BARBIE di Greta GerwigLa prima domanda che ci potrebbe porre dopo aver visto il film è: vale la pena perdere tempo a riflettere e a scrivere di un oggetto così frivolo e pop come Barbie? Ma la domanda, dopo un secolo di storia della semiotica e della semiologia, appare piuttosto irrilevante (io del resto ho scritto per 20 anni su una rivista intitolata Segnocinema, che, se non avesse chiuso sciaguratamente i battenti nel mese di marzo, si sarebbe sicuramente occupato del film e del relativo caso). La domanda successiva è allora piuttosto "cos'è Barbie?". Domanda meno semplice e banale del previsto. Barbie è in effetti molte cose, e contiene al suo interno numerose dicotomie: mette in scena un giocattolo e si pone come film-giocattolo, è una bambinata in rosa ed è un pamphlet femminista, è un opera narrativa dell’ingegno ed è pubblicità allo stato puro (basterebbe il solo titolo a dichiararlo). L’oggetto Barbie di cui stiamo parlando è innanzitutto, ovviamente, da un punto di vista diciamo così fenomenologico, un film, ovvero un testo dotato di un valore (o disvalore) estetico di cui sono valutabili forma, contenuto e tecnica di realizzazione. Già a questo punto sorge immediata la constatazione (sulla quale tornerò più avanti) di una dicotomia tra i primi di questi due termini: ci troviamo infatti di fronte ad un testo dal contenuto fortemente ideologizzato e intellettuale ma dalla forma pop, se non kitsch o camp, e con una forte connotazione puerile. Ad un altro livello, altrettanto evidente, Barbie è un brand. Il titolo stesso rappresenta un trademark commerciale (la Mattel è ampiamente citata e rappresentata nel film, e addirittura portata in scena con la presenza di luoghi e personaggi direttamente legati al marchio) e contrassegna una serie infinita di prodotti (bambole, vestiti, accessori, oggettistica, ma anche produzioni audiovisive, dischi, ecc.). Prodotto transmediale per eccellenza, alla Barbie è stato fornito non sono un universo materiale e infinitamente componibile di esistenza (formato a sua volta da case, abiti, professioni, relazioni sociali, ambienti, mezzi di trasporto), ma anche di una vera e propria biografia personale familiare e relazionale. Barbie è però innanzitutto un prodotto in vendita e da vendere. È una merce saldamente inserita, in modo che si potrebbe definire addirittura emblematico, nel mondo delle merci e nella società dello spettacolo. Il film è insieme un veicolo di automarketing, che promuove se stesso (anche attraverso tutti i relativi paratesti, dai trailer a tutta la potentissima campagna di promozione che l’ha preceduto ed accompagnato) e di marketing, che promuove tutti i prodotti dell’universo Barbie, e che il film mette letteralmente sulla scena cinematografica e sulla scena dell’immaginario dello spettatore (o meglio della spettatrice, che con il Barbie-mondo ha sicuramente più familiarità). Barbie è inoltre un giocattolo, quindi un prodotto ludico destinato ad un pubblico infantile ma in una prospettiva di crescita verso la vita adulta; come la quasi totalità dei giocattoli Barbie è quindi sì un balocco, ma che prepara, educa (o diseduca) e in un certo senso prefigura lo sviluppo verso una vita adulta. Lo stesso si può affermare di un film-gioco che si pone però contemporaneamente come un espediente didascalico-didattico per illustrare anche agli spettatori più piccoli o giovani, più ingenui e meno ideologizzati, una visione politica della “battaglia tra i sessi”. Per la precisione Barbie è una bambola, quindi un giocattolo (feticcio, icona) destinato alle bambine e che alle bambine parla, dicendo loro (e alla società tutta) alcune cose sulla condizione femminile, sia pur in una dimensione ludica. Ma su questo punto si innesta una delle dicotomie esplicitamente e tematicamente dichiarate dal film. Barbie è infatti un simbolo di emancipazione femminile (è una giovane donna intraprendente, dotata di relazioni sociali e famigliari, sicura delle proprie capacità e capace di svolgere qualsiasi ruolo e professione, compresi quelli comunemente ritenuti di appannaggio maschile). In questo senso al momento della sua comparsa alla fine degli anni '50 sopravanza già altre narrazioni posteriori in cui fittizi mondi appaiono “perfetti” per l’immaginario maschile proprio perché relegano la donna ad una condizione muliebre, domestica e ancillare (da La fabbrica delle mogli - romanzo e film degli anni ‘70 - al suo recente epigono Don’t Worry, Darling). Nello stesso tempo però la Barbie rappresenta un modello (uno stereotipo, come dichiara esplicitamente il film stesso) in grado di imporsi con autorevolezza, se non autoritariamente, che delinea una ben determinata immagine della donna, in particolare della corporeità femminile; le bambine che guardano a Barbie come ad un modello avranno come obiettivo una donna eternamente giovane, snella, carina, elegante e sempre alla moda, con lunghi capelli, vita sottile, petto prosperoso, gambe lunghe, piedi destinati alle calzature con tacchi alti: un modello chiaramente irraggiungibile e destinato alla frustrazione per molte delle bambine. Ruoli molto ben individuati, ne I Simpsons, dal rapporto tra Lisa e la bambola Malibu Stacey, emblema di un consumismo pervasivo e conculcato fin dall’infanzia e nello stesso tempo fuorviante archetipo di una femminilità ideale irreale e conforme ad un progetto patriarcale e maschilista. Inoltre, Barbie e il suo mondo rappresentano anche un modello sociale ben definito e altrettanto artificioso, dove abbondano i beni materiali (di nuovo vestiti, accessori, case, arredamento, mezzi di trasporto, ecc.) e latitano i conflitti. Un risvolto molto precisamente individuato da Philip Dick, che, ne I giorni di Perky Pat e nel successivo capolavoro Le tre stimmate di Palmer Eldritch, immagina un’umanità che per sfuggire alla frustrazione e alle miserie del mondo reale si rifugia in un mondo infantilizzato, onirico, lisergico e allucinatorio, dove i protagonisti sono appunto la bambola Perky Pat e il suo compagno Leonard, parafrasi della coppia Barbie e Ken da poco comparsi sugli scaffali dei negozi americani. Barbie è quindi un modello di femminilità iconico: il film ci scherza sopra facendola comparire all’inizio, in una divertente e divertita citazione di 2001: Odissea nello spazio come il monolite venuto da un’altra dimensione che rivoluziona il modo di giocare delle bambine, spazzando via i vecchi bambolotti che sembravano prefigurare per le bambine un destino esclusivamente dedicato alla maternità e alla cura. Detto (almeno) questo, Barbie-film è, in logica conseguenza, un fenomeno sociale, che - realizzando i sogni più rosa di qualsiasi esercente cinematografico mondiale che abbia a cuore i conti delle proprie sale - attira al cinema, attrezzati con cartonati e cabine barbie-house per le photo opportunity (ma in rete ci sono anche i selfie generator per teletrasportarsi nel mondo di Barbie), in un periodo anticinematografico per eccellenza come luglio, masse di spettatrici (prevalentemente abbigliate o accessoriate in rosa) che accorrono a gratificare e celebrare il proprio investimento emotivo su un giocattolo e un personaggio molto amato (e un pochino forse anche odiato). Tutta questa stratificazione fenomenologica-semiologica era sicuramente presente a due autori (sceneggiatori e registi) intellettuali come Greta Gerwig e Noah Baumbach. Viene quindi da chiedersi, finalmente, quale sia la riuscita del film e come sia stata risolta l’aporia principale, capace di dividere radicalmente il pubblico, e cioé quella tra il film-giocattolo, dedicato al pubblico infantile e intrinsecamente di genere, e il film-manifesto femminista, giocoso ma piuttosto radicale, rivolto al pubblico adulto e più intellettuale. In effetti la ricezione e la discussione sul film da parte della critica, professionale o no, sembra polarizzata sull’attenzione rivolta di volta in volta alla forma o al contenuto. Agli opposti si trovano ad esempio le posizioni di chi lo considera uno stucchevole esercizio di estetica midcult e chi ne ne ha invece apprezzato l’impegno politico e femminista mascherato sotto la forma ludica; o, viceversa, chi ne ha lodato proprio l’aspetto formale (con un plauso particolare alle immaginifiche scenografie, costumi, musiche, ecc.) e chi ne ha criticato a vario titolo proprio il discorso ideologico. In effetti, pare che l’amalgama tra l’aspetto inevitabilmente naif dei personaggi e della storia e il discorso politico sia stata l’ultima preoccupazione (o quasi) degli sceneggiatori. La storia è di una semplicità disarmante: Barbie Stereotipo (si chiama proprio così: la Barbie classica, bianca, bionda, longilinea, incarnata da una Margot Robbie perfetta e radiosa, di una bellezza abbagliante ma anche spiritosa ed audace, sempre alla ricerca di nuove sfide e di nuovi ruoli estremi e sfidanti) vive nel mondo ginocratico e perfetto di Barbieland, ma comincia a sentire dentro di sé delle inedite inquietudini (inclusi “pensieri di morte”), che possono essere indagate e dissipate solo recandosi nel mondo reale; suo malgrado, viene seguita nella sua escursione nel mondo reale dall’amico-spasimante Ken (ma gli abitanti di Barbieland non hanno organi sessuali e Ken non sa esattamente per cosa spasimare), che, affascinato ed entusiasta del patriarcato che lì vige, tenta di importarlo a Barbieland una volta di ritorno. Se la narrazione non nasconde nulla della “bambolosità” del proprio universo narrativo - anzi, la esalta - in questo contesto artificioso e puerile si innestano esplicite riflessioni sulla politica dei sessi. Non c’è uno sforzo particolare di collegare le due dimensioni, cioè di inserire le riflessioni più teoriche nella narrazione effettiva, né di costruire in maniera articolata uno sviluppo o dei personaggi (quelli del mondo reale rimangono ancora più bidimensionali delle bambole) e le due dimensioni rimangono sovrapposte anziché fuse. Ma la natura ibrida del progetto non sembra aver scoraggiato né il pubblico più naif alla ricerca del divertimento puro e della gratificazione ludica né quanti sono accorsi a vedere il film (tra i quali mi ci metto pure io, incuriosito dalle firme di Gerwig e Baumbach sotto un progetto che sulla carta - e dai trailer - sembrava indifendibile) alla ricerca di argomentazioni critiche che andassero al di sotto della superficie glamour e plasticosa in stile Mattel. Conformemente alla sua natura, Barbie-the movie è quindi un giocattolo multiforme e mutevole, più difficile da maneggiare di quanto sarebbe stato lecito aspettarsi da un progetto commerciale nella sua natura ancora prima che nelle sue intenzioni. Ben oltre la strategia del product placement, e sia pur non inedito (vedi il caso Lego), il progetto Barbie rappresenta finora forse il caso più eclatante di brand movie, che spalanca entusiasticamente le porte a nuovi progetti e a nuove produzioni. Se saranno altrettanto abili nel portare le masse nelle sale cinematografiche, o ad offrire occasioni di dibattito altrettanto intriganti, è difficile da prevedere.
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ANIMALI SELVATICI (R.M.N.) di Cristian MungiuIn Animali selvatici Mungiu sembra adottare una strategia opposta a quella utilizzata in quello che resta il suo capolavoro, 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni. Si tratta sempre di un'impietosa radiografia della società rumena, malata e corrotta. Il titolo originale non potrebbe essere più chiaro: R.M.N. Sono insieme le consonanti contenute nel nome della nazione in cui si svolge la vicenda, ma è nel contempo la sigla della risonanza magnetica. Il protagonista Matthias scruta le lastre del padre, sottoposto appunto ad una risonanza, senza riuscire e distinguere e ad interpretare il male annidato nella testa del suo genitore, così come lo sguardo del regista (e con lui dello spettatore) vaga smarrito alla ricerca delle radici e della forma di quel male banale che corrompe la società rumena, incattivisce i suoi componenti, si oppone all'empatia, impedisce il concretizzarsi di una solidarietà umana e sociale anche minima. Anche Rudi, il figlio di Matthias, ha visto la presenza del male di vivere, nel bosco che attraversa per andare a scuola, e ne è rimasto ammutolito; ma quell'immagine è scomparsa, e forse non si è trattata di una visione ma di una pre-visione, la sensazione dell'incombere di qualcosa di ineluttabile, e di fronte al quale le parole sono inutili. Ma tanto 4 mesi era teso, concentrato, coeso, stretto in una concatenazione dei fatti e degli accadimenti che lasciava lo spettatore attonito e senza fiato, tanto Animali selvatici è dispersivo, policentrico, divagante. Oltre al protagonista maschile Matthias, operaio che scappa dalla Germania dopo aver preso a testate il suo capo reparto che lo insulta come zingaro (non lo è) si delinea e ne emerge uno femminile, Csilla, direttrice di uno stabilimento panificatore che sta assumendo dei lavoratori provenienti dallo Sri Lanka. Ma prima e dopo altri personaggi affollano la scena: la moglie di Matthias, con cui lui è in crisi (anche per quello che ritiene un modo troppo protettivo di allevare il figlio, che lui vorrebbe più virile e combattivo), il piccolo Rudi, il padre Otto, la proprietaria dello stabilimento, gli operai cingalesi, un ricercatore ambientale francese e i suoi ospiti, il prete del paese, il sindaco, e una folla di personaggi che riempiono letteralmente la scena e rendono la parola, a volte mantenuti (volontariamente) fuori fuoco. Il paese della Transilvania dove si svolge Animali selvatici è un mondo rurale complicato anche dal punto di vista etnico, geografico, sociale e culturale. Nel paese si trovano a convivere rumeni, ungheresi (i rom problematici sono stati a quanto pare già espulsi in precedenza), tedeschi, francesi, cingalesi, e le lingue si mescolano di conseguenza, con l'aggiunta dell'inglese passe partout; nel villaggio arrivano operai di colore scuro che sembrano alieni e come tali vengono trattati (immediatamente etichettati come musulmani benché non lo siano), mentre i rumeni emigrano all'estero per cercare salari più alti e miglior fortuna. Intanto si balla con le musiche tradizionali ma anche al suono di Bella ciao, mentre la protagonista al violoncello si esercita con le melodie sofisticate del tema di Yumeji's composte dal giapponese Shigeru Umebayashi per il film hongkonghese In the Mood for Love. Tutto si mescola, geografia, cultura, società, lingue, ma niente si compone, e la mescolanza genera conflitti anziché nuove forme di conoscenza e di convivenza. Nulla serve ad unire, né i legami famigliari ed affettivi (Matthias litiga con la moglie, maltratta il figlioletto, ha una relazione con Csilla ma non sa se la ama o no), né quelli religiosi (i cingalesi cattolici vengono estromessi dalla chiesa e il prete esprime un atteggiamento retrivo, più attento alle idiosincrasie dei compaesani che allo spirito cristiano di accoglienza e di solidarietà), né quelli sociali ed economici (qualcuno in paese ruba le pecore del padre malato di Matthias, mentre la gente del villaggio non accetta i bassi salari offerti dal panificio ma osteggia gli stranieri che arrivano a fare i lavori che loro rifiutano), né tanto meno quelli politici (il Sindaco si trincera dietro la democraticità dell'espressione delle opinioni senza prendere una posizione netta), etici (anche il ricercatore che difende la biodiversità viene visto con sospetto e dileggio) o culturali (il centro culturale del paese ospita alla fine un'assemblea dove esplode tutto il viscerale razzismo dei residenti). Il film stesso sembra indeciso sulla linea narrativa da seguire, ne mescola e ne intreccia diverse, accumulando un numero forse eccessivo di sottotrame (la malattia del padre di Matthias, il rapporto di questi con la moglie e con l'amante, le visioni di Rudi e il tentativi di Matthias di dargli un'educazione virile; la vicenda delle donne che gestiscono il panificio – la proprietaria e la direttrice – che cercano di coniugare imprenditorialità e solidarietà umana e sociale; quella del furto di pecore; quella della rivolta prima pacifica e poi violenta del paese contro gli immigrati, ecc.). Lo stesso tono del film non è omogeneo, e lo spettatore rimane spiazzato quando l'impianto rigorosamente realistico del film dispiega risvolti quasi soprannaturali nel sottofinale e decisamente onirici nell'ultima sequenza. Mungiu ha d'altra parte fortemente voluto il film, l'ha prodotto mettendo insieme una variegata coalizione di coproduttori (rumeni, francesi, svedesi), e conserva uno sguardo lucido e asciutto sulla società del suo Paese. L'elemento deflagrante alla fine, e quello che più gli interessa, è quello legato all'arrivo dei cingalesi, respinto dapprima con un rifiuto istintivo e viscerale verso il diverso (“non ho niente contro di loro, ma devono rimanere al loro Paese”) e degenerato poi in aggressioni stile ku klux klan con tanto di cappucci, maschere e torce incendiarie. Non inganni l'immagine idilliaca della locandina, con i personaggi su una barca sopra un lago circondato da alberi autunnali rosseggianti; Animali selvatici è un film adulto, dialettico e complesso – e invernale -, che rifiuta qualsiasi scorciatoia romantica o accattivante. Con almeno una sequenza memorabile: quella dell'assemblea del paese convocata contro gli immigrati, un inesorabile piano-sequenza di oltre un quarto d'ora, con decine di personaggi nell'inquadratura, in cui il malcontento esplode senza freni inibitori e gli abitanti, moderati dal Sindaco, intervengono per esprimere in maniera articolata e argomentata il loro rifiuto del diverso e i loro preconcetti. La discussione, estremamente credibile, infuria, divaga (alla fine si attacca non solo la proprietaria del panificio che ha una Mercedes in leasing, ma anche il parroco che ne ha una di seconda mano di proprietà della madre, mentre i residenti di origine rumena e quelli di origine ungherese quasi vengono alle mani), mantenuta per quasi tutto il tempo in un fuori fuoco dove non importa tanto la faccia di chi parla, ma quello che dice; contemporaneamente, in primo piano, Matthias e Csilla discutono animosamente della propria relazione (lo stesso Matthias ha firmato la petizione anti-immigrati), mescolando nello stesso spazio visivo e sonoro privato e collettivo, dove il privato si fa politico e viceversa. Il fucile che ha girato di mano per tutto il film, alla fine, sparerà; e gli orsi tanto evocati, alla fine, faranno la loro comparsa. Ma nulla si risolve. Nulla si ricompone. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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