CHALLENGERS di Luca GuadagninoQuando la discussione trascende e i toni si riscaldano, Tashi chiede a Patrick se stanno ancora parlando di tennis e lui risponde che non fanno altro. E’ falso (tanto per dire, tra le foto promozionali ufficiali si fa fatica a trovarne una che abbia a che fare con il tennis, anche se il film arriva al momento perfetto, quando la sinnermania ha ridestato e portato al suo acme l'attenzione del pubblico italiano verso questo sport); o meglio, Guadagnino finge di parlare di tennis mentre parla di tutt’altro. Anche se il film iscrive tutto il suo arco narrativo, tramite continui flashback e flashforward, all’interno di un extended play tennistico, appare subito chiaro - da quando i giovanissimi tennisti Art e Patrick, amici e coetanei, guardano Tashi esibire la sua potenza sul campo di gioco - che si sta parlando d’altro, e cioè di desiderio; e si intuisce anche, cosa che verrà subito confermata, che il corpo di Tashi è solo il tramite su cui confluisce e rimbalza l’attrazione reciproca tra i due giovani maschi.
Di desiderio si parla, come in Io sono l’amore, A Bigger Splash, Chiamami col tuo nome o perfino in Bones and All: Guadagnino parla di tennis quasi come un giovane Almodovar (banane allusive e ventilati usi non ortodossi del manico della racchetta compresi) parlava di matador, dove la legge del desiderio conta altrettanto o più delle regole del gioco. Se ne ha la conferma quando ci si accorge che sequenze di sport, di dialogo o di intimità sono tutte ritmate dalle cadenze ossessive ed elettroniche delle musiche da rave party infinito di Trent Reznor e di Atticus Ross. I desideri si intrecciano con le frustrazioni: Patrick avrà Tashi ma dovrà rinunciarvi (ma non per sempre…); Art avrà Tashi ma dopo che sarà stata di Patrick; Tashi dovrà interrompere la sua carriera tennistica ma riverserà le sue ambizioni sul marito Art di cui diventerà allenatrice e manager; Tashi avrà Patrick e Art, ma senza trovare appagamento da nessuna delle due relazioni; l’attrazione tra Art e Patrick sembra non arrivare mai a compimento… E’ un losing game in cui nessuno sembra poter vincere, né sul lato sentimentale e dei rapporti di coppia (o di triangolo, al cui vertice è saldamente installata Tashi), né su quello sportivo e professionale, dove infortuni, incostanza, stanchezza sembrano precludere a tutti di coronare i propri sogni di gloria (e il film d’altra parte si svolge durante un challenge, cioè un torneo di qualificazione, e non durante il torneo maggiore, in questo caso l’U.S. Open). Challengers è il nome del torneo, ma il termine significa anche gli sfidanti, e viene da pensare anche ai duellanti di Ridley Scott (da Conrad) che si affrontano ripetutamente attraverso anni e vicissitudini. Guadagnino (con la complicità dello sceneggiatore Justin Kuritzkes) nasconde le sue carte narrative mescolando il mazzo delle scene in un continuo andirivieni nel tempo, con ellissi in avanti e indietro che possono durare ore o giorni o addirittura anni, costruendo a ritroso le motivazioni personali che stanno alla base delle passioni che rendono il match tra Art e Patrick la partita della vita; anche per Tashi, che assiste al gioco dalla tribuna, girando la testa da una parte e dall’altra, come tutti gli altri spettatori, o tenendola immobile fissando lo sguardo la da una parte sola, o abbassando lo sguardo a terra mentre la partita si fa rovente. Guadagnino concentra tutto il film su tre unici personaggi, elidendo tutti gli altri e tutto il resto; ma dà al film una miccia lunga e una combustione lenta (slow burn, per dirla all’inglese), iniziando dalla fine con una partita di tennis di cui non capiamo l’importanza e con un ralenti inessenziale e un po’ maldestro sulla schiena di Zendaya, per dare solennità ad una vicenda che non ne ha ancora alcuna. La tensione narrativa, dopo che il culmine erotico è già da tempo raggiunto e superato in una scena di bacio a tre da seduti, cresce lentamente, fino al racconto della sera precedente la partita fatidica, in cui il vento delle passioni (ancora una volta, molto almodovariano) spazza letteralmente e melodrammaticamente tutto e manda le intenzioni dei protagonisti a gambe all’aria. Sicché nella fase finale della partita succede di tutto, emotivamente, sportivamente e registicamente parlando, tra esacerbazioni ed escandescenze, richiami e penalizzazioni, gesti allusivi e sguardi d’odio (la partita diventa una specie una sorta di duello alla Sergio Leone in versione ipercinetica), bolidi tirati direttamente contro l’avversario o spedite volontariamente in rete, soggettive della pallina che vola a 200 chilometri all’ora e smash in cui è il giocatore stesso a volare dall’altra parte della rete, abbracci sconvenienti e sorrisi liberatori, ma anche un po’ enigmatici, alla Mona Lisa, in tribuna. Sembra di capire che Guadagnino si sia divertito, e parte del divertimento passa agli spettatori, anche se non tutto a mio parere funziona a dovere: come dicevo, la costruzione è lenta e il film ci mette un po’ a scaldarsi; nelle ellissi narrative si perde forse qualche passaggio importante (della relazione tra Patrick e Tashi ci viene detto ben poco, se non che finisce litigando sulle posizioni di potere nella coppia, che si definiranno invece molto più nettamente a favore di Tashi nel rapporto con Art; e ben poco viene detto anche sui motivi per cui Patrick finisce per essere emarginato - o per autoemarginarsi - dal mondo del tennis che conta e dalla vita, tanto da finire a dormire in auto perché non ha i soldi per pagarsi un albergo). Poi c’è Zendaya, che dovrebbe essere la donna di cui non è possibile non innamorarsi, ma che ai miei occhi (se mi è concesso dirlo) è troppo poco sexy, espressivamente imprigionata in un broncio un po’ infantile o in pose dure e volitive da manager in tailleur. Se amate le gambe di Zendaya, è il vostro film; ma le nudità totali e frontali sono riservate agli attori maschi. Mike Faist e Josh O’Connor, nei ruoli di Art e Patrick, rispettivamente “ghiaccio” e “fuoco” nel tennis e nella vita, finiscono per assomigliare forse più a Starky e Hutch in tenuta da tennis che a Borg e McEnroe, ma "servono" a dovere nel ruolo degli amici doppiamente rivali dal carattere opposto.
0 Commenti
CIVIL WAR di Alex GarlandSi inizia che la rivolta contro il Presidente autocratico degli Usa è già iniziata e la guerra contro le repubbliche secessioniste e le forze armate degli Stati occidentali è in pieno corso. A New York disordini nelle strade, incendi, coprifuoco, mezzi dell'esercito a pattugliare le strade; dovunque guerra, sparatorie, cecchini appostati, case incendiate o semidistrutte, automobili abbandonate lungo le strade, cadaveri.
Non poteva esserci uscita più tempestiva per Civil War, presentata in anteprima mondiale il 14 marzo, proprio mentre Trump - dopo aver tra l'altro definito “animali” i migranti - paventava “un bagno di sangue” ("bloodbath") in caso di sua mancata elezione il prossimo 6 novembre. Civil War questo “bagno di sangue” l'ha già messo in immagini, fino al suo esito finale e fatale, dentro l'ufficio presidenziale della Casa Bianca (malgrado tutto un lieto fine? ma l'immagine che accompagna i titoli di coda è una foto macabra che emerge lentamente da uno schermo bianco per sprofondare poi in uno schermo nero). Il film suona pertanto come un tempestivo, molto sinistro ma per niente inverosimile ammonimento preventivo a tutto il popolo americano, al quale dice: ecco cosa succederà se veramente vorrete eleggere Trump buttando alle ortiche i due secoli e mezzo di storia della più antica Costituzione del mondo ancora vigente. Poiché sarebbe chiaramente indiscreto inserire nel film dettagli politici più precisi e imbarazzanti (già così è presumibile che l'uscita del film negli Stati Uniti, prevista per il prossimo 12 aprile, susciterà non poche polemiche), le ragioni della guerra civile non sono spiegate da Garland (sceneggiatore oltre che regista; britannico per nascita e formazione), né vengono esplicitate le malefatte del Presidente; il giudizio più “politico” che viene espresso nel film è una battuta che ne assimila la personalità mediocre a quelle di Gheddafi, Mussolini e Ceasescu. L'aspetto politico, per quanto sia il più eclatante e suggerisca i maggiori motivi di curiosità, non è però quello preponderante. In realtà Civil War, cosa non nuova, accumula ed intreccia ambiziosamente diversi generi cinematografici piuttosto classici, in un impasto ad alto tasso di spettacolarità. C'è prima di tutto l'on the road, con la struttura nomade e la narrazione episodica, fatta di incontri e scontri, fermate e ripartenze, soste e spostamenti, mentre i viaggiatori approfondiscono la conoscenza reciproca e si delinea il gioco delle relazioni. Perché Civil War è anche il racconto di una sorta di famiglia putativa, anche se tra i quattro protagonisti nessuno ha rapporti di consanguineità con gli altri. Si trovano infatti a condividere un po' per caso lo stesso automezzo, che deve percorrere più di 800 miglia in zona di guerra, uno strano quartetto composto da una pseudo-coppia genitoriale, una pseudo-figlia ribelle e uno pseudo-nonno saggio: sono in realtà Lee Miller (omonima di Lee Miller Penrose, che fu, oltre che modella e fotografa di moda, una delle prime corrispondenti di guerra negli anni '40 e la prima a documentare per immagini gli orrori dei lager nazisti dopo la liberazione), fotografa di guerra impersonata da Kirsten Dunst; il suo socio giornalista Joel (Wagner Moura), che ostenta il necessario cinismo richiesto dal mestiere; Jessie (Cailee Spaney – la Priscilla del film della Coppola), giovane fotografa che vuole emulare la sua compagna di viaggio più anziana e navigata; e il saggio giornalista veterano Sammy (Stephen McKinley Henderson), anziano, corpulento e claudicante. I quattro rappresentano anche un paradigma dell'atteggiamento nei confronti della guerra e della propria professione: l'inesperta Jessie che deve ancora mettere la propria vocazione alla prova dei fatti e dell'orrore; il cinico e pragmatico Joel; la matura Lee, indurita dall'esperienza ma ormai provata dalla sommatoria degli orrori cui ha dovuto assistere; l'anziano Sammy che vede le cose dalla prospettiva disincantata ma anche ricca di buonsenso dovuta all'età avanzata. Nello stesso tempo, ancora, Civil War è, ovviamente, un film di avventure bellica, con imprevisti, pericoli, salvataggi, fughe, prese in prigionia da una parte; stormi di elicotteri rombanti, campi militari e battaglie con carri armati, mitragliatrici e mitragliatori, fucili di precisione, esplosioni e quant'altro, dall'altra parte. Ma c'è di più: Civil War è ambientato nel noto e tranquillizzante paesaggio americano, dalle vie di New York ai notissimi luoghi simbolo del potere politico di Washington, passando attraverso la campagna bucolica dove gli uccellini cinguettano e i placidi paesini della provincia, dove però ogni strada, ogni prato, ogni stazione di servizio ospita cadaveri, sangue e orrore; dagli edifici distrutti esce il fumo nero degli incendi, e i cieli sono solcati giorno e notte dai traccianti dei proiettili. Civil War assume quindi anche le caratteristiche di un film apocalittico e distopico, dove le situazioni più comuni – uscire per strada, fermarsi a fare rifornimento di carburante, andare in un parco-giochi - acquistano una tonalità sgradevole e perturbante. Infine, Civil War vuole anche essere, o così vuol far credere, un film sulla rappresentazione della guerra, e sullo strano mestiere e sull'etica peculiare che consiste nel fotografare la violenza e la morte, senza dovere né volere intervenire – né per combattere, né per salvare, né per soccorrere. Ma purtroppo, a mio parere, Civil War, dopo aver messo tutta questa carne al fuoco e aver mescolato questi diversi ingredienti narrativi, non eccelle nel portarne a cottura (per continuare con l'improprio paragone culinario) nessuno. L'idea forte di fondo, con un'America divisa e lacerata da una guerra intestina, con un Presidente che ha abusato dei propri poteri tanto da aver suscitato secessione e rivolta, non viene sviluppata più di tanto. Il film inizia già in media res, anzi in extrema res, visto che siamo già vicini all'epilogo drammatico, e poco o nulla ci viene detto su come e perché si sia giunti a questa situazione, né vengono approfondite le lacerazioni di una lotta fratricida che vede su fronti opposti americani contro americani, ora nemici ma presumibilmente avvinti da mille legami. L'on the road impone l'andamento episodico, dove ogni segmento è basato su un'idea che si vorrebbe forte e straniante, come ad esempio i torturatori alla stazione di servizio, il cecchino al parco di divertimento invernale, i soldati alla fosse comune. Quest'ultimo è effettivamente l'episodio più riuscito (per quanto risolto in maniera corriva), con la visione infernale dei cadaveri cosparsi di calce ammucchiati nella fossa comune nella quale cade la giovane fotografa, e soprattutto con la tensione creata l'interrogatorio del soldato dagli occhiali rossi, dove la vita e la morte (che tocca in modo ovvio ai personaggi più sacrificabili) dipendono dalla risposta che si dà alla domanda “da dove vieni?”. I personaggi tuttavia non progrediscono più di tanto passando da una situazione all'altra, in uno sviluppo che conferma quelli che già si intuivano i caratteri di partenza: l'anziano grasso e zoppicante ma saggio e disposto all'eroismo; la ragazzina ambiziosa messa alla prova dalla realtà della guerra; il cinico non immune al dolore per la perdita di un amico; la burbera dalla dura corazza ma affaticata e protettiva verso quella che vede una versione giovanile di se stessa. Anche le scene di combattimento, per quanto girate con professionalità da Garland (regista che ha dato già prova di un talento visionario nei suoi film precedenti), non sono particolarmente innovative o emozionanti e sono spezzate dalla interpolazione degli “scatti” degli ardimentosi war reporter; e se i protagonisti sono spesso a pochi centimetri di distanza dai combattenti, sempre esposti al fuoco incrociato e indiscriminato e alle pallottole vaganti, tanto già sappiamo che i proiettili li colpiranno mai. La maggiore novità (relativa) è forse il fatto di essere ambientate in luoghi che negli americani, come già si diceva, devono per forza indurre una sensazione di straniamento e di perturbamento, come il Lincoln Memorial o la Casa Bianca (in un epilogo con tanto di ralenti colpevolmente scontato). Come il tema politico, anche quello etico imperniato sui reporter di guerra appare poco o nulla approfondito. Ancora una volta, rispetto a opere come Urla dal silenzio, Salvador o Un anno vissuto pericolosamente, la maggiore novità consiste nell'ambientazione, non nei cortili d'America, ma direttamente in casa sua, fin dentro la Casa americana per eccellenza, quella Bianca. Nel trattare il tema delicato dei confini dell'etica giornalistica e del diritto alla rappresentazione della guerra, dell'orrore e della violenza, però, non si va oltre l'alternanza tra i sentimenti adrenalici dei protagonisti: eccitazione vs terrore, fascinazione vs repulsione, attrazione morbosa vs insensibilità. I nostri eroi si catapultano in mezzo alle azioni di guerra o sopra mucchi di cadaveri: in genere senza paura, nemmeno per se stessi, ma anche senza pietà e senza ritegno per le vittime. PRISCILLA di Sofia CoppolaPrimo tempo: Elvis conosce Priscilla in Germania. Priscilla ha 14 anni, Elvis 24. Elvis vola negli Usa. Invita Priscilla. Priscilla vive nella casa del padre di Elvis. Poi vive a Graceland nella casa di Elvis. Elvis e Priscilla non scopano. Elvis le regala vestiti, pistole, automobili. Elvis si impasticca. Elvis e Priscilla si impasticcano. Gli anni passano. Elvis e Priscilla non scopano. Elvis si diverte con i suoi amichetti. Elvis va a girare i film. Priscilla cambia pettinature. Elvis flirta con le altre. Priscilla non flirta con nessuno. Elvis e Priscilla non scopano. Priscilla si rompe un po' le palle. Elvis ogni tanto sbrocca.
Secondo tempo: Elvis sposapriscillaelametteincinta. Elvis e Priscilla hanno una bambina. Elvis e Priscilla non scopano più. Elvis diventa un alternativo. Elvis brucia tutti i libri spirituali perché gliel'ha detto il Colonnello. Elvis si veste da Elvis. Priscilla prende la macchina e se ne va. Fine. Questa è più o meno la sinossi di Priscilla, il film con cui Sofia Coppola torna a parlare del suo tema, o meglio dei suoi temi - verrebbe da dire dettati dalla sua autobiografia di regista figlia di uno dei più grandi registi (o almeno lo è stato) della contemporaneità, Francis Ford Coppola (che la fece “recitare” a qualche mese o settimana dalla nascita ne Il padrino). I temi si possono sintetizzare in: bambina o ragazza o giovane donna (o gruppo di) “prigioniera” di una situazione di privilegiato benessere, che per lei diventa una sorta di gabbia soffocante; il rapporto di una bambina-ragazza-giovane donna (o gruppo di) con un maschio adulto o maturo , figura paterna o elemento di tentazione sentimental-sessuale. Sono temi che si trovano, entrambi - con pesature diverse - o uno per volta, ne Il giardino delle vergini suicide, Lost in Translation, Marie Antoinette, Somewhere, L'inganno, On the Rocks. Nel libro Elvis and Me di Priscilla Ann Wagner Beaulieu Presley, Sofia Coppola ha ritrovato entrambi i suoi temi prediletti, racchiusi nella storia di Priscilla, sedotta a 13 anni da un Elvis Presley ancora giovane ma già stella del rock'n'roll, idolo della gioventù americana intera, e irresistibile e inedito sex symbol per una generazione di adolescenti e donne giovani e meno giovani. Ma Elvis, in tutto l'universo femminile che gli sarebbe caduto i piedi ad una sola alzata di sopracciglio, sceglie la giovanissima, acerba Priscilla. E nemmeno per un'attrazione sessuale irrefrenabile: a detta del film (e quindi della stessa Priscilla) passano anni di conoscenza prima e di convivenza poi senza che i due abbiano mai un rapporto sessuale completo. Eppure Priscilla è pronta, ma è Elvis a procrastinare finché non sarà giunto il momento giusto (e cioè un brevissimo lasso di tempo in cui Elvis sposa Priscilla e la mette incinta, dopodiché il desiderio sessuale torna ad assopirsi o a dirigersi altrove). Perché allora una giovanissima adolescente come Priscilla? Dal film una possibile spiegazione emerge: Elvis è ormai preso nell'ingranaggio dello show business che (forse proprio a partire da lui) diviene inesorabile, e che nel suo caso è spietatamente, sapientemente regolato dal sedicente colonnello Tom Parker (il rapporto tra la rock star e il suo agente è stato raccontato in modo definitivo dall'Elvis di Baz Luhrmann). Se Elvis non può rimandare il servizio militare a quando vuole, non può sbattere il bacino come vuole, non può cantare quello che vuole come vuole, allora si procurerà una bambolina su cui rivalersi esercitando un analogo potere, coprendola di regali ma rifiutandole il compimento sessuale, influenzando le sue scelte di abbigliamento, tirandola o respingendola s suo piacere dai set in cui lavora, tenendola sostanzialmente imprigionata nella reggia kitsch di Graceland, urlandole dietro o scacciandola nei momenti di malumore. La Coppola sceglie un attore più alto di Elvis (Jacob Elordi) e un'attrice più bassa di Priscilla (Cailee Spaeney, Coppa Volpi a Venezia, che rivedremo presto in tutt'altri panni in Civil War), per sottolineare anche visivamente la sproporzione asimmetrica tra una star inarrivabile e la ragazzina qualunque di cui cerca la compagnia quasi si trattasse di un animaletto domestico. Ma alla Coppola in realtà non interessa Elvis; il suo Elvis (bizzarro destino cinematografico per una delle più grandi star del firmamento musicale e dell'industria transmediale dello spettacolo) non sarebbe esistito senza Priscilla, come quello di Luhrman non sarebbe esistito senza il Colonnello Parker. Il suo Elvis è un Elvis senza concerti e senza spettacoli, senza canzoni e senza film, senza sale d'incisione e senza set cinematografici o televisivi. E' un anti-Elvis, talmente consapevole e programmatico che forse poco sarebbe cambiato se i detentori dei diritti le avessero concesso l'uso delle canzoni che invece le hanno inopinatamente negato. E' un gioco tutto a sottrarre. I protagonisti del film (intorno a Elvis e Priscilla non emergono altri personaggi degni di nota) sono spesso ripresi in penombra o in controluce, a rimarcare che si sta parlando di una dimensione intima, sentimentale e domestica che è quanto di più lontano si possa immaginare dalla luce dei riflettori e dallo splendore di Hollywood o di Las Vegas, o dovunque stia di casa lo show business. E che cosa rimane di Elvis se a Elvis si sottrae Elvis? Priscilla, è appunto, ovviamente, la risposta della Coppola. Priscilla che parte come una giovanissima adolescente affascinata da un mito, diventa una ragazza con propri desideri, bisogni e aspettative; poi una giovane donna con qualche opinione e sempre più insoddisfatta di non poterle esprimere. Come la Belle di Povere creature! che parte da un cervello prenatale, Priscilla evolve, matura, diventa una donna. Come la (Diana) Spencer di Larrain, alla fine si mette al volante e si allontana dal suo regno sempre meno dorato e dal suo principe di un azzurro sempre più scolorito. Nel mentre, però, tra gli schiamazzi degli amici di Elvis sempre in occhiali da sole e un cambio e l'altro di pettinatura di Priscilla - esattamente come lei - rischiamo di annoiarci e di disamorarci della storia che lei sta vivendo e che noi stiamo guardando. MAY DECEMBER di Todd HaynesLa prima cosa a colpire, sui titoli di testa, con riprese ravvicinate di farfalle nella vegetazione, è la musica. Ad aprire il film e ad accompagnarne tutto il suo svolgimento ci sono infatti le musiche (rielaborate da Marcelo Zarvos) tratte da un film precedente, Messaggero d'amore, un film del 1971 in cui Joseph Losey descriveva i turbamenti sentimentali di un ragazzino affascinato da una donna più grande. Una scelta bizzarra, a tratti un po' sconcertante, che sembra dichiarare una scelta manierista e citazionista di Haynes (che già ha reso omaggio in precedenza, nei suoi ritratti femminili realizzati con Lontano dal paradiso e Carol, a uno dei più grandi esponenti del melò americano classico, Douglas Sirk).
Ma qui i riferimenti da cercare sono forse diversi. May December descrive soprattutto la relazione tra due donne (Julianne Moore sempre perfetta e sgradevole, tra determinazione e fragilità, ambiguità e nevrosi nel ruolo della più anziana, Natalie Portman, insinuante e ossessiva, in quello della giovane attrice). La prima è Gracie, assurta agli onori (e ai disonori della cronaca) per lo scandalo suscitato quando, trentaseienne sposata e con un figlio, venne scoperta amoreggiare con un compagno di scuola del figlio tredicenne; ora Gracie (sessantenne) e l'ex-ragazzino, ormai giovane adulto, sono sposati, hanno tre figli (la prima nata quando Grace era in carcere) e conducono un ménage famigliare apparentemente normale. La seconda è Elizabeth, una giovane attrice che ha scelto di interpretare un film ispirato alla vicenda di Gracie, di cui sarà la protagonista. Elizabeth arriva quindi a Savannah, dove vivono Gracie con il giovane marito Joe (interpretato da Charles Melton, paradossalmente il più premiato in un film che è un duello di attrici) e i figli, per conoscere la donna che dovrà interpretare e per capirne meglio la personalità, la storia, e il contesto in cui ha avuto luogo. Ma Elizabeth più che un'attrice coscienziosa sembra quasi una detective ossessionata da un cold case appassionante: la sua indagine psicologica e sociologica si svolge tra interrogatori alla colpevole (Gracie), alla vittima (Joe), ai testimoni (l'ex-marito e i figli di Gracie, l'avvocato), sopralluoghi suggestivi sulla scena del crimine (il magazzino del negozio di animali dove furono scoperti Gracie e Joe, e dove Elizabeth cerca di procurarsi un orgasmo), esame delle prove e della documentazione (vecchi giornali, foto, filmati, lettere rivelatrici, perfino radiografie). E' chiaro che l'immersione di Elizabeth nel mondo di Gracie tende ad un'immedesimazione che si fa identificazione mistificatoria, spossessamento e sostituzione. Gli echi cinematografici rimandano ai film dove la relazione femminile diventa rivalità, identificazione ostile, furto del ruolo e dell'identità: da Eva contro Eva di Mankiewicz, a Persona di Bergman, fino al cinema di Assayas che porta all'esplicitazione la suggestione vampiresca (Irma Vep, Sils Maria) o al Polanki (cosceneggiatore con lo stesso Assayas) di Quello che non so di lei (tutti film, detto per inciso, scritti da registi-sceneggiatori maschi). In un gioco di specchi che si fa insistito, le due donne si guardano fianco a fianco, si truccano a vicenda, cercando un'assimilazione fisica oltre che psicologica. La presenza di Elizabeth si fa sempre più invadente, tesa ossessivamente ad impadronirsi dell'aspetto, della psicologia, dei sentimenti e dei corpi delle persone che costituiscono il mondo di Gracie. Nel momento in cui Elizabeth legge/recita allo specchio le parole di Gracie (scritte su una lettera che la donna indirizzò al suo amante-ragazzino) è ormai sola, letteralmente al posto di Gracie, preludio alla impersonificazione finale sotto l'occhio delle cineprese, dove Elizabeth/Gracie si trasforma in una grottesca Eva tentatrice che induce al peccato con la complicità di un serpente. Ma in realtà il tema della manipolazione è molto più complesso di così: Elizabeth (che in un incontro con gli studenti rivela la labilità del confine tra realtà e finzione nella propria professione, parlando esplicitamente delle scene di intimità e sesso interpretate e vissute sul set) sfrutta la psicologia e anche le fragilità di Gracie per sublimarle nella propria interpretazione; ma il nodo centrale della storia risiede nel rapporto asimmetrico nato a suo tempo tra una trentaseienne e un tredicenne (May December è un modo di dire per indicare una relazione anagraficamente squilibrata – in genere in situazioni in cui è il maschio ad essere il più anziano); un'asimmetria che si ripercuote anche nel presente: ora entrambi i due sono adulti, ma Gracie è una matriarca che si comporta ancora con l'insicuro Joe con un'autorevolezza e una condiscendenza materna, mentre le sue certezze cominciano a frantumarsi in crisi nevrotiche e lei cerca di autoconvincersi che fu il giovanissimo a sedurla, e non il contrario. E d'altra parte il fatto che Gracie abbia accettato che si girasse un film su di lei e sulla sua storia sembra nascondere (fino ad un certo punto) anche il compiacimento narcisistico di chi vuole esibire le proprie scelte eterodosse e una pretesa serenità psicologica e famigliare, in un tranquillizzante contesto borghese e domestico (la prova del nove si avrebbe capovolgendo la storia a generi invertiti, e pensare alla vicenda di un trentaseienne maschio che seduce una ragazzina delle scuole medie mettendola incinta per poi assorbirla nella propria vita). Ma c'è un altro livello di manipolazione da considerare, quello della società e dei media, pronti a scandalizzarsi perbenisticamente davanti ad una relazione poco o per nulla ortodossa ma pronta ad avventarsi avidamente sulla storia per soddisfare le proprie pruderie voyeuristiche. La storia di Gracie e di Joe non appartiene solo a loro, ma ai tabloid, alle fiction, e a noi spettatori di May December. MEMORY di Michel FrancoQualche anno fa avevo scritto un breve saggio (pubblicato sul n. 198 di SegnoCinema nel marzo 2016) dal titolo “La memoria, la storia, l’oblio, il cinema”, in cui prendevo in esame le figure dell’amnesia e dell’oblio nel cinema contemporaneo, deducendone che l’assenza di memoria è spesso l’artificio retorico e psicologico per rimuovere contenuti storici ed esistenziali traumatici che non hanno potuto giungere ad una compiuta elaborazione e quindi al loro superamento.
Memory, il nuovo film del regista di origine messicana Michel Franco, a cominciare dal titolo dichiarativo, si sarebbe ben inserito in quella trattazione. Il tema della memoria (e del suo contrario) appare subito centrale: il rapporto tra Sylvia e Saul si innesca da principio su un falso ricordo di lei, che lo accusa di aver avuto comportamenti sessuali inappropriati quando lei era appena una dodicenne. Entrambi provengono da famiglie borghesi benestanti, ma mentre Sylvia è un ex-alcolista che ha seguito un lungo periodo di riabilitazione e ora lavora come assistente in un centro diurno per disabili, Saul, benché cinquantenne, è affetto da demenza precoce e ha delle falle nella memoria a breve termine che lo rendono inaffidabile. Franco, dopo il sulfureo Nuevo orden (ma in mezzo c’è stato anche Sundown), passa da un cupo affresco contemporaneo del disordine, della diseguaglianza e dei rapporti di potere, inquadrato in una dimensione fortemente socio-politica, ad un racconto intimo, centrato sulla relazione che si crea sui due protagonisti, entrambi alla ricerca di un rapporto che lenisca le ferite che la vita ha inferto loro, ma che si allarga anche ai rispettivi contesti famigliari. Ed è proprio nella famiglia di Sylvia che si radicano segreti inconfessabili che sono anche alla base dei suoi traumi, e che tutti cercano o fingono di non ricordare. Al racconto cinematografico spetta quindi il compito, via via fino alla catarsi finale, di smascherare i falsi ricordi, di cercare di tamponare le amnesie, di superare le rimozioni ipocritamente consapevoli (come quelle della madre di Sylvia e forse anche del cognato) o quelle psicologiche di donne che hanno cercato di superare con la dimenticanza gli abusi vissuti da bambine (come la stessa Sylvia o la sorella minore Olivia, vittima in secondo grado). Franco imposta la narrazione su una sequenza enigmatica e inqueitante (il pedinamento notturno di Sylvia da parte di Saul) ma mantiene poi un tono della narrazione piuttosto freddo e distaccato, con sequenze prevalentemente statiche a camera fissa. Il nichilismo senza scampo di Nuevo orden tuttavia si stempera, o addirittura si capovolge, nella speranza della ricostruzione di relazioni umane che possano risorgere e rinsaldarsi anche scaturendo da presupposti drammatici e problematici. Merito anche di due interpreti credibili come la Chastain e Sarsgaard (premiato a Venezia con la Coppa Volpi); ma sorge il dubbio che il provocatore Franco stavolta sia stato fin troppo buono, mettendo in scena una demenza che in fin dei conti provoca qualche limitato problema (un paio di svenimenti, l’impossibilità a seguire un film in tv), ma che non inficia i rapporti tra Saul e i suoi familiari, né la possibilità di intraprendere positivamente un rapporto sentimentale con Sylvia. AMERICAN FICTION di Cord JeffersonIl raffinato scrittore afroamericano Thelonious “Monk” Ellison, frustrato dal rifiuto degli editori del la sua ultima opera, ispirata a I Persiani di Eschilo, che, malgrado i giudizi lusinghieri, è ritenuta troppo poco “afro”, si diverte per stizza a scimmiottare gli scrittori che ottengono successo grazie allo sfruttamento degli stereotipi legati alla black culture.
E, guarda un po’, il suo nuovo libro, provvisoriamente intitolato My Pafology e firmato con un trasparente pseudonimo, suscita subito l’interesse di editori (che si offrono di comprare i diritti di pubblicazione a suon di centinaia di migliaia di dollari) ma anche dell’industria cinematografica che vorrebbe trarne un film (e qui si parla di milioni). Il libro - una parodia nelle intenzioni dell’autore - è sufficientemente grezzo e rude, violento, apparentemente “vero” e vissuto, intriso del gergo e della cultura di strada, pieno di stereotipi, dai melodrammi ambientati in famiglie disagiate ai criminali neri sbrigativamente ammazzati dalla polizia. E’ giusto quel che ci vuole per piacere agli editor e al pubblico, in particolare al pubblico bianco che così pensa di espiare i propri sensi di colpa e il proprio razzismo, conscio ed inconscio. Per rendere il prodotto più “credibile” e appetibile, l’agente di Monk presenta addirittura il suo fantomatico autore come un delinquente evaso e ricercato dalla polizia. A nulla serviranno i rimorsi e i ripensamenti di Monk, che arriverà anche provocatoriamente a cambiare il titolo del romanzo in Fuck, nella speranza di un ripensamento da parte degli editori e di un rifiuto. Il libro ormai farà la sua strada - con il titolo senza asterischi -, arrivando ad essere candidato ad un prestigioso premio letterario, nella cui giuria, guarda caso, è stato chiamato lo stesso Monk, dal momento che tutti, tranne il suo agente, ignorano la paternità dell’opera. Evidentemente tutto nel film tende al paradosso, e la satira è arguta e pungente, anche se si tiene sempre al di qua del confine del grottesco. Ad essere messa in ridicolo è l’industria culturale bianca (in campo letterario e cinematografico, rappresentata nel film da editori, esperti di marketing, registi, direttori di premi, ecc.), che si dibatte tra ideologia woke e strategie blackwashing, preoccupata di non apparire politicamente corretta e impegnata ad offrire al proprio pubblico - neri vogliosi di identificazione ma soprattutto bianchi con sensi di colpa - prodotti rappresentativi delle minoranze, ma rigorosamente adeguati ai relativi stereotipi di riferimento. Uno scrittore nero va bene, ma se scrive usando il crudo slang degli slums, e non è invece un presuntuoso accademico che cita i classici greci; un protagonista nero va bene (meglio di un bianco divorziato che racconta la propria vita), ma solo se è un gangsta, con catene d’oro, canottiere, pistole e sacchi di droga, in lotta con il mondo e che vive nell’universo delle canzoni rap. Cosa c’è di meglio quindi di uno scrittore criminale e ricercato, che, se si presentasse a ritirare il premio letterario tributatogli, rischierebbe di finire crivellato sotto i colpi di poliziotti bianchi? Cord Jefferson porta sullo schermo il romanzo – basato anche su spunti autobiografici – Erasure, cancellazione (si sfiora un altro tema sensibile e dolente, quello della cancel culture) di Percival Everett, guadagnando al suo esordio alla regia cinque candidature all’Oscar, tra le quali quelle per miglior film e miglior sceneggiatura. La storia principale è impaginata insieme alla rappresentazione della vita privata e famigliare del protagonista, che occupa uno spazio considerevole nella narrazione. Qui Jefferson dipinge un bel ritratto di famiglia, tra fratelli, madri, (il padre è relegato nei ricordi), anziane domestiche ormai “di famiglia” con relativi spasimanti, e nuove fiamme sentimentali. L’intento è evidentemente quello di fornire il quadro di una famiglia nera diversa, ma diversa solo dagli stereotipi che vogliono sullo schermo neri marginali e criminalizzati (come quelli che Monk guarda infastidito in un film che scorre in televisione): in realtà una “normale” famiglia altoborghese e benestante, composta sostanzialmente da brave persone, e da professionisti affermati (scrittori, medici, avvocati), che cerca di affrontare con la cultura, l’ironia e l’affetto reciproco le avversità e le sorprese che la vita spesso o sempre riserva alle famiglie normali (malattia, vecchiaia, lutti, tradimenti, separazioni, divorzi, orientamenti sessuali eterodossi, difficoltà professionali, ecc.). Ma proprio l’agio il film si prende in questo ritratto famigliare, per quanto gradevole e con una propria vena di tenerezza, rischia di annacquare l’interesse principale del film, quello della satira culturale, che pure ha momenti molto gustosi. Il racconto del libro nel film e del film nel film permette un gioco metatestuale, riuscito a volte meno (come i personaggi che si materializzano nello studio di Monk, seduto alla macchina da scrivere) e a volte più (come il triplo o quadruplo finale à la carte. Anche Jeffrey Wright, nel ruolo del protagonista, già pluripremiato per la sua partecipazione alla miniserie HBO Angels in America, è candidato all’Oscar, così come la colonna sonora di Laura Karpman, morbida e jazzata anche se talvolta un po’ prevedibile. Per concludere, visto che comunque è un film di da dibattito, un paio di dubbi mi sono rimasti: la rappresentazione delle brave persone all’interno e intorno alla famiglia Ellison non rappresentano forse dei controstereotipi, e quindi in definitiva degli stereotipi a loro volta? E le candidature del film all’Oscar, non rischiano forse di rappresentare un esempio di quell’ipocrisia dell’industria culturale a prevalenza wasp, che si sente in obbligo di mettere sul piatto una doverosa quota black? THE HOLDOVERS - LEZIONI DI VITA di Alexander PayneIl prof. Hunham di The Holdovers potrebbe essere in fondo una variante o una reincarnazione del Miles Raymond di Sideways (2004): entrambi i film sono scritti e diretti da Alexander Payne (non a caso figlio di un docente di Yale e di un'attrice) e interpretati da Paul Giamatti, che in entrambi i casi interpreta il ruolo di un insegnante “depresso, introverso e insicuro con le donne”, ma animato da una passione esclusiva (qui la storia antica, nel film del 2004 l'enologia – e in entrambi i casi l'apertura di una bottiglia pregiata segna una delle sequenze simbolicamente significative del racconto).
D'altra parte una certa affinità ce l'hanno perfino i rispettivi titoli, indicativi della poetica delle piccole storie marginali e antispettacolari di Payne: se sideways è sinonimo di “strade laterali, secondarie”, holdovers indica qualcosa o qualcuno di residuale, tenuto in sospeso. Ad essere “in sospeso” sono in questo film i tre personaggi principali, in una prestigiosa scuola superiore, Barton, chiusa per le vacanze di fine anno: un professore solitario e inviso a tutti, Paul Hunham, cui viene affidato l'ingrato compito di custodire gli studenti che per un motivo o per l'altro non hanno potuto tornare in famiglia per le vacanze; lo studente Angus Tully, scaricato dalla madre che vuole passare le vacanze a Saint-Kitts da sola con il suo nuovo marito; e Mary Lamb, la capo cuoca di colore che ha appena perso il figlio, caduto in Vietnam, dopo che anche il marito era morto in giovane età per un incidente sul lavoro. La narrazione di Payne procede per sottrazione, mandando in vacanza prima tutto il corpo docente e gli studenti e poi gli altri quattro altri studenti rimasti a Barton, lasciando soli i tre protagonisti a vagare per gli ambienti e i corridoi freddi e vuoti del grande edificio scolastico in mezzo alla neve (come fosse un Overlook Hotel in versione scolastica, dove si aggirano due adulti, uomo e donna, più un terzo personaggio più giovane; c'è perfino l'arrivo del quarto personaggio, che in Shining era un capocuoco di colore – come Mary –, e che qui invece è un addetto alle pulizie che si chiama Danny, esattamente come il bambino del film di Kubrick); infine allontana anche Mary, che va a trovare la sorella incinta. Alla fine l'attenzione si concentra quindi sui due soli personaggi maschili, che sviluppano loro malgrado un rapporto putativo e controverso di padre e figlio, con una progressiva conoscenza e accettazione reciproca. In realtà si tratta di una struttura chiasmica, perché nell'ultima parte tornano Mary e tutti i personaggi della prima parte, mentre fino all'ultimo vengono introdotti nuovi personaggi determinanti. Payne si prende il suo tempo, un tempo che si direbbe “naturale” per osservare le dinamiche tra i suoi tre antieroi: il professore che nasconde dietro la severità e il sarcasmo le frustrazioni personali e professionali di tutta una vita, ma che finisce per scoprire dentro di sé una capacità residuale di empatizzare con il prossimo e perfino una certa dose di altruismo; la cuoca che sembra incarnare con il suo fisico corpulento un solido buonsenso e una fondamentale bonomia, incrinato però da un dolore silenzioso e indicibile; e il giovane studente moderatamente ribelle che a sua volta ha perso il padre (scopriremo solo alla fine come) e che ora si sente respinto dalla nuova famiglia, incompreso e incompiuto. Complice la solitudine e l'isolamento, l'atmosfera nonostante tutto natalizia e festiva con le relative canzoni languorose e sentimentali, e le prove sociali cui i tre saranno comunque sottoposti, il terzetto arriverà comunque a comprendersi e a volersi un po' di bene - malgrado le differenze sociali, economiche e anagrafiche di partenza - e a formare, almeno per quel breve lasso di tempo, una sorta di nuova e strana famiglia. Dopo la fantascienza sociale acida e disturbante di Dowsizing, The Holdovers, con i toni della commedia dolceamara, è alla fine un film imperniato sulla scoperta della gentilezza e della dolcezza, due caratteristiche più volte esplicitamente citate nel film. Il lavoro di Payne è di grande finezza nel rendere naturali e quasi impercettibili gli slittamenti con cui i personaggi finiscono per avvicinarsi gli uni agli altri; spiace un po' che gli accenti melodrammatici, tenuti sotto traccia per tutti il film, riemergano malgrado tutto nel finale, per offrire qualche rivelazione inedita non indispensabile e soprattutto per arrivare ad una scena di addio finale con un adeguato e sufficiente livello di pathos. Pensando alla filmografia di Payne, padre e figlio (qui solo putativi) si separano solo dopo un'evoluzione positiva del loro rapporto, come in Nebraska, e l'anziano Hunham parte sulla strada come il pensionato di A proposito di Schmidt. Il film, dall'impaginazione molto tradizionale, senza guizzi narrativi o registici particolarmente originali, è ambientato nel 1970, con acconciature maschili, estratti di trasmissioni televisive e canzoni a ricreare l'atmosfera dell'epoca (all'inizio ci sono perfino le false imperfezioni della pellicola e qualche scricchiolio nella colonna sonora); la guerra del Vietnam è un'eco lontana, che ha portato a morire il figlio di Mary ma che non riguarda certo i figli di papà che studiano nelle esclusive scuole del New England e che per le vacanze invernali partono in elicottero per andare a sciare o vanno ai Caraibi. Paul Giammatti (che con Payne esce dai suoi abituali panni di attore di contorno o di caratterista per conquistare la ribalta del protagonista, come già in Sideways) si crogiola (ma senza strafare) nel ruolo per lui congeniale del professore burbero ma dal cuore, al fondo, tenero; nella parte di Angus esordisce con autorevolezza Dominic Sessa, ombroso e vibratile come richiesto dal ruolo, e Da'Vine Joy Randolph dà alla sua Mary Lambert un'apparente placidità venata di malinconia e di dolore. Giamatti e la Randolph si sono già aggiudicato il Golden Globe e ora aspirano all'Oscar; The Holdovers è candidato anche come miglior film, oltre che per la sceneggiatura e il montaggio. POVERE CREATURE! (Poor Things) di Yorgos LanthimosEsiste forse una correlazione tra la situazione narrata in Kynodontas, scritto in Grecia dallo stesso Lanthimos insieme al fido Efthymis Filippou, e quella di Povere creature! sceneggiato dall'australiano Tony McNamara partendo dal romanzo dello scozzese Alasdair Gray.
Si tratta in entrambi i casi di due “esperimenti” sul carattere e sulla natura umani: in Kynodontas con fini “educativi” e “morali”, in Povere creature! a fini “scientifici”. Nel primo un padre tiene segregati i tre figli in una villa suburbana, per tenerli lontani dalla corruzione del mondo, insegnandogli ad abbaiare per tenere lontani i “gatti feroci” che possono infilarsi nel giardino e storpiando il significato di parole comuni ritenute troppo compromettenti e pericolose. La figlia maggiore alla fine, alla ricerca disperata di emancipazione, tenterà una fuga, non sappiamo se destinata al successo. Nel secondo, uno scienziato pazzo e malato di ubris tenta di tenere segregata nella sua villa una giovane donna, trovata morta e incinta, nella cui testa ha trapiantato il cervello del feto che lei stessa teneva in grembo, e riportata in vita con scosse elettriche. Ma la ragazza, man mano che il suo cervello cresce, che progredisce nell'uso del linguaggio e che scopre le gioie del piacere sessuale, ben presto sfuggirà al suo padre/creatore/carceriere lasciando la sua fastosa e tenebrosa villa e il giardino in cui si aggirano animali ibridi e mutanti creati dalla folle chirurgia di Godwin Baxter. Entrambe le giovani donne poi si trovano ad un certo punto a sfogare nella danza la propria ansia di vita e di libertà: la “figlia maggiore” scatenandosi di fronte ai genitori allibiti sulla musica di un film proibito; Bella Baxter danzando sfrenata e disarticolata in una sala da ballo sotto gli occhi del suo preoccupato amante. Ma se il punto di partenza della poetica di Lanthimos si radica nella tragedia greca (le bizzarre prefiche di Alps; il mito di Ifigenia ne Il sacrificio del cervo sacro), con Povere creature! ci si sposta in un territorio decisamente neogotico. Il riferimento più diretto e più visibile è quello al Frankestein di Mary Shelley, e Lanthimos lo esibisce esplicitamente nel laboratorio di Godwin dove le scariche elettriche resuscitano il cadavere; ma la casa e il giardino londinesi di Godwin sono anche l'isola del dottor Moreau, dove Welles aveva immaginato un folle chirurgo dedito a mostruosi trapianti tra animali (e tra animali ed esseri umani); e Bella Baxter è anche un vampiro che prosciuga di energie e di soldi lo sventurato Wedderburn - che ad un certo punto finisce in una cella di manicomio come il Renfield di Bram Stoker -, o una sua versione femminile, come la Carmilla di Le Fanu che anticipò Dracula; o ancora è come Olympia, la fanciulla non umana uscita dai Notturni di Hoffmann che seduce con la sua danza perturbante. Alla fine del libro di Gray è la stessa Victoria, di cui Bella sarebbe la reincarnazione, a smentire la narrazione che la riguarda, e che lei attribuisce al suo “sciocco marito” che le ha cucito addosso una favola gotica e romantica, che, appunto, “puzza di tutto ciò che era morboso nel più morboso dei secoli”. McNamara e Lanthimos invece scelgono impavidamente di dare totale credito alla storia di Bella, impaginandola in una fastosa fantasia visiva che fa proprio del perturbante la propria ineluttabile cifra. Perturbante è in primo luogo, ovviamente, Bella, creatura/figlia del deforme professor Godwin, demiurgo dal viso deturpato, madre e figlia di se stessa, connubio di un corpo di donna e di una mente infantile, sgraziata nei movimenti e disarticolata – o oscenamente esplicita - nel linguaggio e nelle azioni, corpo estraneo impresentabile e destabilizzante gettato(si) viva e turgida di desiderio nel cuore della società come in precedenza si era gettata per morire nelle acque livide del Tamigi. Ma perturbante, in senso freudiano, è tutto l'universo in cui si trova a vivere la propria avventura umana (?) la bella Bella, tra città (Londra, Lisbona, Parigi) che “sembrano” Londra, Lisbona o Parigi senza esserlo, con una fisionomia artificiale continuamente deviata lungo gli assi del fantastico, sopra le quali (oltre che su un Mediterraneo solcato da una grande nave steampunk che emette fumi color pastello) splendono impossibili cieli psichedelici che sembrano usciti da un anime lisergico; mentre le strade sono attraversate da strani “cavalli a vapore” e i giardini sono abitati da animali che eccedono la possibilità di una reale esistenza giusto quel tanto che basta per risultare definitivamente ripugnanti. Ancora prima, è lo sguardo stesso ad essere deforme e innaturale, con gli ambienti espansi da grandangoli estremi e le prospettive rimodulate e deformate dalle lenti fisheye, come se gli interni fossero ripresi da un numero infinito di spioncini disseminati negli ambienti, mentre un trattamento simile subisce ironicamente anche la colonna sonora, popolata di suoni dissonanti e disarmonici. Nello stesso tempo, Povere creature! è una parabola femminista, o qualcosa del genere. In un mondo di maschi, delimitato ai quattro angoli dal folle Godwin, dall'innamorato Max McCandles, dal libidinoso Wedderburn, del marito/padrone Blessington, Bella nasce, muore, rinasce, evolve, sperimenta i piaceri perversi polimorfi dell'infanzia fino all'esplosione della libido; ma progredisce anche intellettualmente e moralmente, con un'etica tutta personale che le consente di prostituirsi senza alcuna remora (imprenditrice di se stessa che usa il proprio corpo come mezzo di produzione), ma anche di impietosirsi fino a gesti di generosità inconsulta (e ingenua) davanti alle miserie umane. Corpo desiderante e mente (sempre più) pensante Bella è anche un intrepido Pinocchio femmina creata dall'uomo ma all'uomo non più assoggettabile (au contraire...), che da burattino di carne si trasforma alfine in una donna. Una simile storia eccentrica sarebbe stata perfettamente nelle corde di un altro dei grandi autori imprevedibili della contemporaneità cinematografica, Lars von Trier (i titoli dei vari capitoli si accampano su sequenze mute e oniriche che ricordano i paesaggi lisergici e musicali che introducevano i vari capitoli de Le onde del destino), che ha spesso messo in scena il conflitto (culminante forse con Antichrist) tra ragione e istinto, tra un'istanza (pseudo)razionale maschile e una istintiva e affettiva femminile; in definitiva, per tornare di nuovo a categorie e terminologie freudiane, tra un Super-Io autoritario, prescrittivo, catalogatore, regolamentatore e costrittivo, tendenzialmente sadico e un Es desiderante, istintuale, affettivo, anarchico, spesso nella condizione di vittima rispetto al primo. Ma come la Grace imprigionata nell'universo astratto di Dogville che alla fine si ribella, anche la Bella di Povere creature!, errante come un Gulliver ipersessuato nel suo mondo gotico-vittoriano-art nouveau-psichedelico, non ha intenzione di subire le costrizioni (letteralmente) castratrici dei maschi. Lanthimos trova una complice assolutamente superba (entrambi figurano tra i produttori del film) in Emma Stone, creatura polimorfa dagli occhi grandi e dai lunghissimi capelli scuri, che dà spericolatamente a Bella anima e corpo, volto e nudità, gesti sgraziati e andature innaturali, parole nuove appena scoperte ed altre sfacciate e scandalose, accenti grotteschi e umoristici, crudeltà infantili e umana vulnerabilità. Intorno a lei Willem Dafoe, vittima e carnefice, carceriere in fondo permissivo, arrogante e consapevole della caducità umana, chirurgo folle dal volto e dal corpo deturpati dagli altrettanti folli esperimenti paterni, e poi Mark Ruffalo - che condivide con la Stone toni anche comici e quasi buffoneschi pressoché inediti nella filmografia di Lanthimos - e Rami Youssef. In un cast tecnico in gran parte ungherese, spiccano i decisivi contributi del direttore della fotografia Robbie Ryan, che passa con disinvoltura dal realismo minimalista di Ken Loach alla visionarietà barocca di Povere creature!, la scenografia immaginifica di Heath, Price e Mihalek, il trucco curato dal pluripremiato Mark Coulier, i costumi di Holly Waddington. Conquistati tra gli altri riconoscimenti il Leone d'oro a Venezia, un paio di Golden Globes e decine di candidature a premi vari, Povere creature! si presenta agli Oscar con undici nomination. Auguri. MAESTRO di Bradley CooperMaestro si apre con una citazione di Leonard Bernstein che dice: “Un'opera d'arte non risponde a delle domande, ne provoca; e il suo significato essenziale sta nella tensione tra le risposte contraddittorie” e si conclude icasticamente con Bernstein da vecchio, intervistato da una troupe televisiva, che si rivolge verso la telecamera e chiede “Altre domande?”
In mezzo ci sono i “pezzi” di Bernstein messi in scena da Cooper, le domande sulla su personalità sfaccettata, poliedrica e complessa, le risposte contraddittorie suscitate da una biografia trasformata a sua volta in “a work of art”. Il giovane Bernstein lo spiega alla sua futura moglie Felicia Cohn Montealegre fin dal loro primo incontro: entrambi sono già delle personalità composite, per storia famigliare e personale; quello che devono fare è quindi mettere insieme i pezzi delle varie parti di cui sono composte, in modo da trasformarle in una personalità unica e socialmente presentabile. Perché il mondo pretende che siamo una cosa sola, mentre Bernstein si sente plurale, multiforme, inafferrabile. Quando Felicia gli chiede se quello che desidera è veramente diventare il più grande direttore d'orchestra d'America, Lenny risponde esplicitamente, con la luce negli occhi “Io voglio tante cose”. Le avrà: Bernstein sarà il più grande direttore d'orchestra d'America, rivoluzionerà il musical con West Side Story, scriverà una delle più apprezzate colonne sonore cinematografiche per Fronte del porto, comporrà e dirigerà musica colta e musica sacra; conquisterà Felicia con il suo magnetismo, la sposerà e ne avrà diversi figli, ma parallelamente continuerà a coltivare le sue molteplici passioni omosessuali prima, durante e dopo il matrimonio con la donna che dichiara di avere amato. Probabilmente Cooper ha guardato alla figura di Bernstein come in uno specchio, o meglio in uno specchio frammentato in cui ha visto riflessa la propria poliedricità artistica di attore cinematografico e teatrale, di regista, sceneggiatore, produttore, autore e interprete di canzoni (per A Star Is Born accanto a Lady Gaga), ballerino (ne Il lato positivo e, paradossalmente, nello stesso Maestro). Se anche la struttura totale è complessa, articolata su tre segmenti non coincidenti tra loro per colore e formato (un prologo e un epilogo “contemporanei” a colori e a schermo pieno, cornice del racconto e nello stesso tempo metaracconto – l'intervista rilasciata alla tv da Bernstein anziano; una prima parte in formato 4:3 in bianco e nero; una seconda parte con lo stesso formato ma a colori), tutta la prima parte del film asseconda l'assunto teorico di una biografia “plurale” adeguando di conseguenza l'apparato stilistico della narrazione; ad una biografia “fluida” corrisponderanno quindi una fluidità temporale, con ardite ellissi (l'arrivo “istantaneo” a teatro per la sua prima esibizione), spaziale (nella stessa sequenza Leo esce da casa sua mezzo svestito e subito dopo tale e quale entra in una balconata della Carnegie Hall), di identità (in un apparente continuità di ripresa è Felicia ad inchinarsi ma Leo a rialzare la testa), di permeabilità tra realtà e finzione (Bernstein sul palco da spettatore si trasforma istantaneamente in uno dei marinai ballerini protagonisti del suo musical On the Town); analogamente lo stile di ripresa adotta buona parte degli stilemi a disposizione del regista: ellissi, montaggio alternato, carrellate, zoom, montaggio da musical, come anche inquadrature statiche (a volte giocate sulla profondità di campo, come nel primo colloquio da soli dei due). Gioca anche con cognizione di causa sull'espressività del bianco e nero (la scena della prova di recitazione in una stanza buia illuminata da una nuda lampadina o la suggestiva scena della figura della moglie che si staglia piccola e luminosa nel buio del backstage, ma minacciata espressionisticamente dall'ombra del marito direttore d'orchestra. Ma, benché sia dia conto della varietà ed eterogeneità della produzione musicale di Bernstein, così come della carriera parallela della moglie come attrice (mentre rimane completamente in ombra l'impegno politico dei due – per i quali lo scrittore Tom Wolfe coniò l'epiteto destinato al successo “radical chic” - a difesa dei diritti civili, a sostegno delle Black Panther e contro la guerra nel Vietnam), quello che appare interessare di più a Cooper è la fluidità sessuale di Bernstein e il suo rapporto con la moglie, amata e continuamente tradita. Sembra quasi – e non è esattamente un bene - che il regista nella seconda parte tenti di bloccare la personalità di Bernstein, prorompente nella prima parte, in una sorta di gabbia narrativa legata alla sua situazione coniugale di marito e padre. Mentre Bernstein si ribella tenacemente ai media e alla vita stessa che tentano di “inquadrarlo”, esplorando nuove strade musicali e nuove avventure (omo)sessuali al di fuori del matrimonio, anche lo stile di ripresa tira il freno a mano e si normalizza, prediligendo le riprese a camera fissa e i lenti movimenti di macchia, spesso in avvicinamento al soggetto della ripresa. Le discussioni decisive tra i due coniugi vengono riprese staticamente da lontano (nella scena in giardino) o a camera fissa in campo largo e a figura intera (la discussione in casa durante il passaggio della parata). Se c'è ancora movimento, significativamente, è soprattutto all'interno dell'inquadratura, come nella virtuosistica sequenza in cui Bernstein/Cooper dirige con istrionica veemenza coro e orchestra nel concerto nella cattedrale, all'interno di un lungo, lento e complesso movimento di macchina. Ma è di nuovo un piano sequenza la forma scelta da Cooper per descrivere l'agonia di Felicia sul letto di morte, che si apre con l'allegra entrata in stanza di Bernstein, in campo largo, fino a stringersi progressivamente sullo straziante primissimo piano del volto dei due coniugi. Il formato di proiezione si allarga nuovamente nell'epilogo, che rappresenta un Bernstein ancora affamato di musica, di amore e di sesso (ascolta i R.E.M. sull'autoradio e balla estaticamente in discoteca sulla melodia Shout dei Tears for Fears, accanto al giovane a cui ha appena impartito una personale lectio magistralis di direzione d'orchestra), ma che in una intervista televisiva rivendica con gli occhi lucidi l'amore - in bianco e nero - per la moglie perduta. Cooper firma un film d'autore – il film della vita? - in cui ha ambiziosamente e generosamente profuso tutto se stesso, assumendo i ruoli di produttore, soggettista, sceneggiatore, regista e interprete mattatore, calandosi anima e corpo in un personaggio bigger than life. Un plauso anche ai truccatori - lo vinceranno un Oscar? -, che lo rendono somigliante e credibilissimo in tutte le fasi di vita in cui Bernestein è raccontato, dalla giovinezza alla vecchiaia. Accanto a lui non sfigura assolutamente Carey Mulligan, a torto a volte ritenuta un'attrice monocorde e legata a ruoli cliché (basterebbe Una donna promettente a smentire un simile assunto), che a sua volta attraversa trasformisticamente, ma sempre con un'eccellente dose di sensibilità e adesione al personaggio, la storia di una donna vissuta in parte nell'ombra dell'ingombrante marito, passando dalla fascinazione e dall'ebbrezza della giovinezza alle disillusioni e alla sofferenza dell'età matura. Maestro ha avuto finora molte candidature, ma ancora non ha avuto riconoscimenti rilevanti. E' candidato anche a sette Oscar, miglior film, attore, attrice, sceneggiatura, fotografia, sonoro e trucco. Vedremo se stavolta (in precedenza Cooper ha già ottenuto nove candidature in vari ruoli) riuscirà a passare dalle notti da leoni alle notti da Oscar... UN COLPO DI FORTUNA - COUP DE CHANCE di Woody AllenWoody Allen ha girato 50 film in poco più di 50 anni; Coup de chance è uscito in Italia quando lui ne ha compiuti 88. Sarebbe un po' azzardato (e anche un po' ingeneroso) aspettarsi quindi qualcosa di completamente nuovo, anche se Allen sforna ancora ogni tanto delle fragranti sorprese.
In Coup de Chance, che vanta comunque il primato del suo primo film girato all'estero con un intero cast di attori non anglosassoni e completamente girato in francese (lingua che Allen ammette di capire un pochino ma di non parlare), ci sono molti elementi che rimandano in un modo o nell'altro alla sua filmografia precedente. C'è di nuovo Parigi ovviamente, come in Midnight in Paris, che sfoggia stavolta uno charme autunnale e un contorno di campagna francese; ci sono sempre il jazz (il tema ricorrente è la Cantaloupe Island di Herbie Hancock) e gli inconfondibili titoli in caratteri Windsor su fondo bianco. E poi ci sono le tematiche. Allen è un nichilista umanista che non si riconosce in nessun tipo di teleologia ed è convinto che la vita sia priva di un senso dato (se non quello che ci sforziamo noi stessi di dargli, eventualmente attraverso l'arte, l'amore, la bellezza, l'umorismo: la differenza tra una vita vuota e una vita insignificante l'aveva già spiegata con sagace leggerezza la Morte in Rifkin's Festival) e sia governata dal caso e dalla fortuna. Nel nuovo film c'è un personaggio che crede che la fortuna non vada attesa passivamente, ma occorra costruirsela da soli con le proprie azioni: una credenza che si rivelerà vera solo fino ad un certo punto. Il riferimento più citato è giustamente Match Point: anche lì una storia di passione adulterine, omicidi, e il caso che la fa da padrone; nel film inglese si parla di una pallina da tennis che colpito il nastro, potrebbe ricadere da una parte o dall'altra della rete, determinando la vittoria o la sconfitta; in quello francese c'è una pallottola che dovrebbe fingersi vagante, e che invece sa benissimo quale bersaglio deve colpire, e una pallottola davvero vagante e svagata che invece non si sa dove andrà a finire. Pallottola che vince, pallottola che perde – e il coup del titolo può essere riferito anche a quello esploso da un fucile da caccia. Anche la molla scatenante di Coup de chance è dovuta alla coincidenza e al desiderio: due ex-compagni di scuola si incrociano casualmente a Parigi, e in lui risorge immediatamente la passione, mai confessata prima, che nutriva nei confronti della bellissima ragazza dei suoi sogni. Da qui, lo sviluppo degli avvenimenti è tutta su una china discendente, dove gli elementi scivolano al loro posto in una dinamica che sembra nello stesso tempo accidentale quanto inevitabile. Ma in Coup de chance c'è pure un'investigatrice dilettante che è convinta di avere scoperto un delitto, come Diane Keaton in Misterioso omicidio a Manatthan; e vedendo il fisique du rôle dell'attrice francese che la interpreta non c'è dubbio che se il film fosse stato girato negli Stati Uniti la parte sarebbe andata all'amica e compagna di sempre. La domanda che ci si potrebbe porre: ma se non ci fosse stata la firma di Woody Allen, sarebbe stato giudicato comunque un bel film? non ha quindi ragion d'essere, dal momento che gli elementi sopra descritti (e altri ancora ce ne possono essere) lo individua senza possibilità di dubbio come un film tipicamente alleniano. L'andamento del film è agile e snello (Allen non va mai molto oltre l'ora e mezza di montato, come non fa mai troppo tardi nelle riprese, che devono finire di norma entro le 5 del pomeriggio) e la sceneggiatura dello stesso Allen è fluida e puntigliosa nel preparare coscienziosamente le fondamenta degli sviluppi drammatici successivi. Un altro valore aggiunto da tenere presente è sicuramente la bellissima fotografia di Vittorio Storaro, splendida nei toni caldi degli interni, che torna a filmare Parigi dopo il mitico Ultimo tango e che, a sua volta ultraottantenne, negli ultimi anni si scomoda solo per i film di Woody Allen. Gli attori sembrano muoversi a loro agio sotto la direzione del regista statunitense: il veterano Melvil Poupaud calca la mano sui toni dark del suo personaggio, mentre a contrasto Lou de Laâge, la “moglie trofeo” ex-ribelle, che cede ad un nuovo travolgente sentimento amoroso, salvo poi sentirsene ingannata, è di una bellezza radiosa e solare. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
|