovo amante è quindi un uomo (Paul Mescal), l'estraneo del piano di sotto, bizzarramente l'unico coinquilino in un grande caseggiato nel sobborghi di Londra non ancora abitato. In Another End la persona cara scomparsa prematuramente è la moglie del protagonista Sal, che vive in una città non nominata, modernamente anonima, dove si parla inglese (anche se lui parla in spagnolo con la sorella: Garcia Bernal è di origine messicana, Berenice Bejo argentina). L'occasione per incontrare di nuovo la moglie morta è fornita a Sal dalla scienza, che è ora in grado di impiantare in ospiti volontari, per periodo limitati di tempo, la personalità e i ricordi appartenenti a cari defunti. L'operazione vanta un dubbio valore terapeutico: ovviamente Sal non riuscirà più a staccarsi dalla donna (c'è un punto in cui il film incrocia precisamente uno snodo de La donna che visse due volte), che è un po' la moglie (con la quale deve rielaborare il rimpianto di non avere avuto un figlio, a causa delle proprie paure), un po' una donna sconosciuta, che a sua volta ha avuto un lutto e ora deve faticosamente cercare una nuova ragione di vita. Non aggiungo di più sui rispettivi finali, che, pur non nelle rispettive differenze, adottano un analogo twist narrativo, con la rimessa in gioco dello statuto ontologico dei personaggi protagonisti, e si chiudono entrambi su un'immagine plastica praticamente sovrapponibile. Ho trovato assolutamente singolare comunque la consonanza dei due film nel trattare in modo immaginifico lo stesso pressoché identico tema, ovvero quello della possibilità di confrontarsi con i propri fantasmi affettivi e sentimentali, di dire finalmente le parole che non si sono mai dette, di risolvere questioni esistenziali che non si è saputo o potuto affrontare - anche perché è mancato drasticamente quel tempo che si credeva di avere a disposizione. Lo spunto da fantascienza o da ghost movie è solo un labile pretesto narrativo per mettere in gioco un teatro mentale dove si rappresenta la resa dei conti con se stessi e con i fantasmi della propria coscienza e della propria storia individuale e famigliare. Another End (decurtando il titolo si ottiene l'espressione “not here”, poiché si ha a che fare con persone che non sono più qui, cioè tra noi, ma anche “the end”, come esplicita il trailer del film) in ossequio alla sua natura pretestuosamente fantascientifica, si apre con un paio di sequenze ad effetto. In una Sal si reca dall'anziana vicina per aiutarla a riparare un guasto domestico. Mentre la signora offre un tè a Sal e chiacchiera abilmente, il marito dorme sul divano, con il giornale aperto sulle ginocchia. Poi arrivano degli inservienti che cominciano a trafficare intorno all'anziano. Non sono badanti o infermieri: lo impacchettano in un involucro e lo portano via, nell'indifferenza della moglie, come se fosse un cadavere. Nella sequenza successiva siamo in un hangar gigantesco, dove sono stesi moltissimi corpi, chiusi in involucri simili. Poi i presunti cadaveri si risvegliano, aprono dall'interno le cerniere dei rispettivi involucri, si alzano e si incamminano. Ma la parte preponderante di entrambi i film si svolge in realtà in ambienti domestici, sottolineando la dimensione intimistica ed emozionale della narrazione, con pochissime sequenze girate all'esterno (in un'ennesima consonanza o rima visivo-narrativa, in entrambi i film c'è un'importante sequenza girata in discoteca). L'ambiente urbano è sempre impersonale e anonimo: in Estranei Adam (il primo uomo, in attesa di un compagno tratto dalla propria costola) vive in un grande condominio disabitato, e Londra è solo un remoto skyline visto alla finestra; in Another End Sal vive ormai solo nel suo appartamento, in una città senza nome dall'aspetto moderno e scostante. Gli interni (la casa dei genitori di Adam, quella di Sal) hanno invece una dimensione un po' vecchia, vagamente claustrofobica, dove si ascoltano vecchi vinili o si guardano film dal divano del salotto. Anche l'ambientazione è costantemente crepuscolare: il mondo di Another End è grigio e piovoso, mentre dalla finestra di Adam si vede incombere sul lontano skyline della città un sole costantemente rosso, come in un eterno estenuante malato tramonto.
Perfino le personalità dei protagonisti maschili hanno delle consonanze: se Adam è un gay (o queer - nel film si discute della definizione più appropriata) dichiarato, e chiaramente la parte passiva e più femminile della coppia che si viene a formare con il vicino Harry, Sal sembra rappresentare il lato meno virile del triangolo (o quadrilatero) formato con la moglie Zoe (interpretata da Renate Reinsve, che supera vistosamente anche in statura fisica il “piccolo” Gael Garcia Bernal) e con la sorella Ebe (ed eventualmente con Ava, “ospite” della personalità di Zoe). Entrambi i film infine adottano un twist finale che dovrebbe sorprendere lo spettatore con una rivelazione a sorpresa. E' un ribaltamento esistenziale-ontologico di cui Philip Dick fu un precursore in letteratura e che ormai abbiamo già visto più volte sullo schermo in diverse declinazioni (da Il sesto senso a The Others a Sto pensando di finirla qui). Evidentemente sono due film che, per i temi toccati e per il tono della narrazione - in entrambi i casi calibrato sulle emozioni dei protagonisti, sui loro rimpianti e rimorsi, sui loro sensi di colpa e sul desiderio di poterli fugare con un confronto postumo con le persone più importanti della loro vita, sul loro amore e sul bisogno di riceverne - toccano o possono toccare profondamente la sensibilità di spettatori e spettatrici. Con qualche veniale difetto. Ad Estranei imputerei soprattutto il rischio di sfiorare in qualche occasione il ridicolo involontario (v. le scene in cui i protagonisti discutono disinvoltamente della propria morte o dei tempi moderni che ne sono seguiti; o, peggio, quella in cui Adam, adulto, veste un pigiamino da dodicenne e si mette a dormire tra i genitori nel letto matrimoniale); a Another End (che deve superare nella fase iniziale la difficoltà di rendere comprensibile la situazione evitando l'effetto “spiegone”) qualche goffaggine in certi aspetti della narrazione (le parti del laboratorio o del bordello), una certa durezza della Reinsve ed un finale un po' troppo affrettato, non si sa se più ambiguo o più confuso. Direi che vale comunque la pena di vederli. Seguirà dibattito: inevitabilmente, principalmente con se stessi.
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HOW TO HAVE SEX di Molly Manning WalkerA dispetto del titolo, How to Have Sex non è un manuale per procurarsi o per fare sesso.
Anche se, forse, un manuale di educazione sentimentale non farebbe male alle tre protagoniste, in vacanza balneare come la giovanissima protagonista di Aftersun, ma alla ricerca di “una vacanza da sballo” (sia pur senza le derive pulp) come le quattro sgallettate protagoniste di Spring Breakers. Tara, Em e Skye sono tre ragazze britanniche, non ancora diciottenni, che calano su Malia, a Creta, alla ricerca di una vacanza che dovrà necessariamente essere “la più bella della loro vita”. Il che vuole dire fare nuove conoscenze, divertirsi, ridere, vestirsi più sexy possibile, ballare, bere, sbronzarsi, vomitare, risbronzarsi, e, naturalmente, scopare il più possibile. Tara poi è ancora vergine e quindi il suo obiettivo, coadiuvato dalle amiche, è di ovviare al più presto a questo stato increscioso. Le tre sono sul crinale tra l’adolescenza e quella che sarà la vita adulta; sono alle prime esperienze sessuali, sono alla fine del loro percorso scolastico e stanno aspettando l’esito degli esami (due ce la faranno, una no); presto dovranno decidere del loro futuro, tra università o altri percorsi di vita. E’ il momento in cui un adolescente, soprattutto quando si trova tra amici, si sente immortale, un groviglio confuso di possibilità in attesa di dipanarsi, che potrebbe prendere qualsiasi direzione. I genitori sono assenti, dimenticati, lontani dagli occhi e dal cuore, al massimo una voce remota e consolatoria al telefono in un momento difficile. Per le tre ragazze la vacanza significa vivere euforicamente nel qui e ora, senza preoccupazioni, a volte senza pensieri del tutto, stordite dall’eccitazione e dall’alcol, che contribuisce a far cadere le ultime inibizioni eventualmente ancora presenti. La prima parte del film è corale, frastornante, tra dialoghi a ruota libera, musica da discoteca, luci colorate, montaggio serrato. Le tre ragazze si muovono d’altra parte all’interno di un divertimentificio costruito su misura, ad uso e consumo loro e dei loro coetanei, tutto orientato a solleticare e a soddisfare le pulsioni ormonali di orde di giovani affamati di sesso e assetati d’alcol (nel film non si fa mai cenno ad altre sostanze stupefacenti), che devono divertirsi, spendere e magari tornare l’anno successivo, senza mai fermarsi a riflettere o semplicemente a provare delle emozioni che non siano quelle dell’esaltazione e dell’eccitazione. Poi l’attenzione della regista Molly Manning Walker (che alla sua prima prova si aggiudica il premio della sezione Un certain regard a Cannes) si concentra sul personaggio di Tara, e gradualmente si comprende che il significato più autentico del film non risiede nei momenti concitati e assordanti, ma nei silenzi che gradualmente acquistano sempre più importanza nel film. L’illusione edonistica si sgretola mano a mano, e il film suggerisce perfino (grazie anche alla colonna sonora) una svolta drammatica quando Tara scompare durante una notte brava e non ricompare la mattina seguente. Il sesso (nel film oltre alle droghe mancano completamente scene di nudo) alla fine si rivela nel suo lato peggiore, come grottesca esibizione triviale o come una sorta di dovere assolto in quella zona grigia dove lo stordimento alcolico annebbia il desiderio e la consapevolezza, tanto del consenso quanto del piacere. Per Tara sarà alla fine una vacanza importante; forse - si spera - non “la migliore della sua vita”, ma in cui imparerà delle cose – anche amaramente, dai propri e altrui errori - e anche il loro valore. Imparerà a dare ascolto alle proprie emozioni e ai propri sentimenti, a dare un peso alle persone, ai comportamenti, alle scelte e alle relazioni, a distinguere (perfino tra le sue amiche) tra quelle che contano e quelle che invece non hanno valore. E’ una commedia degli errori, dove Tara sbaglia a scegliere il proprio partner; lui sbaglia le sue mosse nei suoi confronti; il ragazzo forse giusto fa la scelta sbagliata; e le amiche sbagliano nel non essere abbastanza vicine a Tara, per invidia o per distrazione, quando lei ne avrebbe bisogno. Mia McKenna-Bruce nel ruolo di Tara ha la parte più impegnativa, e deve passare dall’impacciata e spavalda esuberanza della prima parte allo smarrimento e all’incertezza e infine alla malinconica disillusione che mano a mano prende il sopravvento; speriamo che al suo personaggio vada meglio alla prossima vacanza, e nella sua vita. Aspettando How to Have Sex II – Another Holiday... LA SALA PROFESSORI (Das Lehrerzimmer) di Ilker ÇatakUna tranquilla scuola media tedesca, efficiente e moderna, dove convivono studenti e insegnanti di etnie e provenienze diverse e dove una pragmatica preside ha impostato una politica di tolleranza zero verso bullismo e comportamenti devianti.
Eppure nella scuola avvengono da un po' di tempo piccoli furti ad opera di ignoti. Dopo che alcuni studenti sono stati interrogati in modo poco ortodosso e sospettati ingiustamente, la giovane insegnante Carla Nowak, di proposito ma quasi d'impulso, mette in atto una piccola trappola: assentandosi, lascia il portafoglio nella tasca della giacca appesa alla sedia, in sala professori, e sulla scrivania di fronte il pc aperto con la telecamera in funzione. Quando rientra trova qualche banconota in meno nel portafoglio e delle immagini nel pc che sembrano indicare senza eccessivi dubbi chi le ha sottratte. Carla cerca di risolvere le cose con le buone; non ci riesce, sicché si sente costretta a coinvolgere la preside mettendola a conoscenza della propria scoperta. Da qui in poi tutto salta: la vicenda si ingigantisce coinvolgendo tutta la scuola, gli studenti, i genitori, i docenti, il personale amministrativo. Gli sviluppi rimettono in discussione ogni ordine e ogni certezza: il diritto al controllo e quello alla privacy, la presunzione d'innocenza e l'onere della prova, il razzismo e l'inclusione, il dialogo e la tolleranza zero, il ruolo dei genitori e degli educatori, la solidarietà tra colleghi e le relative idiosincrasie. Il problema è complicato dal fatto che nella vicenda rimane direttamente coinvolto, pur incolpevole, il ragazzino Oscar, studente modello e miglior allievo della classe di Carla, che entra violentemente in crisi. Se il microcosmo chiuso della scuola, con i suoi spazi geometrici percorsi e ripercorsi, in cui è concentrata praticamente la totalità della vicenda, diventa una metafora della società e delle sue contraddizioni, Ilker Çatak (che firma anche la sceneggiatura insieme a Johannes Duncker) filma il dramma scolastico quasi come un thriller psicologico (non mancano interrogatori, accuse, furti, colluttazioni, inseguimenti), con riprese nervose quanto la protagonista e accompagnate dalla musica di Marvin Miller che sottolinea la tensione crescente. Carla è una sorta di novella Justine sadiana, piena di virtù e di buona volontà ma afflitta dagli eventi, attaccata da tutti senza essere in grado di difendersi adeguatamente, trovandosi paradossalmente a passare dal ruolo di giusta accusatrice a quello di ingiustamente accusata: tutti le danno addosso, non solo coloro che sono danneggiati dalle sue accuse ma anche i propri studenti, quelli più grandi che curano la redazione del giornale scolastico, i colleghi insofferenti, i genitori che esigono chiarimenti che lei non può fornirgli, e quasi perfino la preside che si trova a gestire una situazione sempre più ingarbugliata e scottante. Leonie Benesch, che esordì ne Il nastro bianco di Haneke, è un'interprete efficace nell'esprimere le sfumature di un personaggio monocorde solo in apparenza: con l'affetto per i suoi allievi, la sua sete di giustizia e la sua dirittura morale che la rende quasi rigida, il suo sgomento nel vedersi avversata, il suo senso di soffocamento nel sentirsi aggredita, i suoi dubbi e i suoi rimorsi, la sua sofferenza per la sofferenza inflitta ad Oscar. Gli autori giocano forse anche sul doppio registro morale dei protagonisti del film: la protagonista, di origine polacca, pur mossa da valori di onestà e giustizia, permeata dalla cultura cattolica della confessione, della comprensione e del perdono; le istituzioni scolastiche attestate invece su più stringenti posizioni calviniste riguardo alla responsabilità individuale. (Un po' generosamente) candidato all'Oscar come miglior film internazionale, La sala professori ha una buona sceneggiatura (con qualche piccola sbavatura dialettica, ma senza mai compromettere la credibilità psicologica delle situazioni), un buon ritmo e una buona tensione (magari con un paio di ralenti evitabili) e contenuti idonei a suscitare dibattito tra gli spettatori. Consigliato agli insegnanti. LA ZONA D'INTERESSE (The Zone of Interest) di Jonathan GlazerIl tema della rappresentazione dell’Olocausto nel cinema ha suscitato alcune delle più celebri controversie nella storia della riflessione sul cinema. Un evento come l’Olocausto, per le sue proporzioni “smisurate”, per la sua atrocità, per la sua terrificante razionalizzazione dell’abominio, è apparso fin da subito un tema “fuori scala” rispetto all’umano, e a maggior ragione inenarrabile e non rappresentabile, se non attraverso la voce diretta (gli scritti, i disegni, le foto, le riprese) dei sopravvissuti e dei testimoni. Nel 1961 Jacques Rivette dai Cahiers du Cinema innesca una celeberrima polemica sulla carrellata in avanti con cui Gillo Pontercorvo inquadra la morte della protagonista sul filo spinato elettrificato in Kapò; nel 1997 l’uscita de La vita è bella di Roberto Benigni suscita lo sdegno di molti per aver raccontato la deportazione in chiave di commedia (fiabesca); e se qualche anno prima con Schindler’s List Steven Spielberg aveva sfidato il tabù della messa in scena, spostando in là i limiti della visibilità, più recentemente László Nemes ne Il figlio di Saul (che a Cannes si aggiudica il premio speciale della giuria, esattamente come La zona d’interesse otto anni dopo, e che ha anche vinto un Oscar, come potrebbe accadere tra qualche giorno al film di Glazer) concentra il focus sulla soggettività disperata e distorta di un sonderkommando (addetto alla pulizia dei forni crematori), sfocando tutto l’irrappresentabile contesto circostante, in un pudore della visione che è disperata rimozione da parte del protagonista, e rinuncia dell’autore a rappresentare l’oscenità della morte; mentre è ancora un autore ungherese, Kornél Mundruczó, nel 2021, a tradurre il tema in uno stilizzato, beckettiano teatro dell’assurdo nel primo segmento del notevole Quel giorno tu sarai, ambientato in una claustrofobica no man’s room impestata di morte da cui rinasce inaspettatamente e insperabilmente la vita. Se l’Olocausto e la messa in scena dei campi di sterminio di massa sono irrappresentabili, Glazer sceglie allora, semplicemente, di non rappresentarli. I primi minuti del film scorrono su uno schermo totalmente nero e la gran parte della narrazione successiva si svolge infatti nella cosiddetta “zona d’interesse”, cioè nella fascia di territorio “speciale” compresa nel raggio di 40 chilometri intorno alle fabbriche della morte naziste. L’epicentro del racconto non è pertanto il lager, che chiude come sfondo l’orizzonte di moltissime sequenze e di cui non vediamo mai l'interno (c’è un’unica inquadratura dentro al campo, che mostra solamente, dal basso, il volto di Rudolf che guarda in alto verso un cielo senza colore annebbiato dal fumo, che diventa infine un uniforme campo bianco e lattiginoso), ma la dimora con giardino di Rudfolf Höss, comandante del lager di Auschwitz. I protagonisti non sono deportati e aguzzini, ma lo zelante funzionario della morte e la sua bella famigliola (moglie, figli di diverso sesso ed età), suocera e personale di servizio. Tutto ne La zona d’interesse sembra ribaltarsi nel suo contrario logico, e la tragedia immane ed epocale per l’umanità si trasforma nel racconto nell’idilliaca elegia di una vita domestica vissuta in una casa confortevole, in un giardino ordinato, fiorito e profumato, nel godimento della natura circostante, con bagni al fiume e passeggiate a cavallo tra boschi e piante. Anche la tradizionale iconografia stagionale viene ribaltata: al posto dei rigidi inverni gelidi e innevati che sembrano spesso un must nei film ambientati nei campi di concentramento, per gran parte del film impera un’estate di sole splendente, piena di fiori e di vegetazione rigogliosa. Ma quello che è rimosso dalla visione ritorna in gran parte attraverso il sonoro (e solo marginalmente per qualche particolare che si insinua nella visione). Solo pochi metri, una strada da attraversare, separano infatti la dimora degli Höss dalle mura e dalle torri del lager, e tutto il film è infiltrato in modo perturbante dai rumori che provengono da al di là del muro. Urla umane, latrare di cani, il sordo rumore di fondo di una macchina della morte in funzione giorno e notte. Pochissimi elementi tangibili e visibili trapelano dal lager verso l’ambiente circostante: un osso portato dalla corrente, la cenere dispersa nell’aria che si deposita nel fiume e insozza i corpi dei bagnanti, i denti d’oro strappati ai deportati e conservati in casa come un piccolo tesoro di famiglia. Tra una faccenda domestica e l’altra, la coltivazione del giardino e le escursioni nella natura, i giochi e gli scherzi dei bambini, c’è il piacere delle mogli degli ufficiali che chiacchierano tra loro dei beni trafugati agli ebrei e spartiti tra loro; e c’è il dovere di Rudolf, che nel salotto di casa discute con i tecnici i modi con cui efficientare e implementare l’attività dei forni, come si trattasse di un qualsiasi processo industriale, attraverso migliorie al ciclo di combustione/raffreddamento, carico/scarico delle camere crematorie opportunamente disposte ad anello, per velocizzare la distruzione dei cadaveri della grande maggioranza dei deportati inadatti a lavorare come schiavi al servizio dei dominatori tedeschi. Rappresentazione icastica della banalità del male, la normalità della vita domestica diventa per lo spettatore - letteralmente spiazzato - in ogni suo aspetto, anche minimo, un’allusione perturbante a quello che si avviene a qualche decina di metri di distanza, troppo vicino per non sentirne il rumore incessante: se Brecht diceva che “parlare d’alberi è quasi un delitto, perché su troppe stragi comporta il silenzio”, qui ogni volta che si parla di fiori da raccogliere dalle siepi (in modo responsabile per non compromettere “il bene della comunità”), di animali domestici, di giochi di bambini, del clima, di abiti o gioielli, del “paradiso” in cui vivono gli Höss e dei loro sogni realizzati, o ancora di fiabe della buona notte dove si parla di cuocere vivi Hansel e Gretel in un forno, tutto rimanda, per il disagio e il disgusto dello spettatore, alla disumanità e all’atrocità nascosta al di là del muro, sopra il quale si alza perennemente il fumo di chi è condannato, senza colpa, “a passare per il camino”. Al buio, attraverso le finestre rilucono i bagliori notturni che riescono a sgomentare la suocera, alloggiata nella ricca casa della figlia e un tempo donna di servizio delle famiglie ebree che poco più in là stanno bruciando nei forni crematori. Nella notte, reale o apparente, è relegato l’unico atto di umanità e di solidarietà mostrato nel film: una giovane ragazza, trasformata in un fantasma dalle riprese con la telecamera termica , che abbandona dei frutti sui campi dove i deportati saranno portati a lavorare. Nel mondo all’incontrario vigente ne La zona d’interesse, è l’unica trasgressione al regime realistico della rappresentazione (quasi immagini di un mondo “alieno” che sembrano rimandare all’universo astratto e e stilizzato di Under the Skin): si direbbe l’eccezionalità del bene impressa sul negativo della pellicola, contrapposto al positivo della banalità del male imperante. Il regime stilistico del film, di perfezione kubrickiana, è ugualmente radicale e coerente nella tecnica di ripresa, che evita i movimenti di macchina, a parte pochissime carrellate laterali, in genere parallele al grigio muro invalicabile. Per il resto, pur presentando un montaggio nella norma, con sequenze brevi e paratattiche, che includono eccezionalmente inquadrature non naturalistiche come quelle dall’alto (in cui i gerarchi nazisti discutono della deportazione di ulteriori centinaia di migliaia di ebrei ungheresi), i personaggi sono sempre imprigionati nelle scatole visive della camera fissa, che si fa particolarmente opprimente nella scena finale della discesa delle scale da parte di Rudolf, che quasi in una trance onirica sembra “vedere” - a loro volta inscatolate e musealizzate in asettiche vetrine espositive - gli inerti residui del suo atroce lavoro. Ancora una volta, il problema principale di fronte al ricordo insopportabile dello sterminio, è tenere tutto pulito e in ordine.
Coprotagonista necessaria della tragedia invisibile è Hedwig, la moglie di Rudolf, magnificamente resa con movimenti goffi da Sandra Hüller (che nella stagione 2023/24 ha accumulato premi e candidature sia per La zona d’interesse che per Anatomia di una caduta), una donna mediocre ed egoista elevata dal rango di figlia di una donna di servizio a “regina di Auschwitz”, talmente innamorata del suo “paradiso” (dal quale a centinaia di migliaia avrebbero voluto in ogni modo fuggire per scampare alla morte) da combattere con tutte le sue forze per non esserne scacciata, al costo di rinunciare alla presenza del marito, trasferito ad altra destinazione. E’ in fondo questa la tragedia rappresentata nel film, non quella di milioni di persone sterminate nell’Olocausto, ma quella di una famigliola che rischia, a causa di un trasferimento burocratico vissuto come ingiusto, di dover abbandonare il luogo da sogno dove vive felice (per la cronaca, Höss fu impiccato nel 1947 nella “sua” Auschwitz – era stato lui a fare issare sul portone del campo di concentramento la scritta “Arbeit macht frei” -, dopo aver cercato di dissimulare la propria identità, essere stato condannato per crimini contro l’umanità ed essersi convertito in extremis al cattolicesimo). Film teorico, concettuale, filologicamente accurato, di freddezza e di rigore kubrickiani, La zona d’interesse interpella direttamente non solo i negazionisti, che – al pari dei famigliari di Höss che non attraversano i pochi metri di strada e non guardano cosa succede dietro il muro - si rifiutano di fare quei pochi metri di percorso intellettuale che li metterebbe di fronte all’evidenza inconfutabile delle testimonianze e delle prove materiali e documentali dello sterminio. Ma in maniera più indiretta chiama in causa la responsabilità qualunque spettatore. Non colpevole, non complice, ma – impotente - rannicchiato nella propria zona d’interesse e di comfort, impegnato a cercare di godere le proprie gioie individuali e particolari e a non guardare cosa accade al di fuori della propria casa e oltre il muro che lo protegge, dove il fuoco sta divampando. Noi che viviamo sicuri nelle nostre tiepide case, dove ci interpellavano i versi di Primo Levi; sforzandoci di crederci assolti - come i borghesi di De André che hanno paura di guardare, e si dicono che in fondo non sta succedendo niente - mentre invece siamo tutti - forse, in parte - coinvolti. POVERE CREATURE! (Poor Things) di Yorgos LanthimosEsiste forse una correlazione tra la situazione narrata in Kynodontas, scritto in Grecia dallo stesso Lanthimos insieme al fido Efthymis Filippou, e quella di Povere creature! sceneggiato dall'australiano Tony McNamara partendo dal romanzo dello scozzese Alasdair Gray.
Si tratta in entrambi i casi di due “esperimenti” sul carattere e sulla natura umani: in Kynodontas con fini “educativi” e “morali”, in Povere creature! a fini “scientifici”. Nel primo un padre tiene segregati i tre figli in una villa suburbana, per tenerli lontani dalla corruzione del mondo, insegnandogli ad abbaiare per tenere lontani i “gatti feroci” che possono infilarsi nel giardino e storpiando il significato di parole comuni ritenute troppo compromettenti e pericolose. La figlia maggiore alla fine, alla ricerca disperata di emancipazione, tenterà una fuga, non sappiamo se destinata al successo. Nel secondo, uno scienziato pazzo e malato di ubris tenta di tenere segregata nella sua villa una giovane donna, trovata morta e incinta, nella cui testa ha trapiantato il cervello del feto che lei stessa teneva in grembo, e riportata in vita con scosse elettriche. Ma la ragazza, man mano che il suo cervello cresce, che progredisce nell'uso del linguaggio e che scopre le gioie del piacere sessuale, ben presto sfuggirà al suo padre/creatore/carceriere lasciando la sua fastosa e tenebrosa villa e il giardino in cui si aggirano animali ibridi e mutanti creati dalla folle chirurgia di Godwin Baxter. Entrambe le giovani donne poi si trovano ad un certo punto a sfogare nella danza la propria ansia di vita e di libertà: la “figlia maggiore” scatenandosi di fronte ai genitori allibiti sulla musica di un film proibito; Bella Baxter danzando sfrenata e disarticolata in una sala da ballo sotto gli occhi del suo preoccupato amante. Ma se il punto di partenza della poetica di Lanthimos si radica nella tragedia greca (le bizzarre prefiche di Alps; il mito di Ifigenia ne Il sacrificio del cervo sacro), con Povere creature! ci si sposta in un territorio decisamente neogotico. Il riferimento più diretto e più visibile è quello al Frankestein di Mary Shelley, e Lanthimos lo esibisce esplicitamente nel laboratorio di Godwin dove le scariche elettriche resuscitano il cadavere; ma la casa e il giardino londinesi di Godwin sono anche l'isola del dottor Moreau, dove Welles aveva immaginato un folle chirurgo dedito a mostruosi trapianti tra animali (e tra animali ed esseri umani); e Bella Baxter è anche un vampiro che prosciuga di energie e di soldi lo sventurato Wedderburn - che ad un certo punto finisce in una cella di manicomio come il Renfield di Bram Stoker -, o una sua versione femminile, come la Carmilla di Le Fanu che anticipò Dracula; o ancora è come Olympia, la fanciulla non umana uscita dai Notturni di Hoffmann che seduce con la sua danza perturbante. Alla fine del libro di Gray è la stessa Victoria, di cui Bella sarebbe la reincarnazione, a smentire la narrazione che la riguarda, e che lei attribuisce al suo “sciocco marito” che le ha cucito addosso una favola gotica e romantica, che, appunto, “puzza di tutto ciò che era morboso nel più morboso dei secoli”. McNamara e Lanthimos invece scelgono impavidamente di dare totale credito alla storia di Bella, impaginandola in una fastosa fantasia visiva che fa proprio del perturbante la propria ineluttabile cifra. Perturbante è in primo luogo, ovviamente, Bella, creatura/figlia del deforme professor Godwin, demiurgo dal viso deturpato, madre e figlia di se stessa, connubio di un corpo di donna e di una mente infantile, sgraziata nei movimenti e disarticolata – o oscenamente esplicita - nel linguaggio e nelle azioni, corpo estraneo impresentabile e destabilizzante gettato(si) viva e turgida di desiderio nel cuore della società come in precedenza si era gettata per morire nelle acque livide del Tamigi. Ma perturbante, in senso freudiano, è tutto l'universo in cui si trova a vivere la propria avventura umana (?) la bella Bella, tra città (Londra, Lisbona, Parigi) che “sembrano” Londra, Lisbona o Parigi senza esserlo, con una fisionomia artificiale continuamente deviata lungo gli assi del fantastico, sopra le quali (oltre che su un Mediterraneo solcato da una grande nave steampunk che emette fumi color pastello) splendono impossibili cieli psichedelici che sembrano usciti da un anime lisergico; mentre le strade sono attraversate da strani “cavalli a vapore” e i giardini sono abitati da animali che eccedono la possibilità di una reale esistenza giusto quel tanto che basta per risultare definitivamente ripugnanti. Ancora prima, è lo sguardo stesso ad essere deforme e innaturale, con gli ambienti espansi da grandangoli estremi e le prospettive rimodulate e deformate dalle lenti fisheye, come se gli interni fossero ripresi da un numero infinito di spioncini disseminati negli ambienti, mentre un trattamento simile subisce ironicamente anche la colonna sonora, popolata di suoni dissonanti e disarmonici. Nello stesso tempo, Povere creature! è una parabola femminista, o qualcosa del genere. In un mondo di maschi, delimitato ai quattro angoli dal folle Godwin, dall'innamorato Max McCandles, dal libidinoso Wedderburn, del marito/padrone Blessington, Bella nasce, muore, rinasce, evolve, sperimenta i piaceri perversi polimorfi dell'infanzia fino all'esplosione della libido; ma progredisce anche intellettualmente e moralmente, con un'etica tutta personale che le consente di prostituirsi senza alcuna remora (imprenditrice di se stessa che usa il proprio corpo come mezzo di produzione), ma anche di impietosirsi fino a gesti di generosità inconsulta (e ingenua) davanti alle miserie umane. Corpo desiderante e mente (sempre più) pensante Bella è anche un intrepido Pinocchio femmina creata dall'uomo ma all'uomo non più assoggettabile (au contraire...), che da burattino di carne si trasforma alfine in una donna. Una simile storia eccentrica sarebbe stata perfettamente nelle corde di un altro dei grandi autori imprevedibili della contemporaneità cinematografica, Lars von Trier (i titoli dei vari capitoli si accampano su sequenze mute e oniriche che ricordano i paesaggi lisergici e musicali che introducevano i vari capitoli de Le onde del destino), che ha spesso messo in scena il conflitto (culminante forse con Antichrist) tra ragione e istinto, tra un'istanza (pseudo)razionale maschile e una istintiva e affettiva femminile; in definitiva, per tornare di nuovo a categorie e terminologie freudiane, tra un Super-Io autoritario, prescrittivo, catalogatore, regolamentatore e costrittivo, tendenzialmente sadico e un Es desiderante, istintuale, affettivo, anarchico, spesso nella condizione di vittima rispetto al primo. Ma come la Grace imprigionata nell'universo astratto di Dogville che alla fine si ribella, anche la Bella di Povere creature!, errante come un Gulliver ipersessuato nel suo mondo gotico-vittoriano-art nouveau-psichedelico, non ha intenzione di subire le costrizioni (letteralmente) castratrici dei maschi. Lanthimos trova una complice assolutamente superba (entrambi figurano tra i produttori del film) in Emma Stone, creatura polimorfa dagli occhi grandi e dai lunghissimi capelli scuri, che dà spericolatamente a Bella anima e corpo, volto e nudità, gesti sgraziati e andature innaturali, parole nuove appena scoperte ed altre sfacciate e scandalose, accenti grotteschi e umoristici, crudeltà infantili e umana vulnerabilità. Intorno a lei Willem Dafoe, vittima e carnefice, carceriere in fondo permissivo, arrogante e consapevole della caducità umana, chirurgo folle dal volto e dal corpo deturpati dagli altrettanti folli esperimenti paterni, e poi Mark Ruffalo - che condivide con la Stone toni anche comici e quasi buffoneschi pressoché inediti nella filmografia di Lanthimos - e Rami Youssef. In un cast tecnico in gran parte ungherese, spiccano i decisivi contributi del direttore della fotografia Robbie Ryan, che passa con disinvoltura dal realismo minimalista di Ken Loach alla visionarietà barocca di Povere creature!, la scenografia immaginifica di Heath, Price e Mihalek, il trucco curato dal pluripremiato Mark Coulier, i costumi di Holly Waddington. Conquistati tra gli altri riconoscimenti il Leone d'oro a Venezia, un paio di Golden Globes e decine di candidature a premi vari, Povere creature! si presenta agli Oscar con undici nomination. Auguri. PERFECT DAYS di Wim WendersDedico questo articolo a mio papà, che sta vivendo i giorni meno perfetti della sua vita. Nel 1985 Wim Wenders si reca a Tokyo alla ricerca delle tracce del cinema di Yasujirō Ozu. Dal viaggio ha origine un film, Tokyo-Ga (che si traduce, appunto, “viaggio a Tokyo”) in cui Wenders si trova, in una condizione di spiazzamento culturale, a confrontare le immagini del cinema di Ozu, autore rigoroso e astratto per eccellenza (è stato definito “il più giapponese degli autori giapponesi”), con le immagini della città contemporanea, caotica, rutilante, e - agli occhi di un occidentale - a volte kitsch e a volte incomprensibile. Quasi 40 anni dopo, il regista tedesco torna a Tokyo sulle orme di un progetto bizzarro e mai realizzato (un documentario sull'architettura contemporanea dei bagni pubblici di Tokyo) e di una sceneggiatura scritta insieme a Takuma Takasaki. Di Ozu si porta dietro il cognome del protagonista, Hirayama, che è lo stesso della famiglia al centro de Il gusto del sakè, ultimo film del regista nipponico. Ma anche stavolta, Wenders compie (e fa compiere) nel corso del film uno slittamento, attraversando quello un concetto fondamentale dell'estetica nipponica, quello del mono no aware, ovvero “quel sentimento di assorta contemplazione che si vive di fronte alla natura, alle vicende umane e all'accadere delle cose e che porta alla consapevolezza del carattere effimero e transitorio del tutto, a una sorta di dolente e matura accettazione dell'ineluttabilità del cambiamento” (Dario Tomasi a proposito del cinema di Ozu). Perfect Days – il Giappone è una lingua che sembra avere una parola per tutto - potrebbe probabilmente essere definito un shomingeki, ovvero un film sulla gente comune: Hirayama svolge un lavoro umile, occupandosi della pulizia dei bagni pubblici. Tutta la prima parte del film ce lo presenta nella sua vita sempre identica a se stessa, fatta di piccoli rituali: la sveglia, il ripiegamento del tatami, l'innaffiamento delle piantine, le abluzioni mattutine, la pulizia dei denti, la cura minuziosa dei baffi; il viaggio per recarsi al lavoro in macchina, accompagnato dalla musica americana delle sue audiocassette; il lavoro scrupoloso e coscienzioso di pulizia e gli spostamenti da un bagno all'altro; la pausa pranzo su una panchina di un parco, dove scattare una fotografia al sole che filtra tra le mobili fronde degli alberi; la cena nel solito fast food dove è un cliente conosciuto; poi il rientro a casa, la lettura serale disteso a pancia in giù sul tatami, il sonno. I suoi giorni liberi, dedicati alla cura di se stesso, sono altrettanto ripetitivi e rituali: l'indossare l'orologio, che nei giorni di lavoro non porta, ad indicare un tempo che ha valore per sé; la pulizia del corpo in un bagno pubblico; una pedalata in bicicletta al di fuori del traffico urbano dei giorni feriali; la cena in un ristorantino la cui padrona ha un occhio di riguardo per lui. I giorni di Hirayama sono perfetti, perché privi di turbamenti come di desideri. Il suo è un mondo fissato in un cristallo di tempo, che è un tempo passato, intangibile da parte della modernità. Le canzoni che ascolta sono classici americani che non vanno più in là degli anni '70, incise su audiocassette e ascoltate su una vecchia autoradio; per fare le fotografie usa una vecchia macchina analogica con rullino; per muoversi nel tempo libero usa la bicicletta e per lavarsi, ai bagni ipertecnologici che pulisce per lavoro, preferisce vecchi bagni pubblici, dove gli uomini si insaponano e si lavano nudi seduti l'uno accanto all'altro su sgabelli di legno. Ma non è solo la modernità ad essere tenuta al di fuori del mondo di Hirayama; sono anche le persone. Gli unici esseri umani che sembrano interessarlo sono quelli con i quali non è tenuto a comunicare nella maniera naturale: un bambino piccolo che ha perso la mamma, un senzatetto fuori di testa, una ragazza che mangia muta sulla panchina accanto a lui, con l'aria inebetita, uno sconosciuto con cui intrattiene una partita a tris che prevede una mossa ciascuna al giorno, su un foglietto che ciascuno dei due provvede poi a nascondere dietro lo specchio di un bagno pubblico, affinché l'altro lo possa trovare. Lo spettatore occidentale è colpito e affascinato dalla visione di uno stile di vita improntato alla semplicità, alla frugalità, alla correttezza e alla gentilezza, all'attenzione alle piccole cose, in contrapposizione alla vita che ciascuno di noi si trova a vivere, dominata dalla complessità, dall'iperinformazione, dalla smania per le novità tecnologiche, dal consumismo sfrenato, dalla superficialità diffusa. Ma a ben guardare Hirayama è solitario fino al solipsismo, taciturno fino all'afasia, appartato fino all'anaffettività, immerso in un presente immemore fino ad essere completamente privo di prospettiva (alla nipote insegna pericolosamente e con insolita allegria che “adesso è adesso, un'altra volta è un'altra volta”). Facendo un salto mortale all'indietro, Hirayama non è forse così dissimile dal un altro antieroe wendersiano, Philip Winter, un giornalista tedesco che in Alice nelle città fugge dagli Stati Uniti per tornare nella vecchia Europa, e che attraversando una serie di non-luoghi cerca di catturare l'essenza delle cose attraverso il medium freddo della fotografia; salvo poi ritrovare la propria anima, la propria identità e i propri sentimenti solo grazie all'incontro fortuito con una bambina di nove anni che si accompagna a lui per un tratto del suo viaggio solitario. Hirayama tenta a sua volta di catturare l'incatturabile - la permanenza nel cambiamento o il carattere transeunte di una realtà che sembra immutabile - fotografando dal basso verso l'alto le foglie degli alberi, mosse dalla brezza e trafitte da un barlume di sole (ebbene sì, sembra impossibile, ma anche per tutto questo la lingua giapponese ha una denominazione: è il komorebi). Fa sviluppare e stampare e le foto, le inscatola, le etichetta con la data, le archivia in un armadio. E' un tentativo illusorio di incasellare la più effimera delle realtà, di dominare il tempo, di esorcizzare il cambiamento, mentre immagini, sentimenti ed emozioni tornano a mescolarsi nella loro natura caotica nei sogni che vengono a visitare le notti di Hirayama (le riprese dei sogni, in bianco e nero, sono state realizzate da Donata Wenders, moglie del regista, fotografa che predilige la poetica del mosso, del fuori fuoco, del controluce). Ma il cambiamento, inevitabile, arriva, quasi impercettibile: è il bacio di una ragazza che gli sfiora una guancia; sono le dimissioni di un giovane collega di lavoro; è l'arrivo di una nipote ribelle che aspira alla sua compagnia (e che lui denuncia ben presto alla madre benestante, che arriva subito a riprendersela, abortendo sul nascere quell'esperienza di condivisione che invece cambiava la prospettiva esistenziale del Philip Winter di Alice nelle città); è la visione fugace di un abbraccio; è l'incontro non cercato con un uomo malato. Hirayama, di turbamento in turbamento, è costretto ad apprendere che, sia pur impercettibilmente, le cose sono destinate a cambiare. Con l'amico di pochi notturni minuti, gioca a tentare di calpestare invano ciascuno l'ombra l'uno dell'altro, scoprendo che le ombre mutevoli si muovono e sfuggono; e infine rinuncia a riporre le proprie ultime fotografie dietro le ante morte del suo schedario. Per citare un altro titolo storico wendersiano, non è altro che un falso movimento: uno slittamento leggero in una vita che prosegue identica; ma che nella sequenza finale suscita sul viso altrimenti impassibile di Hirayama un turbinare di emozioni che mescolano il riso al pianto, la gioia ad una dolorosa malinconia. Forse anche Hirayama, come Winter - sotto la lente del cinema di Wenders, che fotografa “oggettivamente” e che contemporanea trasforma il proprio “soggetto” di osservazione - ha scoperto di essere un essere umano immerso nella condizione dolceamara, tragica e ridicola, insopportabile e inevitabile, dell'umanità. Hirayama si trovava già d'altronde tra i due poli della poetica wendersiana, l'attrazione per il mondo giapponese e quello americano: tra il rigore formale e la spiritualità dell'Oriente e lo spettacolo delle emozioni e della complessità dell'Occidente. Se Hirayama coltiva in casa il suo piccolo giardino zen, innaffiando amorevolmente piantine in germoglio colte nel giardino di un tempio, le sue frequentazioni letterarie e musicali sono prevalentemente americane. All'arte stilizzata del suo Paese, l'uomo delle pulizie affianca le letture di opere forti, di potente realismo narrativo e psicologico, come quelle di Faulkner o di Patricia Higsmith (sareste molto sorpresi leggendo in Urla d'amore il racconto La tartaruga, con il cui protagonista la nipote di Hirayama dice di identificarsi). E similmente affronta ogni nuovo giorno e ogni levarsi del sole (siamo nel Paese del sol levante...) ascoltando canzoni che parlano in lingua inglese della house of the rising sun o del morning sun che sale su una baia californiana (peccato che il distributore non abbia pensato di fare tradurre i testi delle canzoni); ed è ancora la voce ruvida e dolorosa di Nina Simone a ricordare ad Hirayama che un nuovo giorno inizia, e che ci si può sentire bene - malgrado tutto - in un'alba tutta nuova:
Birds flying high, you know how I feel Sun in the sky, you know how I feel Breeze driftin' on by, you know how I feel It's a new dawn It's a new day It's a new life for me, yeah It's a new dawn It's a new day It's a new life for me, ooh And I'm feeling good SALTBURN di Emerald FennellSaltburn è decisamente un film la cui contemporaneità è testimoniata anche dall'interesse e a volte dall'acceso favore che ha riscosso sui social media. Eppure al suo interno spira una certa aria di déja-vu, forse favorita dall'atmosfera vecchia Inghilterra (che per antonomasia è conservatrice e tradizionalista) che si respira nella magione della famiglia coprotagonista del film. Certo, non si tratta della nobiltà inglese delle buone maniere, del rispetto dell'etichetta e dei tè delle cinque, bensì della versione piena di vizi e tare che si può trovare ad esempio nella saga letteraria della famiglia Melrose raccontata da Edward St Aubyn.
Poi c'è il tema dell'intruso che si insinua in un ambiente sociale per corromperlo e distruggerlo dall'interno: con analogie che vanno dal Teorema di Pasolini Cabaret di Bob Fosse al polacco The Hater di Jan Komasa (se non l'avete visto vi consiglierei di recuperalo), fino a titoli emblematici (anche se forse l'indiretto prototipo è rintracciabile nel cecoviano Il giardino dei ciliegi) come The Servant o Parasite. Per non parlare de Il sacrificio del cervo sacro, dove Barry Keoghan interpretava già il ruolo del corpo estraneo che si insinua come un tumore maligno all'interno di una famiglia allo scopo di distruggerla, cosa che probabilmente ha indotto la regista a fargli indossare un paio di corna cervine durante la lunga scena di una festa. La Fennell imposta da subito la narrazione sul rapporto tra due personaggi maschili, Oliver Quick (che racconta una storia famigliare lacrimevole, tra la reale biografia dello stesso Keoghan e il dickensiano Oliver Twist; ma il personaggio si rivelerà quick, svelto e senza scrupoli, nel perseguire i propri obiettivi) e il fortunato Felix Catton: l'uno (Keoghan, nella realtà figlio di un'eroinomane morta di overdose) povero, brutto e dal carattere non privo di meschinità e ambiguità: l'altro ricco, bellissimo e con un animo aperto e generoso, anche se ovviamente un po' snob (Jacob Elordi, il cui cognome già ingloba la parola lord...), facendolo raccontare dallo stesso Oliver, in un'ambigua cornice narrativa che rimane indecifrabile fino alla fine. Dopodiché segue due strategie narrative: la prima è appunto quella di condurre un racconto cinico e amorale mantenendo un'ambiguità che si dissolverà solo nel finale (nel racconto comunque i conti non tornavano e non era difficile immaginare un twist finale che colmasse i buchi drammatici - e lo fa fin troppo). La seconda è quella di trasmettere il senso di disagio morale anche sul piano visivo, quasi tattile, disseminando il film di liquidi corporei come si trattasse della bava di una lumaca paziente e malefica: con masturbazioni assortite (in coppia o solitarie, tra cui una sulla terra fresca di una fossa cimiteriale), sputi, sudore, sperma, feticismo (è già celebre la scena in cui il protagonista lecca con voluttuosa avidità il buco di scarico della vasca da cui è defluita l'acqua nella quale Felix si è masturbato), cunnilingus conditi di sangue mestruale, fino alla danza finale in totale nudità, con l'evidente obiettivo di épater le bourgeois, cioè di stupire e scandalizzare i benpensanti. Lo schema etico e drammaturgico si rivela speculare e antinomico rispetto a quello del promettente esordio di Una donna (appunto) promettente: lì una giovane donna (Carey Mulligan, che è presente anche qui, quasi irriconoscibile, in un cameo) sacrifica se stessa per un progetto di giustizia e di doverosa vendetta; qui un giovane uomo sacrifica tutti gli altri per un cinico ed egoistico progetto di autoaffermazione. Se nel primo film la Fennel ricorreva ad una simbologia visiva cristologica, mariana ed angelica, qui ovviamente oppone all'inverso un'ironica simbologia demoniaca, come le già citate corna sulla testa di Oliver o il labirinto dentro cui consumare le proprie vittime sotto l'effige incombente di un Minotauro a sua volta cornuto, o la pertinente simbologia animale che decora i titoli di coda con falene, ragni, serpenti, ecc. Di nuovo molta attenta anche la scelta dei brani in colonna sonora, che include titoli che dicono già tutto come Destroy Everything You Touch o Murder on the Dance Floor. Tutto appare però stavolta un po' troppo voluto, con una ricerca dello scandalo un po' troppo insistita e studiata a tavolino; salvo poi scivolare nell'utilizzo di facili cliché, con maggiordomi impassibili e magioni infinite, e soprattutto con la rappresentazione dei ricchi come una congrega di viziati e viziosi, resi vulnerabili e indifesi dalla loro stessa corruzione, omosessuali, bisessuali, ninfomani, depressi, euforici, dipendenti da sostanze, che prendono il sole nudi ma giocano a tennis in smoking con la racchetta in una mano e la bottiglia di champagne nell'altra. Barry Keoghan, che già era balzato all'occhio con una manciata di ruoli da non protagonista (Il sacrificio del cervo sacro, Gli spiriti dell'isola), qui si prende la ribalta relegando i belli (Elordi, la Pike, la Oliver) al ruolo di proprie inconsapevoli marionette. UN COLPO DI FORTUNA - COUP DE CHANCE di Woody AllenWoody Allen ha girato 50 film in poco più di 50 anni; Coup de chance è uscito in Italia quando lui ne ha compiuti 88. Sarebbe un po' azzardato (e anche un po' ingeneroso) aspettarsi quindi qualcosa di completamente nuovo, anche se Allen sforna ancora ogni tanto delle fragranti sorprese.
In Coup de Chance, che vanta comunque il primato del suo primo film girato all'estero con un intero cast di attori non anglosassoni e completamente girato in francese (lingua che Allen ammette di capire un pochino ma di non parlare), ci sono molti elementi che rimandano in un modo o nell'altro alla sua filmografia precedente. C'è di nuovo Parigi ovviamente, come in Midnight in Paris, che sfoggia stavolta uno charme autunnale e un contorno di campagna francese; ci sono sempre il jazz (il tema ricorrente è la Cantaloupe Island di Herbie Hancock) e gli inconfondibili titoli in caratteri Windsor su fondo bianco. E poi ci sono le tematiche. Allen è un nichilista umanista che non si riconosce in nessun tipo di teleologia ed è convinto che la vita sia priva di un senso dato (se non quello che ci sforziamo noi stessi di dargli, eventualmente attraverso l'arte, l'amore, la bellezza, l'umorismo: la differenza tra una vita vuota e una vita insignificante l'aveva già spiegata con sagace leggerezza la Morte in Rifkin's Festival) e sia governata dal caso e dalla fortuna. Nel nuovo film c'è un personaggio che crede che la fortuna non vada attesa passivamente, ma occorra costruirsela da soli con le proprie azioni: una credenza che si rivelerà vera solo fino ad un certo punto. Il riferimento più citato è giustamente Match Point: anche lì una storia di passione adulterine, omicidi, e il caso che la fa da padrone; nel film inglese si parla di una pallina da tennis che colpito il nastro, potrebbe ricadere da una parte o dall'altra della rete, determinando la vittoria o la sconfitta; in quello francese c'è una pallottola che dovrebbe fingersi vagante, e che invece sa benissimo quale bersaglio deve colpire, e una pallottola davvero vagante e svagata che invece non si sa dove andrà a finire. Pallottola che vince, pallottola che perde – e il coup del titolo può essere riferito anche a quello esploso da un fucile da caccia. Anche la molla scatenante di Coup de chance è dovuta alla coincidenza e al desiderio: due ex-compagni di scuola si incrociano casualmente a Parigi, e in lui risorge immediatamente la passione, mai confessata prima, che nutriva nei confronti della bellissima ragazza dei suoi sogni. Da qui, lo sviluppo degli avvenimenti è tutta su una china discendente, dove gli elementi scivolano al loro posto in una dinamica che sembra nello stesso tempo accidentale quanto inevitabile. Ma in Coup de chance c'è pure un'investigatrice dilettante che è convinta di avere scoperto un delitto, come Diane Keaton in Misterioso omicidio a Manatthan; e vedendo il fisique du rôle dell'attrice francese che la interpreta non c'è dubbio che se il film fosse stato girato negli Stati Uniti la parte sarebbe andata all'amica e compagna di sempre. La domanda che ci si potrebbe porre: ma se non ci fosse stata la firma di Woody Allen, sarebbe stato giudicato comunque un bel film? non ha quindi ragion d'essere, dal momento che gli elementi sopra descritti (e altri ancora ce ne possono essere) lo individua senza possibilità di dubbio come un film tipicamente alleniano. L'andamento del film è agile e snello (Allen non va mai molto oltre l'ora e mezza di montato, come non fa mai troppo tardi nelle riprese, che devono finire di norma entro le 5 del pomeriggio) e la sceneggiatura dello stesso Allen è fluida e puntigliosa nel preparare coscienziosamente le fondamenta degli sviluppi drammatici successivi. Un altro valore aggiunto da tenere presente è sicuramente la bellissima fotografia di Vittorio Storaro, splendida nei toni caldi degli interni, che torna a filmare Parigi dopo il mitico Ultimo tango e che, a sua volta ultraottantenne, negli ultimi anni si scomoda solo per i film di Woody Allen. Gli attori sembrano muoversi a loro agio sotto la direzione del regista statunitense: il veterano Melvil Poupaud calca la mano sui toni dark del suo personaggio, mentre a contrasto Lou de Laâge, la “moglie trofeo” ex-ribelle, che cede ad un nuovo travolgente sentimento amoroso, salvo poi sentirsene ingannata, è di una bellezza radiosa e solare. ANATOMIA DI UNA CADUTA (Anatomie d'un chute) di Justine TrietIn Anatomia di una caduta ci sono due cadute, e di conseguenza due esplorazioni anatomiche. C'è una caduta letterale, reale, fisica: Samuel è caduto (si è buttato, è stato spinto) dalla finestra di uno chalet sulle montagne vicino a Grenoble, dove da qualche anno si è ritirato a vivere con la moglie Sandra, facendo convivere l'attività di insegnante, le velleità da scrittore, la ristrutturazione della casa di montagna, la cura del figlio non vedente, il rapporto in crisi con la moglie. E' una caduta che viene esaminata analiticamente, per ricostruirne la dinamica, consultando diversi esperti, riproducendola in simulazioni virtuali (disegni, schemi, filmati) ma anche reali, con l'uso di un manichino al posto del corpo. Ma nello stesso tempo, e ancora di più, la caduta ha un valore metaforico, e trasforma il film nel racconto dell'anatomia di un matrimonio, di un rapporto di coppia entrato in crisi quando il figlio Daniel ha subito un incidente che l'ha privato della vista, della cui responsabilità Sandra accusa ingenerosamente il marito; al dramma sono seguiti i tradimenti di Sandra, che ha avuto relazioni sessuali con altre donne e di cui ha in parte informato il marito. Ad acuire la tensione c'è stata poi la diversa riuscita delle aspirazioni letteraria di entrambi i coniugi: brillante quella di Sandra, che ha pubblicato un libro dopo l'altro, attingendo spesso a piene mani dalla propria vita famigliare e dalle sofferenze ad essa legata; fallimentare quella di Samuel, che non è mai andata oltre la stesura di qualche progetto abortito, e la cui mancata riuscita lui imputa alla moglie, che non gli avrebbe dato il tempo necessario per poter dedicarsi alla scrittura. La sceneggiatura di Justine Triet e di Arthur Harari si concentra in modo analitico sulle diverse modalità di percezione della vita di Sandra e Samuel e del loro rapporto di coppia. A parte le foto di famiglia e un corpo esanime nella neve, Samuel è assente dal film, sia quando è in vita che ovviamente dopo la sua morte prematura, salvo comparire tardivamente in un lunga scena ambientata nel passato; tutta l'attenzione è concentrata su Sandra, ben presto sospettata di omicidio, a causa della strana dinamica che ha portato alla morte di Samuel, e sul figlio Daniel, oltre che sui personaggi (giudici, avvocati, investigatori, testimoni, funzionari) che cercano di ricomporre il puzzle intimo delle loro scene da un matrimonio. Il fascino paradossale del film deriva dal fatto che gli sceneggiatori e la regista non ci portano mai nell'interiorità di Sandra, lasciandoci costantemente nel dubbio riguardo la sua colpevolezza; la Triet sembra mettersi dei panni di uno degli spettatori, che assiste al tentativo di accertamento della verità, con la l'unica prerogativa di avere accesso ai differenti punti di vista, alle diverse percezioni della storia tra Sandra e Samuel e alle diverse ipotesi sulla morte di quest'ultimo. Il racconto ha un'apparente linearità (c'è un solo flashback), ma costruisce intorno all'ellisse centrale e fondamentale (l'omissione della scena primaria della morte di Samuel, che avviene fuori dal campo visivo e narrativo) un vero e proprio caleidoscopio in cui la storia dei due coniugi, e la personalità di Sandra, emergono gradualmente, per frammenti, senza mai dare una visione totale e definitiva. Ricostruire l'insieme dei punti di vista offerti del film è davvero sorprendente. Gli stessi protagonisti della tragedia, Samuel e Sandra, messi a confronto l'uno contro l'altro in una lunga scena di dialogo (un flashback scaturito da una registrazione audio di una loro discussione, presentata al processo), rivelano una percezione completamente opposta ciascuno dell'altro, della loro relazione, e dei motivi della crisi che ormai li divide. Il figlio ipovedente (se la cecità spesso nel cinema è una metafora, viene da dire che forse Daniel è il personaggio che alla fine “sa vedere” cosa – forse - è successo realmente) deve ricostruire attraverso l'udito e il sentimento che cosa sta succedendo o è successo tra suo padre e sua madre. Ma la relazione tra i due è raccontata per suggestioni anche nei libri scritti da Sandra, dove gli spunti autobiografici vengono forzati ad essere interpretati come conferma dei suoi sentimenti ostili verso il marito e dei suoi propositi omicidi. Una raggiera di altri punti di vista sono forniti dagli altri personaggi coinvolti: l'avvocato amico di gioventù di Sandra, e tacitamente innamorato di lei, ma in fondo in dubbio rispetto alla sua innocenza; l'accanito procuratore che vuole dimostrare la sua colpevolezza; il giudice che scruta tutti dall'alto del suo scranno; una giovane che si era recata ad intervistare Sandra nel suo chalet, forse oggetto di un tentativo di seduzione da parte della scrittrice; Marge, la giovane funzionaria incaricata di convivere con Sandra e Daniel (quest'ultimo è contemporaneamente un testimone chiave ma anche il figlio dell'unica indiziata) durante il periodo di svolgimento del processo; e poi i vari testimoni chiamati a dire la loro opinione o gli esperti che devono fornire le loro valutazioni tecniche; e, infine, ma importantissima, la registrazione audio che getta una luce (solo uditiva per gli spettatori del processo, messa in scena invece nel già citato flashback per quelli cinematografici) sulle tensioni tra i due coniugi, talmente ambigua da non riuscire neppure a chiarire con certezza chi, al termine di un diverbio sempre più acceso, abbia colpito chi. A moltiplicare il gioco degli specchi, perfino le lingue parlate sono due - il francese e l'inglese, come lingua mediana tra i due coniugi, uno francese e l'altra tedesca – e i nomi di moglie e marito sono gli stessi degli attori che li interpretano. La Triet alla fine si schiera e il film, senza sciogliere completamente tutti i dubbi degli spettatori, fornisce un finale comunque consolatorio, dove i sentimenti di molti dei personaggi sembrano convergere in un'unica direzione. I sentimenti, appunto, poiché in una realtà frantumata e indecidibile, alla fine, come Marge suggerisce a David, è solo il sentimento che può indicare la giusta direzione. Il film non è un thriller, come alcuni spettatori meno avveduti sembrano aver creduto, forse ingannati dalla locandina del film (che peraltro ha vinto la Palma d'oro al Festival di Cannes), ma regge benissimo per le due ore e mezzo di durata la tensione psicologica, prima durante le indagini preliminari, e poi nell'avvincente dramma giudiziario che occupa la seconda parte. A parte qualche zoomata un po' brusca e incongrua, alla riuscita del film contribuisce non poco la prova degli attori: al centro c'è ovviamente Sandra Hüller (già pluripremiata nel ruolo della figlia del bizzarro protagonista in Vi presento Toni Erdmann di Maren Ade), fredda e appassionata insieme, sospesa nell'ambiguità di un carattere di cui si fatica a cogliere appieno la verità e sul crinale di un personaggio non simpatico che pure finisce per suscitare empatia negli spettatori e nelle spettatrici; intorno a lei un convincente gruppo di attori tra cui Swann Arlaud (l'avvocato difensore), il giovanissimo Milo Machado Graner, nel ruolo del figlio David, e Samuel Theis, nel ruolo del marito, in una sola ma appassionata sequenza. THE PALACE di Roman PolanskiPolanski ha avuto tra le sue corde, fin dai suoi esordi, quella del grottesco: ed è un tono che - a volte dominante, a volte come sfumatura - ricorre lungo la sua filmografia.
Il grottesco pervade interamente The Palace fino a non lasciare più nessuna via d’uscita, lo sommerge come la neve sommerge tombalmente l’albergo di montagna dove si svolge l’intero film. Il film potrebbe essere interpretato come la chiusura di un cerchio rispetto a Che?. Di nuovo, come nel 1972, un luogo di villeggiatura (là una lussuosa villa a Capri, qui un lussuoso albergo sulle Alpi), di nuovo (e come spesso accade nei film di Polanski), un luogo chiuso e claustrofobico (un cul de sac, tanto per citare un altro dei suoi titoli), di nuovo un gruppo di ricchi personaggi bizzarri che si affollano all’interno, di nuovo un miliardario morente, di nuovo la satira feroce e ghignante di un mondo corrotto e declinante. Di nuovo, perfino – sarà una coincidenza? - una coproduzione a partecipazione italiana. Che? Non era piaciuto molto all’epoca, tanto meno è piaciuto The Palace. La differenza, forse, è che Polanski oggi ha novant’anni, e quello che allora era un divertito excursus satirico oggi è un ultimo valzer che malgrado le risate a denti stretti ha un retrogusto un po’ funereo e senile. Quello che manca stavolta è il personaggio giovane e innocente capace di stupirsi di un mondo assurdo e ridicolo. Là una ventenne e sfolgorante Sidney Rome attraversava la galleria di mostri con stupore e meraviglia, e alla fine riusciva a sfuggire ad un mondo immobile che replicava i propri futili riti come i borghesi de L’angelo sterminatore, che Buñuel aveva chiuso in sontuose stanze una decina di anni prima. Qui Sidney Rome c’è ancora, ma come autocitazione temeraria, come maschera grottesca, con il viso invecchiato sfigurato dalla chirurgia estetica. Al posto di un Mastroianni che andava deprivato del suo charme, qui ci sono Barbareschi, che “mostruoso” lo è già consapevolmente di suo, e un MickeyRourke sformato dall’età e dagli interventi plastici. L’Alice nel paese delle meraviglie di un tempo ora è una giovane bene in carne che rimane incastrata sul pene dell’amante miliardario, infartuato per troppo Viagra, e che poi deve fingere di tenerlo in vita fino alla mezzanotte per far decorrere il termine per riscuotere l’eredità. Tra echi da fine del mondo e timori per il big bang del millenium bug, all’orizzonte della Storia, o della sua fine, si affaccia beffardamente dagli schermi televisivi il giovane Vladimir Putin - nominato Presidente erede da un Elstin bollito che decide di dare le proprie dimissioni il 31 dicembre 1999, l’ultimo giorno del millennio – che promette libertà di parola, di coscienza e di opinione: un momento di satira acerrima che non ha bisogno di aggiungere niente alla realtà. Giocando con le parole e le etimologie, le situazioni scatologiche del film, che ci sono e hanno fatto citare ad alcuni critici il cinema dei fratelli Vanzina, sembrano funzionali ad un’escatologia disillusa, disincantata, eppure ancora con il ghigno sulle labbra (come il miliardario di cui sopra, morto durante l’amplesso con un sorriso beato stampato sul volto cadaverico, oppure come l’anziana russa ritratta anche sul manifesto, che crolla ubriaca con la guancia spiaccicata sopra la montagna di caviale che ha nel piatto). The Palace (Hotel) non è più il luogo del circolo vizioso e dell’eterno ritorno di Che?; è invece il luogo della catastrofe, di nuovo inteso in senso etimologico. E’ il luogo da cui non si esce (e c’è chi rimane imprigionato due volte, dentro il sotterraneo/cassaforte, la cui chiave serve per entrare ma non per uscire), definitivamente. Un vuoto pneumatico riempito solo da volgarità, da una ricchezza inutile, e dalla decrepita illusione teratogena di un’eterna giovinezza, sommerso dalle musiche melense e fiabesche di Desplat e, dopo l'ultimo sberleffo, da una montagna di neve, bianca come la morte. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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