PALAZZINA LAF di Michele RiondinoMichele Riondino figlio di un ex-lavoratore dell’Ilva, lascia Taranto a vent’anni per seguire la propria vocazione artistica e andare a frequentare l’Accademia d’arte drammatica, ma probabilmente anche per sfuggire ad un destino su cui grava l’ombra dell’acciaieria che opprime la città e condiziona il destino dei suoi abitanti.
Eppure i legami non sono certo recisi, anzi: l’attore e regista è impegnato nel Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti e, insieme a Roy Paci e al concittadino Diodato, è il direttore artistico del concerto del Primo maggio di Taranto. Ora anche con il suo primo film da regista cinematografico torna sul luogo dei delitti: la Palazzina Laf del titolo è infatti un edificio fatiscente all’interno dell’acciaieria, che fu utilizzato in passato per “esiliare” i lavoratori indesiderati. Quando la Riva prese il controllo dell’ex-Italsider, nella seconda metà degli anni ‘90, elaborò un piano di ristrutturazione che prevedeva la dismissione del personale in esubero e la quasi totale eliminazione del personale impiegatizio. La palazzina Laf arrivò ad ospitare un’ottantina di lavoratori, confinati in uno spazio concentrazionario sorvegliato da vigilantes, senza mansioni, costretti ad un’inazione alienante. La scelta che veniva loro data era di togliersi di mezzo lasciando l’azienda oppure riconvertirsi assumendo mansioni operaie, dequalificandosi ed andando a svolgere un lavoro per il quale non possedevano né capacità né competenze, e a volte neppure le condizioni fisiche sufficienti. Riondino si getta mani e piedi, già con piglio d'autore, in un’opera prima schiettamente, fortemente politica: prova ne è che l’Ilva ha cercato di impedire le riprese all’interno di quella che è la più grande acciaieria d’Europa (parte delle riprese sono state effettuate nella “sorella” piombinese); un altro paradosso se si considera che la vecchia Italsider, magnificata dalla penna di Carlo Emilio Gadda, si fece rappresentare da scultori come Calder, Moore, Pomodoro e commissionò opere cinematografiche tra gli altri a Rossellini (L’età del ferro) e ai fratelli Taviani. Il suo posizionamento è però, senza che questo sia un demerito, doppiamente rivolto al passato, sia dal punto di vista narrativo che da quello cinematografico. Sotto il primo aspetto, Riondino mette il filtro del tempo tra un'attualità che ancora oggi, mentre sto scrivendo questo articolo, è materia d'attualità per i notiziari, e una storia paradossale ormai lontana nel tempo; la vicenda della Palazzina Laf diventa un emblematico episodio germinale che rispecchia in forma embrionale la condizione di ricatto alla quale verranno sottoposti per decenni i lavoratori e gli abitanti di Taranto, costretti a scegliere tra il lavoro e la vita e la salute, tra uno stipendio che permetta di mantenere la famiglia e il rischio di morire negli incidenti sul lavoro o per effetto dei veleni cancerogeni prodotti dalle lavorazioni dell’acciaieria. Nello stesso tempo, il tono adottato dal film è quella della commedia sociale “nera” che ha caratterizzato parte della commedia all'italiana degli anni '70, da Scola a Monicelli, che non escludeva il ricorso al grottesco e al paradossale; qui in particolare il referente più diretto e naturale è ovviamente La classe operaia va in paradiso, di Elio Petri (1971), cui Palazzina Laf rimanda sotto diversi aspetti: la rappresentazione della condizione operaia raccontata “dall'interno”, la polemica dei protagonisti contro l'azione (o l'inazione) dei sindacati, il protagonista “negativo” che si asserve volontariamente alla logica dei padroni, e perfino la femminilizzazione ironica del nome del protagonista, Lulù ne La classe operaia, Caterino nella Palazzina Laf, (in entrambi i casi invece si tratta di maschi eterosessuali, per quanto messi in difficoltà dallo stress lavorativo). Come il Lulù interpretato dall'istrionico Gian Maria Volontè era l'alfiere stakanovista del cottimo, funzionale al sistema produttivo intensivo e sfruttatore, Caterino, pur di entrare nel surreale paradiso del non-lavoro della palazzina Laf, si mette a disposizione del padrone per spiare i colleghi e prevenire ogni contestazione nei confronti della proprietà. Questo tradimento alla solidarietà di classe, in entrambi i casi, non è privo di conseguenze: Lulù vede la sua vita andare in rovina, il suo corpo andare letteralmente a pezzi e la classe operaia accedere ad un onirico paradiso invisibile in una nebbia fittissima; Caterino sogna di partecipare alla processione della Settimana santa di Taranto immortalato nella figura di Giuda traditore. Per entrambi l'orizzonte di fuga è quello della pazzia e dell'alienazione: Lulù le contempla in un compagno di lavoro ricoverato in manicomio; Caterino, prima di avviarsi ad un autodafé che non sembra generare alcuna catarsi, le vede quotidianamente all'interno della palazzina Laf, dove i lavoratori mobbizzati manifestano (in forma anche caricaturale) i segni della depressione o delle manie ossessive. Riondino si autoassegna con ironia lo sgradevole ruolo di Caterino, che tradisce la fiducia dei compagni e asseconda di buon grado le losche manovre padronali - senza nemmeno essere in grado di comprendere le possibili conseguenze delle proprie azioni -, che si fa internare per non lavorare, ma nello stesso tempo giustifica la proprietà che vuole liberarsi del personale in esubero e disprezza come scansafatiche i lavoratori che non si adattano ad assumere nuove e dequalificanti mansioni. Nel gioco di maschere negative, Riondino trova un complice ideale in Elio Germano, che a sua volta si rende perfettamente detestabile nel ruolo del funzionario Ilva con cui l'operaio contratta le proprie delazioni, un dirigente cinico negli obiettivi e viscido nei modi e nell'aspetto. A rimanere fuori scena paradossalmente, ma consapevolmente, è proprio la città di Taranto, relegata ad uno sfondo lontano. Della città si vedono solo delle fermate dell'autobus in periferia, di uno squallore surrealista; gli ambienti della fabbrica e della palazzina Laf; un balcone affacciato su una piazza dove i ragazzini giocano a pallone, ma sotto le silhouette delle ciminiere della fabbrica, che permette ai loro padri di portare a casa il pane ma nello stesso tempo dispensa malattie e tumori con suprema indifferenza e imparzialità.
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UN COLPO DI FORTUNA - COUP DE CHANCE di Woody AllenWoody Allen ha girato 50 film in poco più di 50 anni; Coup de chance è uscito in Italia quando lui ne ha compiuti 88. Sarebbe un po' azzardato (e anche un po' ingeneroso) aspettarsi quindi qualcosa di completamente nuovo, anche se Allen sforna ancora ogni tanto delle fragranti sorprese.
In Coup de Chance, che vanta comunque il primato del suo primo film girato all'estero con un intero cast di attori non anglosassoni e completamente girato in francese (lingua che Allen ammette di capire un pochino ma di non parlare), ci sono molti elementi che rimandano in un modo o nell'altro alla sua filmografia precedente. C'è di nuovo Parigi ovviamente, come in Midnight in Paris, che sfoggia stavolta uno charme autunnale e un contorno di campagna francese; ci sono sempre il jazz (il tema ricorrente è la Cantaloupe Island di Herbie Hancock) e gli inconfondibili titoli in caratteri Windsor su fondo bianco. E poi ci sono le tematiche. Allen è un nichilista umanista che non si riconosce in nessun tipo di teleologia ed è convinto che la vita sia priva di un senso dato (se non quello che ci sforziamo noi stessi di dargli, eventualmente attraverso l'arte, l'amore, la bellezza, l'umorismo: la differenza tra una vita vuota e una vita insignificante l'aveva già spiegata con sagace leggerezza la Morte in Rifkin's Festival) e sia governata dal caso e dalla fortuna. Nel nuovo film c'è un personaggio che crede che la fortuna non vada attesa passivamente, ma occorra costruirsela da soli con le proprie azioni: una credenza che si rivelerà vera solo fino ad un certo punto. Il riferimento più citato è giustamente Match Point: anche lì una storia di passione adulterine, omicidi, e il caso che la fa da padrone; nel film inglese si parla di una pallina da tennis che colpito il nastro, potrebbe ricadere da una parte o dall'altra della rete, determinando la vittoria o la sconfitta; in quello francese c'è una pallottola che dovrebbe fingersi vagante, e che invece sa benissimo quale bersaglio deve colpire, e una pallottola davvero vagante e svagata che invece non si sa dove andrà a finire. Pallottola che vince, pallottola che perde – e il coup del titolo può essere riferito anche a quello esploso da un fucile da caccia. Anche la molla scatenante di Coup de chance è dovuta alla coincidenza e al desiderio: due ex-compagni di scuola si incrociano casualmente a Parigi, e in lui risorge immediatamente la passione, mai confessata prima, che nutriva nei confronti della bellissima ragazza dei suoi sogni. Da qui, lo sviluppo degli avvenimenti è tutta su una china discendente, dove gli elementi scivolano al loro posto in una dinamica che sembra nello stesso tempo accidentale quanto inevitabile. Ma in Coup de chance c'è pure un'investigatrice dilettante che è convinta di avere scoperto un delitto, come Diane Keaton in Misterioso omicidio a Manatthan; e vedendo il fisique du rôle dell'attrice francese che la interpreta non c'è dubbio che se il film fosse stato girato negli Stati Uniti la parte sarebbe andata all'amica e compagna di sempre. La domanda che ci si potrebbe porre: ma se non ci fosse stata la firma di Woody Allen, sarebbe stato giudicato comunque un bel film? non ha quindi ragion d'essere, dal momento che gli elementi sopra descritti (e altri ancora ce ne possono essere) lo individua senza possibilità di dubbio come un film tipicamente alleniano. L'andamento del film è agile e snello (Allen non va mai molto oltre l'ora e mezza di montato, come non fa mai troppo tardi nelle riprese, che devono finire di norma entro le 5 del pomeriggio) e la sceneggiatura dello stesso Allen è fluida e puntigliosa nel preparare coscienziosamente le fondamenta degli sviluppi drammatici successivi. Un altro valore aggiunto da tenere presente è sicuramente la bellissima fotografia di Vittorio Storaro, splendida nei toni caldi degli interni, che torna a filmare Parigi dopo il mitico Ultimo tango e che, a sua volta ultraottantenne, negli ultimi anni si scomoda solo per i film di Woody Allen. Gli attori sembrano muoversi a loro agio sotto la direzione del regista statunitense: il veterano Melvil Poupaud calca la mano sui toni dark del suo personaggio, mentre a contrasto Lou de Laâge, la “moglie trofeo” ex-ribelle, che cede ad un nuovo travolgente sentimento amoroso, salvo poi sentirsene ingannata, è di una bellezza radiosa e solare. ADAGIO di Stefano SollimaAdagio si basa su due prese di posizioni radicali ed evidenti, che ne costituiscono i punti di forza e contemporaneamente potevano essere elementi di appesantimento (e fortunatamente non è così).
La prima è assumere come (anti)eroi del film i rappresentanti di una generazione di malavitosi arrivati all'ultima spiaggia della vita: segnati da un passato violento, dal carcere, malandati, soli o male accompagnati, abitanti in alloggi squallidi e fatiscenti, ciechi, dementi, malati. Animali invecchiati male, che sembrerebbero solo voler morire nelle loro tane senza che nessuno gli rompa più i coglioni. La seconda è che la città è vecchia, malata, fatiscente, sull'orlo di una catastrofe apparente. La Roma della Storia, quella dal fascino millenario, è assente dal film. Come i suoi personaggi, che forse in altri tempi hanno vissuto anni d'oro di vite belle, ricche e violente, ora anche la città è ripiegata sui suoi margini, sulle sue periferie piagate e ripiegate sui suoi edifici anonimi, che sembrano tenuti insieme dai viadotti delle tangenziali. I suoi orizzonti sono perennemente arrossati da un incendio che sembra inestinguibile, come rosi da un neroniano cupio dissolvi; la sua aria è percorsa da faville, i suoi cieli, percorsi dal rombo degli elicotteri come in un'Apocalypse Now borgatara, piovono cenere. E' in questa città che si dipana l'ultima avventura di tre ex-amici-nemici, che condividono un passato di crimini, di violenze e di colpe, anche reciproche. Un ragazzo quasi imberbe (il freschissimo esordiente Gianmarco Franchini) che si è fatto incastrare in un gioco pericoloso è il filo che torna a legarli uno all'altro (i tre coprotagonisti, Servillo, Mastandrea e Favino, nel film i tre insieme non si incontrano mai, se non in vecchie fotografie sbiadite), e tutti e quattro alla loro nemesi, il carabiniere corrotto (Giannini) che ha ordito la trama di un'operazione illegale sfuggitagli subito di mano. I tre vecchi vengono coinvolti in una storia che non li riguarda, ma che porta con sé di nuovo, come il rigurgito mortale di un passato mai completamente digerito, sofferenza, violenza, morte. L'Adagio che dà il titolo al film indica un tempo musicale lento o molto lento, largo e formale, apparentemente adatto all'età dei protagonisti (due di loro, per darsi un appuntamento segreto - per dire - scelgono la sala d'aspetto di un'Asl); ma Sollima, che si è costruito un solidissimo mestiere in Italia (Acab, Suburra) e all'estero (Soldado, Senza rimorso), al cinema e alla tv (Romanzo criminale, Gomorra, ZeroZeroZero) e si ormai accreditato come il più autorevole rappresentante del cinema di genere in Italia, costruisce in realtà un noir duro, teso, nichilista, con una colonna sonora che va dalla trap alle composizioni originali dei Subsonica, fino al Califano di Tutto il resto è noia, scelto per commentare musicalmente il trailer per il suo carattere nostalgico e insieme pervaso da un ruvido e romanesco tedio esistenziale. Se gli elementi più deboli del film si concentrano soprattutto nell'innesco narrativo (un'operazione di dossieraggio che non sembrerebbe meritare né tanta elaborazione e dispiego di mezzi né lo spargimento di sangue che ne consegue) e, ancora più stranamente, nel finale, con una sparatoria nell'affollatissima stazione Tiburtina, Sollima (con il cosceneggiatore Bises) ha però l'astuzia di aggiungere alla trama noir alcuni elementi metaforici forti, che attribuiscono al racconto un valore aggiunto. Oltre a quelli insiti nelle situazioni di partenza, già indicati all'inizio (la senescenza degli uomini e della città), si veda ad esempio l'insistenza evidente sulle chiavi e sulle serrature, che dovrebbero tenere bene serrate delle porte che in realtà non riescono in una sola occasione a tenere fuori il passato e la pervasività inarrestabile della violenza. Ma se non ci si può rifugiare in un luogo sicuro, nemmeno la fuga è possibile, e i tentativi di lasciare la metropoli infestata sono frustrati dallo scacco, in una città imprigionata dalla propria stessa (auto)distruzione. Sollima (grazie anche alle scenografie e alla fotografia affidate rispettivamente ai fidati Paki Meduri e Paolo Carnera) dirige l'elegia funebre del suo romanzo criminale con un gusto visivo ruvido e nello stesso tempo elegante e autorevole, conducendo i suoi derelitti personaggi verso un esito che è iscritto nella natura stessa del noir, e che è forse eccessivamente sottolineato negli epitaffi visivi che chiudono il film. In un mondo di uomini dove i personaggi femminili sono praticamente assenti o ininfluenti, un Mastandrea cieco, un Servillo tarlato da una demenza senile vera o simulata, un Favino senza capelli sfigurato dalla malattia, si divertono (nella cupezza generale) alle prese con ruoli all'americana, trasformistici e virtuosistici, umorosamente caratterizzati fin dai nomignoli (Paul Newman, Daytona, Il cammello). Giannini (affiancato da Francesco Di Leva) si fa efficacemente carico della darkness del suo "cattivo tenente", mentre Franchini porta una ventata di sventata incoscienza e di ingenuità in un mondo che ha visto tutte le sfumature del noir e tutte le brutture dell'esistenza. In definitiva, Adagio (insieme a L'ultima notte di Amore, con Favino protagonista affiancato dall'ottima Linda Caridi) è sicuramente uno dei migliori noir dell'anno, in grado di non sfigurare al confronto con i modelli francesi o d'oltreoceano. FERRARI di Michael MannNon sono un appassionato di automobilismo, non so molto di Enzo Ferrari, non sono un fanatico di Michael Mann, il cui cinema ho sempre trovato freddo e un po' affettato, non amo i biopic che mi costringono a confrontare la finzione – di cui non sono quindi in grado di giudicare fedeltà, attendibilità o eventuali scarti creativi - con una realtà che di solito conosco in modo insufficiente.
Ma amo il cinema e quindi Ferrari l'ho visto comunque, perché Mann è uno che il cinema sicuramente lo fa. Vi dirò subito tuttavia che dopo la visione non sono diventato un cultore di Mann (il regista celebre per (non) aver fatto recitare insieme per la prima volta De Niro e Pacino), né un appassionato di corse, e nemmeno mi sono ricreduto sui biopic.Qui poi è tutto più strano e straniante perché a raccontare la storia di un mito nazionale è un regista americano, sulla base di una sceneggiatura scritta da un americano (deceduto 14 anni fa) tratta dal libro di uno scrittore americano, in un film dove i protagonisti sono attori americani (Adam Driver, Shailene Woodley, Patrick Dempsey), spagnoli (Penelope Cruz) e brasiliani (Gabriel Leone). In realtà il film non racconta la storia di Enzo Ferrari, ma meno di un anno della sua vita. E' il 1957. La fabbrica Ferrari è in crisi finanziaria. Produce meno di 100 macchine all'anno, anche se le vende a caro prezzo a ricconi e reali. Enzo è un avventuriero dell'industria automobilistica, un amateur, un dilettante che non pensa al marketing ma alle competizioni sportive, per le quali perfino le donne (nel film non lo si dice) non sono un elemento necessario della vita di un uomo, ma la “ricompensa” del suo lavoro. E' questo probabilmente l'aspetto che ha affascinato di più gli autori, quello di un ingegnere geniale che è al contempo uno sportsman, uno strano dandy combattente e competitivo interessato più alle vittorie che alle vendite, più ai primati che ai soldi. Ma per salvare la Ferrari si profila all'orizzonte la necessità di un'alleanza con qualche tycoon dell'industria, che potrebbe essere il Ford della Ford (un passaggio già visto di recente anche in Le Mans '66 – La grande sfida, che insolitamente racconta la sfida tra gli eroi che stanno dalla parte del Golia dell'industria delle auto, la Ford appunto, contro il piccolo Davide impertinente della Ferrari) o l'Agnelli della Fiat. Ma per stringere un'alleanza Ferrari dovrebbe rientrare in possesso della metà delle sue proprietà, intestate alla moglie Laura. Con la complicazione che Laura, indispettita dalle sue infedeltà, gli ha sparato un colpo di pistola in casa, ancora prima di scoprire che Enzo ha un'altra amante, Lina Landi, e pure un figlio, mantenuti in una bella dimora di campagna. E intanto si avvicina la data della Mille Miglia - una gara pazzesca che si corre su strade ordinarie da Brescia a Roma e viceversa – e bisogna mettere insieme per tempo delle macchine prodigiose e una squadra di vincenti. Nel racconto emergono altri particolari del passato del Commendatore: il rifiuto della Fiat, le corse da pilota in gioventù, gli amici persi sulle piste da gara, gli irripetibili momenti felici con la moglie, la dolorosa perdita del figlio, morto a 24 anni, la conoscenza della nuova fiamma (ops, lapsus: Fiamma si chiama la donna che conoscerà l'anno successivo e che frequenterà fino alla morte) con cui vive rinnovate gioie domestiche. Mann divide la sua attenzione tra le complesse vicende sentimentali di Ferrari (diviso tra un figlio amato e morto e uno vivo e bambino; tra una donna che fa parte della sua vita e un'altra con la quale vorrebbe forse vivere la restante parte), le preoccupazioni per le sue precarie riuscite imprenditoriali, l'innesto in squadra di un nuovo affascinante pilota spagnolo, e la preparazione e poi lo svolgimento delle Mille Miglia. Il maestro del cinema d'azione si concede solo corse a grande velocità sui bolidi rossi – più che altro impegnate in giri di prova - e una delle più spettacolari e agghiaccianti scene di incidente stradale mai viste al cinema (cosa ispirerà ai piccoli Spielberg-Fablemans di oggi?). Un problema aggiuntivo è quello che dicevo all'inizio (analogo immagino a quello che hanno avuto i francesi quando hanno visto il Joaquim Phoenix-Napoleone Bonaparte di Ridley Scott) e amplificato dalla visione del film in lingua originale. Siamo in Emilia ma tutti parlano in inglese (a parte qualche “commendatore” e qualche “signora”) - e la Cruz in un inglese da spagnola; quando si parla di soldi non si parla di lire ma di dollari; quando non si capisce un nome, ad esempio “Piero” si fa lo spelling come fanno solo gli anglosassoni. E come se non bastasse, nel ruolo del protagonista c'è il quarantenne Adam Driver, truccato per interpretare un uomo che nel '57 di anni ne aveva quasi 60. Tutto insomma sembra un po' posticcio. Mann non abusa dei paesaggi italiani, limitandosi a balenanti scorci di città durante le gare, e a strade di montagna e di campagna, e nel comporre il suo ritratto privato finisce per trascurare con disinvoltura alcuni elementi degni di nota dal punto di vista spettacolare, come la spiegazione delle regole della Mille Miglia o lo stesso svolgimento della gara finale, dove sembra che al regista non importi molto (ed è così) di chi vinca e chi perda, o ancora il processo cui fu sottoposto Ferrari dopo il terribile incidente avvenuto durante la gara. Parche didascalie finali e niente foto storiche sui titoli di coda (forse per non rimarcare la scarsa somiglianza dei protagonisti con i personaggi reali); ci si deve accontentare dei bolidi in bianco e nero che rombano selvaggiamente nelle sequenze d'apertura, memorie di un'epoca “rampante” e selvaggia della storia dell'automobilismo. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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