THE RIDER - IL SOGNO DI UN COWBOY di Chloé ZhaoC'era una volta il western crepuscolare. Nato alla fine degli anni '60 e sviluppatosi soprattutto negli anni '70, nel periodo della New Hollywood e del radicale processo di revisione dei generi classici, sotto la pressione anche della riscrittura eterodossa dello spaghetti-western, il western crepuscolare rileggeva l'epopea e la mitologia del western classico in maniera critica e problematica. Fanno parte delle caratteristiche del genere la presenza di eroi stanchi e disillusi, o problematici e dalla moralità ambigua; la rivalutazione della cultura e dei diritti (negati) dei nativi americani; i toni elegiaci e antieroici; oltre a una rappresentazione della violenza più esplicita, realistica e brutale. Alcuni di questi tratti si ritrovano nel film della regista cinese trapiantata negli Stati Uniti Chloé Zhao, che ritorna sui luoghi e all'ambiente del suo precedente Songs My Brothers Taught Me, all'interno della riserva di Pine Ridge, nel South Dakota. Qui vive la comunità Lakota, uno dei gruppi che compongono la grande tribù dei Sioux, e che ha avuto capi celeberrimi come Nuvola Rossa, Toro Seduto o Cavallo Pazzo. Una dozzina d'anni fa ebbe eco internazionale la rivolta di Pine Ridge, con la quale gruppi di Lakota contestarono i trattati con il Governo americano, accusato di rubare ai nativi cultura, terre e capacità di mantenere il proprio stile di vita. The Rider ci riporta nei dintorni de L'ultimo buscadero, il film di Sam Peckinpah del 1972 ambientato tra i cavalieri di rodeo e interpretato da Steve McQueen, che già inquadrava un'America marginale e in certo senso residuale, dove i miti romantici della virilità e della wilderness si confrontavano con l'America moderna del capitalismo e della società dello spettacolo. In più Zhao, con il suo sguardo da “esterna”, posa come dicevo la sua attenzione su un protagonista (e quanti lo circondano) doppiamente outsider: anacronistici nel loro attaccamento ad un mestiere folle e pericoloso come quello del buscadero, e in più stranieri nella propria terra, sospesi tra la dimensione panica del rapporto con la natura e con gli animali degli antenati e il mondo moderno con le sue dure regole economiche, le sue futili e distruttive tentazioni (il padre del protagonista sperpera i soldi di famiglia nelle slot machine), la sua mancanza di poesia e di naturalità. Brady Blackburn, il giovane protagonista, porta letteralmente sulla propria testa tutte le sue contraddizioni: il cappello da cow-boy e la piuma da pellerossa; lo sguardo fiero del domatore di cavalli selvaggi e una placca metallica che ripara la ferita che si è procurato durante una gara e che gli ha provocato danni neurologici che probabilmente gli impediranno per sempre di tornare a cavalcare e a gareggiare nei rodeo. La condizione esistenziale del giovane è rappresentata iconograficamente dalla regista nel rapporto tra la sua figura e gli ambienti circostanti, che sono essenzialmente quattro: gli spazi angusti e soffocanti della casa mobile in affitto (simbolo di un nomadismo paralizzato e reso stanziale, di una precarietà cristallizzata) in cui vive, dopo la morte della madre, con il padre - con cui intrattiene un difficile rapporto - e con la sorella minore, afflitta dalla sindrome di Asperger; il supermercato dove trova un lavoro di ripiego, avendo dovuto rinunciare almeno temporaneamente alla sua vocazione, e dove è inquadrato spesso dal basso in alto, a mostrare i soffitti claustrofobici da cui piove l'innaturale luce fredda dei neon; gli immensi spazi aperti, con le praterie e le formazioni rocciose, dove è inquadrato invece a più riprese in campo lungo, al centro o al margine di una natura aspra e selvaggia, sotto cieli spesso temporaleschi o crepuscolari; l'ospedale, dove va a trovare l'amico Lane Scott, paraplegico dopo un incidente di rodeo (Scott interpreta se stesso ma in realtà la sua menomazione è dovuta a un incidente automobilistico), in cui Brady vede come in uno specchio deformante da una parte un pezzo del suo passato (sui monitor i due amici guardano le riprese delle gare di rodeo), dall'altra l'immagine ancora più terribile di quella che avrebbe potuto essere la sua condizione dopo l'infortunio. Brady e i suoi compagni si ritrovano intorno al falò, in mezzo al nulla apparente, a raccontarsi di cadute e incidenti e dei danni subiti come di una normale routine, come della inevitabile normalità della vita. O come di un destino. I personaggi enunciano esplicitamente la loro visione escatologica e fatalista dell'esistenza: “Io penso che Dio abbia creato gli esseri con uno scopo” dice all'incirca uno. “Quello dei cavalli è di correre nella prateria, quello dei cow-boy è di cavalcare”. E in un altro punto viene detto, con una costatazione amara ma con il senso della ineluttabilità, “Noi cavalchiamo il dolore”. Lo stesso Brady tenta con ostinazione, con disperazione, di difendere la propria natura (inculcata dal padre e interiorizzata come un mito familiare, culturale antropologico ed esistenziale), il proprio sogno e il proprio destino: domare cavalli, correre libero nella prateria, misurarsi con se stesso e con le forme brutali in cui si manifesta la natura, cavalcando finché non se ne viene disarcionati cavalli e tori selvaggi. Fino a quando, sotto gli occhi del padre e della sorella, sarà costretto alla scelta finale, a decidere se dimostrare la propria forza e la propria capacità di resistenza provando fino all'ultimo a seguire il proprio destino, oppure se farlo attraverso un estremo atto di rinuncia, e crearne uno nuovo. La regista, in campo lungo, pudicamente, regala nel finale a questa strana famiglia un abbraccio, l'unico. Padre e figlio dovranno imparare a riconoscersi e a cavalcare a testa alta il futuro, quale che esso sia.
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BURNING - L'AMORE BRUCIA (Beoning) di Chang-dong LeeBurning ha una combustione molto lenta. Si muove adagio, indugia, si perde in meandri inessenziali. Come molti film coreani, ha una durata eccessiva, che sfiora le due ore e mezza. Prima che le fiamme inizino ad ardere, ce ne vuole del tempo. L'interesse dello spettatore cresce lentamente, ipnoticamente, se non si è già smarrito nel frattempo. La narrazione si muove secondo un doppio movimento. Il primo è lineare (boy meets girl). Jong-Su - un campagnolo che tira avanti facendo lavori di fatica ma che sogna di diventare uno scrittore - conosce una ragazza, Haemi. Anzi, è lei a riconoscerlo: da piccoli abitavano nello stesso villaggio e lei gli racconta episodi che lui non ricorda: lui le disse che era brutta, lui la salvò dopo che a sette anni era caduta in un pozzo. Con la scusa di dare da mangiare a un fantomatico gatto, lei lo attira a casa sua e nel proprio letto. Quando torna da un viaggio in Africa, Haemi è accompagnato da una nuova conoscenza, Ben. Ben è giovane, ricco, affascinante. Tra i tre si instaura un rapporto di amicizia, ma Ben è un rivale troppo forte per Jong-Su, che pure è ormai innamorato di Haemi. Poi c'è una cesura. Haemi balla a seno nudo davanti ai due giovani, disegnando movimenti armoniosi contro la luce del tramonto. Poi scompare. Da quel momento il film prende un movimento spiraliforme. Il racconto, e Jong-Su, cominciano a girare in tondo, stringendosi sempre più verso un punto focale, che vede al centro Ben e non più Haemi. Tutto si ripete. Jong-Su torna in tribunale al processo del padre, i suoi pedinamenti si avvitano infruttuosi, i suoi sopralluoghi lo riportano più volte alle serre che Ben ha affermato di divertirsi a incendiare (ma le fiamme che si vedono sullo schermo sono ben poche), o a girare intorno ad un pozzo che forse non esiste e non è mai esistito; compare una seconda ragazza che non è più Haemi, Jong-Su vede Ben sbadigliare di nuovo. Pur in un contesto sociale puntualmente caratterizzato (il contrasto tra città e campagna, tra ricchi e poveri, il mondo del lavoro precario, la presenza fantasmatica della propaganda del Nord – già un doppio maligno -, il consumismo di bassa lega), Burning diventa un racconto sempre più astratto. Che conduce a due film epocali del cinema occidentale. La narrazione è è disseminata di falsi indizi, di realtà apparenti. La stessa Haemi è il fulcro di una serie di falsi indizi, di racconti non verificati: forse è caduta in un pozzo, forse no; forse c'era un gatto a casa sua, o forse no. Anche le parole hanno uno statuto ambiguo. Ben parla di serre incendiate, ma forse usa cinicamente un'atroce metafora che Jong-Su non osa interpretare. Come in Blow Up (e poi in modo diverso ne La conversazione di Coppola) in Burning la realtà appare ambigua, indecifrabile, illusoria. Forse c'è stato un delitto; forse no. L'uomo cerca di decifrare una realtà che si fa beffe di lui. Il film di Antonioni si conclude davanti a un campo di tennis dove due mimi giocano una partita con una pallina invisibile agli occhi; all'inizio di Burning Haemi davanti agli occhi stupiti e affascinati di Jong-Su – aspirante scrittore di romanzi, quindi potenziale inventore di storie immaginarie – sbuccia e mangia un mandarino che non esiste. Diversi sono i modi di indagine (la fotografia in Blow Up, le intercettazioni acustiche ne La conversazione, la ricostruzione mentale in Burning – di nuovo, Jong-Su è un romanziere e quindi quella che viene ricostruendo è una trama romanzesca), ma la realtà continua a sfuggire e a non farsi ingabbiare in una costruzione ermeneutica. Jong-Su è irretitito da una donna che ha forse una vita immaginaria, e che ad un certo punto scompare (“come un filo di fumo” dice allusivamente Ben). Per Jong-Su inizia allora un movimento vertiginoso, in una ricerca che si svolge a circoli viziosi. Accadeva la stessa cosa a Scotty ne La donna che visse due volte, anche se Haemi a differenza di Madeleine/Judy non resusciterà o non ricomparirà più. Come in Vertigo, i pedinamenti portano Jong-Su in un museo; come quello di Madeleine, il passato di Haemi appare ambiguo e forse irreale. C'è forse un pizzico di Hitchcock anche nel movimento all'indietro della mdp, che esce dalla finestra di Jong-Su seduto davanti alla tastiera del pc per allontanarsi dall'edificio e inquadrare la città, che sembra citare al contrario la sequenza iniziale di Psyco, dove la panoramica sulla città diventa un movimento in avanti della mdp che si avvicina ad un edificio per penetrare infine dalla finestra nella camera dove si trovano Marion e il suo amante. Psyco ci porta a sua volta al tema del doppio. Se Haemi era il doppio amoroso di Jong-Su, la sua potenziale metà, il suo oggetto del desiderio perduto, Ben è a sua volta la metà oscura di Jong-Su, la sua ombra negativa. Ben è tutto quello che Jong-Su non è: ricco mentre lui è povero, annoiato da Haemi tanto quanto Jong-Su ne è affascinato; Jong-Su regala l'orologio a Haemi mentre Ben glielo sottrae; è spregiudicato e libero nelle sue azioni quanto Jong-Su si sente impacciato e gravato da colpe non sue (la separazione dei genitori, la condanna del padre). Iconicamente, la distanza tra i due è marcata dall'abbigliamento o dai mezzi con cui i due giovani si muovono, uno scalcinato camioncino contro una Porsche fiammante. Jong-Su si misura quindi in una lotta contro la propria ombra, in un regno di ombre dove Haemi non c'è più, il passato è una terra mobile senza punti di appiglio, e dove molti indizi non arrivano mai a costituire una prova. Quando Jong-Su compie la sua giustizia immaginaria, si spoglia di tutti i propri vestiti e li brucia nel rogo della propria ombra maledetta; ripetendo sia il rogo con cui il padre lo costrinse a celebrare il distacco dalla madre che l'ha abbandonato sia i roghi (mai visti e forse inventati) che Ben ha detto di appiccare per mero divertimento; e nello stesso tempo bruciando simbolicamente una parte di sé. In un rogo romanzesco, che in fondo in fondo nessuno ci costringe a prendere per vero. 0. Tempo di bilanci Siamo oltre Ferragosto, anche le arene estive si apprestano a sbaraccare, e la stagione cinematografica 2018/19 è ormai pronta a entrare negli archivi. Ecco il mio bilancio. Io ho visto un'ottantina di film della stagione, quasi tutti al cinema (qualcuno su Netflix), oltre ad una dozzina (in festival e rassegne) di inediti. Ovviamente non ho visto tutto, e sono ben lungi dall'aver visto gran parte, o per lo meno tutto il più interessante; ma credo abbastanza per avere un'idea complessiva della stagione. Penso di non avere molte preclusioni, ma in genere in realtà non vado a vedere i film di supereroi, gli horror, le commedie per il pubblico femminile, i film per adolescenti, le commedie italiane paratelevisive, ecc. Mi manca anche qualche film di autori che amo o amavo, come gli ultimi di Lars von Trier o di Jim Jarmusch, la cui visione ho procrastinato una volta lette le recensioni e le reazioni che hanno suscitato. Verrà il loro tempo, comunque questo è il motivo per cui non compaiono in nessuna delle seguenti categorie. 1. I film-specchio Ci sono alcuni film, a volte usciti a poca o pochissima distanza di tempo l'uno dall'altro, che nella stagione sembrano rimare tra loro. A volte solo apparentemente. Ride e Ride hanno lo stesso titolo, ma uno, quello di Rondinelli, si legge all'inglese, l'altro, di Mastandrea al suo debutto nella regia, all'italiana. E infatti: i due film si trovano agli antipodi l'uno dell'altro: tanto il primo è frenetico, tutto azione e montaggio forsennato, descrivibile solo con una sfilza di termini anglosassoni (action, mistery, lost, downhill, body cam, you tube, videoclip, ecc.), quanto l'altro è fatto di pause, di silenzi, di inespresso, di sottotoni. Il primo frastorna senza trovare un senso, il secondo rischia di farci sprofondare nell'atarassia della sua protagonista in lutto. Ride di Rondinelli rima anche con un altro film della stagione, per il modo in cui entrambi sfidano il linguaggio cinematografico con il modo di vedere, e di raccontare, delle nuove tecnologie: il secondo è Searching, di produzione statunitense (con protagonista di origine coreana), tutto girato come se la mdp riprendesse le schermate di un pc, tra app, finestre, schermate multiskating, videochiamate, notiziari on line, ecc. Un modo per riflettere su quanto poco conosciamo le persone che ci stanno più vicine, ma anche sulla pervasività nelle nostre vite delle nuove tecnologie e su quanto esse si stiano trasformando in un'autorappresentazione ad uso dei social media. L'esordio di Mastandrea può fare il paio anche con il film della Golino (al secondo lungometraggio), due attori italiani che si cimentano con la regia mettendo in scena rispettivamente lutto e malattia, cercando di giocare su toni tra dramma e commedia. Risultati non esaltanti, meglio comunque Euforia di Ride, ma entrambi i registi potrebbero maturare ulteriormente. Il cinema sudamericano d'autore invece sembra ripiegarsi a rileggere temi da telenovela. Segreti e rilevazioni, amori e odii famigliari, tradimenti, cambi d'identità, perdite e agnizioni. Due sorelle – che si ritrovano – sono al centro de Il segreto di una famiglia, un passo falso nella filmografia dell'altrove ottimo regista argentino Pablo Trapero; due sorelle – che si perdono – sono al centro del brasiliano La vita invisibile di Isabel Gusmao, tecnicamente non di questa stagione ma che uscirà a giorni. Ancora famiglie problematiche in due film americani usciti da noi a pochi giorni di distanza l'uno dall'altro (e accomunati anche dall'avere le parole dei rispettivi titolo che iniziano tutte con la lettera B...). Genitori coraggiosi in lotta per salvare i giovani figli maschi tossicodipendenti: una è Julia Roberts, madre coraggio in Ben Is Back; l'altro è Steve Carell padre portato allo sfinimento dal suo Beautiful Boy. Film sentiti dai rispettivi registi, a volte con elementi autobiografici, retti dalla forza delle interpretazioni. I giovani sono Hedges e Chalamet. Ancora a pochi giorni di distanza escono in Italia due film che trattano della questione israelo-palestinese e dell'impossibilità, nel suo contesto, di tenere separata la vita privata da quella pubblica e da una dimensione politica onnipervasiva. Uno in chiave di commedia, Tutti pazzi a Tel Aviv, l'altro di dramma, Sarah e Saleem. Il primo ha uno spunto brillante, ma lo svolgimento non lo è altrettanto; il secondo è decisamente migliore, con uno sviluppo narrativo a cerchi nell'acqua che ricorda il cinema dell'israeliano Fahradi. Da vedere. Si sono scontrati direttamente anche i due biopic su due delle star del rock britannico più famose e idolatrate, Bohemian Rapsody e Rocketman. Sviluppo narrativo a tappe comuni, nella descrizione della dura ed esaltante strada verso il successo, e anche nella scoperta della relativa omosessualità. Del resto Dexter Fletcher, regista di RM, ha lavorato anche al completamento di BR dopo l'abbandono di Bryan Singer. Io ho preferito il film su Elton John (più libero, più musical, più inventivo) a quello su Freddy Mercury, ma ammetto che questo l'ho visto in un momento in cui ero un po' distratto da problemi personali. Da citare lo sforzo mimetico dei due interpreti, Rami Malek per Freddy e Taron Egerton, che ricanta di persona le celebri hit, per Elton. Doppio adattamento da Ian McEwan, che continua ad essere corteggiato dal cinema anche per le sue opere meno cinematografiche. Escono quasi contemporaneamente Chesil Beach, alla cui sceneggiatura ha collaborato lo stesso scrittore, e Il verdetto (da La ballata di Adam Henry). Non imperdibili; debole il primo, meglio il secondo, anche e soprattutto grazie alla presenza di Emma Thompson. Un altro accoppiamento un po' arbitrario: mi è capitato di vedere a pochi giorni di distanza Lontano da qui e La donna elettrica: qui ad accomunare i due film ci sono le protagoniste femminili, che adottano “a fin di bene” strategie decisamente eccessive: una rapisce un bambino piccolo per tutelarne la vena poetica, l'altra mette in atto perniciosi sabotaggi per combattere lo snaturamento industriale delle vergini terre islandesi. Discutibili. La stagione 19/20 a sua volta si apre a settembre con altri due film-specchio: Yesterday e Blinded By the Light, dove ragazzi di origine asiatica vivono nel segno del pop-rock occidentale: sotto il segno dei Beatles e di Bruce Springsteen. Trovate le recensioni, come quelle della quasi totalità dei film citati in questo e nei prossimi articoli, su Into the Wonderland (v. colonna a lato). Vai alla seconda parte: le delusioni d'autore e da Oscar e i peggiori film della stagione o alla terza parte: le conferme d'autore e i film da vedere o alla quarta parte: il poker d'assi dei migliori LA STAGIONE CINEMATOGRAFICA 18/19, SECONDA PARTE: DELUSIONI D'AUTORE E DA OSCAR. E I PEGGIORI8/21/2019 3. Delusioni d'autore Non sono poche. Gus van Sant con Don't Worry, biografia di un vignettista politicamente scorretto, alcolista e paraplegico, fa un film singolarmente poco ispirato; Laurent Cantet oscilla tra dramma psicologico alla francese, thriller e dimensione sociopolitica, ma ci fa solo perdere tempo con L'atelier; Laszlo Nemes (che aveva fatto gridare al capolavoro molti con Il figlio di Saul, racconto sull'irrapresentabilità dell'Olocausto) scivola nel manierismo con Sunset; Costanzo morde il freno con L'amica geniale, stretto tra letteratura, televisione e teatro; Virzì mescola autobiografia, satira dell'ambiente cinematografico, racconto di formazione, giallo e commedia in Notti magiche, film che si è palesemente divertito più lui a fare che noi a vedere; lo stesso dicasi per Robert Zemeckis: interessante dal punto di vista metalinguistico, il suo Benvenuti a Marwen sembra a volte un gioco un po' onanistico e fine a se stesso. Luchetti rende trascurabili i suoi Momenti di trascurabile felicità; l'iraniano Panahi, condannato a non girare più film, e di conseguenza molto coccolato dal mondo del cinema, propone un nuovo apologo con Tre volti, ma sinceramente ha fatto di meglio. Visivamente sempre smagliante, ma comunque deludente il Cold War di Pawlikowski, che viene dopo un autentico capolavoro come Ida. Il messicamo Ruizpalacios, dopo Gueros, con Museo continua a girare in tondo (forse sulle tracce di Bolano) e fa girare in tondo i personaggi e noi spettatori. Sbagliano tutti, probabilmente per poco amore, l'accostamento al cinema di genere Guadagnino, McQueen e Audiard. Clamorosamente il primo, con un inutile, stucchevole e assolutamente non spaventoso remake di Suspiria, classico dello spaghetti-horror firmato da Dario Argento; moderatamente il secondo, con Widows, un crime al femminile levigato ma piuttosto inutile; più dignitosamente il terzo, con una rilettura molta più interessata ai personaggi e alle loro dinamiche psicologiche e psicoanalitiche che al genere western, con I fratelli Sisters. 4. Delusioni da Oscar Mi hanno deluso anche diversi film candidati agli Oscar. Ho trovato bolso e ben poco interessante Copia originale, piuttosto loffio A Star Is Born malgrado l'afflato divistico di Lady Gaga e la presenza carismatica (anche dietro la mdp) di Bradley Cooper, sinceramente “una boiata pazzesca” Black Panther, afroamericanizzazione interessata ma non interessante del cinema di supereroi. Discorso a parte per Green Book, forse uno dei film più sopravvalutati dell'anno. La strana coppia in viaggio, i caratteri opposti che poi finiscono per avvicinarsi, il bianco e nero che imparano a riconoscere ed apprezzare le rispettive differenze. Tutto legittimo, ma anche tutto scontato. Antirazzismo color pastello, che evita il disturbo di confrontarsi (come fa Spike Lee, pur con un film ambientato negli anni '70) con l'oggi. 5. I peggiori E' un paragrafo che forse avrei potuto risparmiarmi, per evitare di infierire, ma tant'è. Non credo che un articolo su Into the Wonderland possa fare del male a qualcuno. Il film italiano che più mi ha spazientito è Ride di Rondinelli, di cui ho già parlato in un paragrafo precedente. Ho smesso di credere che il film potesse avere un senso dopo i primissimi minuti, e il non ricevere mai, per tutta la durata, un solo motivo per cambiare idea ha reso la visione un'insofferente sofferenza, per dirla con un gioco di parole. Il peggior film europeo, o meglio, quello che più mi ha irritato, è stato il francese Un figlio all'improvviso. Anche qui stesso discorso. Dalla scena del palesamento del sedicente figlio al supermarket in poi, è tutto un disastro che non fa che peggiorare via via. A volte dovrei uscire dal cinema. Non so perché non lo faccio. Spero sempre che la prima impressione possa essere sbagliata, anche se in cuor mio so già che non sarà così. Il peggior film americano? Come ho detto non amo i film di supereroi; ho guardato Black Panther incuriosito dalle candidature all'Oscar. Ecco. Una baracconata pretestuosamente riverniciata in stile afro e jungle. Una conferma ai miei pregiudizi antisuperomistici. Il peggior film del mondo? Fate voi. Torna alla parte prima, dove trovi l'introduzione e i film-specchio o prosegui alla parte terza, dove trovi le conferme d'autore e i film da vedere o alla parte quarta, con il poker d'assi dei film del cuore 6. Gli autori Kore'eda è un autore che non so perché mi fa venire sonno, ma riconosco i pregi di Un affare di famiglia. Assayas, con Il gioco delle coppie (o Double vies, o Non-fiction, come recitano i titoli francese e internazionale) dirige un film intellettuale (più che intellettualistico), tutto di parola, con un bel gruppo di attori, molto francese, dotato di ironia, molto godibile, in cui si mescolano disquisizioni sul futuro dell'editoria nell'era del digitale o sulla liceità della letteratura autobiografica e la ronde degli amori clandestini. Chazelle, molto atteso dopo l'exploit del delizioso capolavoro La La Land, propone First Man, che segue Neil Armstrong nella conquista della luna: un film molto personale, con una sua intimità e profondità; da tenere d'occhio Claire Foy, che qui interpreta la moglie dell'astronauta. L'iraniano Farhadi ha realizzato Tutti lo sanno in una discussa trasferta spagnola, con star del calibro di Xavier Bardem e Penelope Cruz: sicuramente non è il suo film migliore, ma il risultato è dignitoso, e le critiche rivoltegli eccessive. Clint Eastwood è uno degli autori che reputo più sopravvalutati in assoluto; ma quando rimette in gioco il suo viso segnato, il suo corpo segaligno, il suo carattere burbero e indipendente, la sua icona e la sua leggenda, come in Gran Torino o in questo The Mule – Il corriere, continua a fare il suo effetto. Il cileno Sebastian Lelio si cimenta in una prova che sembrava inutile: quella di rifare tale e quale il suo Gloria; cambia leggermente il titolo, Gloria Bell, cambiano il contesto (Los Angeles al posto di Santiago) e gli attori (qui Julianne Moore, perfetta e smooth al posto della pur brava ma più spigolosa Paulina Garcia), ma la sceneggiatura e la storia della sua antieroina avanti con l'età ma ancora assetata di vita e d'amore rimangono pressoché identiche. Ne esce, per la seconda volta, un buon film. Cafarnao, della libanese Labaki (Caramel), è un po' enfatico e programmatico, ma efficace nel raccontare il Libano di oggi e gli ultimi della terra (donne, profughi, poveri, bambini). Bellocchio torna alla storia italiana riletta a suo modo con Il traditore, sulla figura del collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta, grazie al quale si rischiò di distruggere la mafia: un film complesso e interessante, con un grande Favino e un sulfureo Lo Cascio in versione siciliano stretto. Forse il miglior italiano dell'anno. Almodovar invece si ripiega completamente su se stesso per fare il suo Otto e ½: Dolor y gloria è sincero in modo disarmante, una confessione intima rispettabile ma girata con toni fin troppo sommessi. Visto su Netflix, La ballata di Buster Scrooge rappresenta la seconda incursione d'autore della stagione (insieme a quella di Audiard) nel genere western: i fratelli Coen ne approfittano per un apologo a episodi sul caso e soprattutto sulla morte, in un West e in un cinema evidentemente fantasmi di se stessi. Di Lanthimos, chissà perché, parlo nel prossimo capitolo. 7. Altri film da vedere
Tully merita per una sempre stupefacente Charlize Theron; Girl è un sorpendente esordio (firmato dal belga Lukas Dhont) su un adolescente aspirante ragazza e aspirante stella della danza, con un giovanissimo e androgino Victor Polster perfetto nel ruolo. Non ho una predilezione per il cinema di Anderson, ma devo dire che L'isola dei cani, film di animazione, mi è sembrato molto simpatico. Sempre nel campo dell'animazione, sono innamorato invece dei cieli dei film di Makoto Shinkai: 5 cm al secondo è un film poetico fino allo struggimento, ma inconcluso. Buona la prova di Sollima alle prese con un blockbuster americano: se la cava bene con Soldado, anche se è un lavoro derivato e d'occasione (il seguito di Sicario di Villeneuve). Assai più originale e interessante il tentativo di Matteo Rovere di addentrarsi da un lato nel film storico in costume, dall'altro nel mito della fondazione, dall'altro ancora nel film d'autore (pauperistico) alla Winding Refn (Vallhala Rising). Il risultato raggiunto con Il primo re è estremamente promettente, e tra l'altro laurea Alessandro Borghi attore italiano dell'anno. E' infatti anche l'interprete di Stefano Cucchi in Senza pelle, che rende con intensità, spirito mimetico, umiltà e sobrietà. Un film civile e necessario, uscito ancora prima delle ultime clamorose rivelazioni che certificano il caso come un omicidio di Stato. Un fenomeno sociale (non so cosa ne possano pensare produttori e distributori) le molte proiezioni gratuite tenutesi spontaneamente in tante piazze italiane. Stuzzicante anche il nuovo film di Zanasi, Troppa grazia, che ardisce misurarsi addirittura laicamente con apparizioni mariane e con la tematica del sacro. Sempre in chiave di commedia, per carità, ma con spunti interessanti, anche dal punto di vista visivo, e con una Rohrwacher, a sua volta, in stato di grazia. Germano in una parte minore, ci ricorda di esserci e di come sa essere bravo. Malgrado le mie diffidenze aprioristiche, non mi è dispiaciuto inoltre Il grande spirito, di Sergio Rubini: una buona dinamica spaziale che si fa metaforica e due attori (lo stesso Rubini e Papaleo) che si trovano a loro agio in personaggi già sopra le righe in fase di scrittura. La Granik offre un altro bel ritratto di giovane donna che deve crescere ed emanciparsi nella e dalla wilderness (dopo Un gelido inverno) con Senza lasciare traccia, con un'intensa e giovanissima Thomasin McKenzie. Un po' depressivo ma in fondo con una sua teutonica grazia Un valzer tra gli scaffali, quasi tutto ambientato in un luogo di lavoro, e cioè nei magazzini di un centro commerciale. Tra i molti, troppi biopic (quello di Schnabel su Van Gogh – Sulle soglie dell'eternità merita una citazione per la presenza straordinaria di Willem Dafoe, quasi un'incarnazione più che un'interpretazione), c'è anche quello su Stanlio e Ollio: sono andato a vederlo con timore, e il film non è memorabile, ma ho tirato un sospiro di sollievo quando ho avuto conferma che si trattava di un omaggio corretto e affettuoso, e non un tentativo si svelare chissà quali oscuri retroscena dei caratteri dei personaggi e dei loro rapporti. O'Reilly e Coogan sono credibili nell'impersonare i due più grandi eroi della risata. Due film “politici”. Vice – L'uomo nell'ombra di McKay è spietato e puntuale, oltre che divertente per alcune trovate linguistiche. Lanthimos mi aveva sinceramente irritato con The Lobster, poi ipnotizzato con l'orrore raggelato de Il sacrificio del cervo sacro. Ora mi convince di nuovo con l'affresco storico de La favorita, lotta di potere tra femmine nell'Inghilterra del '700. Molto lodato il terzetto di interpreti, quella che frizza di più nel mio gradimento è comunque e ancora Emma Stone. 8. Divertissement Alcuni film funzionano per forza, in rapporto al loro scopo. Mission Impossible – Fallout fa di nuovo sbalordire per le capacità atletiche del vecchio Tom Cruise, mentre il secondo episodio de Gli incredibili risulta infallibilmente simpatico, anche se arriva a troppa distanza dal primo. Spiderman – Un nuovo universo è forse interessante, ma anche questo l'ho visto distrattamente e senza lasciarmi coinvolgere più di tanto. Torna indietro alla prima parte, con l'introduzione e i film-specchio o alla seconda parte, con i le delusioni d'autore e da Oscar e i peggiori o prosegui verso la parte quarta, con il poker d'assi dei migliori 9. I migliori
I migliori si fa per dire. Sono comunque i film della stagione cui per un motivo o per l'altro sono più affezionato. Sicuramente non sono quelli che vi aspettereste, ma tant'è. Ci sono un messicano di ritorno in patria, una coproduzione su un polacco che in patria ci stava raramente, un regista russo in galera, un afroamericano incazzato; due bianchi e neri (uno sprizzato di colore), un black movie, un cartone animato colorato. Uno è Roma. Alfonso Cuaron si conferma un autore cui si può mettere la A maiuscola, e dimostra di essere altrettanto a suo agio nel descrivere sia le peripezie di una scienziata astronauta rimasta solo a cavarsela nello spazio ostile (Gravity), sia le disavventure quotidiane di un'umile domestica nel Messico degli anni '60, che sono quelli dell'infanzia del regista. Autobiografia spinta, per interposta persona, ma con un pudore che evita quasi del tutto, nella lunga narrazione, i primi piani, mantenendosi ad una distanza di rispetto, e la musica extradiegetica. Bianco e nero opaco, narrazione lirica ma laconica, storia famigliare con scorci di affresco sociale. Nelle immagini iniziali, con le secchiate d'acqua gettate sul pavimento del cortile per fare pulizia, dove si specchia un aereo che vola alto nel cielo, c'è già in nuce la poetica del film. Con Blackklansman poi Spike Lee torna al suo cinema migliore, politico, militante, graffiante, divertente, arrabbiato. Il poliziotto afroamericano che si infiltra nel Klu Klux Klan è esistito davvero, ma chi se ne frega delle storie vere. Per Lee è un paradosso che si fa apologo, caso limite che svela il marcio e il ridicolo della mentalità suprematista (oggi tanto di moda). Poliziesco mediocre, black comedy (lo si può ben dire) spassosa, acuto cultural study sulla figura del nero nell'immaginario americano, urticante film politico, discorso militante che (a differenza del buonista Green Book) parla di ieri per parlare dei giorni nostri. Perfetto nella sua imperfezione. Mi sta molto a cuore anche Un altro giorno, firmato da Raúl de la Fuente e Damian Nenow, che racconta – attraverso gli occhi del giornalista polacco Ryszard Kapuscinski, grandissimo reporter e conoscitore dell'Africa - un misconosciuto brano di storia del '900, la guerra civile angolana sullo sfondo della Guerra fredda e della contrapposizione dei blocchi: uno dei conflitti più lunghi e sanguinosi della storia recente, durato oltre un quarto di secolo e conclusosi con mezzo milione di vittime. La storia è raccontata attraverso il cinema di animazione, ma alternato alle interviste dei reali protagonisti dei fatti dell'epoca ancora in vita; con una narrazione rispettosa dei fatti e dei personaggi reali ma con spazi liberi per l'invenzione onirica e visionaria. Una lezione di cinema d'animazione, di giornalismo, di storia, di impegno militante, di etica politica e di etica professionale. L'hanno visto in pochi? E' un vero peccato. Altrettanto pochi avranno visto Summer di Kirill Serebrennikov. In una stagione che ha visto tanti biopic e diversi film dedicati a biografie di musicisti reali (Mercury, Elton John) e immaginari, in un angolino, c'è anche questo: si tratta della storia vera dei musicisti rock Viktor Tsoi e Mike Naumenko e dei rispettivi gruppi Zoopark e Kino – mitici all'epoca in Russia, sconosciuti da noi (o per lo meno da me) – nella Leningrado degli anni '70, tra i fermenti politici, sociali, culturali e musicali il cui eco arriva dall'Occidente e il conservatorismo politico, sociale, culturale e musicale che ancora vigeva in Unione Sovietica. Romantico, tenero, elegiaco, vitale; un po' Trainspotting (con pudore metatestuale), molto nouvelle vague, moltissimo Cecov. Serebrennikov è stato messo agli arresti domiciliari mentre girava il film; l'ha montato a casa sua, con il suo pc e senza connessione Internet, mentre i suoi collaboratori finivano le riprese seguendo le sue indicazioni. Ne è uscito un piccolo gioiellino, una gioia per gli occhi, per le orecchie, per la mente e soprattutto per il cuore. Amabile. Nella prima parte trovi l'intro e i film-specchio della stagione nella seconda le delusioni d'autore e da Oscar e i film peggiori nella terza le conferme d'autore e i film da vedere YESTERDAY di Danny BoyleJack Malik è un cantautore cui nessuno (tranne la tenera Ellie, la sua affettuosa manager) presta ascolto. Dopo essere caduto dalla bici ed essere rimasto in coma, a seguito di un misterioso black out planetario, si risveglia in un mondo dove i Beatles non sono mai esistiti e nessuno – tranne lui - conosce le loro canzoni. Qualcosa di simile era già successo a Massimo Troisi, che, precipitato indietro nel tempo insieme a Roberto Benigni, corteggiava l'ignara donzella medievale Amanda Sandrelli cantandole una sua composizione intitolata, appunto, Yesterday. Non si sa se l'idea a Richard Curtis - sceneggiatore di tutte le migliori commedie sentimentali inglesi degli ultimi decenni, da Notting Hill a Quattro matrimoni e un funerale, da Bridget Jones a Love Actually - sia venuta da Non ci resta che piangere: comunque anche Jack capisce che l'occasione di riproporre al mondo le canzoni dei Beatles potrà essergli utile, dandogli quel successo e quella fama che gli erano sempre stati negati. Fantascienza e psichedelia beatlesiana, consegnate nelle mani e agli occhi di un regista visionario e ipercinetico come Danny Boyle (Cannes 49 fu segnata esteticamente da Le onde del destino di von Trier e dal survoltato Trainspotting di Boyle), non producono però il film che ci si aspetterebbe. Anzi la struttura, rinfrescata dallo spunto paradossale, è quella dei film che raccontano l'ascesa di artisti in campo musicale, con tutte le tappe drammaturgiche e gli stereotipi appena rivisti in Bohemian Rhapsody e Rocketman. Ma se Yesterday non è un film fantascientifico, non è psichedelico, non è visionario, non è neppure propriamente e principalmente un success movie. La cifra è impressa piuttosto da Curtis che da Boyle: paradossi temporali e scalate al successo servono in realtà a raccontare quello che a Curtis, da sempre, interessa di più: i sentimenti e i rapporti tra uomini e donne e la musica, raccontati con i toni della commedia e accompagnati dalla musica, meglio se vintage e beatlesiana. La vera storia che interessa al film è quella di Jack ed Ellie, innamorati esitanti e distratti (soprattutto lui), che ci metteranno tutto il film a riconoscersi e a congiungersi. Le interruzioni e le assenze (il black out, il coma, l'assenza della musica dei Beatles e di qualche altro grande caposaldo della nostra società culturale, l'esecuzione a singhiozzo di Let It Be, la ricostruzione lacunosa di Eleanor Rigby), non sono che il corollario dei frammenti di un dicorso amoroso tra un uomo e una donna (a ruoli invertiti in termini di fama e successo rispetto a Notting Hill), esitante, balbettante, continuamente interrotto senza mai arrivare al dunque. In un mondo lacunoso, bucherellato, segnato dagli iato delle interruzioni e delle mancanze, solo il manifestarsi di una presenza moralmente riparatrice potrà scongiurare il sortilegio che impedisce l'unione di Jack ed Ellie. E succede quando Jack – e gli spettatori con lui – si rendono conto che l'assenza più clamorosa non è quella delle canzoni dei Beatles (che infatti “tornano” grazie a Malik), ma quella dei Beatles stessi. Solo colmata questa lacuna il mondo morale e sentimentale di Malik potrà tornare a ricomporsi. E lui ed Ellie potranno liberarsi dai troubles di yesterday e vivere nel futuro, perché in fondo, lo sapete anche voi, all you need is love. I FRATELLI SISTERS (The Sisters Brothers) di Jacques AudiardBuona parte dei personaggi dei film di Audiard (scritti in genere da lui stesso insieme a Tonino Benacquista o, come in questo caso, con Thomas Bidegain) sono personaggi ai margini della società (persone con handicap fisici, profughi, carcerati, piccoli malviventi, ecc.) alle prese con un contesto di criminalità o di violenza che li vede direttamente e attivamente coinvolti. Nel romanzo western-picaresco di deWitt (i cui diritti sono stati acquistati dall'attore John O'Reilly che gli ha proposto la regia dell'adattamento cinematografico, nel quale avrebbe tenuto per sé il ruolo di Eli Sisters) Audiard ha trovato già pronti due sicari del vecchio West, spietati e famosi ma succubi agli ordini del potente Commodoro. Affrontando un genere per lui completamente nuovo (dopo il noir, il prison movie, ecc.), eteronomo e forse neppure troppo amato, Audiard sceglie di declinarlo secondo la scuola revisionista che prese piede negli anni '70, con i film ad esempio di Altman (I compari) o di Penn (Missouri), dove l'epopea viene demitizzata e i personaggi portati sul piano di una realtà brutale a volte triviale. Nella storia dei due killer alla caccia di un cercatore d'oro, col quale finiranno per fraternizzare, come ha già fatto per altro il ricognitore inviato a seguirne le tracce, tutti affascinati in fondo dai suoi progetti di aderire ad un falansterio in formazione a Dallas, dove gli uomini possano vivere in pace secondo criteri di democrazia, di uguaglianza e di equo soddisfacimento dei propri bisogni, ricorrono molti luoghi obbligati della tradizione canonica: i bounty killer e i cercatori d'oro, appunto, l'intellettuale votato alla wilderness e i cacciatori con il cappello di pelliccia, le sparatorie e gli inseguinmenti a cavallo, i saloon e i bordelli, i bivacchi e gli accampamenti delle carovane, le maitresse e le prostitute. Ma contemporaneamente Audiard sceglie di tradire l'iconografia western da diversi punti di vista. Lo fa in modo esemplare, e frustrante per gli appassionati del genere, nella rappresentazione delle sparatorie, mostrate sempre in modo da non renderle più di tanto visibili né leggibili nella loro dinamica, oscurate dalla notte o relegate nella distanza del campo lungo, fuori dalla porta chiusa o dissimulate tra la vegetazione. Un secondo aspetto è nella rappresentazione dei personaggi. Tradendo uno stilema che appartiene in particolare alla tradizione (ormai ineludibile peraltro) dello spaghetti western, il regista sembra non nutrire alcun interesse per i volti dei personaggi. Mentre il western all'italiana aveva fatto della ricerca dei volti un vero e proprio marchio di fabbrica, facendo a sua volta la fortuna di caratteristi altrimenti votati alla disoccupazione, pochissimi sono i volti che emergono alla luce dello schermo, a parte ovviamente quelli della doppia coppia di protagonisti (interpretati da John C. Reilly e Joaquin Phoenix, Jake Gyllenhaal e Riz Ahmed); la mdp addirittura sembra farsi un punto d'onore di riprendere i personaggi di spalle, o in modo tale da non renderne riconoscibili i volti (lo stesso Rutger Hauer, alla sua ultima apparizione prima della reale scomparsa, si vede più da morto che da vivo). Anche le poche scene di massa (l'accampamento, la città, il saloon), sembrano mostrare una certa goffaggine da set cinematografico, mentre nell'intreccio si mescolano elementi favolistici come l'orso, il ragno che penetra nella bocca di Eli dormiente, o la pozione magica che rivela la presenza dell'oro nel fiume. E' evidente che a Audiard interessa altro. Autore sempre molto interessato e vicino ai personaggi che racconta, dissemina il racconto di accenni utili a delineare le psicologie dei personaggi. L'avventuriero gentile di Warm, l'intellettuale in fuga dalla figura paterna di Morris, e soprattutto i due fratelli Sisters, già segnati quasi a scherno dal cognome che portano, oscillanti tra la necessità di riconfermare continuamente la propria virilità assassina (che è soprattutto in Charley, dedito all'alcol e alle prostitute) e le tentazioni dell'anima femminile (che appartiene soprattutto a Eli) che significano accudimento e protezione dell'altro, bisogno dell'amore romantico, sensibilità (anche se più verso i cavalli che verso gli uomini), nostalgia di una dimensione famigliare, filiale e pacificata, e perfino attrazione rispetto ai nuovi ritrovati dell'igiene personale e domestica (come lo spazzolino da denti o lo sciacquone del bagno). Se già in film come Tutti i battiti del mio cuore o Il profeta Audiard (figlio di un regista-sceneggiatore) metteva in scena rapporti edipici tra i protagonisti e le figure paterne, reali o putative che fossero, qui addirittura essi si moltiplicano: ogni personaggio sembra avere un rapporto conflittuale con il padre, ma i fratelli Sisters lo replicano addirittura, duplicando non solo la necessità di rivolta all'autorità paterna, ma anche la necessità di uccidere il padre (reale o putativo, nella persona del Commodoro), ridistribuendo e pareggiando l'onere del parricidio inizialmente ricaduto esclusivamente sulle spalle e sulla coscienza del fratello minore. Il finale, esemplarmente, rovescia quello di un western che si pone all'apice della classicità come Sentieri selvaggi di John Ford, venendo a configurarsi quasi come un suo ironico rovesciamento iconico e morale. Se là il “padre” John Wayne, esaurito con la violenza il proprio compito paterno, si allontana dalla casa di famiglia, figura virile malinconicamente incorniciata di spalle nel vano della porta mentre si allontana in solitudine, qui al contrario i fratelli rientrano nella casa della mamma, dismettendo volontariamente i panni da sicari senza pietà (come un Edipo a due teste che torna da mamma Giocasta non dopo essersi accecato, bensì dopo essersi amputato il braccio assassino e parricida), e riassumendo quelli - o neppure quelli, nudi nella tinozza da bagno - dei figlioli reprobi ma prodighi, pronti a rientrare come bravi bambini discoli ma pentiti nel ventre accogliente della casa materna. LA VITA INVISIBILE DI ISABEL GUSMAO (A vida invisivel) di Karim AinouzMi pare che il film d'autore latinoamericano ultimamente cerchi il proprio modo di esprimersi attraverso il richiamo a quello che è forse il principale e più peculiare contributo del continente al linguaggio audiovisivo contemporaneo, e cioè la telenovela. Ne ho visto di recente due esempi: Il segreto di una famiglia, firmato da Pablo Trapero, che si avvoltola in una rete di adulteri, crimini politici, disaffezioni famigliari, rapporti al limite dell'incestuoso, rivelazioni scandalose, ecc., e La vita invisibile di Isabel Gusmao. Del primo ho già parlato (v. link qui sopra). La vita invisibile, di origine letteraria (dal romanzo Eurídice Gusmão che sognava la rivoluzione di Martha Batalha) segue anch'esso mi pare (non ha mai visto in effetti un briciolo di telenovela in vita mia) un andamento da romanzo d'appendice dei nostri giorni audiovisuali: una ragazza di buona famiglia negli anni '50, Guida, si innamora di un marinaio e fugge con lui; torna, abbandonata e incinta, e viene ripudiata dal padre che la scaccia di casa; la sorella Euridice, nel silenzio colpevole della madre, la crede morta, come vuole la famiglia per salvare la propria rispettabilità, e cresce senza di lei, all'interno di un matrimonio infelice che frustra le sue ambizioni da pianista; le due vivono per anni nella stessa città, Rio de Janeiro, senza più vedersi né incontrarsi; solo dopo molti anni, e quando è ormai troppo tardi, la verità verrà disvelata sulle loro vite invisibili. Il prologo, con le due ragazze (interpretate da Carol Duarte e Julia Stockler) che si perdono l'un l'altra nella selva che circonda Rio, prefigura già il tema del film, la perdita e la separazione. Le due vite vengono raccontate in parallelo, quella del matrimonio borghese e castrante di Euridice e quella grama di Guida, che deve sopravvivere arrangiandosi come può, sempre alla ricerca di un amore e di riscatto. Guida e Euridice vivono una invisibile all'altra, ciascuna senza il sostegno dell'altra che quasi sicuramente la avrebbe aiutata ad affrontare in modo diverso le traversie e le avversità della vita, ma anche a perseguire con più volontà e tenacia i propri desideri e i propri sogni. Come in ogni romanzo d'appendice o telenovela che si rispetti, nel lungo film (due ore e venti) si avvicendano le generazioni, si accumulano rapporti carnali (per lo più insoddisfacenti), incontri sfiorati e mancati, perfino cambi di identità e agnizioni finali. Ma Karim Aïnouz guardava forse al cinema estetizzante (e sublime) di Wong Kar-wai e ai suoi amori irrealizzati per raccontare una storia di sorellanza attraverso un luogo, un'epoca e un sistema patriarcale in cui l'emancipazione femminile era ancora di là da venire. Ma le sue immagini non hanno l'ipnotica fascinazione, sensualmente geometrica e sentimentalmente struggente di In the Mood for Love; il racconto non ne possiede il ritmo ellittico e preciso di dolorosa danza, e le sue sorelle divise non hanno la grazia dolente dei suoi esitanti e indimenticabili protagonisti. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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