LA LA LAND di Damien Chazelle(Non sono neppure un amante del genere), ma per una volta lasciamoci andare: La La Land dà il piacere che dà il puro cinema.
Quella capacità che da sempre invidiamo al cinema americano, fatta di stile, movimento e armonia (le tre componenti del musical secondo Lee Edward Stern, uno dei suoi più grandi storici), di colori, musica, emozioni, sentimenti. Basta vedere la prima sequenza e sei dentro. E' ambientata su un viadotto autostradale della città più congestionata del mondo, Los Angeles: macchine imbottigliate in una fila immobile, automobilisti incazzati, clacson che suonano. Poi una ragazza, nella sua auto, comincia a canticchiare dei propri sogni; scende e si mette a cantare e ballare tra le auto ferme; altre portiere si aprono, altra gente scende dalle auto, il canto passa di bocca in bocca, la danza diventa collettiva, contagiosa; una ragazza ha un vestito giallo come il sole; si aprono gli sportelli di un camion e dentro c'è un'orchestra che suona; fin dove arriva lo sguardo c'è gente che canta in piedi sui tetti delle macchine. E' la città dei sogni, come ribadiva Pretty Woman, ricordandoci che le favole possono esistere ancora oggi. Inseguono i loro sogni Sebastian, pianista jazz imprigionato in umilianti corvée in piano bar o in feste private, e Mia, cameriera in un bar degli studios e aspirante attrice. Si sfiorano, si scontrano, si incontrano e si snobbano, poi si piacciono, si innamorano, si amano, come in ogni favola che si rispetti. Ma i loro sogni, realizzandosi, li porteranno lontani l'uno dall'altra. Poteva andare diversamente (e in un battito di ciglia ci troviamo immersi in una realtà alternativa dove poco cambia, ma tutto turbinosamente cambia), ma è andata così. D'altra parte essendo un romantico musical jazz cinematografico, in un'epoca in cui il jazz muore (o si trasforma, rendendosi a volte irriconoscibile: è il motivo del contendere tra l'apocalittico Sebastian e l'integrato Keith interpretato da John Legend), i cinema chiudono (come il Rialto che proietta i classici) e i musical sono solo l'ombra di quelli dell'epoca d'oro di Hollywood, c'era da temere che anche l'amore di Seb e Mia non potesse avere un happy end. Eppure La La Land non è un'elegia funebre (semmai si apparenta per diversi aspetti alla dolceamara malinconia di Cafè Society: anche lì, sullo sfondo dello star system, lui e lei trovano realizzazione, ma a prezzo dell'amore l'uno per l'altra), ma sprizza grazia, umorismo, leggerezza, esattamente come si conviene. E' palese che si ispiri al musical dell'età classica (anche se Chazelle dichiara di essersi ispirato solo al Demy de Les parapluies de Cherbourg, quindi a un musical già derivato - ma in rete c'è un bel video che ha individuato svariati omaggi al musical sia classico che moderno), con i colori primari, le scenografie di fantasia, il turbinio della macchina da presa (con tanto di riprese subacquee, come in un Busby Berkley portato al parossismo), i modellini degli aerei quando si tratta di volare verso Parigi, fino al più classico dei “The End”sovrascritto sull'ultima inquadratura, eppure lo fa senza complessi d'inferiorità, senza pose da citazionismo postmoderno. La la land non ci racconta come si faceva il cinema una volta, ma ci chiede di guardare il film con gli occhi di una volta, con la stessa sensazione di innocenza e di abbandono. Ryan Gosling e Emma Stone non ballano e cantano come Fred Astaire e Ginger Rogers, nemmeno lontanamente, ma hanno le facce giuste e sono bravi, ballano, cantano e soprattutto recitano, sostenendo l'onere e l'onore di molti primi e primissimi piani, e ci convincono della bellezza e ineluttabilità della loro favola d'amore e di successo. E' un cinema spudoratamente ultraromantico, in cui agli amanti tutto può essere permesso: danzare tra le stelle, o in una Parigi d'invenzione pittorica, o in una vita che non c'è stata. Ed è un cinema popolare, ma non dozzinale; che appaga i sensi, ma non decerebrato; senza grandi temi, ma non banale. E' classico e moderno, come quelle canzoni nuove che senti per la prima volta e hai l'impressione che esistano da sempre. Tutto è curato nei dettagli, e in tanti reparti – fatta salva la verifica dei concorrenti – l'Oscar lo potrebbe meritare: per la regia di Chazelle (che è solo al suo terzo film ma che già aveva dimostrato il proprio nerbo con Whiplash), per le facce della Stone (guardate il suo provino - ma va reso onore anche all'eccellente doppiaggio di Domitilla D'Amico: e se dessimo un Oscar anche a lei?) e di Gosling (guardate il suo sguardo finale), per la sceneggiatura romantica e spiritosa, per il montaggio, per il bellissimo lavoro sulla scenografia, per le musiche di Hurwitz, per il tema musicale e le canzoni (l'apertura con Another Day of Sun, la romantica City of Stars). Finora si è portato a casa 7 Golden Globe, la Coppa Volpi a Venezia per la Stone, più di 100 altri premi, il record di 14 nomination all'Academy e un paio di centinaia di altre nomination. No, non è L.A., non è la città delle stelle quella in cui ci troveremo uscendo dal cinema. Ma lasciamoci andare, e usciamo canticchiando. La-la-land. .
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FREE STATE OF JONES di Gary RossFree State of Jones non sarà un film memorabile, per quanto godibile, ma è un film che cerca di riportare alla memoria fatti storici molto interessanti, per qualunque spettatore, ma soprattutto per gli spettatori americani. Come molti di noi non conoscono a fondo episodi che hanno portato al Risorgimento o all'unità d'Italia, suppongo che allo stesso modo molti statunitensi non conoscano alcuni fatti che sono alla base della nascita della nazione, quella stessa Birth of the Nation che uno dei padri del linguaggio cinematografico, David W. Griffith, raccontò all'inizio del secolo scorso con una celebrazione del Ku Klux Kan in un film di immensi popolarità e successo (lo stesso titolo ha polemicamente un film recentissimo, che racconta la “controstoria” di una rivolta nera nella Virginia del 1830). Oggi la prospettiva è un po' diversa dal 1915 (ma non completamente: il neopresidente Donald Trump ha incassato senza battere ciglio l'appoggio elettorale dei razzisti incappucciati e Free State of Jones sta stentando a ripagare i costi di produzione) e Gary Ross (regista eclettico passato dalla commedia metacinematografica di Pleasentville alla fantascienza distopica di Hunger Games), ha scritto, prodotto e diretto il film imperniandolo sulla figura storica di Newton Knight, “cavaliere” di nome, e nei fatti contadino diventato soldato, infermiere, disertore, fuggiasco, ladro, capo di comunità, condottiero, fondatore di uno stato indipendente, propugnatore della mescolanza tra le razze e altro ancora. Siamo ai tempi della cruentissima Guerra civile, e Knight, stanco di guerra, diserta dall'esercito sudista e torna alla sua terra. Dopo aver cercato di difendere i suoi vicini (per lo più donne e bambini, gli uomini sono al fronte) dalle angherie delle truppe confederate, che razziano senza tanti complimenti i pochi averi e alimenti degli abitanti, con il pretesto di procurare vettovaglie e beni di conforto per le truppe, è costretto a fuggire. Rifugiatosi nelle paludi, diventa presto il capo di una banda (che diventerà poi una “compagnia” paramilitare) composta principalmente da disertori e schiavi fuggiti, oltre che da contadini e donne, che si oppone alle razzie dell'esercito, si riappropria con la forza del maltolto, entra in conflitto con le truppe confederate, ha la meglio con tattiche da guerriglia di un'intera divisione, prende possesso di una serie di contee e fonda il libero stato interrazziale di Newton. Non sostenuti dall'Unione nordista, Knight e i suoi sono costretti a ripiegare nelle paludi, ma la fine della guerra è ormai vicina e la Confederazione è destinata alla sconfitta. Il racconto di Gary Ross si spinge però oltre il periodo eroico delle guerra parallela di Newton e dei suoi compagni, addentrandosi nell'epoca del dopoguerra, in cui la Ricostruzione si traduce (come spesso è capitato in varie epoche e latitudini) in una restaurazione: malgrado i toni sobriamente agiografici con cui racconta le gesta di Knight (autorevolmente interpretato da Matthew McConaughey), il film ci tiene a raccontare che non tutti i crimini sono puniti e che giustizia, eguaglianza e democrazia rimangono belle parole astratte, mentre i ricchi sudisti (stupratori, nel caso) riprendono possesso delle loro proprietà dopo aver disinvoltamente giurato fedeltà all'Unione, gli ufficiali razziatori diventano giudici, le elezioni vengono truccate e la brava gente del Sud si infila il cappuccio con le tre K e lincia i negri che osano alzare la testa. Se la figura e le vicende di Knight sono probabilmente romanzate, molto interessante è comunque lo spaccato storico descritto, nonché, nello specifico, la messa a fuoco di diversi provvedimenti legislativi esemplari: come quello detto “dei 20 negri”, per il quale i possidenti vedevano un membro della propria famiglia esonerato dalla partecipazione alla guerra ogni venti schiavi posseduti, il che faceva sì ovviamente che la guerra a difesa delle proprietà, dei privilegi e dei soprusi dei ricchi la combattessero essenzialmente i poveri; o quello postbellico dei “40 acri e un mulo” (espressione diventata il nome della casa di produzione di Spike Lee, oltre che essere citata polemicamente in numerosi brani di rapper afroamericani), che doveva essere la dotazione per ogni schiavo liberato in modo che si potesse procurare il proprio sostentamento, e che fu prestissimo revocata e ribaltata dopo l'assassinio di Lincoln; o quello sull'apprendistato, che di fatto sotto questo simpatico eufemismo ripristinava la schiavitù negli Stati del Sud (i datori di lavoro erano perfino autorizzati a catturare e riportare al lavoro con la forza gli “apprendisti” fuggiaschi); o ancora quello che vide vittima tra gli altri uno dei discendenti di Knight e della sua seconda moglie, una nera liberata. Ross ce ne racconta in un'appendice narrativa ambientata un'ottantina di anni dopo i fatti raccontati nella vicenda principale, quando negli Stati del Sud degli Usa, alle soglie degli anni '50, bastava avere nelle vene un ottavo di sangue non bianco per essere considerato un negro ed essere privato di alcuni diritti civili: per questo motivo il pronipote di Knight (di carnagione chiara) fu condannato in tribunale a 5 anni di carcere (poi non scontati) per aver sposato la donna bianca che amava. IL CLIENTE di Asghar Farhadi Potrebbe esserci chi non va a vedere Il cliente perché è un film iraniano, e si sa che i film iraniani e simili li vanno vedere solo i cinefili snob e un po' masochisti. Sbaglierebbe, perché questo (come molti altri film iraniani e simili) è un bel film, di profonda umanità, e che riesce, raccontando le vicende - eccezionali ma per nulla inverosimili - di persone normali e non troppo diverse da quello che potremmo essere noi, a inchiodare alla poltrona lo spettatore con una tensione psicologica e morale che non lascia tregua. Dopo il prologo che ci mostra un set teatrale, in cui è allestito un interno borghese deserto, la scena si sposta in un condominio: la gente esce di casa e corre giù per le scale, si dice che l'edificio stia per crollare, i vetri si incrinano, nei muri si aprono crepe, nella colonna sonora affiorano sordi brontolii minacciosi e sinistri. Si avverte immediatamente la presenza forte di una metafora, della società iraniana contemporanea - a provocare il rischio di crollo è una ruspa al lavoro nel cantiere accanto; e al personaggio che guardando sconsolato la brutta città dall'alto dice che bisognerebbe abbattere tutto e ricostruire, un altro risponde con una saggezza insieme storica, sociale, antropologica, esistenziale, che è già stato fatto una volta, e quello sotto i loro occhi è il risultato -, ma anche un presagio di quello che avverrà presto nelle vite dei protagonisti: una giovane coppia borghese: lui insegnante, entrambi attori impegnati in una messa in scena della Morte di un commesso viaggiatore di Miller. I due si trasferiscono in un appartamento prestato da un amico, che si scoprirà poi abitato da una precedente inquilina di facili costumi cui l'amico stesso non deve essere stato insensibile, ma qui lei viene aggredita nel bagno da uno sconosciuto penetrato in casa in assenza del marito. Una casa fittizia, una casa pericolante, una casa violata, questi sono essenzialmente i tre set in cui si svolge tutta l'azione del film. D'altra parte tutto il cinema di Fharadi a noi noto si impernia su ambienti apparentemente domestici che si rivelano invece perturbanti e destabilizzanti: dal week end di paura nella casa sbagliata in About Elly, alla casa di famiglia che diventa teatro di una controversia da incubo in Una separazione, fino al dramma dei protagonisti de Il passato, separati ma ricongiunti temporaneamente in una coabitazione che si rivela impossibile. Un nuovo senso di paura e di instabilità, il sentimento di un'offesa profonda che chiede qualche tipo di riparazione, e poi il senso di vergogna per errori incancellabili e per il dolore arrecato agli altri; dal momento della violazione la vita non sarà più la stessa per nessuno dei protagonisti. Abuso, indagine, vendetta: il cinema occidentale e in particolare statunitense ha fatto di ciascuno di questi elementi un distinto sottogenere cinematografico, attribuendogli nomi e etichette. Ma il cinema di Fahradi sfugge a qualsiasi classificazione, in equilibrio tra realismo circostanziato, aderenza psicologica e dimensione metaforica, fedele soltanto alla propria idea di mondo e di cinema e a una sorta di lealtà verso i propri personaggi. Benché però sia coerente, personale e originale, è difficile sintetizzare in poche frasi la poetica di Farhadi. I suoi personaggi sono di sicuro in lotta con la negatività dell'esistenza, eppure i torti e le ragioni nei suoi film sono difficili da delimitare nettamente, o anche solo con un'approssimazione accettabile. Forse il male e il bene non esistono, o meglio non esistono buoni e cattivi, ma una sorta di negatività metafisica che partecipa insieme delle debolezze e delle tare umane e della perversa casualità delle circostanze e delle occasioni. Desideri, motivazioni, sentimenti, intenzioni e azioni si mescolano in modo complesso e inestricabile, mancando spesso i propri obiettivi o dando luogo a conseguenze non volute. E' un cinema in apparenza di semplice realizzazione (situazioni circoscritte, ambientazioni realistiche), ma di estrema complessità e di raffinatissima (e premiata) scrittura. Non solo gli eventi si dipanano spesso in direzioni imprevedibili, ma la verità delle motivazioni e delle azioni, o almeno quel tanto che se ne può appurare, emerge spesso poco per volta, per svolte e scoperte successive, che cambiano continuamente non solo le situazioni concrete ma anche le posizioni etiche e psicologiche degli attori e con loro degli spettatori. Il cinema di Fahradi avvince, e quando al termine ci lascia liberi ci lascia frastornati e spiazzati, pieni di domande e di dubbi sulla vita e su noi stessi, per quel tanto che non abbiamo potuto a fare a meno di rispecchiarci nei suoi personaggi. Un non conoscitore potrebbe temere il cinema iraniano immaginandoselo povero, naïf, lontano dalla nostra realtà. Direi che nel caso del cinema di Fahradi dovrebbe temere, e a ragione, esattamente il contrario. SILENCE di Martin ScorseseSpiace dire che Silence sia un film non riuscito. Perché Scorsese è uno dei più grandi registi viventi, che ci ha regalato almeno quattro capolavori (vi lascio liberi di scegliere i vostri a gusto personale); perché il romanzo di Shusaku Endo da cui è tratto sembrava riproporre alcuni dei temi più sentiti dal regista, ex-seminarista e prete mancato (tentazione e peccato, colpa e redenzione); e perché il progetto è stato covato a lungo, pressoché un trentennio, prima di diventare una sceneggiatura scritta dallo stesso Scorsese e da Jay Cocks, critico cinematografico e sceneggiatore, candidato due volte all’Oscar proprio per film (in costume) di Scorsese e collaboratore anche allo script de L’ultima tentazione di Cristo. Silence è un film a suo modo semplice, ma ambizioso. Nel pensarlo Scorsese guardava forse al cinema della trascendenza di Dreyer o di Bergman, ma il film curiosamente ricorda piuttosto le new waves degli anni ’70, non escluso l’Aguirre di Herzog per l’ostinato scontro di una personalità occidentale contro un paese straniero, e ostile. Ma all’inizio sembra proprio Apocalypse Now (che sembrava Aguirre): le rive fumiganti, le teste infilzate sulle picche, gli indigeni asiatici, l’occidentale al centro di un mondo alieno, allucinato. Tutto ricorda l’arrivo di Willard nel villaggio di Kurtz. Infatti: subito dopo, arriva la conferma con la sequenza in cui si imposta la rescue mission: la missione nel cuore della tenebra alla ricerca di chi ha perduto forse la ragione, e sicuramente la fede (nella civiltà occidentale e nelle sue morali, o più semplicemente in Dio). Ma poi il viaggio qui è quasi assente, e il centro del film è sostanzialmente immobile, malgrado i cambi di luogo: è come se gran parte di Silence si svolgesse già nel regno di Kurtz, nella dilatazione continua dell’attesa della sua epifania sempre posticipata (qui al posto del colonnello ribelle c’è Ferreira, il prete apostata), in un loop narrativo avvitato su sé medesimo in cui le situazioni si ripetono in maniera allucinatoria (o soporifera, nella peggiore delle ipotesi): Rodrigues prigioniero (oscillante tra la versione scarmigliata e la versione pettinata); Kichijiro che alternativamente, e un po’ macchiettisticamente, abiura e chiede perdono; i cristiani che devono calpestare l’immagine e poi vengono torturati a morte (in questo caso con un certo gusto per la varietà nei metodi di martirio, bisogna ammettere); i dialoghi con l’inquisitore o con l’interprete a spezzare il monologo interiore (che a sua volta ricorda Malick) del padre gesuita tormentato dal dubbio. In una variante alla Furyo (il rapporto tra il soldato – della fede – occidentale prigioniero e gli aguzzini giapponesi, il film è fermo perché in effetti, ci accorgiamo, non si tratta di Apocalypse Now, ma del nuovo racconto delle tentazioni di Cristo: non c’è viaggio, non c’è fiume da risalire alle radici dell’orrore, ma un Cristo immobile nel deserto a mantenere la postazione di una fede da difendere malgrado tutto e il diavolo tentatore che gli gira intorno. In loop, appunto. Il motore immobile macina i temi classici del cinema di Scorsese (ma anche del calvinista Paul Schrader, che fu sceneggiatore di alcuni dei suoi film migliori): alla tentazione e il peccato, la caduta e la redenzione, qui si aggiungono la messa alla prova della fede; la responsabilità verso la propria coscienza, che deve rispondere da una parte a Dio, dall’altra delle vite degli altri; il silenzio di Dio. Ma tutto è enunciato, fuor di metafora, poco inventato drammaturgicamente, poco radicato nella carne e nel sangue del cinema e dei suoi abitatori. Preso dalle proprie ossessioni, e dalla partita a scacchi del proprio cavaliere con la morte, Scorsese sembra paradossalmente poco interessato al resto: così si accontenta di una storia avvitata su se stessa, di una recitazione di scuola da parte di attori anglosassoni di alta statura, in modo da spiccare di più tra i bassi giapponesi, di una rappresentazione del diverso tramite giapponesi prevedibilmente sadici e sornioni; non (ci) si emoziona neppure per le sofferenze e la morte di molti cristiani giapponesi, che restano delle semplici comparse e non degli esseri umani e neppure dei personaggi, figurine senza storia dentro i santini dei vari martirii. Affiorano anche altri temi che sembravano stuzzicanti, forse ancor più che i rovelli di padre Rodrigues: la religione cristiana che tenta di innestarsi su altri usi, costumi e credenze, in un terreno antropologico alieno; il significato della religione cristiana per gli umili della società giapponese; la religione come subdolo strumento ancillare di propaganda (fide) di una strategia di colonizzazione che mirava a vantaggi politici e commerciali più che spirituali (cui si potrebbe aggiungere la strenua difesa di una religione che nello stesso esatto momento, nel Vecchio e Nuovo Mondo, torturava e bruciava eretici e sospetti tali); ma anche questi temi vengono semplicemente accennati verbalmente nei dialoghi con l’inquisitore, tra una metafora in stile giapponese e l’altra, senza che diventino sostanza narrativa o cinematografica. Scorsese sembra talmente distratto da non affezionarsi neppure a un punto di vista: si parte da Ferreira nel prologo per virare verso un racconto oggettivo nel secondo prologo e nella prima parte del racconto del viaggio; ci si inabissa quindi nella mente di Rodrigues, che ascolta il silenzio di Dio ma si vede come una versione del Cristo (specchiandosi nell’acqua vede il volto di Gesù, che risponde anche a viva voce alle sue invocazioni; e Scorsese lo incoraggia mostrandolo condotto su una cavalcatura bersagliato da sberleffi e sassate come in una via crucis), quindi fa posto nel finale a un inedito e anodino testimone esterno, ma per restituire poi uno sguardo disincarnato e onnisciente alla cinepresa che penetra perfino a spiare cosa tiene tra le dita Rodrigues dentro il proprio sepolcro funebre. Troppo, o, per altri versi, troppo poco. La storia la conosciamo. Nel gennaio del 2009 il pilota di un aereo, appena partito dall'aeroporto di La Guardia, New York, riesce a farlo ammarare miracolosamente sulle gelide acque dell'Hudson, portando in salvo tutti i 155 passeggeri a bordo. Dal momento dell'accertamento dell'avaria all'impatto con l'acqua passano in tutto 208 secondi: meno di tre minuti e mezzo in cui il pilota Sullenberger deve decidere cosa fare e farlo, per salvare se stesso e le persone che a lui, alla sua esperienza, alla sua competenza, al suo sangue freddo, al suo intuito e alla sua capacità e rapidità di decisione sono affidate. Sarà acclamato universalmente come un eroe, e sottoposto a un'indagine ostile per non aver riportato l'aereo sulla pista di un aeroporto. Ma Sully inizia con un espediente. Della storia che racconta come dicevo sappiamo già l'essenziale, e di sicuro l'esito dell'episodio nodale su cui si impernia tutta la vicenda, che ha avuto risonanza mediatica planetaria. Ma l'inizio del film è spiazzante. Entriamo subito nell'azione centrale, già con il sonoro, prima ancora che le immagini arrivino sullo schermo. Poi le immagini arrivano; ma quello che vediamo non è quello che sappiamo. Non è semplicemente un trucco drammaturgico, un inizio ad effetto, un modo per spiazzare lo spettatore che si aspetta già di sapere come-andrà-a-finire, e nemmeno un modo per introdurci nella mente del protagonista agitata dagli incubi e dall'incertezza. L'aereo di Sully nel prologo non riesce a planare sull'Hudson perché altri aerei, alcuni anni fa, non sono riusciti a salvarsi e a salvare le vite degli altri, finendo dritti contro i più alti grattacieli di Manhattan, schiantandovisi contro, esplodendo al loro interno e sbriciandoli al suolo con dentro tutto il loro carico umano e soprattutto - mi si perdoni questo avverbio - il loro immane carico simbolico. L'aereo del prologo non si salva perché l'incubo è ancora vivo negli occhi e nella mente di tutti. Clint Eastwood sembra offrire a quell'America ferita e che da allora non è più stata la stessa, a quella New York e ai suoi abitanti, un grande risarcimento. Sully mi sembra esattamente questo: un grande risarcimento immaginario (ma basato su un confortante caso reale) all'immaginario ferito e umiliato dalla tragedia dell'11 settembre 2001. Vedere Sully è, analogamente a quanto succede al protagonista in un paio di scene del film, come risvegliarsi da quell'incubo: gli aerei non sono caduti, un americano, un eroe civile, è riuscito a salvare l'aereo, e tutti i suoi passeggeri - non uno di meno, si sottolinea continuamente nel film - e tutte le persone che da terra (dal fiume, dal cielo) hanno rivisto e presagito di nuovo l'incubo allucinatorio dell'aereo che cade sulla città. Il film insiste sull'ambientazione newyorkese, rimarcata più volte in maniera letterale nelle scritte che citano la città, sulla cooperazione appassionata degli operatori della centrale di controllo a terra, sulla tempestività e l'efficacia dei soccorsi della guardia costiera, dei pompieri, dei paramedici. In Sully le cose si stavano mettendo male, ma tutto ha funzionato alla perfezione, non una sola vita è stata persa, non un danno è stato arrecato alla città. Eastwood, fedele alla sua poetica e alla sua visione politica, mette in primo piano la figura di un eroe solitario, l'uomo che distingue ciò che è giusto da ciò che è sbagliato, che non perde la testa, che fa la cosa giusta anche se non coincide al millimetro con i manuali di istruzione o con i dati degli strumenti di bordo (o, in altri casi, con la legge o il politicamente corretto). Sully è un cavaliere solitario, con un aereo al posto del cavallo o dell'automobile, e il titolo è tutto per il suo nome, anzi, per il suo abbreviativo; ma come in un gioco prospettico dietro di lui si scopre la figura del suo secondo pilota, e poi del personale di bordo e dei passeggeri, e poi della sua famiglia e delle famiglie dei passeggeri citate nei titoli di coda, e poi dei soccorritori, dei newyorkesi, degli americani, dell'America. E c'è una buona notizia: ce l'hanno fatta. Ne sono usciti vivi. Con un artificio retorico e antiretorico insieme, Eastwood concentra dunque tutta la luce sul personaggio centrale - con la sua convinzione di aver agito istintivamente per il meglio, e tuttavia con i dubbi terribili istillatigli dalla commissione d'inchiesta che gli oppone registrazioni di dati strumentali e disumane simulazioni computerizzate - e lascia in ombra tutto il resto, evitando la comoda e facile maniera della caratterizzazione dei personaggi secondari tipica dei disaster movie, e frammentando invece la narrazione, in modo molto convenzionale nei flashback dedicati al passato aviatorio di Sully, ma efficace nel ripercorrere avanti e indietro, tra realtà e incubo, tra verità e simulazione, l'episodio centrale della storia. Bisogna dire che in questo modo però, rimangono molto sfocate anche le motivazioni degli avversari di Sully, rappresentati dai membri della commissione d'inchiesta, dietro i quali non stanno motivazioni burocratiche gratuitamente maligne, come si potrebbe credere guardando superficialmente il film, ma i precisi interessi economici della compagnia aerea che avrebbe preferito riavere il proprio aeromobile su una pista d'atterraggio piuttosto che in mezzo ad un fiume, e delle compagnie assicurative che avrebbero preferito sgravarsi dei propri oneri addossando tutte le responsabilità sull'errore umano di un capro espiatorio. Perfetta, sottotono (il personaggio parla sempre a labbra strette) eppure autorevole l'interpretazione di Hanks, che si impone su un pur pregevole cast di contorno, in cui lo fiancheggia un ottimo Aaron Eckhart, nel film forse più necessario di Eastwood (un autore, per il quale, lo confesso, nutro una diffidenza controcorrente che esclude solo una manciata di titoli nell'arco di una filmografia molto prolifica) dai tempi del capolavoro di Gran Torino. Vi interessa leggere anche la mia recensione di American Sniper di Clint Eastwood? Cliccate qui |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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