LA TIGRE BIANCA (The White Tiger) di Ramin BahraniLa tigre bianca è un film un po' meno indiano di quel che appare a prima vista. E' tratto da un romanzo indiano (scritto in inglese da Aravind Adiga, Book Prize 2008), ambientato completamente in India, interpretato da attori indiani, che ha per soggetto la società e la mentalità indiana, ma è in realtà una produzione statunitense ed è diretto da un regista statunitense. C'è perfino un tocco di italianità nel film: l'ottima fotografia di Paolo Carnera, forse tra gli italiani più adatti ad una trasferta indiana (ha firmato le luci sulle periferie dei fratelli D'Avanzo e del Sollima di Suburra e Acab). Lo stile del film è quindi più vicino a un racconto morale occidentale che a un film di Bollywood. C'è una cornice narrativa, fornita dalle lettere che il giovane imprenditore Ashok scrive al Primo Ministro cinese, che si appresta ad una visita in India, e c'è il racconto in flashback, che inizia dall'infanzia del protagonista e narra della sua ascesa sociale ed economica, ma anche della sua crescita individuale e della sua maturazione (im)morale. La narrazione, strutturata solidamente e scandita dalla musica pop indiana, per il tramite di una storia individuale “esemplare”, è al servizio di una profonda descrizione critica della società indiana. L'Ashok narratore è in realtà Balram, nato in un povero villaggio. A scuola è un allievo brillante, tanto che il maestro lo definisce una “tigre bianca”, cioè una personalità rara che si distingue dagli altri. Ma le esigenze della famiglia, povera e autoritaria, gli impediscono ben presto di continuare a studiare per conseguire una propria emancipazione intellettuale e sociale, per destinarlo al sostentamento famigliare attraverso umilissimi lavori. Balram non si perde d'animo, e decide di costruirsi da sé le proprie opportunità. Con spregiudicati stratagemmi riesce a farsi assumere da una potente famiglia, arricchitasi grazie a violenza e corruzione (la morte del padre stesso di Balram è dovuta ai soprusi subiti) e a diventare l'autista personale del rampollo più giovane, Ashok, tornato a Delhi con la moglie, dopo aver vissuto negli Stati Uniti, con una mentalità più aperta e progressista. Paradossalmente, l'emancipazione di Balram passa dunque attraverso la ricerca e l'accettazione di una condizione servile. Balram ama e odia i propri padroni, una coppia giovane, bella, agiata, perfino illuminata e di ampie vedute, di cui cerca di esaudire e addirittura di prevenire i desideri. Ma è permeato dalla mentalità servile della maggior parte dei suoi connazionali, e un evento drammatico servirà a ribadire la sua posizione subordinata e sacrificabile nella scala sociale. L'India contemporanea è ancora intrisa dalla mentalità della divisione in caste. Le origini umili di Balram e di quelli come lui, non sono una condizione revocabile o un punto di partenza, ma equivalgono a un destino sociale immodificabile e simile ad una legge di natura. La stessa tigre bianca che si materializza ad un certo punto del film, è a sua volta imprigionata dentro l'angusta gabbia di uno zoo, non diversamente dai polli nelle stie che Balram usa come una metafora dell'India: dove grandi masse di persone stanno come polli in gabbia, impotenti, vedendo i loro fratelli sgozzati davanti ai loro occhi, fiutandone l'odore del sangue, ma senza mai arrivare nemmeno a pensare di ribellarsi. Nessuno sembra poter sfuggire alle regole non scritte, nemmeno i padroni: la scelta è solo tra farsi assorbire dalla corruzione, che inquina la società tutta fino ai più alti livelli della politica, o fuggire. Balram sostiene che in India ci sono solo due vie per emergere (nella sceneggiatura non manca una stoccata verso le illusioni di The Millionaire): la politica o il crimine; e lui non ha possibilità di intraprendere una carriera politica. Partito con un tono leggero e scanzonato, il racconto si fa via via più nero, cinico e perfino inquietante; alla fine Balram ha realizzato il proprio sogno, anche se il nome che ora porta è rubato come la sua fortuna: è un imprenditore di successo e davanti all'ingresso di un albergo di lusso di Bangalore, la capitale indiana degli affari e della tecnologia, riesce a salutare il Primo Ministro cinese destinatario delle sue lettere. Il futuro non è più dell'Occidente, ma di Paesi come la Cina e l'India, preconizza Balram. E alla fine si compiace: potrebbe accorgersi che il suo crimine è stato solo un sogno e che nulla è veramente accaduto; ma la paura passa subito. E' tutto vero, e mentre lui esce dall'inquadratura sullo schermo resta la schiera dei suoi dipendenti, non più schiavi, ma possibili protagonisti di un futuro che non contempla più le caste ma forse nemmeno più il predominio dell'Occidente bianco. Ramin Bahrani, statunitense con ascendenze iraniane, ha già raccontato da Man Push Cart (2005) in poi le vite di emarginati (stranieri) nella società opulenta americana, e anche storie morali dove il prezzo per la sopravvivenza in una società competitiva passa per l'abdicazione alla propria umanità, attraverso l'esempio di cattivi maestri (99 Homes). Ora trova ne La tigre bianca (la cui trasposizione cinematografica era già stata annunciata nel 2009) un soggetto ideale, che ha ripreso, affidandole alla voce narrante, molte sentenze memorabili già presenti nel testo letterario di Adiga, e in Adarsh Gourav il giusto interprete per il giovane dalla faccia ingenua che si trasforma in un piccolo squalo dai baffetti mefistofelici. Gli interpreti dei “padroni” di Balram, Rajkummar Rao e Priyanka Chopra (qualcuno l'avrà vista in Quantico), sono anche i produttori esecutivi del film (e lei è stata anche Miss Mondo nel 2000).
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THE MIDNIGHT SKY di George ClooneyThe Midnight Sky si svolge lungo tre linee narrative. Nella prima, uno scienziato pensa di aver trovato un pianeta abitabile e raggiungibile dalla Terra, una luna di Giove chiamata K23, ma trascura la propria compagna ed evita di assumersi le responsabilità della paternità. Nella seconda, la Terra è arrivata ai suoi ultimi tempi. In Antartide si organizza l'evacuazione delle persone che si trovano lì, per trasferirle in rifugi sotterranei, ma a quanto si dice di efficacia temporanea. Alla base rimane un solo scienziato, che cerca di comunicare con le missioni spaziali e che trova nella base deserta un'ospite indesiderata, una bambina che non parla. Contemporaneamente, nella terza linea, una grande nave spaziale con a bordo cinque membri d'equipaggio, tra cui un'astronauta incinta, cerca di rientrare dopo aver appurato che K23 è abitabile, ma non riesce a mettersi in contatto con la Terra (e noi sfortunatamente sappiamo già perché). Due dimensioni temporali, quindi, e due dimensioni spaziali, assortite nei tre segmenti. I temi principali emergono già dal breve riassunto qui sopra: la fine della vita umana sulla Terra, il rapporto tra padri e figli (o meglio figlie), la difficoltà di comunicazione. Padri e figlie: il giovane scienziato rifiuta la paternità; lo scienziato anziano si trova a condividere la sua solitudine con una bambina; anche il bambino atteso dall'astronauta è una femmina. Assenza di comunicazione: lo scienziato giovane non reagisce alle accuse della sua compagna; quello anziano non riesce a contattare le missioni spaziali; la bambina non parla e non risponde alle domande; gli astronauti non riescono a comunicare con la Terra. La Terra a sua volta sta finendo, ha perso qualsiasi possibilità di comunicare con gli uomini. Non si sa quale sia stata la causa scatenante che ha prodotto la catastrofe: ma si sa che è colpa dell'umanità. Se è Terra Madre, l'uomo ha ucciso chi l'ha generato; se la Terra è una figlia, l'uomo l'ha maltrattata fino ad ucciderla; se la Terra è una Casa, l'uomo non l'ha ben custodita per le generazioni a venire, come confessa lo scienziato ai suoi interlocutori ai quali è interdetto il ritorno. A ben vedere, il tema unificante che investe tutti i personaggi e le situazioni del film, è quello della famiglia. Al rifiuto del giovane scienziato di costruire una famiglia con la compagna, corrisponde l'obbligo del vecchio a costituirne una atipica e inizialmente indesiderata con la bambina; alla coppia di astronauti in attesa di una figlia destinati a ricostruire l'umanità intera a partire dal proprio nucleo famigliare, corrisponde la decisione suicida degli altri due astronauti superstiti di tornare comunque sulla Terra per ricongiungersi alle rispettive famiglie, che probabilmente non esistono più o sono destinate a perire nel volgere di poco tempo. Tematiche che apparentano The Midnight Sky a diversi titoli della fantascienza recente, da Interstellar a Arrival o a Ad Astra, ma soprattutto a Gravity, cui lo accomunano diversi elementi: dal tema della rinascita, alle sequenze della pioggia di asteroidi sull'astronave, che riecheggia quella in 3D del film precedente, o la presenza stessa in veste attoriale di George Clooney, in entrambe le occasioni nelle vesti (o nella tuta) del personaggio maschile che si sacrifica per permettere la salvezza di una giovane astronauta. Le ambizioni tematiche si scontrano però con una fondamentale debolezza drammaturgica. Il Clooney regista aveva finora avuto il talento di scegliere una sceneggiatura di un autore eccentrico e originale come Kaufman (Confessioni di una mente pericolosa), o di scrivere da sé le proprie sceneggiature in sodalizio con Grant Heslov (Goodnight, and Good Luck, Le idi di marzo, Suburbicon, con la fortissima impronta dei Coen), firmando opere memorabili. Ma stavolta non ha avuto altrettanta fortuna nell'adottare lo script del forse inadatto Mark L. Smith, tratto dall'opera prima di Lily Brooks-Dalton, La distanza tra le stelle. All'interno di una durata eccessiva di oltre due ore, il film riserva due soli autentici climax drammatici, uno per ciascuno dei segmenti principali: la morte di un membro dell'equipaggio spaziale a seguito della pioggia di asteroidi, e l'affondamento della baracca sul ghiaccio dove lo scienziato e la bambina hanno trovato rifugio, e il successivo viaggio a piedi verso la base artica. Il colpo di scena finale, che rivela i veri rapporti tra i personaggi e fornisce la morale al film, arriva tardi, a seguito di una narrazione un po' sfibrata, e non del tutto imprevedibile considerate le premesse. E' tutto il finale a dire il vero a svolgersi in un anticlimax inverosimile, dove tutto - le agnizioni, le scoperte esistenziali, la rivelazione (agli astronauti in rientro) che la Terra è perduta e l'umanità estinta, gli addii definitivi -, tutto si svolge in un clima di placida e rassegnata accettazione, priva di qualsiasi sorpresa o di senso del tragico. Il film si avvale peraltro di un grande lavoro di scenografia, di fotografia e di effetti speciali, con un bel senso dello spazio, un accattivante design soprattutto per quanto riguarda gli interni della nave spaziale, belle invenzioni visive (le scene dei pranzi – ancora una volta - “in famiglia” a bordo dell'astronave; il sanguinamento a gravità zero dell'astronauta ferita), e i suggestivi panorami di K23, sotto il cielo dell'incombente Giove. Ma è la storia, sotto il commento musicale convenzionale di Alexandre Desplat, a mancare e ad arrancare. Clooney attore sotto la direzione di Clooney regista a metà film spalanca volonterosamente gli occhi per spavento e disperazione, ma non basta a dare pathos ad un film piuttosto raggelato. SANPA - LUCI E TENEBRE DI SAN PATRIGNANO, regia di Cosima SpenderE’ estremamente difficile fare una recensione su Sanpa (la prima miniserie italiana prodotta da Netflix, cinque episodi della durata complessiva di circa cinque ore) che non si trasformi in una recensione su Vincenzo Muccioli, sulla sua figura, sulla sua creatura, sui suoi metodi. Gli stessi vertici attuali della comunità di San Patrignano si sono lamentati della parzialità della ricostruzione del docu-film, che prende in esame solo gli anni dal 1978, anno di fondazione della comunità, fino al 1995, anno della morte di Vincenzo Muccioli, senza considerare l'attività successiva, in cui le polemiche si attenuano lasciando posto ad una gestione più regolata, lontana dai riflettori e dalla pressione mediatica. In realtà, come è evidente dal taglio temporale, Sanpa non è tanto un film sulla comunità di San Patrignano quanto un film su Vincenzo Muccioli. La vicenda raccontata dal film finisce per presentare un intero spaccato della società italiana dell'epoca, popolato da tanti volti noti, giornalisti, personaggi dello spettacolo, conduttori televisivi, politici, imprenditori. Ma tutto, a San Patrignano, la comunità di recupero per tossicodipendenti sorta alla fine degli anni ‘70 nel Riminese, ruotava intorno a Muccioli e alla sua ingombrante personalità, padre fondatore, padre-padrone, santone devoto all’occultismo e santo redentore, titanico e messianico. Erano anni in cui un’ondata formidabile di droga piombava sull’Italia e sul mondo, contribuendo a spegnere nella miseria della dipendenza e dell’alienazione tutte le velleità dei movimenti giovanili che negli anni precedenti si erano proposti un sovvertimento - pacifico o a mano armata - della società. E’ un ritorno all’ordine che trova in Muccioli e in San Patrignano un correlativo perfetto: Muccioli rappresentava la restaurazione dell’autorità paterna che molti genitori avevano rinunciato - o non erano più riusciti - ad esercitare nella società. San Patrignano diventa per molti giovani sbandati un sostituto della famiglia, in cui si mescolano inclusione, affetto e attenzione, ma anche regole - in genere non scritte ma non per questo meno ferree -, esclusività e fedeltà reciproca (Sanpa non si sfugge e non si tradisce), autoritarismo e un implacabile sistema di punizioni per i trasgressori. Nello stesso tempo San Patrignano è un simulacro di Stato in un momento in cui anche lo Stato vero e proprio soffre una crisi di autorità, quando addirittura non accoglie con un inconfessabile sospiro di sollievo una sciagura epocale che spazza via però la marea montante della rivolta sociale giovanile. Il microstato di San Patrignano accoglie ecumenicamente tutti, fascisti e comunisti, guerriglieri e ragazzine, sfaccendati e seguaci delle controculture, figli di papà e proletari. Quando le strutture statali non sanno reagire al problema delle tossicodipendenze che con la somministrazione di metadone, Muccioli offre accoglienza, attenzione, rieducazione al lavoro, alla disciplina, alla riconquista di una dignità e di una forma di autosufficienza, sia pur acquisita attraverso una nuova forma di dipendenza, stavolta dalla comunità e dalla figura del dio-padre incarnata da Muccioli. San Patrignano funziona, salva centinaia o migliaia di vite, restituisce a tanti giovani una vita, una profesione, un futuro; solleva famiglie ridotte alla nera disperazione, convince della bontà dei propri metodi genitori angosciati e tossici persi, disposti a farsi incatenare e umiliare pur di sfuggire alla schiavitù peggiore della droga; e cresce. Il piccolo Stato possiede ormai aziende agricole e manifatturiere (dove si produce di tutto, dalle pellicce allo spumante), alleva cani e cavalli, si dota di un ospedale interno, di una foresteria, di alloggi e mense capaci di ospitare migliaia di ospiti. Tutto cresce: le strutture, il giro economico e finanziario (tra gli sponsor giganteggiano i coniugi Moratti), la fama, l'attrattività mediatica, il peso politico (presto ci si rende conto che Muccioli è in grado di mobilitare ingenti masse di voti), la stazza fisica e l’ego di Muccioli. E’ una crescita però che porta con sé i germi di una crisi potenzialmente distruttiva. Le dimensioni sono ormai tali che Muccioli non può più essere presente per tutti e dovunque, com’era all’inizio; ma nel momento in cui sarebbe doveroso dotare la comunità di una struttura organizzativa, le responsabilità di alcuni settori (alcuni dei quali di carattere chiaramente punitivo, cui vengono assegnati i soggetti più difficili e riottosi) vengono affidate a soggetti nelle mani dei quali i metodi esercitati prima in persona da quello che si offre come un padre autoritario (la coercizione fino alla reclusione con catene e in ambienti asfissianti, la demolizione, anche pubblica, di quelle che quelle che lui considerava perniciose sovrastrutture della personalità) diventano arbitrio e abuso incontrollato. Se Muccioli è stato già sottoposto al “processo delle catene” - in tribunale, nei media e nel dibattito pubblico politico e sociale -, inizia a questo punto l’epoca dei suicidi, delle morti misteriose, dei ricatti, di un nuovo processo. Muccioli continua a godere di un credito illimitato, è oggetto di un amore fideistico suffragato però dai molti improbabili successi terapeutici-riabilitativi ottenuti, eppure le nuove traversie trovano un corrispettivo anche nella sua decadenza fisica; senza che nessuna condanna in via definitiva sia stata pronunciata nei suoi confronti, si spegne nel 1995, per cause che non verranno mai dichiarate (suscitando sospetti negli anni in cui l'Aids stendeva la sua triste ombra su un'intera generazione). Gli autori (Bernardelli, Gabardini, Neri, per la regia di Cosima Spender), si muovono nell’inestricabile labirinto di luci e tenebre della vicenda, attraverso un efficacissimo lavoro di ricerca di filmati di repertorio e di interviste, componendo un mosaico dove si alternano immagini d’epoca, brani di trasmissioni televisive, riprese processuali, interviste ai protagonisti della vicenda, alla ricerca di un equilibrio possibile, nella consapevolezza di non poter raggiungere una verità assoluta e definitiva non solo sulle vicende processuali ma anche sull’uomo e sul suo operato. San Patrignano ha lamentato anche la parzialità dei testimoni (a suo parere sono stati messi in risalto prevalentemente gli aspetti negativi e problematici), ma i titoli di coda riportano anche un corposo elenco di persone che sono state interpellate e che si sono rifiutate all’intervista. In realtà, il film conserva, con un certo grado di consapevolezza, tutta l’ambiguità e l’ambivalenza di lettura che hanno accompagnato la vicenda di San Patrignano nel dibattito pubblico. Non semplicemente riportando versioni contrastanti dei fatti, ma scavando nel profondo del vissuto dei vari testimoni. Si può affermare che (con l’eccezione di Red Ronnie, che manifesta verso Muccioli una fede cieca e incondizionata, assolutamente scevra di dubbi) nessuno dei protagonisti - che si tratti del figlio o del giudice istruttore, dei sodali più stretti di Muccioli o del giornalista che ne indaga per anni le vicende, del medico del centro o della guardia del corpo che lo ricatta accusandolo di avergli commissionato l’eliminazione fisica di un testimone - fornisca un ritratto completamente negativo o completamente positivo di Muccioli. Odio e amore, disgusto e ammirazione, adorazione e frustrazione si mescolano nei sentimenti di ciascuno, in testimonianze in cui all’oggettività si mescolano dosi piccole o gigantesche di emotività. Il percorso costruito dal montaggio attraverso la successione dei brani delle interviste è abilmente costruito, in modo da fornire nella prima parte (Nascita, Crescita) un’immagine quasi prevalentemente positiva, per addensare poi mano a mano le ombre sempre più pesanti nella seconda parte (Fama, Declino, Caduta). In questa sorta di Citizen Muccioli - in cui come nel film di Welles-Mankiewicz (la citazione dello sceneggiatore è d’obbligo dopo Mank) la personalità titanica e inattingibile del protagonista è abbozzata attraverso un mosaico di indizi, di reperti, di testimonianze - il documentario diventa ad un certo punto avvincente come un thriller, con una sapiente costruzione della suspense (dove le rivelazioni più eclatanti vengono abilmente anticipate da accenni e allusioni). Ad essere in gioco non è però solo la scoperta del colpevole o lo scagionamento dell’innocente, bensì la ricerca di una verità umana e morale, oltre che giudiziaria e politica. C’è un’intervista che manca, quella di un Muccioli post mortem, ormai svincolato dagli interessi, dagli affetti e dalle ambizioni terrene. Ma non penso ci avrebbe comunque portati più vicini alla verità. FUORI ERA PRIMAVERA di Gabriele SalvatoresStrano (o forse no) che tocchi proprio al regista che della “fuga” aveva fatto il proprio tema emblematico, portando i propri antieroi a confrontarsi con l'altrove e a ricercare la propria identità in luoghi più o meno lontani (il deserto marocchino di Marrakech Express, il Messico di Puerto Escondido, l'isoletta greca di Mediterraneo, perfino nell'Italia di provincia di Turné) raccontare il suo contrario, la prigionia, il confinamento, l'isolamento, l'essere “chiusi dentro”. Salvatores ha infatti raccolto, selezionato, ordinato e curato il montaggio di decine di frammenti video girati da persone qualunque durante il primo lockdown, tra marzo e aprile, quando l'epidemia di Coronavirus colpì l'Italia come una mazzata e la travolse, prima di dilagare in tutto il mondo e diventare la pandemia conclamata con cui ancora oggi siamo a fare i conti. L'operazione non è inedita: lo stesso Salvatores aveva curato il docu-film Italy in a Day – Un giorno da italiani, prodotto da Ridley Scott che aveva già realizzato alla stesso modo Life in a Day e Britain in a Day, e anche i responsabili del montaggio sono gli stessi del film precedente, Massimo Fiocchi e Chiara Griziotti. Se in Italy in a Day a scandire il film erano le ore della giornata, qui è il trascorrere dei giorni, dall'impatto con la malattia sino alla parziale e illusoria “liberazione” della scorsa primavera. La malattia e i suoi effetti, di cui ascoltiamo tutti i giorni alla televisione e di cui leggiamo sui giornali e sui siti Internet, e che in tanti abbiamo vissuto sulla nostra propria pelle, viene raccontata così in un'apparente presa diretta (a volte i video rivelano un minimo di costruzione, spesso in un'intenzione diaristica), in una dimensione privata, individuale, di necessità domestica. Il prologo fornisce quello che si potrebbe dire un preambolo ideologico e interpretativo del fenomeno: immagini di natura libera e selvaggia; immagini degli aspetti caotici e artificiosi della vita umana e urbana; e di conseguenza scaturire della malattia dall'intersezione perversa tra le due dimensioni, a causa della distorsione e dello sfruttamento scriteriato da parte dell'uomo delle risorse naturali. Il film si svolge poi alternando gli spezzoni inviati dai singoli realizzatori, con qualche tormentone come quello del rider che pedala nelle città deserte e spesso notturne per fare le proprie consegne, lamentandosi dei magri guadagni. Nella scorsa primavera a prevalere decisamente nelle preoccupazioni della gente era l'aspetto sanitario, a scapito di quello economico che sarebbe emerso prepotentemente subito dopo. L'importante era difendersi e ripararsi da una malattia dilagante che nel giro di pochi giorni aveva precipitato l'Italia in una dimensione inedita e surreale da film di fantascienza. A scandire il percorso del film, molte scene girate negli ospedali, tra malati intubati o incapsulati nei caschi per l'ossigeno e il personale sanitario che si trova a fronteggiare un'emergenza straordinaria e mai affrontata prima, che li mette a dura prova dal punto di vista professionale (perfino gli equipaggiamenti di difesa e protezione più elementari erano venuti a mancare in questa prima fase), ma non certo meno da quello psicologico ed emotivo. Ma ovviamente ad interessare principalmente il regista non è la morte, pur presente in immagini dolorose, bensì la vita, che è continuata in tutti i suoi aspetti, piegandosi e rendendosi flessibile di fronte alla situazione fuori dall'ordinario. Tutti gli aspetti della vita sono documentati, dalla nascita di un figlio ai giochi con i bambini, dal lavoro o allo studio da casa, dall'amore e i suoi stratagemmi (gli innamorati che si guardano da case lontane, quelli che sfruttano le code ai supermercati per incontrarsi e stare – relativamente – vicini), fino ad eventi eccezionali come ad esempio la cerimonia di laurea in streaming. La famiglia (con il corollario malinconico di chi si è trovato immobilizzato in una condizione di solitudine) e la casa (con i prigionieri dei monolocali, o la riscoperta dei balconi come preziosi strumenti per guadagnarsi il beneficio e il piacere a sua volta riscoperto dello stare all'aria aperta) evidentemente sono i temi e gli ambienti ricorrenti. Meno rappresentati sono gli anziani, i meno esperti e disponibili a raccontare e raccontarsi attraverso dispositivi digitali, mentre sono soprattutto i bambini ad offrire a Salvatores l'occasione di mostrare alcune proprie caratteristiche d'autore come la gentilezza di tocco e il senso dell'umorismo. Ma altrettanto ovviamente, al regista della fuga interessano le forme di resilienza, i trucchi inventati dalle persone per sentirsi meno soli e per fare sentire meno soli gli altri, dai percorsi avventura reinventati nelle stanze di casa per far divertire i bambini, ai concerti improvvisati da finestre, balconi e terrazze, fino alle immagini sorprendenti di due tenniste impegnate in uno scambio da un terrazzo sul tetto a quello di fronte. Guardando Fuori era primavera ci si commuove, ci si emoziona, si sorride, ci si addolora, si pensa, ci si preoccupa, ci si rammarica. E a guardarlo oggi, a distanza di quasi un anno, alla vigilia di un'altra primavera che si preannuncia non certo facile, ha tuttavia già un aspetto quasi vintage, come il ricordo di un'epoca in cui eravamo più giovani e ingenui di fronte alla cattiveria della malattia, storditi ma intenzionati a reagire. Oggi i nostri occhi sono più stanchi, più livorosi, più disincantati, fiaccati da problemi psicologici ed economici, da una vita anormale che ci nega le cose più belle della vita, la sicurezza della salute e quel lavoro, le relazioni sociali e gli affetti, la libertà di muoversi, di fare le cose che ci appassionano, di viaggiare. Ci siamo resi conti che la sciagura del Covid non sarà un episodio, da confezionare in un film e conferire nell'album dei ricordi spiacevoli, bensì un tragitto lunghissimo e disseminato di incognite infinite. Prepariamoci, tra poco fuori sarà (di nuovo) primavera. UNDINE - UN AMORE PER SEMPRE di Christian PetzoldIn un proprio saggio Sigmund Freud ha usato come metafora delle stratificazioni della psiche la città di Roma, in cui epoche, civiltà, architetture si sono via via sovrapposte e talvolta compenetrate fino a darle la fisionomia che allo spettatore contemporaneo sembra così “naturale”. Undine presenta più volte la protagonista eponima, e poi la sua collega - davanti a grandi plastici e a grandi planimetrie -, spiegare a gruppi di persone la storia architettonica e urbanistica della città di Berlino. Forse intendendo significare che le storie, le individualità, i sentimenti mutano nel tempo, cambiano volto, si trasformano. Non riesco a spiegarmi altrimenti tanta insistenza sul discorso su ciò che sembra quanto di più solido (la città costruita, con le sue pietre e le sue strutture), visto che tutto il resto del film (a partire dal titolo e dal mito cui fa riferimento) sembra ascritto alla dimensione della liquidità. Poco dopo essere stata lasciata da Johannes e dopo averlo minacciato di morte, come fa l'Ondina del mito, Undine conosce Cristophe e insieme a lui viene travolta dal crollo di un acquario in un bar; nell'acquario c'era la figurina di un sommozzatore, e guarda caso Cristophe è un subacqueo; quando inizia Undine alle immersioni in un lago, le mostra il suo nome scritto su una parete sommersa; Cristophe subisce un incidente subacqueo proprio come il suo pupazzetto omologo; nell'acqua di una piscina Undine si vendica di Johannes; nell'acqua di un lago scompare; nella stessa acqua Cristophe tornerà a cercarla. Appare chiaro che Petzold cerca di mescolare fiaba e melodramma, raccontando di altri “fantasmi” (ma stavolta d'amore), come nella sua trilogia d'esordio, e allontanandosi dai suoi consueti temi politici e storici (forse maggiormente attribuibili al suo collaboratore abituale alla sceneggiatura, Harun Farocki, stavolta assente); gli stessi generi, coniugati con il binomio amore/acqua, con cui in fondo ha lavorato Del Toro, anche se con differente poetica e obiettivi, ne La forma dell'acqua. Confesso di non conoscere il cinema di Petzold, se non attraverso qualche lettura; ho l'impressione però che qui l'impasto tra dimensione mitica, realismo e melodramma di destini sia gestito con una certa rigidità teutonica, sia in fase di sceneggiatura che di regia, e a venirne sacrificata è proprio l'elemento della liquidità, che doveva essere consustanziale al film e determinarne anche lo stile. Ho trovato piuttosto stucchevole anche l'utilizzo reiterato in colonna sonora dell'Adagio di Bach (unica eccezione Stayin' Alive, in funzione rianimatoria e rigeneratrice), un mezzo abbastanza convenzionale e abusato per conferire un tono malinconico e solenne alla narrazione. Al posto dell'attrice-feticcio Nina Hoss, ritorna Paula Beer (già protagonista femminile de La donna dello scrittore, in cui già faceva coppia con Franz Rogowski), bella e sensibile, forse l'elemento più prezioso del film, che ha conquistato con la sua interpretazione di Undine l'Orso d'Argento e il premio Efa. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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