Gli Oscar 2017E così non ha vinto La la land. Ossia, ha vinto solo 6 statuette. 6 statuette (dopo il record delle 14 nomination il risultato si ferma ben al di sotto dei film più premiati) che sembrano dire che è il miglior film del 2016. E invece no. O forse sì, così come annunciano smarriti nel pasticcio delle buste Warren Beatty e Faye Dunaway. E invece no, proprio no. Il miglior film è Moonlight. Alla fine la luna splende più delle stelle. La figuraccia è come minimo interplanetaria, ammesso che la cerimonia non venga seguita anche da altri mondi, e stupisce che non sia stata fatta in Italia, dove siamo abituati alla guittaggine e alla cialtroneria, e dove le cerimonie delle premiazioni cinematografiche ci hanno da sempre abituati all’improvvisazione e all’approssimazione, bensì a Hollywood, la capitale mondiale del cinema, là dove il cinema è una cosa serissima, e prima di tutto un’industria fortissimamente strutturata, fatta da tostissimi professionisti e dove non si può sbagliare un colpo. Ma forse l’erronea proclamazione di La la land è un clamoroso caso di lapsus freudiano in diretta mondiale, l’inconscio della società dello spettacolo che sceglie libidicamente il piacere e il godimento delle canzoni e delle danze tra le stelle (anche a costo di imparare che i sogni hanno un salatissimo prezzo) mentre il Super Io aveva deciso di autopunirsi imponendosi la scelta di un film dove si intrecciano profondamente le problematiche di razza, di genere sessuale e di emarginazione sociale. E’ un dato statistico di fatto che il cinema cosiddetto “leggero”, spesso più difficile da realizzare ad alti livelli rispetto a quello drammatico, viene discriminato quando si tratta di festival e premi. Così La la land ha brillato ai Golden Globe, dove i film comedy godono di una categoria protetta rispetto all’ingombro dei drama, ma è andato sotto agli Oscar, dove alla leggerezza del musical è stata schiacciata dal peso specifico dell’impegno, tanto più necessario (e praticato) dopo le polemiche sugli Oscar troppo wasp dell’anno scorso e vista la temperie politica dell’incipiente era Trump, di cui si agognava la fine ancora prima che iniziasse. Ma paradossalmente, nel momento in cui non si fa altro che parlare di fake news, le false notizie sono uscite direttamente da una busta dell’Academy, con il Dolby Theatre di Los Angeles trasformato in un teatro dell’assurdo. Devo ammettere subito (forse dovevo farlo ancora prima) che al momento attuale non ho ancora visto Moonlight, e quindi non posso fare paragoni ragionati. Per quello che ho visto, La la land poteva meritare il massimo riconoscimento, per l’insieme delle sue componenti e per il risultato complessivo, che è soffuso di una grazia rara. Ne ho avuto prove (anche indirette) sui social, dove ho letto dibattiti accesi (spesso incentrati sulla domanda capziosa, ma significativa, che suona come: La la land è o non è un capolavoro?), ho trovato molti che hanno visto il film più volte nel giro di pochi giorni (non credo succeda più molto spesso), e molti altri che sono rimasti sconvolti (non è un termine eccessivo) dall’unhappy end. Ma il finale non sarebbe stato così scioccante se Chazelle, oltre che farci innamorare dei suoi personaggi, non ci avesse emotivamente travolto con l’artificio della storia rinarrata in maniera alternativa nel sottofinale, trasportata dall’onda irresistibile della musica e impaginata con immagini fantastiche. Questo, indubbiamente, è cinema, nella sua forma migliore e al meglio della sua forza di fascinazione. Per fortuna dalla contesa è uscita vincitrice Emma Stone; anche qui, non sono in grado di fare paragoni con tutte le sue concorrenti (mi spiace già in anticipo per la Portman in quello che poteva essere il ruolo della sua vita; sono un fan della Huppert che sicuramente sarà stata perfetta in Elle; e Meryl Streep resta una delle attrici più mirabolanti, che ha vinto tutto), ma guardate la Stone nella scena del provino. Guardate come entra ed esce nel personaggio del suo personaggio, come in pochissimo tempo, sul suo volto in primo piano, si alternano emozioni differenti. Arriva al provino con la tensione della candidata messa alla prova, entra nel personaggio iniziando la finta telefonata ridendo e scherzando, poi si fa seria, e quindi è travolta da una tristezza struggente; poi il provino viene interrotto da un evento esterno e la Stone rimane sospesa tra Mia e il personaggio che Mia sta interpretando; sul suo viso permane il turbamento che l’ha sconvolta, che lascia gradualmente il posto allo sgomento, alla rabbia incredula. Se La la land è puro cinema, la Stone (senza nulla togliere a Gosling forse in una delle sue interpretazioni migliori, alle prese con un personaggio comunque credibile e non banale, e che ha dovuto imparare, oltre che a ballare e cantare come la sua partner, pure a suonare il pianoforte) è la sua profetessa. Meritate anche le statuette per scenografia, fotografia (i concorrenti erano in gran parte in gara con atmosfere fosche e cineree), e ovviamente colonna sonora (di grande coerenza interna oltre che fascino) e canzone (City of Stars). Casey Affleck vince per Manchester by the Sea con un personaggio introverso e sommesso, con un’interpretazione tutta in sottrazione, che però il partito preso del regista spinge sin sulla soglia del rischio di manierismo. Il film vince anche l’Oscar per la migliore sceneggiatura. Che è bella, a volte secondo me superiore alla regia, dello stesso Lonergan, con una grande attenzione ai rapporti tra i personaggi e con un’attenzione inconsueta per le figure secondarie (anche la Williams meritava forse per l’intensità regalata a una delle scene migliori del film, in cui la mdp si tiene a rispettosa distanza proprio quando le regole del melodramma avrebbero spinto a sfondare le distanze e a infierire con i primi piani); ma ha, a mio parere, una pecca imperdonabile: il lungo flashback in cui Lee rivive tutta la sua tragedia, seduto in silenzio davanti all’avvocato che sta tentando di affidargli la tutela del nipote. Il flashback racconta tutto - il preambolo, lo svolgimento, l’acme, il dopo -, con un’ansia di spiegare tutto (ebbene sì: uno “spiegone”, direbbero quelli di Gazebo), che nel resto del film non è mai così pesante e invadente. Il fatto che poi il regista decida di accompagnare il tutto (presente e passato, uniti dalla solennità della malinconia) con lo scontatissimo, abusatissimo cosiddetto Adagio di Albinoni, non fa che esaltare e sottolineare quello che secondo me è un vero e proprio errore di sceneggiatura. Non conosco neppure i concorrenti al miglior film straniero (tranne l’ineffabile Toni Erdmann), ma non posso che essere d’accordo con il premio all’iraniano Il cliente. Fahradi fa un cinema personale, complesso (ma comprensibile a tutti), profondamente umanista ma tutt’altro che consolatorio, con la capacità di conferire a quelle che potrebbero sembrare storie ordinarie la tensione e il pathos che li rende dei feroci e ineludibili thriller dell’anima. Il regista ha festeggiato a Londra, in forte e clamorosa polemica con la politica trumpiana; ma battendolo sul tempo la prima a dichiarare che non avrebbe messo piedi nella patria di Capelli arancioni era stata la sua attrice, Taraneh Alidoosti. Un film che ha decisamente perso è Arrival, del canadese Villeneuve, pluricandidato che rimane praticamente a mani vuote. E’ in effetti un film involuto, che sembra e forse è ripiegato su stesso, che manca della grandiosità del film di fantascienza e che, per perseguire un effetto di spiazzante rovesciamento narrativo finale, non riesce a guadagnare un’intima necessità. Sul nostro sito c’è chi l’ha trovato profondo, e chi l’ha trovato pretenzioso. Tra i film d’animazione, l’europeo La mia vita da zucchina ha scontato forse l’eccessiva depressività dei toni, già messa in evidenza sul nostro sito dal contributo di Oruam Norac nel suo Face/Off. Tra gli esclusi ovviamente ci interessava in particolare la sorte di Fuocoammare, che concorreva come miglior documentario: ma si trattava anche in questo caso di un film difficile pur nella semplicità del suo messaggio, con uno iato non sanato tra le sue diverse componenti. Al contrario, il monumentale (dura più di sette ore) documentario sulla vicenda Simpson O.J. è, come recita il sottotitolo, Made in America, con quell’impasto tra sport e spettacolo, violenza e avvocati, tragedia privata e evento pubblico che ne faceva anche nei pronostici il vincitore naturale e predestinato.
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IL DIRITTO DI CONTARE di Theodore MelfiUsa, primi anni '60. C'erano i macchinoni color pastello, il rock'n'roll, le gonne scampanate, le speranze suscitate dalla presidenza Kennedy. Happy days, quindi. Ma non per tutti: visto che stati del Sud come la Virginia, a dispetto della legislazione nazionale e federale, continuavano ad applicare norme rigidamente segregazioniste. C'erano quindi scuole separate per neri, posti sull'autobus separati, fontanelle e toilette separati. Simboli evidenti e plateali di una discriminazione razzista che ben più profondamente era sociale, economica, culturale. Le tre donne di cui racconta Il diritto di contare (un titolo italiano per una volta tanto forse migliore del più didascalico Hidden Figures originale, che gioca sul doppio senso di contare che allude alla professione delle protagoniste oltre che al diritto di aver riconosciuto il proprio valore e talento), assunte alla Nasa con mansioni impiegatizie, devono fronteggiare una doppia discriminazione, scontare una doppia colpa: sono donne, e sono nere, in un mondo di maschi bianchi in camicia bianca. Ma si dà il caso che le tre protagoniste non siano tre impiegate tra le tante, confinate in un edificio periferico nella sala delle colored computers (le calcolatrici colorate sarebbe una traduzione simpatica che non renderebbe il portato spregevole della discriminazione), ma tre veri talenti che lottano per emergere, per vedere riconosciute e valorizzate le proprie capacità, per portare il proprio contributo a un'impresa che entrerà nella storia dell'umanità. La Nasa è infatti sotto pressione, dopo che l'Urss non solo li ha preceduti nello spazio con lo Sputnik, ma ha messo in orbita per la prima volta un essere umano, Juri Gagarin. Nella rincorsa al nemico, che è simbolica e ideologica oltre che politica e strategica, tutte le strade sono tentate: l'utilizzo dei nuovi cervelli elettronici, il superlavoro cui vengono obbligati i dipendenti, ma anche l'ammettere in luoghi e a compiti prima assolutamente off limits dei dotati esseri femminili dalla pelle marrone. Delle tre amiche, una sarà quella che fornirà calcoli fondamentali per la riuscita delle missioni spaziali, dal Friendship 7 che porta in orbita John Glen in poi; un'altra sarà la prima donna nera ad aver accesso e a laurearsi presso la Facoltà di Ingegneria dell'Università della Virginia; la terza sarà una dei pionieristici programmatori dei primi elaboratori Ibm e avrà il merito ulteriore di trascinare nella sua avanzata professionale anche il gruppo delle colleghe discriminate. La parte più interessante del film sta forse nei titoli di coda, che racconta il futuro di queste tre donne triplamente straordinarie (la più anziana ha oggi 97 anni e l'anno scorso è stata insignita di una medaglia dal primo presidente nero della storia americana; sarà un'ossessione di questi tempi, ma ci si domanda se Capelli arancione avrebbe fatto altrettanto), mostra le immagini della Nasa e delle imprese spaziali dell'epoca, e il contesto quotidiano in cui ebbero luogo, facendo apprezzare a posteriori il mirabile lavoro di ricostruzione filologica compiuto dal film. Che, per il resto, scorre su binari prevedibili, con una messa in scena e uno stile di racconto molto tradizionali, dove ogni cosa è al suo posto - in sceneggiatura, in scenografia, nella colonna sonora - a condurci verso un finale per fortuna lieto ma già intuibile dalle premesse. Più interessato al racconto dei fatti reali e a sottolinearne la portata politica e simbolica, Melfi, regista, sceneggiatore e produttore (cui da questo punto di vista va tributato un merito: difficilmente saremmo altrimenti venuti a sapere di queste donne eccezionali, figure realmente nascoste o fuori campo negli album tutti al maschile delle foto e dei filmati di repertorio), schizza personaggi principali e comprimari senza troppo chiaroscuri, con una tendenza alla caratterizzazione non dico macchiettistica ma certamente un po' stereotipata (che emerge anche nella scelta degli attori: Kevin Costner l'abbiamo già visto aggirarsi in uffici statali in camicia bianca e cravatta, addirittura con lo stesso paio di occhiali, e Jim Parsons è una versione appena più matura del giovane scienziato presuntuoso interpretato in Big Bang Theory). Rimane la forza del soggetto, e del valore didascalico dell'anedottica: come quando la geniale matematica in grado di surclassare tutti i colleghi maschi e wasp ma non ammessa a bere il caffè che esce dalla medesima caffettiera, deve percorrere chilometri, magari sotto la pioggia, per recarsi al bagno per le persone di colore, situato in un edificio decentrato... Colonna sonora con canzoni di Pharrrell Williams e tre – forse eccessive - candidature all'Oscar (miglior film, sceneggiatura non originale e attrice non protagonista, Octavia Spencer). MANCHESTER BY THE SEA di Kenneth LonerganDevo premettere che sono molto diffidente nei confronti dei funeral movies, o dei film in generale che parlano dell’elaborazione di un lutto. Trovo che al cinema sia molto più facile istillare tristezza e malinconia piuttosto che allegria intelligente, e che sia molto più facile e comodo far piangere piuttosto che ridere in maniera intelligente; e imperniare il racconto sul decesso di una persona cara in questo senso rende tutto evidentemente molto più facile. All’inizio del film ero combattuto: bella la presentazione del personaggio, schivo, introverso, riluttante a qualsiasi contatto umano, abbozzata a sketches; ma un po’ programmatica la collocazione in un paesaggio nordico nella stagione fredda, tra neve, colori spenti, mare ingrigito; accompagnata da una colonna sonora classica e corale, a conferire mesta solennità al tutto; accoppiata alla recitazione di Casey Affleck che da principio mi è sembrata un po’ manierista e affettata, quasi si sentisse lo sforzo di mantenersi dimessa e atonale; e coronata dall’annuncio della morte del fratello. Mentre mi trovavo in una disposizione ambivalente, il momento veramente critico e potenzialmente determinante nell’orientare il giudizio in senso negativo è arrivato quando viene raccontato il terribile trauma che ha distrutto la vita del protagonista e minato per sempre il suo atteggiamento verso la vita e verso gli altri: un flashback piuttosto lungo in cui la scelta di legare il preludio del dramma, la tragedia nel suo svolgersi, la confessione autoaccusatoria e il presente in cui il tutto viene rievocato con l’abusato (e controverso, visto che ci sono forti dubbi sulla sua reale attribuzione) Adagio di Albinoni mi è sembrata una scelta veramente scontata e in larga misura banale. Mentre gli archi sviolinavano e i lutti si moltiplicavano, sentivo Oruam Norac sgomitare dentro di me per prendere il mio posto e relegarmi a un umiliante Face/Off. Ma poi, devo ammettere, ho cambiato idea. Il film si prende il suo tempo (dura circa due ore e un quarto), si prende cura dei propri personaggi, e, a parte il caso appena descritto – tuttavia notevole -, non accelera, non si affretta in spiegazioni non richieste, non sbanda, non cerca facili soluzioni retoriche, non forza lo spettatore alla commozione. Mi rendo conto di aver descritto tutti i pregi a forza di litote e di negazioni, ma un buon film talvolta si fa anche sottraendo, e il pudore a volte rende di più dell’esibizione. La sceneggiatura mi è sembrata spesso più asciutta, calibrata ed esatta rispetto alla regia, ma una cosa mi ha particolarmente colpito in senso favorevole, ed è la cura dei numerosi personaggi secondari. Manchester by the Sea è un film dove quasi non ci sono comparse e anche i personaggi accessori vengono descritti, a volte anche con una sola rapida pennellata, come dei personaggi con carattere e personalità. Se oltre a quello per gli attori non protagonisti (categorie in cui sono effettivamente candidati Michelle Williams e l’ottimo Lucas Hedges) ci fosse un Oscar per i personaggi assolutamente secondari, Manchester lo meriterebbe. Non è cosa trascurabile, in quanto la partecipe descrizione del contesto umano (forse ancor più di quello paesaggistico, un po’ invadente e programmatico) in cui si svolgono le vicende dei protagonisti contribuisce a conferire autenticità e credibilità alla narrazione. Anche il rapporto tra Lee, il fratello del defunto, che vive in un perenne inverno sentimentale, e il nipote Lucas, che sembra reagire al lutto per la morte del padre con una sorta di indifferenza e lottando per mantenere il proprio istinto vitale attraverso la sete di sesso, la compagnia delle ragazze e degli amici, la musica, lo sport, è descritto con misura e sensibilità. Il recupero di Lonergan rispetto ai rischi melodrammatici corsi durante la prima parte del film diventa particolarmente evidente mano a mano che ci si avvicina al finale. Se ancora a metà film l’incontro con la ex-moglie, ora con un nuovo compagno e di nuovo madre, viene raccontato attraverso l’artificio di una scena muta leggermente rallentata e con la retorica dell’accompagnamento musicale (ma con il particolare straziante degli occhi di Lee che mentre l’abbraccia si rivoltano verso l’esterno, quasi per evitare di vederla), l’ultimo casuale e inevitabile incontro per strada è ammirevole per la distanza che il regista mantiene dai protagonisti e per come lo risolve con la fuga imbarazzata e disperata di Lee. Nella scena si coagula un nodo di sentimenti inestricabili e indicibili, e Lonergan ha l’onestà di non sottrarvisi, e nello stesso tempo di non risolvere la situazione in un’impossibile riconciliazione, in una consolatoria riappacificazione degli ex-coniugi e delle rispettive coscienze, che manterranno per sempre le loro lacerazioni. Una misura analoga viene adottata nella soluzione finale rispetto ai rapporti, in cui la conflittualità è spesso risultata più forte della complicità e della comunanza nel dolore, tra Lee e il nipote Lucas. Anche qui, la retorica cinematografica consolidata che regola queste situazioni (personaggi che inizialmente si detestano finiscono per capirsi e amarsi; gli esempi sarebbero infiniti) è evitata. Uno dei punti di svolta decisivi è affidato alla visione da parte di Lucas di tre fotografie, che a noi spettatori non vengono mai mostrate; dopodiché, senza rinchiudersi su un pessimismo senza speranza, Lonergan, Lee e il film trovano una diversa via d’uscita, che sistema le cose scartando però le scorciatoie più facili e sentimentalistiche. Alla fine il terreno si sgela e i morti possono finalmente essere sotterrati; i primi fiori spuntano sui rami, e zio e nipote si trovano riuniti da uno scambio di tiri di una pallina, mentre camminano fianco a fianco. Le loro strade stanno per separarsi, ma, ci è dato sperare, non per sempre. DOPO L'AMORE di Joachim LafosseDi nuovo un appartamento in cui una coppia arriva alla deflagrazione, o alla dissoluzione, come ne Il cliente di Ashgar Fahradi, o, ancor più, come ne Il passato, il precedente film del regista iraniano. Anche qui c’è una convivenza più o meno forzata tra un uomo e una donna che non si amano più, un passato con cui chiudere i conti (se mai fosse possibile) le figlie che fanno da testimoni. Addirittura, Il passato e Dopo l’amore hanno in comune la medesima protagonista, Berenice Bejo, che ci aveva deliziato con il suo brio in The Artist, e che qui è imprigionata in una perenne espressione imbronciata e/o incazzata, che solo per un attimo, già a due terzi del film, si squarcia brevemente, quasi involontariamente, al sorriso e poi al pianto. Non si può dire tuttavia che il film di Lafosse sia un film derivato o d’imitazione: il regista belga è infatti da sempre un osservatore analitico e distaccato della famiglia e dei rapporti di potere (sentimentali, sessuali, economici) che si esplicano al suo interno. Per capire quanto i temi trattati siano per lui intimi e necessari, basti pensare alle analogie con un suo film del 2006, Proprietà privata, al cui centro erano di nuovo una madre separata (in quel caso l’ineffabile Isabelle Huppert), una casa contesa, due fratelli gemelli (sono gemelle anche le due bimbe presenti in Dopo l’amore, ma gemello è lo stesso Lafosse). I titoli originali, tra l’altro (anche se quelli italiani sono comunque sobri e attinenti), sono più precisi nel descriverci la temperatura dello sguardo con cui il regista o sceneggiatore guarda alle proprie storie e ai propri personaggi: la proprietà privata nell’originale è nuda, dopo l’amore quello che rimane è l’economia della coppia. I protagonisti di questo film infatti, già in crisi fin dall’inizio, per motivi mai sufficientemente raccontati, passa la maggior tempo a discutere di soldi, del valore e della proprietà della casa in cui vivono, comprata coi soldi da lei, ristrutturata con il lavoro di lui (è architetto). Costretti a una convivenza forzata e ormai dolorosa dalle difficoltà economiche del marito, disoccupato e indebitato, i due non parlano pressoché mai del futuro delle due figlie dopo la separazione, ma dibattono al contrario aspramente di quanto spetti all’uno e quanto spetti all’altro, di quale parte del valore della casa spetti a ciascuno, perfino del costo del cibo conservato (in reparti separati) nel frigorifero. Piuttosto che parlare di sentimenti, il conflitto arriva addirittura a colorarsi politicamente, rispecchiandosi in una sorta di lotta di classe domestica, in cui si confrontano in modo improbabile e grottesco capitale e lavoro. Il bilancio della coppia, alla fine dell’amore, non è affettivo o sentimentale, o se in qualche taciuta maniera lo è, è tradotto in crudi termini economici. Alla fine della loro storia, si monetizza: quanto ha messo l'uno e quanto ha messo l’altra. Viene da pensare che sia una fortuna che le figlie siano gemelle, e quindi pari, altrimenti si potrebbe temere che anche a loro possa venire applicata una pesatura economica. Sotto lo sguardo freddo del narratore, il film ha tuttavia un breve momento in cui il cuore si intiepidisce, in una sequenza di ballo familiare - di nuovo tutti e quattro insieme a cercare di fare gli stessi passi, a tenere lo stesso ritmo -, che provoca un effimero risvegliarsi della fiammella del desiderio. Il film sembra in effetti seguire uno schema speculare e opposto rispetto al classico film d’amore, in cui alla fase della conoscenza e dell’innamoramento segue quella della crisi o dell’insorgenza di ostacoli, per concludersi con la riappacificazione e il ricongiungimento nell’happy end. Qui, al contrario, si parte da una situazione di odio già conclamato, si passa attraverso una speranza di riconciliazione, che porta tuttavia a una separazione definitiva e forse ormai inevitabile. Come si diceva all’inizio, teatro unico di tutta la vicenda (Il cliente alternava un paio di appartamenti e un vero set teatrale), è la casa dei due, da cui, fino alle sequenze conclusive, il film non esce assolutamente mai. I personaggi entrano ed escono di casa, ma noi li vediamo solo al loro interno, dove le dinamiche si dipanano, si logorano, deflagrano: è una casa tutta percorribile, tutta praticabile, continuamente percorsa in ogni suo anfratto da una camera mobile e leggera. Tutto è al suo interno, come un ventre di amore e d’odio da cui non si potesse più sfuggire. Tranne che nelle sequenze finali, ma allora le cose cambiano. La camera, prima mobilissima a seguire i personaggi in ogni spazio domestico (la cucina, la sala, il bagno, le camere da letto, lo studio dove il marito si è arrangiato una vita separata in casa, il giardino), quando ne esce al di fuori si immobilizza. Le sequenze finali, all’ospedale, ai tavolini all’aperto, nello studio legale, sono tutte a camera fissa. Usciti dalle dinamiche perverse ma vitali che pervadono la casa, ogni sentimento, sia d’amore che di odio, sia di insofferenza che di rimpianto, si sclerotizza, pietrificato così come la macchina da presa. Non resta, per finire, che qualche questione d’argent. SPLIT di M. Night ShyamalanCi sono registi sharp, acuti, e registi dull, ottusi. Senza offesa, ma alcuni sono taglienti, altri no. Trovo che M. Night Shyamalan appartenga alla seconda categoria. Ogni tanto qualcuno se ne accorge, perché il regista di origine indiana alterna successi e pesanti flop. Personalmente, penso che la sua fama sia dovuta soprattutto ad alcune idee di sceneggiatura (quelle sì piuttosto geniali), come quella de Il sesto senso, il cui finale, in un’epoca in cui non era così usuale (ma nemmeno inedito; e in letteratura c’era già stato almeno Philip Dick), era in grado di rovesciare l’intera prospettiva del film già visto, così come farà in seguito quello di The Village. Dopo qualche insuccesso (come quello dell’inguardabile After Earth), Shyamalan torna a dimensioni produttive più ridotte, che gli consentono una maggiore libertà creativa. Purtroppo, a mio parere, senza approdare a grandi risultati. Split è dichiaratamente un thriller, ma paradossalmente è un film dull, e le due cose non possono stare insieme. Un thriller o è sharp, affilato, o non è. Eppure Split era sulla carta un’operazione abbastanza semplice, alla portata di qualunque buon mestierante hollywoodiano. Subito il rapimento, poi la prigionia, lo psicopatico con un mazzo di personalità, i tentativi di fuga, gli abusi infantili alla base dei comportamenti devianti o asociali, la canonica lotta finale tra la bella e la bestia. Ma innanzitutto, il film non fa paura, non tiene in ansia, non fa soffrire. Colpa del protagonista, prima di tutto, che fino al finale non fa del male a nessuno, e quindi non fa temere più di tanto per le sue vittime. Colpa della sceneggiatura, che gli costruisce addosso una pletora di personalità nessuna delle quali particolarmente interessante, e che non costruisce a sufficienza i personaggi delle vittime, cui è difficile affezionarsi e della cui scomparsa finisce per importarci relativamente poco. Colpa perfino di McAvoy, che con circa otto personalità a disposizione avrebbe potuto sbizzarrirsi alla grande, e che invece rimane su toni medi regalandoci un’interpretazione priva di qualsiasi carisma. Perfino gli abusi subiti da bambini dai protagonisti sono allusi e poco raccontati. Non sono certo un patito del torture porn, ma se fai un film del genere e non fai soffrire lo spettatore insieme ai personaggi, vuol dire che qualcosa non funziona. La regia stessa punta a una messa in scena piuttosto tradizionale, sobria nell’uso degli effetti visivi (pochi, concentrati nel finale, e per nulla memorabili) e ancor più di quelli sonori; la tensione latita e curiosamente anche l’utilizzo degli spazi sembra sprecato. A parte l’effetto claustrofobico della totale mancanza di finestre, si può dire che fa più paura un qualsiasi personaggio di Lynch che deve svoltare un angolo di tutto il film di Shyamalan, ambientato negli amati scantinati (presenti nella maggior parte dei suoi film). Anche la trovata finale dello zoo è del tutto sprecata. Come pure non serve a nulla far aspettare al volonteroso spettatore l’arrivo apocalittico della Bestia e poi non riuscire a costruirgli sopra nessuna sorpresa degna di questo nome, se non qualche vena in rilievo, una capacità arrampicatoria da uomo-ragno e una potenza da forzuto circense. E alla povertà di regia non supplisce alcun valore aggiunto. Il film non dà eco, non ha aura, non suscita significati ulteriori, non scava nell’inconscio dello spettatore, non crea una propria mitologia. Shyamalan forse è convinto del contrario: ci mette la sua faccia (in uno dei suoi consueti cameo), cita se stesso, e ha talmente fiducia nel risultato da eliminare solo i personaggi secondari, tenendosi tutte le situazioni aperte per un eventuale seguito, con il titolo già pronto (già lo prevedo: Split – L’orda – prossimamente su questi schermi...). ARRIVAL di Denise Villeneuve Denis Villeneuve è a mio parere uno dei migliori registi della sua generazione (anche migliore dei film che firma), per la capacità di immergere lo spettatore dentro storie involute e complesse, grazie a un uso magistrale delle immagini e dei suoni (che sono gli elementi costitutivi del cinema) con cui costruisce atmosfere suggestive e coinvolgenti. Bisognerà quindi cominciare a interrogarsi sul suo percorso d'autore, operazione troppo complessa da affrontare qui: dal romanzo d'appendice contemporaneo de La donna che canta, al thriller psicologico di Prisoners, al poliziesco di Sicario fino alla fantascienza di Arrival; e, oltre, fino alla curiosità (o alla spasmodica attesa) suscitata dai preannunci del suo seguito all'epocale Blade Runner di Ridley Scott. A parte i titoli composti da una sola parola (La donna che canta in originale si intitola Incendies), i punti in comune da cui partire sarebbero forse il gusto per le storie involute (questa è tratta da un racconto contenuto nella raccolta Storie della tua vita, scritta da Ted Chiang, di cui puoi leggere la mia recensione in Blog Notes), all'interno delle quali si celano misteri e segreti; la predilezione per luoghi chiusi e claustrofobici (le prigioni de La donna e di Prisoners, i tunnel di Sicario e di Arrival) e i paradossi narrativi (anche La donna come Arrival, e in parte come Sicario, nasconde nel finale un twist che scombina le carte narrative). Arrival presenta poi con il film precedente di Villeneuve una medesima situazione di partenza: una donna sola in un universo di maschi. La separatezza di Louise è sottolineata: all'arrivo degli alieni non si avvicina agli schermi tv in università, esce da sola, è sola in casa. Nella base militare dà l'impressione di essere l'unica donna presente. Louise è colei che porta sulle proprie spalle l'onore e l'onere della femminilità. E' un universo che aspetta di venire riempito. Ed essendo Arrival un film che mette in scena una metafora della maternità, la cosa evidentemente non è irrilevante. L'arrivo non è un'invasione, è un'annunciazione, il preannuncio di un lieto evento. Vi state chiedendo cosa c'entra la maternità? Eppure le astronavi sono come gigantesche uova, il tunnel di accesso è come un canale vaginale, la stanza centrale come un utero, gli scienziati come uno sciame di spermatozoi, che accedono al condotto - dove la gravità abituale è sovvertita - da una gru fallica che li conduce all'ingresso. Ma chi feconda chi? E' certo che l'incontro con gli alieni porta, come “dono” di questi ultimi, a una nuova concordia delle nazioni sulla terra, ma anche al futuro concepimento da parte di Louise di una bambina. Ma oltre alla metafora della maternità c'è, nello stesso luogo del testo, una metafora-specchio: l'interno dell'astronave è oltre che un utero un cinema, dove gli alieni e i loro segni si mettono letteralmente in scena su un grande schermo illuminato in una sala buia, a sottolineare che la fecondazione avviene non solo tramite il linguaggio, ma anche attraverso la necessità di una sua decodificazione (analoga a quella che deve esercitare uno spettatore che assiste a un film). Chi ne ha voglia e occasione può approfondire queste tematiche del film nel mio intervento sul prossimo numero 204 di Segnocinema, in uscita a marzo. Comunque è certo che Arrival, sotto le spoglie di un film minimalista (apparentemente la maggior parte del film si svolge in unità di tempo, luogo e azione), cupo (tra notti, interni e nuvole praticamente non si vede mai un raggio di sole) e anche un po' punitivo (neppure le visioni di Lousie, provenienti da un futuro “salvificato”, sono liete, ma al contrario concitate e indirizzate verso la morte di una persona cara), nasconde una ricca stratificazione di significati. Si veda la simbologia geometrica che collega alieni, maternità, linguaggio e concezione della struttura del tempo attraverso la catena di significanti astronavi-uova-ovuli-scrittura circolare-anelli-loop temporali, o il rettangolo vuoto della porta-finestra di casa di Louise che rima internamente con quello animato (letteralmente: nell'edizione italiana gli alieni eptapodi sono ribattezzati con nomi di personaggi dei cartoon) dello schermo dentro l'astronave. Ma si pensi anche al risvolto politico della parabola messianica di Arrival, che si interroga anche sull'accettazione e sul rifiuto del diverso; e che, mentre Trump muove i primi pesanti, inquietanti e rimbombanti passi dentro e fuori la Casa Bianca, mette sul campo un esercito praticamente disarmato, il defatigante lavoro della comunicazione come mezzo di risoluzione dei conflitti (in luogo delle tentazioni guerrafondaie e isolazioniste) e la necessità di una cooperazione mondiale globale per affrontare il futuro che ci aspetta. Futile ma inevitabile domandarsi come avrebbe reagito the Donald all'arrivo di questi nuovi ingombranti immigrati. La critica ha evidenziato gli aspetti più esteriori degli ascendenti di Arrival (le astronavi come il monolite di 2001 Odissea nello spazio, gli alieni buoni come in Incontri ravvicinati del terzo tipo); ma se la tematica della gravidanza e della rinascita lo accomuna a un altro grande film di sf recente, Gravity, di Alfonso Cuaron (seguendo il link sul titolo potete leggere un mio intervento sul tema già pubblicato su Segnocinema n. 184), è la radicalità della rappresentazione dell'alienità che rimanda piuttosto all'indecifrabilità di 2001, o (soprattutto sul versante sonoro) a L'ignoto spazio profondo di Herzog. La pensi diversamente? vedi se ti soddisfano di più le stupidate di Oruam Norac nel suo Face/Off SMETTO QUANDO VOGLIO - MASTERCLASS di Sydney SibiliaA dir la verità all’inizio, tra colloqui in carcere e reclutamento di cervelli in fuga all’estero, pensavo che le cartucce che scoppiettavano nel primo episodio si fossero nel frattempo un po’ bagnate.
L’idea del primo episodio era ottima: un gruppo di giovani ricercatori, laureati o plurilaureati, disoccupati, sottoccupati, maloccupati, che si inventano una nuova lucrosa attività: creare nuove sostanze stupefacenti, legali finché non inserite nelle liste di sostanze proibite dal Ministero della Salute, e spacciarle, mettendo a frutto tutte le competenze a disposizione: il chimico che sintetizza le sostanze, l’economista che stila il business plan, l’antropologo che vanta la conoscenza delle tribù urbane, e così via. Lo stesso Edoardo Leo, cervello e motore della banda dei ricercatori, ha girato come regista e attore una sorta di variazione sul tema con Che vuoi che sia, dove una coppia frustrata, in difficoltà economiche e con il desiderio di un figlio (come la coppia al centro di Smetto quando voglio) pensa di fare soldi girando un video porno. Alla fine del primo episodio avevamo lasciato i componenti della banda in seri guai con la giustizia. La Masterclass ha inizio quando una giovane e ambiziosa ispettrice di polizia li arruola in missione segreta, promettendo loro immunità e ripulitura della fedina penale, purché la aiutino a smascherare i produttori e commercianti di smart drugs. Le idee migliori sembravano in effetti già tutte giocate; ma poi il secondo episodio, che mantiene la compagine di interpreti del primo, i colori saturi e un po’ acidi, la colonna sonora rock punk, prende l’abbrivio e sale progressivamente, fino a un inaspettato finale action, intorno e sopra un treno merci in corsa, girato con umorismo e perizia. Con un paio di sorprese: la comparsa del cattivo interpretato da un famoso attore italiano e il rilancio a un terzo episodio, Ad honorem, con tanto di cliffhanger e trailer finali. Il cinema italiano, insomma, sembra prendere il coraggio, e la rincorsa, e osa la saga. Comunque vada, sembra un segno positivo. Smettono quando vogliono, ma per ora non ci pensano nemmeno. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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