IL SACRIFICIO DEL CERVO SACRO (The Killing of a Sacred Deer) di Yorgos LanthimosMi sono deciso un po’ in ritardo a vedere Il sacrificio del cervo sacro, dopo averne letto critiche negative, dubitative e comunque non certo entusiastiche e dopo aver visto il precedente The Lobster, che mi aveva a sua volta lasciato dubbioso e anche un po’ irritato. Il nuovo film di Lanthimos mi ha invece colpito, direi complessivamente in modo positivo. E’ un horror contemporaneo affilato e perturbante, lontano anni luce da brodini all’americana come l’acclamato Get Out. Pur essendo un film derivativo, che non nasconde certo, anzi esibisce gli autori cinematografici cui fa riferimento, è un’opera che ha una sua autonomia autoriale e una cifra visiva personale. Innanzitutto c’è Kubrick (con la musica di Ligeti, con la Kidman (ri)fotografata davanti allo specchio nella luce intima e calda delle abat-jour, con la famiglia condannata all’autodistruzione); poi c’è senz’altro Haneke con la sua ossessiva poetica dell’intrusione e con il sadico massacro all’interno claustrofobico del nucleo familiare (e perfino con i colpi di fucile sparati in salotto); forse c’è perfino Lynch, con i suoi percorsi nei corridoi e con l’irrompere dell’irreparabilmente irrazionale nella vita ordinaria, senza contare che la Kidman è di nuovo alle prese con un enfant (letteralmente) terrible come nel Birth di Jonathan Glazer. Lanthimos impagina il suo film con asetticità geometrica, che riflette l’asetticità emotiva e relazionale tra i personaggi, una coppia di medici agiati il cui desiderio reciproco è rifluito in una dimensione regressiva (nei loro tardivi rapporti sessuali lei finge di essere inanimata), una figlia adolescente in cui la sessualità è ancora latente ma pronta a esplodere e a sommergerla, e un ragazzino; e poi un altro ragazzo, estraneo al nucleo ma in qualche modo legato al padre di famiglia, che frequenta di nascosto. Si scoprirà che il legame è fondato su un errore chirurgico che il ragazzo imputa al medico, e che l’esito del loro rapporto sfocerà nella richiesta atroce di un sacrificio umano a riparazione dello sbaglio commesso. Il ragazzo è in grado di profetizzare malattia e morte, che solo una morte deliberatamente inflitta potrà arrestare. La situazione, benché paradossale e inaccettabile dal punto di vista razionale, innesca una serie di temi coinvolgenti e disturbanti: la riflessione sul senso di colpa; il peso degli errori commessi e del passato; l’atrocità di scelte cui talvolta siamo costretti; la messa alla prova dell’amore e della solidarietà famigliare (tra genitori e figli, tra coniugi, tra fratelli) in una situazione di crisi; l’orrore nel vedere soffrire e consumarsi sotto i nostri occhi le persone che amiamo; il senso di impotenza di fronte a processi che esulano dalle nostre capacità di modificare il corso delle cose; la forza dell’irrazionale e del non dominabile cui siamo sempre esposti. I due protagonisti, entrambi medici specialisti, vedono la loro scienza e la loro fiducia nella razionalità diventare improvvisamente inutili davanti a una malattia che è la manifestazione incontrastabile di una vendetta, e a un ricatto che assomiglia a un destino. Sarà per l’origine greca dell’autore, risuonano echi arcaici nei temi e nelle situazioni del Sacrificio (il titolo e alcune suggestioni alludono all’Ifigenia in Aulide di Euripide) con un fato tragico che incombe sui personaggi e sulla loro stirpe - e con occhi che sanguinano come quelli di Edipo, contrappasso di una colpa involontaria eppure non meno esecrabile -, e le fasi della malattia elencate come le piaghe di una profezia biblica. Lanthimos non chiede molto ai suoi attori, raggelate funzioni dentro un labirinto senza via d’uscita, giocatori senza speranza davanti a un rompicapo insolubile, corpi imprigionati dentro geometrie compositive algide e imperturbabili. Ma se come regista Lanthimos spietatamente allestisce una messa in scena perturbante (sarà difficile dimenticare le immagini dei ragazzi che si trascinano sui gomiti sui pavimenti della propria casa, come vermi senzienti e capaci di sofferenza), come sceneggiatore (cosa vera parzialmente anche per The Lobster) si rivela più abile a innescare un raggelante paradosso che a trovarne una degna conclusione. Come una macchina celibe, o come un teorema matematico, la sceneggiatura segue il percorso prescritto, senza trovare uno scarto, un’invenzione ulteriore che la riscatti da una meccanicità che sommata alla freddezza di tutta l’operazione rischia di essere alla fine un po’ frustrante.
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UN FIGLIO ALL'IMPROVVISO (Momo) di Sébastien Thiéry e Vincent Lobelle
Forse suona più divertente a raccontarlo così che a vederlo, perché la sceneggiatura infila una serie di dabbenaggini (a cominciare dalle sequenze iniziali, in cui il figliol prodigo incongruamente approccia il suo ignaro presunto padre, dal quale dovrebbe farsi accettare, buttandogli scatole di cereali nel carrello e aggredendolo con borborigmi minacciosi) e cerca di farci ridere prendendo appunto di mira un ipoudente che si esprime con difficoltà, una non vedente che cerca di arrangiarsi da sola, un pastore tedesco che sembra addestrato dai nazisti e una coppia imbolsita messa in difficoltà da questa irruzione nella loro vita tranquilla e senza sorprese, con una lei colta da un'isteria da pseudo-maternità e lui che cerca di rifugiarsi nel proprio infantilismo protettivo. Intendiamoci, non esistono (forse) temi tabù, e si può ridere di (quasi) tutto. Ma ci vuole verve, intelligenza, cattiveria anche, magari. Ma qui tutto è loffio e poco comico, la sceneggiatura è rozza, le interpretazioni macchiettistiche, e più che cattiveria c'è maleducazione; non c'è una situazione azzeccata e nessuno dei personaggi è tale da suscitare simpatia (negli altri e) negli spettatori. Il film rimane a metà strada tra il politicamente corretto e scorretto - nel primo caso avrebbe potuto essere affettuoso ed empatico, nel secondo cattivo e divertente - senza essere nessuno dei due. Finale ecumenico, ovviamente - trattasi di commedia - con una famiglia, magari non per sangue ma per scelta (l'approdo è opposto a quello di Un affare di famiglia, che ho visto pochi giorni prima, che vede invece in partenza una famiglia di fatto ma destinata alla dissoluzione finale), raccolta prevedibilmente intorno ad una culla pacificatoria che accontenta tutti. Spettatori esclusi. UN AFFARE DI FAMIGLIA (Manbiki kazoku) Hirokazu Kore'edaKore-eda continua film dopo film a disegnare la sua galleria paradigmatica di famiglie anomale, segnate dall'assenza, dall'errore, dalla casualità, dalla finzione (figure retoriche che avevo analizzato anni fa nell'articolo “Vizi di famiglia”, pubblicato da Segnocinema ma che si può leggere sul portale del Centro nazionale di documentazione e analisi per l'infanzia e l'adolescenza). In Nobody Knows sono quattro figli abbandonati dalla madre; in Father and Son un padre scopre che quello che credeva suo figlio in realtà è stato scambiato in ospedale, trovandosi così a dover scegliere tra il figlio che ha cresciuto e quello che ha realmente generato; in Little Sister tre figlie abbandonate dal padre conoscono e accolgono la loro quarta sorella; in Ritratto di famiglia con tempesta c'è un padre alla deriva che sta perdendo il contatto con la moglie e il figlioletto; in Un affare di famiglia c'è addirittura una famiglia composta da tre generazioni, ma le cui relazioni reciproche nascondono più di un segreto. Nel prossimo film (The Truth About Catherine, con la Binoche e la Deneuve), Kore-eda racconterà il rapporto tra una figlia e una madre fantascientifica che non invecchierà mai. Un affare di famiglia si compone schematicamente di due parti. Nella prima viene descritta la vita di questa famiglia, strana in partenza, che sopravvive anche grazie alla pensione della nonna, che in realtà ricatta moralmente una coppia più giovane; il padre si dedica ai furti, dopo aver perso il lavoro per un infortunio; la moglie viene licenziata anche grazie a un ricatto, in quanto una sua collega sa che ha praticamente rapito una bambina trovata per strada; la figlia più grande si esibisce in un peep show in tenuta da scolaretta; il figlio maschio, insieme alla bambina ultima arrivata, compie piccoli furti ai danni dei negozianti. Eppure in una situazione così sgangherata sembra presente una solidarietà reciproca, quel senso di scontata appartenenza che sembra caratterizzare quasi ogni famiglia, lo stare insieme che produce anche qualche momento di gioia e di serenità. Ma nell'ultima quarto di film tutto si ribalta. Sarà una decisione del figlio a determinare un intervento poliziesco e da questo una serie di rivelazioni che gettano una nuova luce, ancora più straniante, sul passato dei personaggi e sulle loro reciproche relazioni. La scelta del ragazzo, che si rivelerà distruttiva, finisce per metterne in luce molte altre precedenti, che avevano invece fondato e costruito la convivenza famigliare più dei convenzionali legami di sangue. La famiglia del titolo si rivela uno scheletro di relazioni fittizie, una famiglia fantasma per parafrasare R.D. Laing (“la famiglia non è un oggetto interiorizzato, ma un insieme introiettato di rapporti”), che porterà alla sua disgregazione ma nel medesimo momento al suo rimpianto, per quella parvenza di unità tra persone diverse in cui avevano in qualche modo non solo convissuto ma anche trovato un senso di conforto e qualche tipo di protezione. La stessa bambina ultima aggregata alla strana famiglia, al momento del suo rapimento adottivo reca sul proprio corpo i segni di una violenza sicuramente inflitta dai genitori reali, e che i suoi nuovi genitori, per quanto strampalati e amorali, si guarderanno bene dal replicare e che anzi le faranno amorevolmente dimenticare. Così il trauma della morte di uno dei componenti della famiglia viene ammortizzato conservando il cadavere all'interno dello spazio della convivenza domestico. Kore-eda dirige (oltre ad aver scritto e montato) un film lento ma sorprendente, dove le sequenze, per lo più a camera fissa o con movimenti impercettibili, si succedono (e devo qui confessare onestamente un rischio soporifero al quale mi trovo esposto guardando tutti i film del regista) fino ad acquistare tutt'altro spessore nell'ultima parte, dove i personaggi si trovano improvvisamente esposti a se stessi e allo spettatore con le proprie rispettive verità, e col proprio dolore, radicato nel passato di ciascuno, esploso nel presente e destinato a riverberare nella vita futura. Né i personaggi né l'autore esprimono mai giudizi morali gli uni nei confronti degli altri, accettandone le scelte fino alle estreme conseguenze, e rassegnandosi alla fine alla dissoluzione del nucleo famigliare. Lo stile minimalista della regia è assecondato con coerenza dalla colonna sonora di Haruomi Hosono. Il film, tutt'altro che trascurabile, si è aggiudicato la Palma d'Oro ad un Festival di Cannes giudicato quasi unanimamente sottotono. GLI INCREDIBILI 2 (The Incredibles 2) di Brad BirdIl segreto dei film della Pixar, ormai in simbiosi con la Disney a dominare il mercato mondiale del cinema di animazione - in termini di visibilità, popolarità e anche di qualità - è quello di riuscire a far apprezzare i propri prodotti tanto dal pubblico dei bambini e dei più giovani, ai quali è dichiaratamente dedicato, tanto dal pubblico adulto, alla perfetta fusione tra elementi umoristici e profonde tematiche universali, alla ricchezza della cultura cinematografica e allo stupefacente livello tecnico delle sue realizzazioni. Dopo un periodo di latenza stranamente prolungato – il primo episodio risale ben a 14 anni fa, il che equivale a un completo ricambio generazionale del pubblico infantile di allora – Brad Bird torna a mettere in scena i Parr, famiglia di supereroi composta da marito (enorme, grande mento prominente, leggermente stempiato), moglie (minuta, carina ed elastica) e tre figli: la più grande adolescente, un ragazzino e un bebè ancora infante. Il guaio per i Parr e per quelli come loro, benintenzionati ma a volte un po’ pasticcioni, è che la società ritiene di poter fare a meno dei supereroi, più dannosi che utili in un calcolo economico costi-benefici, e li ha banditi per legge. Dopo l’ultima sfortunata impresa fallimentare (dove gli eroi evitano sì il peggio, ma non riescono a impedire gravi danneggiamenti alla città né la fuga con il bottino di un malvagio rapinatore-talpa), è un magnate della comunicazione innamorato dei supereroi a cercare di riabilitarli, arruolando Elastigirl e dotando la sua tuta di microtelecamere che ne documentino le imprese e i benefici effetti; mentre il riottoso Mr. Incredible è suo malgrado relegato ad un ruolo casalingo, che lo mette a dura prova a causa dei problemi sentimentali adolescenziali di Violet, delle difficoltà scolastiche di Flash e della scoperta dei super-incredibili super-poteri infantili che JackJack dimostra inaspettatamente di possedere. Ben presto non solo Elastigirl, ma anche tutta la sua famiglia, l’amico Siberius e tutti i supereroi del mondo convenuti per la cerimonia di riabilitazione si troveranno a fronteggiare un nuovo temibilissimo nemico, l’Ipnotizzatore di schermi, capace di piegare alla sua volontà, grazie a poteri magnetici veicolati da schermi e monitor, chiunque: supereroi compresi. La trovata permette di rivisitare molti topos della letteratura supereroistica, come lo scontro tra supereroi con diversi poteri, il conflitto tra personaggi in partenza alleati (qui addirittura marito e moglie), il convertirsi in malvagi di personaggi per natura buoni, fino al climax della tensione nella resa dei conti finale, per evitare la catastrofe pianificata dal malvagio. Gli scontri – sullo sfondo di magnifici cieli - sono realizzati con una maestria tecnica sbalorditiva (Brad Bird ha diretto anche il quarto episodio di Mission Impossible, e diverse sequenze del film ricordano il contemporaneo Fallout), e la scrittura umoristica è sempre di buon livello (anche se in qualche passaggio i più piccoli potrebbero annoiarsi e perdere il filo), con un JackJack che esplode oltre che in una pirotecnia di poteri eccezionali anche in una dimensione comica di primo piano. I piccoli spettatori quindi hanno di che divertirsi e di che tenere il fiato sospeso fino alla fine. Ma il film, come dicevamo (oltre che divertire anche i più grandi) riserva particolari attenzioni a problematiche ben più adulte, con alcuni notevoli twist drammaturgici. Sorprendente e non convenzionale è infatti il capovolgimento di una relazione amicale femminile (e quasi femminista), che si trasforma in ben altro a metà del film, come il rovesciamento di segno di valore etico tra l’anima commerciale e l’anima creativa “incarnata” dai due fratelli Deavor. Assolutamente non banali sono inoltre le motivazioni sociopolitiche del “cattivo” Ipnotizzatore, che cerca di far comprendere il terribile potere (ipnotico, appunto), posseduto dai nuovi media di comunicazione di massa, capaci di rendere gli uomini schiavi di chi tali media possiede, programma e gestisce. Senza contare che lo stesso cattivo, come sarebbe piaciuto a Bertolt Brecht, intende immunizzare definitivamente la società dal bisogno e dalla dipendenza dai supereroi, cui viene delegata la risoluzione di problemi che invece andrebbero affrontati e risolti con le risorse e le capacità umane. Un ulteriore motivo di godimento è dato dal décor deliziosamente anni ’60 dei costumi e degli ambienti (sugli schermi tv di casa Parr fa capolino anche l’animazione d’epoca di Jonny Quest): con la famiglia che ad un certo punto si ritrova ad abitare una modernista villa tecnologica che (non) sarebbe piaciuta al Jacques Tati di Playtime. BLAKkKLANSMAN di Spike LeeLa storia, raccontata dal protagonista dei fatti solo decenni dopo il loro accadimento, ha dell’incredibile: alla fine deli anni ’70 la polizia si infiltrò nel capitolo del Ku Klux Klan di Colorado Springs, anche a seguito di una serie di atti di violenza razziali avvenuti in varie località degli Stati Uniti. A rendere la cosa straordinaria è che gli infiltrati erano due, che uno era un nero e uno un ebreo, che impersonavano la stessa persona, che aveva lo stesso nome reale dell’agente di colore (Ron Stallworth, il primo e all’epoca l’unico in tutta Colorado Spring) che ebbe l’idea dell’operazione e che per lungo tempo - in qualche modo -, interpretò con estrema efficacia a beneficio dei membri del clan la parte di un bianco ariano fanatico razzista odiatore di neri, ispanici, ebrei, asiatici, omosessuali, ecc.: incredibile, ma vero. Spike Lee ha colto l’occasione fornita da questo racconto paradossale e ne ha fatto un film che da una parte riflette sull’identità (entrambi i personaggi prima dell’operazione non si identificavano con un’appartenenza razziale, che viene definendosi invece in negativo per contrapposizione a chi fa dell’identità razziale un motivo di orgoglio e di presunta superiorità, e un pretesto per esercitare oppressione e soprusi), dall’altro esprime tutta la sua urgenza con i continui richiami all’attualità. Lee non si accontenta di evidenziare i parallelismi e addirittura l’identità di linguaggio (“America first!”) tra quello che accadeva allora e quello che accade negli Stati Uniti trumpiani di oggi (e gli spettatori italiani non potranno fare a meno di prendere le misure rispetto al linguaggio e ai comportamenti, sia politici che nel sentire comune, che hanno ormai preso il sopravvento nel dibattito pubblico di casa nostra), ma impagina il film quasi si trattasse di un cultural study sulla questione razziale americana (quasi una versione narrativa di I’m Not Your Negro, dedicato da Raoul Peck al pensiero di James Baldwin). Il discorso si articola su molteplici piani, aprendo quasi delle parentesi saggistiche all’interno dell’avvincente drammaturgia del film. In un cameo subito all’inizio del film, slegato dallo sviluppo successivo, Alec Baldwin interpreta un fanatico teorico del razzismo, il dott. Kennebrew Beauregard, intento a registrare un delirante e livoroso intervento suprematista, mentre alle sue spalle sono proiettate le immagini di Nascita di una nazione, firmato da uno dei padri della cinematografia, D.W. Griffiths, ma film profondamente e disgustosamente razzista. Ancora prima in apertura è mostrata una sequenza di Via col vento, che spinge lo spettatore a emozionarsi (grazie anche a un dolly a salire e a un campo d’inquadratura amplissimo e profondissimo) per l’immenso ospedale da campo su cui sventola la bandiera confederata. La riflessione sul peso della cinematografia nel condizionare ideologicamente l’immaginario collettivo (Spike Lee ne è ben consapevole e con questa consapevolezza usa il proprio potere autoriale) è presente lungo tutto il film: in un’altra sequenza il protagonista discute con la Presidente dell’Unione degli studenti della cinematografia nera emergente in quegli anni, dove tra il detective di colore Shaft e il pappone Superfly, le eroine di Pam Grier e la blaxploitation, e anche tra controversi stereotipi e contraddizioni, salgono alla ribalta del primo piano sullo schermo personaggi di colore, fino ad allora relegati a ruoli secondari o ancillari. Nel discorso di un leader del movimento del black power (in cui il tema della legittimità dell’uso della violenza nella lotta di liberazione rimane sospeso e ambiguo), posto anch’esso all’inizio del film, la questione estetica torna ancora prepotentemente, con l’esortazione a ribellarsi a canoni estetici arbitrariamente imposti dall’ideologia razziale dominante (alle parole del carismatico oratore si alternano i primi piani, scontornati su fondo nero, dei volti di uomini e donne neri, in cui si legge da una parte la presa interiore di consapevolezza, dall’altra la loro estrinseca bellezza e la dignità). Ancora, verso la fine del film - in montaggio alternato ad una grottesca cerimonia del klan, tra cappucci, benedizioni e candele accese -, spetta a Harry Belafonte raccontare a un gruppo di giovani un terribile episodio di linciaggio, dove ancora una volta si tiene a denunciare l’influenza di Nascita di una nazione come corresponsabile del clima di odio e di violenza. Ma Lee non si accontenta ancora, e chiusa la vicenda narrativa con diversi finali, propone nel montaggio prima dei titoli di coda le immagini dei disordini di Charlottsville, causati da una manifestazione razzista e neonazista difesa dal Presidente Trump in persona, che dichiarò che tra i manifestanti si trovavano anche tante persone perbene. In mezzo a tanta carne polemica e anche didascalica messa sul fuoco e a fuoco, Spike Lee racconta la pazzesca vicenda di Stallworth mettendone in risalto tutti gli aspetti paradossali e addirittura umoristici, così come quelli drammatici e di tensione insiti in una situazione piena di pericoli e di incognite. Se riesce benissimo nella difficile impresa di tenere insieme e rendere fluida e accattivante questa mescolanza di cinema narrativo e di cinema saggistico, il punto debole potrebbe proprio individuarsi nella meccanica con cui le varie linee drammaturgiche devono confluire nel climax e trovarvi risoluzione e nelle sottolineature caricaturali (anche se probabilmente non gratuite) riservate ai ritratti dei membri del Klan. Non si può comunque salutare che con simpatia e immenso piacere il ritorno di uno Spike Lee militante e appassionato, immerso nel piacere del raccontare (con pochi artifici, se non alcuni split screen nei grotteschi surreali dialoghi telefonici tra il nero Stallworth e i suoi “amici” del klan, e il suo marchio di fabbrica degli attori sul carrello, riservato nel finale a sigillo del film) ma ansioso di rendere chiaro e comprensibile a tutti, anche a rischio di qualche ridondanza, il contenuto politico e pedagogico del film e la sua bruciante (parlando di Ku Klux Klan l’aggettivo non è a sproposito) attualità. John David Washington (figlio di Denzel, molto misurato in un ruolo che avrebbe potuto offrire il destro a iperboli istrioniche) e Adam Driver, come il resto del cast (tra cui Paul Walter Hauser, che dopo Tonya si sta specializzando in ruoli da idiota debosciato) si prestano senza strafare a dar vita, volti e corpi a una vicenda che, in un certo senso, parla da sé; pertinente (Spike è figlio di un musicista), ma non invasiva l’adeguata colonna sonora d’epoca. L'ATELIER di Laurent CantetE' interessante ma non ben riuscito, a mio parere, l'ultimo film di Laurent Cantet, già autore di apprezzate e premiate opere quali Risorse umane, A tempo pieno, La classe. Proprio a quest'ultimo titolo Cantet sembra tornare dopo una lunga parentesi americana e cubana, con il suo cinema sociale e politico, di cui spesso sono protagonisti personaggi adolescenti. Proprio in una classe estiva, un laboratorio di scrittura creativa condotto a La Ciotat (il sud della Francia non porta molto bene al cinema francese, visto il modesto risultato anche di Guédiguian con La casa sul mare) da una scrittrice affermata e rivolto ad un gruppetto di ragazzi e ragazze è ambientato L'atelier. Il tema del confronto generazionale, tra chi ricorda e cerca di preservare il passato industriale della città portuale, con le sue lotte operaie e la sua storia politica e sociale, e gli adolescenti (spesso di provenienza straniera, e quindi con la memoria accorciata non solo dalla giovane età, ma anche dall'appartenenza a una diversa storia famigliare) si trasforma però ben presto in un duello tra due personalità che si attraggono e si respingono: la docente, attratta dal tema del male e della violenza, sia pur attraverso il filtro della sublimazione letteraria, e uno degli studenti, che – nel vuoto morale e politico della società contemporanea, nell'assenza di speranze e prospettive - prova invece un'attrazione senza filtri per l'odio e per la violenza che si esprime nell'interesse verso formazioni politiche di estrema destra, verso ideologie e convinzioni razziste (a causa delle quali entra ripetutamente in conflitto con i suoi compagni e compagne di corso) e verso un gruppo di balordi che si balocca con una pistola, destinata ovviamente ad avere un ruolo da protagonista nel finale. Ma è già dalle prime sequenze che qualcosa suona falso. Sarà forse anche responsabilità del doppiaggio (succede talvolta con il cinema francese di parola, oltre che con le cinematografie extraeuropee e extrahollywoodiane), ma già i primi battibecchi tra gli studenti hanno un suono un po' forzato e teatrale. Il problema è che poi Cantet e il co-sceneggiatore Campillo (già collaboratore in diversi film di Cantet, e regista in prima persona di 120 battiti al minuto), anziché dedicarsi ad approfondire il carattere e le motivazioni dei protagonisti (per enunciare la poetica della scrittrice si ricorre addirittura all'espediente di una vecchia intervista televisiva - ma le stesse controverse lezioni di scrittura insegnano a mio parere ben poco di quanto dovrebbero), o a delineare i personaggi di contorno (ridotti a semplici comparse), preferiscono ingaggiarli in lunghe e ripetitive discussioni e litigi che poco fanno progredire tanto la caratterizzazione dei personaggi e delle dinamiche del gruppo che il progresso della narrazione, affidato invece alla meccanica del progressivo avvicinamento dei due protagonisti (conformemente alle premesse, lei spia il suo profilo con la mediazione dei social, lui spia lei direttamente dal giardino di casa attraverso la finestra; lei lo intervista con un microfono, lui la sequestra e la minaccia pistola in pugno). La storia prende verso il finale una piega quasi thriller, in cui la reciproca morbosa fascinazione sul piano dell'attrazione della violenza rischia di trovare un esito tragico. Neppure le prove degli interpreti, Marina Foïs e il giovane Matthieu Lucci (gli altri, sono appunto, solo delle utilitaristiche funzioni dialettiche), riescono a far scoccare la scintilla. TULLY di Jason ReitmanTully è un film sulla maternità. Sul peso e la difficoltà di essere madre, soprattutto nella moderna civiltà occidentale dove la donna ha conquistato il diritto ad avere una vita e una rappresentatività sociale anche al di fuori della cerchia famigliare e della dimensione domestica e prevalentemente accuditiva di altre culture più lontane nel tempo o nello spazio. Marlo, la protagonista, ha già due figli, di cui uno, Jonah, è un maschietto complicato e psicologicamente borderline, non affetto da alcuna sindrome riconosciuta eppure difficile e problematico. La terza gravidanza la getta in uno stato di prostrazione tremendo. La sua è una famiglia americana medio-borghese, con una bella casa e un marito mite ma distratto, che a letto si infila le cuffie da videogame e non c’è più per nessuno. Il fratello di Marlo, più benestante, le fa un regalo: una tata notturna che la sollevi almeno dalle urgenze notturne del neonato e le permetta di riposare con serenità. Marlo accetterà il regalo con riluttanza, temendo che la nuova venuta interferisca nel rapporto tra sé e il bambino, ma alla fine accetta per sfinimento. Come una novella Mary Poppins dai poteri magici, arriva Tully, che sembra incarnare la soluzione ai problemi di Marlo: non solo è in grado di accudire perfettamente il piccolo, permettendo alla mamma di riposare e recuperare le forze e la serenità, ma le sue cure si estendono a Marlo stessa, che attraverso il suo benefico influsso comincerà a riguadagnare serenità e autocontrollo, affettività e cura di sé. Il rapporto materno si avviluppa in una spirale dagli effetti benevoli: chi è madre di chi? Marlo della giovane Tully, quasi una versione ringiovanita di se stessa? Tully di Marlo, grazie alla tranquillità e alla padronanza con cui affronta le difficoltà, e alla calma sicurezza con cui guida la più matura Marlo ad una riflessione su se stessa che le restituisce fiducia e benessere? Ed entrambe sono madri della piccola nuova nata? Il film ha una prima parte estremamente efficace, soprattutto nel descrivere il disagio, la fatica, il fastidio con cui Marlo si sente costretta nel ruolo di madre-per-la-terza-volta. Il montaggio serrato ci restituisce come un incubo la routine in cui la donna si sente imprigionata, mentre Charlize Theron rende plastico nelle posture abbandonate, nelle espressioni assenti e tirate la stanchezza di chi sente improvvisamente di essere e di lavorare solo per gli altri, e si sente privata del proprio tempo, della propria giovinezza, della propria identità. Di chi sente che la vita stessa le venga risucchiata dalla vene (quasi letteralmente: più volte Marlo è inquadrata con le pompe che le risucchiano il latte dalle mammelle) per essere data ad altri. E’ intrigante anche il racconto del rapporto che si istaura tra le due donne, in un’intimità complice e solidale aumentata dal fatto che i loro incontri si svolgono, come è naturale, nelle ore notturne, sole mentre il mondo intorno tace e dorme. Il film potrebbe proseguire su questa strada, conseguendo il suo scopo; ma la sceneggiatura di Diablo Cody (alla terza collaborazione con il regista Jason Reitman, dopo Juno e Young Adult, già con la Theron protagonista) da un certo punto in poi sembra scartare dai binari della verosimiglianza naturalistica delle psicologie e degli avvenimenti. Lo spettatore comincia a chiedersi in quale direzione si stia muovendo il film, che da un momento all’altro potrebbe trasformarsi in un thriller di intrusione e di identità rubate, oppure in un torbido triangolo erotico. Nulla di tutto questo, in realtà. Cody e Reitman guidano il film fino alla sbandata finale (mostrata letteralmente sullo schermo) in grado di riportare in realtà in carreggiata il film, risolvendo e giustificando le incongruenze che si erano andate accumulando nella seconda parte del film. Tutto, in qualche moda, torna, e Tully porta brillantemente a compimento (pur con un twist che lo porta ad appartenere ad un altro genere cinematografico) la sua riflessione su femminilità e maternità. Anche se rimane forse un po’ di rimpianto per uno svolgimento più lineare, che non aveva forse bisogno di colpi di scena (pur più giustificati e giustificabili del consueto) ad effetto per svolgere la propria argomentazione. In definitiva Tully è un film molto interessante per quello che dice e per come lo dice, coraggioso nell’affrontare in contropelo un tema delicato come quello della maternità, così esposto alla retorica perbenista (basti dire che negli Usa il film si è beccato un divieto ai minori di 17 anni). Mackenzie Davis interpreta con smaliziato candore (sì, è un ossimoro) il ruolo del titolo, ma la Theron (che si dice abbia acquistato 23 kg per affrontare il personaggio in una forma, giustamente, imperfetta) è praticamente sublime nell’affrontare un ruolo destinato di primo acchito a non suscitare simpatia; confermandosi, tra le attrici in attività, quella con il più alto tasso nel rapporto bellezza/bravura. GIRL di Lukas DhontLa pubertà è quell’età della vita in cui avvengono in ciascuno cambiamenti radicali: mutano il corpo, la voce, gli interessi, il rapporto con i genitori e con fratelli e sorelle, con i coetanei del proprio e dell’altro sesso, con il mondo circostante e con il modo di concepirlo e di viverlo. Per Victor (un nome che in tutto il film viene pronunciato una sola volta), il protagonista di Girl, il cambiamento dei suoi 15/16 anni è un doppio o triplo salto mortale, perché in parte è già e in parte sta per diventare Lara. Non ha i seni e ha ancora un pene al posto della vagina, ma ha scelto di essere una femmina e presto, dopo una cura di ormoni e un delicato intervento chirurgico, sarà non solo psicologicamente ed emotivamente, ma anche fisicamente, una ragazza. E’ un percorso impegnativo e radicale, ma Lara è fermamente, dolcemente convinta della propria decisione. Una decisione, d’altra parte, che sembra socialmente accettata e priva di contrasti: il padre la sostiene con affetto e convinzione, offrendole un supporto mai invasivo, il fratellino di sei anni le vuole bene, amici di famiglia e parenti la accettano così come ha scelto di essere e medici e psicologi la stanno preparando ad affrontare questa grande trasformazione, aiutandola a diventare se stessa, senza esprimere giudizi, ma senza nascondere rischi e difficoltà da superare. Anche a scuola non sembrano esserci particolari problemi, a parte la curiosità morbosa – ma naturale - che alla fine emerge tra le compagne del corso di danza, con cui condivide non solo i duri allenamenti, ma anche gli spogliatoi. Perché Lara ha scelto anche di essere una ballerina di danza classica e a questo obiettivo si dedica con impegno e passione totali, riconosciuti ed apprezzati anche dai suoi insegnanti. Per lei la fatica e la sofferenza sono ancora più dure che per le compagne, perché ha iniziato gli studi troppo tardi, saltando la fase propedeutica che avrebbe dovuto preparare fin da piccola i suoi piedi a sopportare la danza sulle punte, e il suo corpo è differente da quello delle altre compagne. Paradossalmente, ma forse poi non tanto, sarà proprio la decisione, la tenacia, l’appassionata dedizione, l’impazienza con cui persegue questi due obiettivi, prepararsi ad affrontare la difficile operazione che la renderà una donna e diventare una ballerina, a condurre la sua mite caparbietà fino a una crisi dagli esiti drammatici. Il valore del film dell’esordiente belga Lukas Dhont (il film nell’edizione originale è parlato in fiammingo, francese e inglese) ha già ottenuto conferma all’ultima edizione del festival di Cannes - dove è stato premiato nella sezione Un certain regard con la Camera d’Or come migliore opera prima, con il premio Fipresci, con quello a Victor (!) Polster come miglio interprete oltre che con la Queer Palm – e verrà candidato dal Belgio alla prossima edizione degli Oscar. Senza morbosità, senza sensazionalismo, ma anche senza ipocrisie o infingimenti, Dhont segue la sua giovane protagonista lungo la fase forse più difficile della sua vita, avvolgendola nella luce calda e intima degli interni e riprendendone con abile montaggio la fatica della preparazione artistico-atletica, in un’alternanza di passione, fiducia in se stessa, dolorosa fatica, momenti di dubbio e di scoramento. Ma il film si regge in gran parte sulla presenza magnetica di Victor Polster, ballerino dell’Accademia di Anversa, che a Lara dona un corpo androgino e nervoso, e un volto espressivo che ne rivela la serena radiosità e la dolcezza, così come l’ostinata caparbietà, le incertezze e le delusioni, l’attesa del giorno epifanico in cui sarà finalmente se stessa e la fanciullesca impazienza per un trasformazione che tarda a palesarsi. Sembrerà strano, ma è difficile non partecipare alle emozioni di Lara, che si sente un bruco, o forse già una pupa, e non vede l’ora di dispiegare le sue colorate ali di farfalla. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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