Appassionanti, interessanti, ambivalenti, deludenti: ecco il mio bilancio di fine stagioneDirei che ormai la stagione cinematografica 16/17 può darsi per finita. Io ho visto circa 66 film usciti tra settembre 16 e luglio 17, più un tot di inediti (in particolare dal Festival del cinema africano d’Asia e d’America latina e dal Noir Film Festival). Non do voti e quindi non posso fare medie, ma mi è sembrata tutto sommato un’annata abbastanza buona, meglio la prima parte della seconda. Vi dico qui sotto cosa mi è piaciuto, e non solo.
Nel caso vorreste approfondire, poi, la maggior parte dei film di cui parlo sono recensiti nel sito: li trovate distribuiti in rubriche e in ordine alfabetico nella colonna qui a destra. I FILM DEL CUORE
CAPTAIN FANTASTIC, DOPO L’AMORE, LOVING, IL DIRITTO DI CONTARE, MISS PEREGRINE, UN PADRE, UNA FIGLIA, ROBERT DOISNEAU – LA LENTE DELLE MERAVIGLIE, T2 – TRAINSPOTTING, TOM A LA FERME, ecc. DELUSIONI D’AUTORE
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SING STREET di John CarneySi direbbe che per John Carney vita cinema e musica sono un unico blocco fuso insieme. Bassista in un gruppo (The Frames), autore di videoclip, regista di film come Once e Tutto può cambiare dove la musica era più un personaggio che un tema o un elemento di contorno. Lo conferma ancora con Sing Street, che si svolge a Dublino verso la metà degli anni '80, protagonista il quindicenne Conor, pressapoco coetaneo, oltre che concittadino, del regista all'epoca. La famiglia di Conor va male, i genitori litigano e sembrano sull'orlo della separazione (non del divorzio perché in Irlanda non esisteva), il fratello è un sarcastico frustrato, la situazione economica è precaria e forse occorrerà vendere la casa, sicché per risparmiare innanzitutto Conor viene spedito in un liceo più economico, frequentato da tipacci e gestito da preti maneschi. Ma Conor sfugge a tutto ciò che lo circonda attraverso una strada imprevista: una bella ragazza sdegnosa, aspirante modella, dall'altra parte della strada; una balla inventata per fare colpo su di lei (ha una band, sta cercando un'attrice per girare un videoclip); un pittoresco gruppo musicale messo su in fretta e furia per tenere fede alla bugia, ed ecco che la sua vita cambia verso in modo imprevedibile: arriveranno l'amore, la tristezza, l'allegria, la musica, la creatività, l'amicizia, nuovi sogni e una nuova fiducia in se stesso. Carney (regista, sceneggiatore, produttore, autore delle canzoni), mentre si diverte con una miriade di citazioni musicali che ricostruiscono la storia del brit-pop anni '80, tra Duran Duran e Joy Division, Joe Jackson e Cure, David Sylvian e Jam, racconta bene quell'età di passaggio in cui ancora non si sa chi si è e tutto sembra possibile: Conor si dichiara musicalmente (senza sapere di cosa sta parlando) un “futurista”, perché la sua identità in evoluzione si annida in un futuro ancora nebuloso (e al di là di un mare procelloso, ci informa il finale), e i vari generi musicali e relativi look - molti di quelli dominanti negli anni '80 - sono varie tappe camaleontiche metafora della progressiva ricerca di sé: non solo della propria identità musicale ma dell'identità tout court. Alla fine lasciamo Conor alla guida della barchetta del proprio destino, con a bordo la ragazza amata e lo sguardo fisso al futuro, pronto a spingersi molto più in là di quanto sia riuscito ad andare il suo disincantato fratello maggiore, mentore e maestro di vita e di musica. Tutta la prima parte del film, con la presentazione dei personaggi, la formazione e i primi passi della band è assolutamente deliziosa e spassosa. Poi il film concede forse troppo spazio alla musica (anche se forse è una critica paradossale, considerate le premesse) e a uno sviluppo narrativo più tendente al melodramma che alla commedia. Un altro punto debole del film è l'età di personaggi e interpreti: tra Conor (interpretato con freschezza da Ferdia Walsh-Peelo) e l'amata Raphina dovrebbero esserci un anno di differenza, mentre tra i rispettivi interpreti ce ne sono in realtà circa cinque (e si vede: tutti i personaggi maschili sembrano sproporzionatamente puerili e imberbi rispetto alla protagonista femminile), e la sedicenne Raphina è interpretata da Lucy Boynton che ha una mezza dozzina d'anni più del personaggio. Impossibile comunque non tornare con la memoria ai mitici Commitments di Alan Parker (dalle pagine di Roddy Doyle), omaggiati credo anche con il personaggio della “guardia del corpo”: altri “negri” irlandesi che sognavano affermazione, fama, successo a suon di musica. Titoli di coda: Singolare e a mia memoria inedita la didascalia posta al termine dei titoli di coda, evidentemente intesa a salvaguardare rispettabilità e turismo irlandesi: dove ci si tiene ad avvertire lo spettatore che Sing Street è un period movie, e che dall'epoca dei fatti narrati l'Irlanda è molto cambiata (in meglio) e che lo stesso college dove si svolge il film è ora molto più progressista e rispettabile... UN APPUNTAMENTO PER LA SPOSA di Rama BurshteinRama Burshtein fa uno strano cinema, tutto interno e rivolto alla comunità ortodossa ebraica (e a volte riservato al pubblico femminile). Fin dal primo film, comunque, La sposa promessa, in cui già si parlava di un matrimonio che s'aveva/non s'aveva da fare, ha subito conquistato l'attenzione della critica cinematografica internazionale (soprattutto per i meriti formali e per l'interpretazione della protagonista, premiata con la Coppa Volpi alla Mostra del cinema di Venezia) e una sia pur limitata distribuzione, mettendo lo spettatore occidentale a disagio nei confronti di un film che, di fronte alla contrapposizione tra libertà individuale e obblighi sociali derivanti da arcaici precetti religiosi, non prendeva a priori partito a favore della prima. A differenza dell'opera prima, drammatica e intimistica, Un appuntamento con la sposa appartiene di diritto al genere della commedia ebraica, con una sceneggiatura ben scritta e ben interpretata, con dialoghi brillanti che spesso si spingono ben al di sotto della superficie e con attori (la brava Noa Koller ovviamente in testa) che spesso nascondono sotto i sorrisi un certo male di vivere. Michal, una donna brillante che vive a Gerusalemme, religiosa ma moderna, intraprendente e simpatica ma non particolarmente avvenente, viene lasciata all'improvviso dal promesso sposo. Ma non potendo più sopportare la propria solitudine, fissa comunque la data del matrimonio, manda 200 inviti, prenota la sala ricevimenti e si prova l'abito: ha 22 giorni di tempo per trovare un nuovo marito (una determinazione allo sposalizio a tutti costi che ricorda un po' quella della Sabine de Il bel matrimonio di Rohmer). Che non si tratti di una classica marriage comedy hollywoodiana d'altra parte è intuibile fin dalle prime sequenze. A cominciare dallo stile di ripresa, con una camera a mano mobile e instabile che dà un senso di insicurezza e di precarietà anche alle sequenze più domestiche. Ma soprattutto per la volontà di scavo e di analisi che è degli stessi personaggi ancor prima che della regista. Nelle prime sequenze Michal mette alle strette il fidanzato finché questi non le confessa di non amarla; in un'altra è lei a essere incalzata da una maga che con insistenza sviscera (letteralmente: la donna, durante quella che sembra più una seduta analitica che un rito, sporca il viso della giovane con delle interiora di pesce) le motivazioni, consapevoli o nascoste, e che si rivelano essere sia esistenziali che sociali, per cui Michal vuole arrivare a un matrimonio qualunque sia. L'elemento paradossale, quello che porta alla commedia, nasce appunto nel punto di congiunzione tra due degli elementi già citati. Da una parte c'è quest'ansia tutta ebraica (dalla ricerca cabalistica a Freud) di analizzare, di trovare le motivazioni ultime degli eventi e dei comportamenti (finanche quelli divini, in quanto i dibattiti sul folle progetto di Michal sconfinano spesso in ambito teologico, interrogandosi sulla bontà e sulle scelte di Dio, che si interseca con quello psicologico, dove la protagonista presume o spera di essere l'eletta che beneficerà dell'aiuto miracoloso della divinità, qualora non dovessero bastare la buona volontà e lo zelo - propri e di amiche, sensali e parenti -, tutte impegnate a trovare l'uomo giusto per lei); dall'altra parte c'è il time-lock che pone a questo proposito esistenziale una scadenza ben precisa, fissata una volta per tutte e sciaguratamente ravvicinata. Dal contrasto tra questi due elementi nasce non solo l'umorismo (che somma quello di situazione a quello di carattere), ma anche la suspense, che, tenuta a freno con vari diversivi e false piste durante tutto l'arco del film, si impenna in modo esponenziale man mano che si avvicina il finale, e che il malessere della protagonista di fronte a una prospettiva fallimentare e pubblicamente infamante monta fino a contagiare con un autentico senso di disagio anche lo spettatore. Fino all'ultimo il racconto di una solitudine femminile (che si autoimpone i limiti ristretti di una scelta religiosa radicale) - sensibile anche se ironico, malinconico anche se divertente, problematico anche se disinvolto -, lascia lo spettatore incerto sul genere di appartenenza del film: potrebbe essere una favola romantica dai toni dolce-amari e con il lieto fine di prammatica; oppure il racconto ironico, crudele e spietato su una donna che, sfidando se stessa, Dio e il destino, ha voluto osare troppo. Per saperlo, dopo che la suspense avrà raggiunto il punto più ardito del suo climax, dovrete aspettare gli ultimi minuti del film. Altre storie di donne (palestinesi) nella Israele dei nostri giorni in LIBERE, DISOBBEDIENTI, INNAMORATE: leggi la recensione di Intothewonderland: Sex and the City in Tel Aviv http://intothewonderland.weebly.com/hollybloog-cosa-cegrave-da-vedere/sex-and-the-city-in-tel-aviv ROBERT DOISNEAU - LA LENTE DELLE MERAVIGLIE di Clémentine DeroudilleLa qualità che Doisneau riteneva più necessaria per essere un buon fotografo era la pazienza, la capacità di darsi del tempo per cogliere quell’attimo effimero e fuggevole capace di diventare una grande irripetibile immagine. Ma forse un’altra, che emerge con prepotenza dal documentario Robert Doisneau - La lente delle meraviglie, a lui dedicato, andrebbe aggiunta nel suo caso: la fedeltà. Doisneau, che inizia come fotografo industriale alla Renault, dove passa cinque anni di costrizione e di insofferenza, diventa a un certo momento una star della fotografia mondiale. Eppure riesce a (o non riesce a far altro che) rimanere se stesso, fedele alla moglie sposata in gioventù, alle figlie e alla famiglia, che spesso utilizza come modelli per le foto commissionategli dalle agenzie di pubblicità (e che tuttora perpetuano la sua memoria: le figlie curando i suoi archivi e la diffusione commerciale delle sue immagini, la nipote Clémentine Deroudille con questo documentario, pieno di filmati di repertorio e di fotografie, ma anche di interviste e di aneddoti famigliari, homo video e home photo, oltre che delle acquarellature del fumettista Emmanuel Guibert), alla sua classe sociale, al suo ambiente di vita, ai suoi amici (sulla sua strada nel corso del tempo stringerà relazioni ad esempio con Prévert, Pennac, Sabine Azema). Nella sua vita e nella sua attività di fotografo realizza eleganti foto di moda, reportage, penetranti ritratti di celebrità (da Picasso a Mickey Rourke, dall’amico Prévert alla Huppert), eppure la sua passione rimane la vita della strada e dei quartieri parigini, immortalati in scatti definitivi e cristallini composti con la ricchissima tavolozza delle sfumature comprese tra il bianco e il nero. I protagonisti dei suoi scatti più celebri e più belli sono i bambini, gli amanti, gli avventori dei bistrot, i clochard, i clown, le ballerine, le spogliarelliste, i poeti e i pittori, i musicisti e gli artisti da strada, gli anziani, i flic, i flâneur, come lui, che consumano il tempo e le suole per le strade di una Parigi marginale, improduttiva, sottoproletaria e romantica. Raramente lascia la sua Parigi. In una trasferta americana (si) perde volontariamente i fotogenicissimi movimenti della contestazione in atto nelle università e nelle strade statunitensi e si apparta sperimentando il colore ma producendo immagini fredde, vuote, prive del calore, dell’umanità e dell’umorismo delle sue foto parigine. Doisneau, fotografo umanista per eccellenza (anche se, ospite di Bernard Pivot, si schermisce con timida ironia davanti alla definizione) diceva di non fotografare la realtà, bensì la realtà così come gli sarebbe piaciuto che fosse. E’ noto (ma non sarò io a rovinarvi la poesia rivelandovi i dettagli, se non ne siete già a conoscenza) che alcune delle sue foto più celebri, che sembrano per eccellenza fermare nella cornice di uno scatto la frazione di secondo di un momento spontaneo e irripetibile, sono in realtà frutto, in parte, di un lavoro di posa fatto con modelli, per quanto improvvisati. Ma il saperlo non guasta la poesia delle sue immagini, la sua ricerca del gesto, dell’espressione, della tenerezza e dell’allegria che la vita, nel suo incessante moto entropico, può riservare. Le sue foto emozionano, ma spesso fanno ridere o sorridere. Doisneau in particolare è un grande fotografo di bambini, spesso ritratti nel pieno dei loro giochi. Si sorride, nel vedere dei ragazzini a bordo di un rottame d’auto, in un prato di periferia, o un bimbo confrontare la propria auto a pedali con una macchina vera e malridotta. Eppure c’è anche qualcosa di serio e profondo in quelle immagini, la forza dell’immaginazione e del sogno, che fa di un rottame arrugginito un’auto vera e ancora funzionante, o un galeone corsaro, o il veicolo di una mirabolante avventura. Sono simili a Doisneau, quei bimbi. Capaci di giocare con una realtà che non è semplicemente quello che è, ma che con un po’ di buona volontà, di immaginazione, di pazienza e di fedeltà può diventare la realtà così come la vorremmo vedere. Quello che io cercavo di mostrare era un mondo dove mi sarei sentito bene, dove le persone sarebbero state gentili, dove avrei trovato la tenerezza che speravo di ricevere. Le mie foto erano come una prova che questo mondo può esistere. PARIGI PUO' ATTENDERE di Eleanor CoppolaOgni sugli schermi c’è qualche donna americana che si lascia conquistare dal fascino dell’Europa mediterranea. Difficile trovare un buon titolo in questa categoria di film, viziati all’origine dalla stereotipizzazione della visione statunitense e hollywoodiana del modo di vivere europeo. Se basterebbe come esempio l’avventura italiana di Julia Roberts nell’insopportabile porzione italiana (non che il resto sia meglio) di Mangia, prega, ama, la stessa Diane Lane protagonista di Parigi può attendere aveva già dato nel risibile Sotto il cielo della Toscana. Stavolta la matura american woman è la moglie di un indaffaratissimo produttore cinematografico che, complice un mal d’orecchie che le impedisce di volare, l’affida imprudentemente ad un socio francese che dovrebbe accompagnarla su una Peugeot coupé d’epoca da Cannes a Parigi. Lo fa, ma impiegandoci due giorni anziché qualche ora, viaggiando preferibilmente su strade secondarie e tra numerosi detour. C’è un disegno di seduzione, che impiega però oltre al (discutibile) fascino latino di Arnaud Viard, tutta la portata storico-geografica della cultura francese, artistica e materiale, tra joie de vivre e grandeur, tra cibi raffinati, vini di pregio, architetture mirabili (pagando doveroso debito all’eredità romana), evocazione di opere pittoriche impressioniste, musei tessili, archeologia del cinema, paesaggi bucolici, ecc. Dalla Costa azzurra alla Provenza, dal Pont du Grad a Vienne, da Lyon a Vézelay, fino agli Champ Elisee e alla Tour Eiffel (Bretagna e Normandia vengono rimandati alla prossima escapade), tra profluvi di rose ben più profumate di quelle americane, formaggi, calici di bianchi e di rossi, ristoranti chic, capitelli, amiche charmant, salse, mercati alimentari, dessert al cioccolato, ecc. si snoda on the road il viaggio sentimentale di Jacques e di Anne (Brûlée, cioè in italiano “bruciata”, come lui la soprannomina affettuosamente ma assai poco romanticamente, paragonandola alla crème brûlée al cioccolato): lui seducente, gaudente, colto, un po’ frivolo, apparentemente anche un po’ squattrinato; lei puritana, quadrata, pudica, pragmatica (in grado di far ripartire la macchina francese con una calza di nylon e un po’ di senso pratico yankee, come un piano Marshall vivente), con provvidenziale carta di credito a portata di mano. Ma anche un po’ artista - e perciò vulnerabile - grazie alle foto di dettagli che riprende via via con una macchinetta tascabile. Indovinate chi cambierà chi. Ed è amore, signore, mica rapacità da una botta e via, capace di rimandare il piacere immediato e di procrastinarlo in un romantico futuro, e di ripagare i debiti a suon di fruscianti banconote oltre che di rose di cioccolata. Se Arnaud finisce per essere un po’ macchietta, si prova una certa compassione per la Lane, evidentemente incapace di difendersi efficacemente dal suo invadente anfitrione. Per capire se qualcuno è in grado di identificarsi ed apprezzare, bisognerebbe essere delle mature signore americane malmaritate; altrimenti appassionarsi è molto molto difficile, anche se ogni tanto un po’ di acquolina alla bocca viene, davanti alle tavole esageratamente imbandite con cui Jacques tenta di ingolosire ed inebriare la bella americana. Scrive e dirige, magari con qualche sprazzo autobiografico, Eleanor, moglie di un regista americano autore di grandi capolavori ma anche produttore di vini e amante della sua terra d’origine, l’Italia: e c’è da scommettere che parte di questo amore per un altro modo di vivere l’abbia trasmesso alla moglie e madre dei suoi figli. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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