ZAMORA di Neri MarcorèQuando il proprietario dell'azienda in cui lavora come ragioniere decide di chiudere per riposarsi, Walter viene raccomandato per un'altra azienda di Milano. Questo (siamo negli anni '60; nel 61 usciva Il posto di Ermanno Olmi, nel 62 il romanzo di Mastronardi Il maestro di Vigevano e nel 63 il film che ne trasse Petri) significa spostarsi dalla soporifera provincia vigevanese alla metropoli. Walter Vismara è un bel ragazzo, bravo, coscienzioso, serio, lavoratore, un po' impacciato. Sa tutte le risposte dei quiz di Mike Bongiorno, ma nulla di calcio, e purtroppo per lui il suo nuovo principale è invece un fanatico del pallone (anzi, del folber, per dirla alla Gianni Brera), che obbliga tutti i dipendenti a partecipare agli allenamenti e all'annuale torneo aziendale scapoli-ammogliati. Colto alla sprovvista, Walter si spaccia imprudentemente per portiere, ma praticamente non ha mai toccato una palla in vita sua, e a causa della sua imbranataggine calcistica e del suo carattere riservato e compito diventa presto il bersaglio del ganassa aziendale, cui deve il soprannome “Zamora” (mitico portiere spagnolo), che dà ingannevolmente il titolo al film. Quando una bella collega si dimostra decisamente interessata a lui, Walter si ritiene miracolato da un'imprevista fortuna, ma un equivoco rimette tutto in gioco. Letteralmente, perché la rivalsa di Walter passa proprio dalla porta di un campo di calcio, dove, con l'aiuto prezzolato di un ex-portiere in disgrazia a causa di scandali e vita sregolata, cercherà di riguadagnare approvazione e rispetto. Anche se il dolce del lieto fine riserva un'inaspettata punta decisamente amara.
Non è forse un film importante, Zamora, esordio alla regia di Neri Marcoré, ma è un film delizioso e di garbato ma efficace umorismo - che forse ho amato particolarmente per alcune mie affinità con il carattere del protagonista, di cui il film fornisce un'analisi psicologica piuttosto sottile. Come viene sottolineato più volte nel film, siamo negli anni '60 (precisamente nel 1965, anno di uscita di Giulietta degli spiriti, che i protagonisti vanno a vedere al Cinema Manzoni – anche se i milanesi noteranno qualche riferimento anacronistico), e i tempi stanno cambiando, relegando in secondo piano i valori e le virtù che appartengono per natura all'impettito Walter, a favore di un maggior dinamismo e maggior aggressività, tanto in ambito individuale, che professionale e sociale. Più che l'attrazione dimostratagli dalla bella Ada, sarà proprio il rapporto con il portiere in disgrazia Cavazzoni (e con la sorella Elvira, che nasconde un segreto ai famigliari) a farlo crescere, ad incrinare la sua corazza caratteriale, portandolo ad acquisire maggiore sicurezza in se stesso. Il beneficio d'altra parte sarà reciproco, e anche il portiere trarrà qualche insegnamento dalla frequentazione con Walter. Più che il messaggio sulla conquista della fiducia in se stesso o sul valore della famiglia (anche quando riserva delle sorprese inaspettate), o lo spaccato sociale d'epoca e d'ambiente abbozzato dal film, l'opera prima di Neri Marcoré trova in particolare il suo stato di grazia nell'equilibrio che riesce a trovare tra personaggi in fondo macchiettistici e umoristici e la loro umanità. Sono molti i personaggi del film a riservare delle sorprese o a rivelare delle debolezze o delle risorse impreviste, acquistando una loro credibilità psicologica che li sbalza dal semplice bozzettismo. A venare il film di umorismo e a conferirgli attendibilità contribuisce un cast composto da attori comici di estrazione prevalentemente milanese, a volte con ruoli di rilievo (Walter Leonardi, Giovanni Storti, Antonio Catania, Pia Engleberth, con Giovanni Esposito nel ruolo dell'infiltrato finto milanese), a volte presenti in cameo (Giacomo Poretti, Ale e Franz). Alberto Paradossi ha la sua prima occasione da protagonista (era stato il figlio di Craxi in Hammamet), mentre Neri Marcoré riserva per sé la parte del malinconico portiere, con una recitazione tutta virtuosisticamente in sottotono. Decisamente apprezzabile poi è la prova delle due protagoniste femminili: Marta Gastini (che avevo già apprezzato recentemente a teatro ne Il figlio di Zeller diretto da Maccarinelli), nel ruolo di Ada, e Anna Ferraioli Ravel (che si è già fatta notare nel cast corale di Un altro ferragosto di Virzì), in quello della sorella Elvira. Curiosamente, una storia milanese (tratta dal primo romanzo di Roberto Perrone, scomparso l'anno scorso), con tanti attori milanesi (ma non il quartetto dei protagonisti), ambientata tra Vigevano e Milano, insaporita dal dialetto e dalla cadenza milanese, malgrado gli scorci meneghini riconoscibili (il Duomo, l'Arena, il Manzoni) è stato girata in gran parte a Torino con il supporto della Piemonte Film Commission.
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MAY DECEMBER di Todd HaynesLa prima cosa a colpire, sui titoli di testa, con riprese ravvicinate di farfalle nella vegetazione, è la musica. Ad aprire il film e ad accompagnarne tutto il suo svolgimento ci sono infatti le musiche (rielaborate da Marcelo Zarvos) tratte da un film precedente, Messaggero d'amore, un film del 1971 in cui Joseph Losey descriveva i turbamenti sentimentali di un ragazzino affascinato da una donna più grande. Una scelta bizzarra, a tratti un po' sconcertante, che sembra dichiarare una scelta manierista e citazionista di Haynes (che già ha reso omaggio in precedenza, nei suoi ritratti femminili realizzati con Lontano dal paradiso e Carol, a uno dei più grandi esponenti del melò americano classico, Douglas Sirk).
Ma qui i riferimenti da cercare sono forse diversi. May December descrive soprattutto la relazione tra due donne (Julianne Moore sempre perfetta e sgradevole, tra determinazione e fragilità, ambiguità e nevrosi nel ruolo della più anziana, Natalie Portman, insinuante e ossessiva, in quello della giovane attrice). La prima è Gracie, assurta agli onori (e ai disonori della cronaca) per lo scandalo suscitato quando, trentaseienne sposata e con un figlio, venne scoperta amoreggiare con un compagno di scuola del figlio tredicenne; ora Gracie (sessantenne) e l'ex-ragazzino, ormai giovane adulto, sono sposati, hanno tre figli (la prima nata quando Grace era in carcere) e conducono un ménage famigliare apparentemente normale. La seconda è Elizabeth, una giovane attrice che ha scelto di interpretare un film ispirato alla vicenda di Gracie, di cui sarà la protagonista. Elizabeth arriva quindi a Savannah, dove vivono Gracie con il giovane marito Joe (interpretato da Charles Melton, paradossalmente il più premiato in un film che è un duello di attrici) e i figli, per conoscere la donna che dovrà interpretare e per capirne meglio la personalità, la storia, e il contesto in cui ha avuto luogo. Ma Elizabeth più che un'attrice coscienziosa sembra quasi una detective ossessionata da un cold case appassionante: la sua indagine psicologica e sociologica si svolge tra interrogatori alla colpevole (Gracie), alla vittima (Joe), ai testimoni (l'ex-marito e i figli di Gracie, l'avvocato), sopralluoghi suggestivi sulla scena del crimine (il magazzino del negozio di animali dove furono scoperti Gracie e Joe, e dove Elizabeth cerca di procurarsi un orgasmo), esame delle prove e della documentazione (vecchi giornali, foto, filmati, lettere rivelatrici, perfino radiografie). E' chiaro che l'immersione di Elizabeth nel mondo di Gracie tende ad un'immedesimazione che si fa identificazione mistificatoria, spossessamento e sostituzione. Gli echi cinematografici rimandano ai film dove la relazione femminile diventa rivalità, identificazione ostile, furto del ruolo e dell'identità: da Eva contro Eva di Mankiewicz, a Persona di Bergman, fino al cinema di Assayas che porta all'esplicitazione la suggestione vampiresca (Irma Vep, Sils Maria) o al Polanki (cosceneggiatore con lo stesso Assayas) di Quello che non so di lei (tutti film, detto per inciso, scritti da registi-sceneggiatori maschi). In un gioco di specchi che si fa insistito, le due donne si guardano fianco a fianco, si truccano a vicenda, cercando un'assimilazione fisica oltre che psicologica. La presenza di Elizabeth si fa sempre più invadente, tesa ossessivamente ad impadronirsi dell'aspetto, della psicologia, dei sentimenti e dei corpi delle persone che costituiscono il mondo di Gracie. Nel momento in cui Elizabeth legge/recita allo specchio le parole di Gracie (scritte su una lettera che la donna indirizzò al suo amante-ragazzino) è ormai sola, letteralmente al posto di Gracie, preludio alla impersonificazione finale sotto l'occhio delle cineprese, dove Elizabeth/Gracie si trasforma in una grottesca Eva tentatrice che induce al peccato con la complicità di un serpente. Ma in realtà il tema della manipolazione è molto più complesso di così: Elizabeth (che in un incontro con gli studenti rivela la labilità del confine tra realtà e finzione nella propria professione, parlando esplicitamente delle scene di intimità e sesso interpretate e vissute sul set) sfrutta la psicologia e anche le fragilità di Gracie per sublimarle nella propria interpretazione; ma il nodo centrale della storia risiede nel rapporto asimmetrico nato a suo tempo tra una trentaseienne e un tredicenne (May December è un modo di dire per indicare una relazione anagraficamente squilibrata – in genere in situazioni in cui è il maschio ad essere il più anziano); un'asimmetria che si ripercuote anche nel presente: ora entrambi i due sono adulti, ma Gracie è una matriarca che si comporta ancora con l'insicuro Joe con un'autorevolezza e una condiscendenza materna, mentre le sue certezze cominciano a frantumarsi in crisi nevrotiche e lei cerca di autoconvincersi che fu il giovanissimo a sedurla, e non il contrario. E d'altra parte il fatto che Gracie abbia accettato che si girasse un film su di lei e sulla sua storia sembra nascondere (fino ad un certo punto) anche il compiacimento narcisistico di chi vuole esibire le proprie scelte eterodosse e una pretesa serenità psicologica e famigliare, in un tranquillizzante contesto borghese e domestico (la prova del nove si avrebbe capovolgendo la storia a generi invertiti, e pensare alla vicenda di un trentaseienne maschio che seduce una ragazzina delle scuole medie mettendola incinta per poi assorbirla nella propria vita). Ma c'è un altro livello di manipolazione da considerare, quello della società e dei media, pronti a scandalizzarsi perbenisticamente davanti ad una relazione poco o per nulla ortodossa ma pronta ad avventarsi avidamente sulla storia per soddisfare le proprie pruderie voyeuristiche. La storia di Gracie e di Joe non appartiene solo a loro, ma ai tabloid, alle fiction, e a noi spettatori di May December. Tempo più o meno presente, ambientazione in una città che potrebbe essere Londra (o i suoi sobborghi). Un uomo ancora giovane ha perso le persone più amate in un incidente automobilistico. Gli si offre però il modo di ricontrarli nella casa che un tempo avevano abitato insieme (in una dimensione fantasmatica ma realistica nella rappresentazione), per un periodo limitato di tempo: sarà l'(ultima) occasione per confrontarsi di nuovo con un lutto mai completamente elaborato e risolto, per congedarsi da loro, ma soprattutto per affrontare e cercare di sciogliere dei nodi esistenziali ed affettivi rimasti in sospeso dopo la prematura scomparsa. Nel frattempo il protagonista intraprende una nuova relazione sentimentale, che sembra indirizzare la sua vita verso un'evoluzione più positiva. Ma non tutto è come sembra, e l'esistenza reale di uno dei protagonisti (non dico di più per non rovinare quella che deve essere una sorpresa per lo spettatore) viene rimessa radicalmente in discussione. Nell'ultima immagine, gli amanti dormono abbracciati in un letto, in un'immagine malinconica ed enigmatica. Sembrerà impossibile, ma questa è la sinossi non di uno ma di due film, che per una straordinaria coincidenza escono sugli schermi cinematografici italiani a distanza di poche settimane l'uno dall'altro. A me è capitato di vederli a pochissimi giorni di distanza e mi hanno provocato un tale corto circuito mentale che devo davvero fare uno sforzo per distinguerli l'uno dall'altro. Sono rispettivamente Estranei (All of Us Strangers), del regista inglese Andrew Haig (Weekend, 45 anni, Charley Thompson), uscito il 29 febbraio, e Another End, dell'italiano Piero Messina (L'attesa), previsto in uscita il 21 marzo. Certo, le differenze, ovviamente, abbondano: in Estranei i famigliari defunti sono due, il padre e la madre (Jamie “Billy Elliot” Bell e Claire Foy), morti sulla strada quando Adam (Andrew Scott), oggi uno scrittore adulto che si confronta con la propria storia famigliare, aveva solo 12 anni. Adam si incontra con i loro fantasmi (“presenti” in modo realistico; ma con l'età che avevano quando sono mortie consapevoli di esserlo) nella casa dell'infanzia. Adam ha così modo di rivelare loro la propria omosessualità, che al momento della loro scomparsa era, in lui ragazzino, solo latente, e cerca disperatamente da loro comprensione, rispetto, accettazione. Il suo nuovo amante è quindi un uomo (Paul Mescal), l'estraneo del piano di sotto, bizzarramente l'unico coinquilino in un grande caseggiato nel sobborghi di Londra non ancora abitato. In Another End la persona cara scomparsa prematuramente è la moglie del protagonista Sal, che vive in una città non nominata, modernamente anonima, dove si parla inglese (anche se lui parla in spagnolo con la sorella: Garcia Bernal è di origine messicana, Berenice Bejo argentina). L'occasione per incontrare di nuovo la moglie morta è fornita a Sal dalla scienza, che è ora in grado di impiantare in ospiti volontari, per periodo limitati di tempo, la personalità e i ricordi appartenenti a cari defunti. L'operazione vanta un dubbio valore terapeutico: ovviamente Sal non riuscirà più a staccarsi dalla donna (c'è un punto in cui il film incrocia precisamente uno snodo de La donna che visse due volte), che è un po' la moglie (con la quale deve rielaborare il rimpianto di non avere avuto un figlio, a causa delle proprie paure), un po' una donna sconosciuta, che a sua volta ha avuto un lutto e ora deve faticosamente cercare una nuova ragione di vita. Non aggiungo di più sui rispettivi finali, che, pur non nelle rispettive differenze, adottano un analogo twist narrativo, con la rimessa in gioco dello statuto ontologico dei personaggi protagonisti, e si chiudono entrambi su un'immagine plastica praticamente sovrapponibile. Ho trovato assolutamente singolare comunque la consonanza dei due film nel trattare in modo immaginifico lo stesso pressoché identico tema, ovvero quello della possibilità di confrontarsi con i propri fantasmi affettivi e sentimentali, di dire finalmente le parole che non si sono mai dette, di risolvere questioni esistenziali che non si è saputo o potuto affrontare - anche perché è mancato drasticamente quel tempo che si credeva di avere a disposizione. Lo spunto da fantascienza o da ghost movie è solo un labile pretesto narrativo per mettere in gioco un teatro mentale dove si rappresenta la resa dei conti con se stessi e con i fantasmi della propria coscienza e della propria storia individuale e famigliare. Another End (decurtando il titolo si ottiene l'espressione “not here”, poiché si ha a che fare con persone che non sono più qui, cioè tra noi, ma anche “the end”, come esplicita il trailer del film) in ossequio alla sua natura pretestuosamente fantascientifica, si apre con un paio di sequenze ad effetto. In una Sal si reca dall'anziana vicina per aiutarla a riparare un guasto domestico. Mentre la signora offre un tè a Sal e chiacchiera abilmente, il marito dorme sul divano, con il giornale aperto sulle ginocchia. Poi arrivano degli inservienti che cominciano a trafficare intorno all'anziano. Non sono badanti o infermieri: lo impacchettano in un involucro e lo portano via, nell'indifferenza della moglie, come se fosse un cadavere. Nella sequenza successiva siamo in un hangar gigantesco, dove sono stesi moltissimi corpi, chiusi in involucri simili. Poi i presunti cadaveri si risvegliano, aprono dall'interno le cerniere dei rispettivi involucri, si alzano e si incamminano. Ma la parte preponderante di entrambi i film si svolge in realtà in ambienti domestici, sottolineando la dimensione intimistica ed emozionale della narrazione, con pochissime sequenze girate all'esterno (in un'ennesima consonanza o rima visivo-narrativa, in entrambi i film c'è un'importante sequenza girata in discoteca). L'ambiente urbano è sempre impersonale e anonimo: in Estranei Adam (il primo uomo, in attesa di un compagno tratto dalla propria costola) vive in un grande condominio disabitato, e Londra è solo un remoto skyline visto alla finestra; in Another End Sal vive ormai solo nel suo appartamento, in una città senza nome dall'aspetto moderno e scostante. Gli interni (la casa dei genitori di Adam, quella di Sal) hanno invece una dimensione un po' vecchia, vagamente claustrofobica, dove si ascoltano vecchi vinili o si guardano film dal divano del salotto. Anche l'ambientazione è costantemente crepuscolare: il mondo di Another End è grigio e piovoso, mentre dalla finestra di Adam si vede incombere sul lontano skyline della città un sole costantemente rosso, come in un eterno estenuante malato tramonto.
Perfino le personalità dei protagonisti maschili hanno delle consonanze: se Adam è un gay (o queer - nel film si discute della definizione più appropriata) dichiarato, e chiaramente la parte passiva e più femminile della coppia che si viene a formare con il vicino Harry, Sal sembra rappresentare il lato meno virile del triangolo (o quadrilatero) formato con la moglie Zoe (interpretata da Renate Reinsve, che supera vistosamente anche in statura fisica il “piccolo” Gael Garcia Bernal) e con la sorella Ebe (ed eventualmente con Ava, “ospite” della personalità di Zoe). Entrambi i film infine adottano un twist finale che dovrebbe sorprendere lo spettatore con una rivelazione a sorpresa. E' un ribaltamento esistenziale-ontologico di cui Philip Dick fu un precursore in letteratura e che ormai abbiamo già visto più volte sullo schermo in diverse declinazioni (da Il sesto senso a The Others a Sto pensando di finirla qui). Evidentemente sono due film che, per i temi toccati e per il tono della narrazione - in entrambi i casi calibrato sulle emozioni dei protagonisti, sui loro rimpianti e rimorsi, sui loro sensi di colpa e sul desiderio di poterli fugare con un confronto postumo con le persone più importanti della loro vita, sul loro amore e sul bisogno di riceverne - toccano o possono toccare profondamente la sensibilità di spettatori e spettatrici. Con qualche veniale difetto. Ad Estranei imputerei soprattutto il rischio di sfiorare in qualche occasione il ridicolo involontario (v. le scene in cui i protagonisti discutono disinvoltamente della propria morte o dei tempi moderni che ne sono seguiti; o, peggio, quella in cui Adam, adulto, veste un pigiamino da dodicenne e si mette a dormire tra i genitori nel letto matrimoniale); a Another End (che deve superare nella fase iniziale la difficoltà di rendere comprensibile la situazione evitando l'effetto “spiegone”) qualche goffaggine in certi aspetti della narrazione (le parti del laboratorio o del bordello), una certa durezza della Reinsve ed un finale un po' troppo affrettato, non si sa se più ambiguo o più confuso. Direi che vale comunque la pena di vederli. Seguirà dibattito: inevitabilmente, principalmente con se stessi. UN ALTRO FERRAGOSTO di Paolo VirzìSembra che non sia mai una buona idea dare un seguito a distanza di tempo a film che in qualche modo hanno segnato un'epoca. Nemmeno se sono gli stessi autori (e gli stessi attori, quando possibile) ad interpretarli. Non è difficile immaginarlo a priori, e la casistica ormai potrebbe dar luogo ad una legge enunciabile. Raccontare Vent'anni dopo potevano andare bene per Alexandre Dumas, che non doveva confrontarsi con la cruda e tangibile realtà dell'invecchiamento fisico dei personaggi – e che comunque pubblicò il romanzo poco dopo I tre moschettieri. Ma non ad esempio per i Blues Bothers (che tornarono 18 anni dopo senza Belushi); o per i trainspotter di Boyle (20 anni dopo); o per i blade runner, replicati negli anni in una serie di director's e final cut e poi riassemblati da Villeneuve (che se ne è nel frattempo pentito) 35 anni dopo gli originali; o per Un uomo una donna, tornati con una ventina d'anni in più per una ballata da vecchi amanti; o per Il regalo di Natale di Avati, con rivincita al tavolo da gioco 15 anni dopo; o per i Comedians di Salvatores, riesumati lugubremente – con tutti gli attori cambiati - da un celebre spettacolo da lui diretto al Teatro dell'Elfo addirittura 36 anni prima e già portato sullo schermo in forma apocrifa 33 anni fa.
Un altro ferragosto non sfugge alla legge. 30 anni fa, Ferie d'agosto aveva rappresentato icasticamente l'Italia nel passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, con la sinistra sempre perdente contro il predominio democristiano che si apprestava a perdere di nuovo – con onore? - di fronte alla marea montante del berlusconismo, del suo edonismo pacchiano, della sua volgarità intellettuale, della sua immoralità corrotta e corruttrice. Ora, per rappresentare l'evoluzione, o l'involuzione, della società italiana, Paolo Virzì, cosceneggiatore con il fratello Carlo e con Francesco Bruni, riconvoca di nuovo sulla piccola isola di Ventotene i rappresentanti delle famiglie Molino e Mazzalupi, i protagonisti di allora. O, per lo meno, i sopravvissuti, visto che alcuni degli interpreti sono scomparsi prematuramente, come Ennio Fantastichini o Piero Natoli. Chi non è morto – ovviamente - è invecchiato (anche se Sabrina Ferilli ha sempre un suo perché, malgrado i 30 anni di più); Silvio Orlando è impressionante per credibilità nel ruolo dell'anziano Sandro Molino, ex giornalista de l'Unità, che comincia a perdere forze, memoria e trebisonda: il combattivo intellettuale di sinistra si è trasformato in un vecchio che detta al giovanissimo nipote velleitarie lettere da mandare a Ursula von der Layden per la tutela della memoria storica di Ventotene, terra di confino per molti antifascisti durante il ventennio; che predica un'ormai smarrita “igiene delle parole” e che fa sogni in bianco e nero dove dialoga con Pertini e Spinelli mentre fischia il vento e dove viene accusato dalle donne partigiane, forse non a torto, di non saper amare, vivere e divertirsi. Invece di partire in barca imbracciando il mitra per andare a liberare l'Italia e costruirne una migliore, come nei suoi sogni, scomparirà in ambulanza inseguito dalla moglie e dai famigliari afflitti, come se fosse Roma città aperta. La moglie Cecilia (Laura Morante), che da sempre si sente trascurata dal marito, nel frattempo si è trastullata e angustiata nevroticamente con il sogno di nuove avventure erotico-sentimentali, e il figlio (la new entry Andrea Carpenzano) ha fatto soldi inimmaginabili con una app e ora si accompagna ad un fatuo amante ossigenato. Roberto (Gigio Alberti) continua a non avere né arte né parte, eterno playboy fricchettone sgualcito e squattrinato, mentre Mauro (Silvio Vannucci), aspirante attore, e ora imprenditore turistico a Ventotene, organizza squallidi festival di cinema alternativo (dove lui è protagonista) per quattro spettatori che non hanno di meglio di fare per passare la serata. Dall'altra parte della barricata la Sabri da bruttina complessata (Vanessa Marini nel primo film) è diventata una bruttina stagionata (Anna Ferraiol Ravel); è sempre ignorante, ma anche lei ha fatto talmente fortuna sul web, con dei tutorial di cosmesi con cui consola e fa sperare bruttine come lei, da essere sul punto di sposarsi (in diretta social, ovviamente) con un cinico e buzzurro cacciatore di dote (Vinicio Marchioni), e da essere corteggiata anche dagli emissari di un partito destrorso molto molto simile a Fratelli d'Italia, che, ingolositi dal numero esorbitante dei suoi follower, le offre una prestigiosa e inopportuna candidatura; la bella Marisa (Ferilli), rimasta vedova ma sempre frustrata da una vita che non la soddisfa, ha cercato un nuovo compagno in Pierluigi-Nardi-Masciulli (Christian De Sica), un maneggione inguaiato che i suoi stessi figli cercano di fare interdire. Ma insieme ai personaggi sono invecchiati anche Virzì e gli autori, e, malgrado la professionalità nella scrittura e nella regia e la lucidità della visione, qualcosa non funziona più come una volta, e l'ironia, l'umorismo, il gusto socioantropologico, la malinconia e la poesia di Ferie d'agosto non ritornano più allo stesso modo in questo Ferragosto. La rappresentazione dell'Italia (e del mondo) odierno sembra in certi momenti più enunciata che messa in scena, i vizi e i problemi contemporanei più elencati che incarnati, e le macchiette stentano (anche se la struttura corale lo rende difficile) a farsi personaggi di carne e sangue. C'è nel film una vena senile, catastrofista, per certi versi rassegnata, che sembra coerente con l'apocalisse già annunciata da Virzì nel precedente Siccità, che pure aveva dalla sua lo scarto fantastico. Qui invece è proprio un nuovo scarto che manca, si sente un po' il peso della ripetizione, e i personaggi girano intorno ai ricordi e ai rimpianti, tra qualche pudico e veloce flash delle passate Ferie d'agosto e i ritratti dei defunti incorniciati sul comò. Tra social e app, gender fluid e omofobia, tatuaggi e wedding planner, radical chic e influencer, inglesismi e neologismi, fascismo in doppiopetto e sinistrismo sterile e autocondannato alla sconfitta, discoteche anni '80 e stornellate di chitarra acustica, la varia umanità si muove sotto un cielo estivo reso plumbeo dall'aria dei tempi di cui si parla, tra guerre mondiali già iniziate e cataclismi climatici forse già inarrestabili. La commedia all'italiana (in una parabola non inedita) perde il suo afflato progressista e in certo modo pedagogico per farsi tetra, scorata e un po' livorosa rappresentazione del presente. Nel passaggio generazionale succede che i vacanzieri di Un altro ferragosto, come i Comedians di Salvatores, sono grotteschi ma non fanno più ridere, non suscitano il sorriso, non inseguono speranze ma bensì destini di frustrazione. A passarsela meglio in fondo sono quelli che stanno “dall'altra parte”, che pensano che i confinati politici trascorressero il tempo tra happy hour e passeggiate a mare; quelli meglio organizzati, più determinati, più avidi, con meno scrupoli, con più sete di soldi e di vita. A Molino, invece, non resta più il tempo nemmeno per una prossima vacanza al mare. MEMORY di Michel FrancoQualche anno fa avevo scritto un breve saggio (pubblicato sul n. 198 di SegnoCinema nel marzo 2016) dal titolo “La memoria, la storia, l’oblio, il cinema”, in cui prendevo in esame le figure dell’amnesia e dell’oblio nel cinema contemporaneo, deducendone che l’assenza di memoria è spesso l’artificio retorico e psicologico per rimuovere contenuti storici ed esistenziali traumatici che non hanno potuto giungere ad una compiuta elaborazione e quindi al loro superamento.
Memory, il nuovo film del regista di origine messicana Michel Franco, a cominciare dal titolo dichiarativo, si sarebbe ben inserito in quella trattazione. Il tema della memoria (e del suo contrario) appare subito centrale: il rapporto tra Sylvia e Saul si innesca da principio su un falso ricordo di lei, che lo accusa di aver avuto comportamenti sessuali inappropriati quando lei era appena una dodicenne. Entrambi provengono da famiglie borghesi benestanti, ma mentre Sylvia è un ex-alcolista che ha seguito un lungo periodo di riabilitazione e ora lavora come assistente in un centro diurno per disabili, Saul, benché cinquantenne, è affetto da demenza precoce e ha delle falle nella memoria a breve termine che lo rendono inaffidabile. Franco, dopo il sulfureo Nuevo orden (ma in mezzo c’è stato anche Sundown), passa da un cupo affresco contemporaneo del disordine, della diseguaglianza e dei rapporti di potere, inquadrato in una dimensione fortemente socio-politica, ad un racconto intimo, centrato sulla relazione che si crea sui due protagonisti, entrambi alla ricerca di un rapporto che lenisca le ferite che la vita ha inferto loro, ma che si allarga anche ai rispettivi contesti famigliari. Ed è proprio nella famiglia di Sylvia che si radicano segreti inconfessabili che sono anche alla base dei suoi traumi, e che tutti cercano o fingono di non ricordare. Al racconto cinematografico spetta quindi il compito, via via fino alla catarsi finale, di smascherare i falsi ricordi, di cercare di tamponare le amnesie, di superare le rimozioni ipocritamente consapevoli (come quelle della madre di Sylvia e forse anche del cognato) o quelle psicologiche di donne che hanno cercato di superare con la dimenticanza gli abusi vissuti da bambine (come la stessa Sylvia o la sorella minore Olivia, vittima in secondo grado). Franco imposta la narrazione su una sequenza enigmatica e inqueitante (il pedinamento notturno di Sylvia da parte di Saul) ma mantiene poi un tono della narrazione piuttosto freddo e distaccato, con sequenze prevalentemente statiche a camera fissa. Il nichilismo senza scampo di Nuevo orden tuttavia si stempera, o addirittura si capovolge, nella speranza della ricostruzione di relazioni umane che possano risorgere e rinsaldarsi anche scaturendo da presupposti drammatici e problematici. Merito anche di due interpreti credibili come la Chastain e Sarsgaard (premiato a Venezia con la Coppa Volpi); ma sorge il dubbio che il provocatore Franco stavolta sia stato fin troppo buono, mettendo in scena una demenza che in fin dei conti provoca qualche limitato problema (un paio di svenimenti, l’impossibilità a seguire un film in tv), ma che non inficia i rapporti tra Saul e i suoi familiari, né la possibilità di intraprendere positivamente un rapporto sentimentale con Sylvia. AMERICAN FICTION di Cord JeffersonIl raffinato scrittore afroamericano Thelonious “Monk” Ellison, frustrato dal rifiuto degli editori del la sua ultima opera, ispirata a I Persiani di Eschilo, che, malgrado i giudizi lusinghieri, è ritenuta troppo poco “afro”, si diverte per stizza a scimmiottare gli scrittori che ottengono successo grazie allo sfruttamento degli stereotipi legati alla black culture.
E, guarda un po’, il suo nuovo libro, provvisoriamente intitolato My Pafology e firmato con un trasparente pseudonimo, suscita subito l’interesse di editori (che si offrono di comprare i diritti di pubblicazione a suon di centinaia di migliaia di dollari) ma anche dell’industria cinematografica che vorrebbe trarne un film (e qui si parla di milioni). Il libro - una parodia nelle intenzioni dell’autore - è sufficientemente grezzo e rude, violento, apparentemente “vero” e vissuto, intriso del gergo e della cultura di strada, pieno di stereotipi, dai melodrammi ambientati in famiglie disagiate ai criminali neri sbrigativamente ammazzati dalla polizia. E’ giusto quel che ci vuole per piacere agli editor e al pubblico, in particolare al pubblico bianco che così pensa di espiare i propri sensi di colpa e il proprio razzismo, conscio ed inconscio. Per rendere il prodotto più “credibile” e appetibile, l’agente di Monk presenta addirittura il suo fantomatico autore come un delinquente evaso e ricercato dalla polizia. A nulla serviranno i rimorsi e i ripensamenti di Monk, che arriverà anche provocatoriamente a cambiare il titolo del romanzo in Fuck, nella speranza di un ripensamento da parte degli editori e di un rifiuto. Il libro ormai farà la sua strada - con il titolo senza asterischi -, arrivando ad essere candidato ad un prestigioso premio letterario, nella cui giuria, guarda caso, è stato chiamato lo stesso Monk, dal momento che tutti, tranne il suo agente, ignorano la paternità dell’opera. Evidentemente tutto nel film tende al paradosso, e la satira è arguta e pungente, anche se si tiene sempre al di qua del confine del grottesco. Ad essere messa in ridicolo è l’industria culturale bianca (in campo letterario e cinematografico, rappresentata nel film da editori, esperti di marketing, registi, direttori di premi, ecc.), che si dibatte tra ideologia woke e strategie blackwashing, preoccupata di non apparire politicamente corretta e impegnata ad offrire al proprio pubblico - neri vogliosi di identificazione ma soprattutto bianchi con sensi di colpa - prodotti rappresentativi delle minoranze, ma rigorosamente adeguati ai relativi stereotipi di riferimento. Uno scrittore nero va bene, ma se scrive usando il crudo slang degli slums, e non è invece un presuntuoso accademico che cita i classici greci; un protagonista nero va bene (meglio di un bianco divorziato che racconta la propria vita), ma solo se è un gangsta, con catene d’oro, canottiere, pistole e sacchi di droga, in lotta con il mondo e che vive nell’universo delle canzoni rap. Cosa c’è di meglio quindi di uno scrittore criminale e ricercato, che, se si presentasse a ritirare il premio letterario tributatogli, rischierebbe di finire crivellato sotto i colpi di poliziotti bianchi? Cord Jefferson porta sullo schermo il romanzo – basato anche su spunti autobiografici – Erasure, cancellazione (si sfiora un altro tema sensibile e dolente, quello della cancel culture) di Percival Everett, guadagnando al suo esordio alla regia cinque candidature all’Oscar, tra le quali quelle per miglior film e miglior sceneggiatura. La storia principale è impaginata insieme alla rappresentazione della vita privata e famigliare del protagonista, che occupa uno spazio considerevole nella narrazione. Qui Jefferson dipinge un bel ritratto di famiglia, tra fratelli, madri, (il padre è relegato nei ricordi), anziane domestiche ormai “di famiglia” con relativi spasimanti, e nuove fiamme sentimentali. L’intento è evidentemente quello di fornire il quadro di una famiglia nera diversa, ma diversa solo dagli stereotipi che vogliono sullo schermo neri marginali e criminalizzati (come quelli che Monk guarda infastidito in un film che scorre in televisione): in realtà una “normale” famiglia altoborghese e benestante, composta sostanzialmente da brave persone, e da professionisti affermati (scrittori, medici, avvocati), che cerca di affrontare con la cultura, l’ironia e l’affetto reciproco le avversità e le sorprese che la vita spesso o sempre riserva alle famiglie normali (malattia, vecchiaia, lutti, tradimenti, separazioni, divorzi, orientamenti sessuali eterodossi, difficoltà professionali, ecc.). Ma proprio l’agio il film si prende in questo ritratto famigliare, per quanto gradevole e con una propria vena di tenerezza, rischia di annacquare l’interesse principale del film, quello della satira culturale, che pure ha momenti molto gustosi. Il racconto del libro nel film e del film nel film permette un gioco metatestuale, riuscito a volte meno (come i personaggi che si materializzano nello studio di Monk, seduto alla macchina da scrivere) e a volte più (come il triplo o quadruplo finale à la carte. Anche Jeffrey Wright, nel ruolo del protagonista, già pluripremiato per la sua partecipazione alla miniserie HBO Angels in America, è candidato all’Oscar, così come la colonna sonora di Laura Karpman, morbida e jazzata anche se talvolta un po’ prevedibile. Per concludere, visto che comunque è un film di da dibattito, un paio di dubbi mi sono rimasti: la rappresentazione delle brave persone all’interno e intorno alla famiglia Ellison non rappresentano forse dei controstereotipi, e quindi in definitiva degli stereotipi a loro volta? E le candidature del film all’Oscar, non rischiano forse di rappresentare un esempio di quell’ipocrisia dell’industria culturale a prevalenza wasp, che si sente in obbligo di mettere sul piatto una doverosa quota black? LA ZONA D'INTERESSE (The Zone of Interest) di Jonathan GlazerIl tema della rappresentazione dell’Olocausto nel cinema ha suscitato alcune delle più celebri controversie nella storia della riflessione sul cinema. Un evento come l’Olocausto, per le sue proporzioni “smisurate”, per la sua atrocità, per la sua terrificante razionalizzazione dell’abominio, è apparso fin da subito un tema “fuori scala” rispetto all’umano, e a maggior ragione inenarrabile e non rappresentabile, se non attraverso la voce diretta (gli scritti, i disegni, le foto, le riprese) dei sopravvissuti e dei testimoni. Nel 1961 Jacques Rivette dai Cahiers du Cinema innesca una celeberrima polemica sulla carrellata in avanti con cui Gillo Pontercorvo inquadra la morte della protagonista sul filo spinato elettrificato in Kapò; nel 1997 l’uscita de La vita è bella di Roberto Benigni suscita lo sdegno di molti per aver raccontato la deportazione in chiave di commedia (fiabesca); e se qualche anno prima con Schindler’s List Steven Spielberg aveva sfidato il tabù della messa in scena, spostando in là i limiti della visibilità, più recentemente László Nemes ne Il figlio di Saul (che a Cannes si aggiudica il premio speciale della giuria, esattamente come La zona d’interesse otto anni dopo, e che ha anche vinto un Oscar, come potrebbe accadere tra qualche giorno al film di Glazer) concentra il focus sulla soggettività disperata e distorta di un sonderkommando (addetto alla pulizia dei forni crematori), sfocando tutto l’irrappresentabile contesto circostante, in un pudore della visione che è disperata rimozione da parte del protagonista, e rinuncia dell’autore a rappresentare l’oscenità della morte; mentre è ancora un autore ungherese, Kornél Mundruczó, nel 2021, a tradurre il tema in uno stilizzato, beckettiano teatro dell’assurdo nel primo segmento del notevole Quel giorno tu sarai, ambientato in una claustrofobica no man’s room impestata di morte da cui rinasce inaspettatamente e insperabilmente la vita. Se l’Olocausto e la messa in scena dei campi di sterminio di massa sono irrappresentabili, Glazer sceglie allora, semplicemente, di non rappresentarli. I primi minuti del film scorrono su uno schermo totalmente nero e la gran parte della narrazione successiva si svolge infatti nella cosiddetta “zona d’interesse”, cioè nella fascia di territorio “speciale” compresa nel raggio di 40 chilometri intorno alle fabbriche della morte naziste. L’epicentro del racconto non è pertanto il lager, che chiude come sfondo l’orizzonte di moltissime sequenze e di cui non vediamo mai l'interno (c’è un’unica inquadratura dentro al campo, che mostra solamente, dal basso, il volto di Rudolf che guarda in alto verso un cielo senza colore annebbiato dal fumo, che diventa infine un uniforme campo bianco e lattiginoso), ma la dimora con giardino di Rudfolf Höss, comandante del lager di Auschwitz. I protagonisti non sono deportati e aguzzini, ma lo zelante funzionario della morte e la sua bella famigliola (moglie, figli di diverso sesso ed età), suocera e personale di servizio. Tutto ne La zona d’interesse sembra ribaltarsi nel suo contrario logico, e la tragedia immane ed epocale per l’umanità si trasforma nel racconto nell’idilliaca elegia di una vita domestica vissuta in una casa confortevole, in un giardino ordinato, fiorito e profumato, nel godimento della natura circostante, con bagni al fiume e passeggiate a cavallo tra boschi e piante. Anche la tradizionale iconografia stagionale viene ribaltata: al posto dei rigidi inverni gelidi e innevati che sembrano spesso un must nei film ambientati nei campi di concentramento, per gran parte del film impera un’estate di sole splendente, piena di fiori e di vegetazione rigogliosa. Ma quello che è rimosso dalla visione ritorna in gran parte attraverso il sonoro (e solo marginalmente per qualche particolare che si insinua nella visione). Solo pochi metri, una strada da attraversare, separano infatti la dimora degli Höss dalle mura e dalle torri del lager, e tutto il film è infiltrato in modo perturbante dai rumori che provengono da al di là del muro. Urla umane, latrare di cani, il sordo rumore di fondo di una macchina della morte in funzione giorno e notte. Pochissimi elementi tangibili e visibili trapelano dal lager verso l’ambiente circostante: un osso portato dalla corrente, la cenere dispersa nell’aria che si deposita nel fiume e insozza i corpi dei bagnanti, i denti d’oro strappati ai deportati e conservati in casa come un piccolo tesoro di famiglia. Tra una faccenda domestica e l’altra, la coltivazione del giardino e le escursioni nella natura, i giochi e gli scherzi dei bambini, c’è il piacere delle mogli degli ufficiali che chiacchierano tra loro dei beni trafugati agli ebrei e spartiti tra loro; e c’è il dovere di Rudolf, che nel salotto di casa discute con i tecnici i modi con cui efficientare e implementare l’attività dei forni, come si trattasse di un qualsiasi processo industriale, attraverso migliorie al ciclo di combustione/raffreddamento, carico/scarico delle camere crematorie opportunamente disposte ad anello, per velocizzare la distruzione dei cadaveri della grande maggioranza dei deportati inadatti a lavorare come schiavi al servizio dei dominatori tedeschi. Rappresentazione icastica della banalità del male, la normalità della vita domestica diventa per lo spettatore - letteralmente spiazzato - in ogni suo aspetto, anche minimo, un’allusione perturbante a quello che si avviene a qualche decina di metri di distanza, troppo vicino per non sentirne il rumore incessante: se Brecht diceva che “parlare d’alberi è quasi un delitto, perché su troppe stragi comporta il silenzio”, qui ogni volta che si parla di fiori da raccogliere dalle siepi (in modo responsabile per non compromettere “il bene della comunità”), di animali domestici, di giochi di bambini, del clima, di abiti o gioielli, del “paradiso” in cui vivono gli Höss e dei loro sogni realizzati, o ancora di fiabe della buona notte dove si parla di cuocere vivi Hansel e Gretel in un forno, tutto rimanda, per il disagio e il disgusto dello spettatore, alla disumanità e all’atrocità nascosta al di là del muro, sopra il quale si alza perennemente il fumo di chi è condannato, senza colpa, “a passare per il camino”. Al buio, attraverso le finestre rilucono i bagliori notturni che riescono a sgomentare la suocera, alloggiata nella ricca casa della figlia e un tempo donna di servizio delle famiglie ebree che poco più in là stanno bruciando nei forni crematori. Nella notte, reale o apparente, è relegato l’unico atto di umanità e di solidarietà mostrato nel film: una giovane ragazza, trasformata in un fantasma dalle riprese con la telecamera termica , che abbandona dei frutti sui campi dove i deportati saranno portati a lavorare. Nel mondo all’incontrario vigente ne La zona d’interesse, è l’unica trasgressione al regime realistico della rappresentazione (quasi immagini di un mondo “alieno” che sembrano rimandare all’universo astratto e e stilizzato di Under the Skin): si direbbe l’eccezionalità del bene impressa sul negativo della pellicola, contrapposto al positivo della banalità del male imperante. Il regime stilistico del film, di perfezione kubrickiana, è ugualmente radicale e coerente nella tecnica di ripresa, che evita i movimenti di macchina, a parte pochissime carrellate laterali, in genere parallele al grigio muro invalicabile. Per il resto, pur presentando un montaggio nella norma, con sequenze brevi e paratattiche, che includono eccezionalmente inquadrature non naturalistiche come quelle dall’alto (in cui i gerarchi nazisti discutono della deportazione di ulteriori centinaia di migliaia di ebrei ungheresi), i personaggi sono sempre imprigionati nelle scatole visive della camera fissa, che si fa particolarmente opprimente nella scena finale della discesa delle scale da parte di Rudolf, che quasi in una trance onirica sembra “vedere” - a loro volta inscatolate e musealizzate in asettiche vetrine espositive - gli inerti residui del suo atroce lavoro. Ancora una volta, il problema principale di fronte al ricordo insopportabile dello sterminio, è tenere tutto pulito e in ordine.
Coprotagonista necessaria della tragedia invisibile è Hedwig, la moglie di Rudolf, magnificamente resa con movimenti goffi da Sandra Hüller (che nella stagione 2023/24 ha accumulato premi e candidature sia per La zona d’interesse che per Anatomia di una caduta), una donna mediocre ed egoista elevata dal rango di figlia di una donna di servizio a “regina di Auschwitz”, talmente innamorata del suo “paradiso” (dal quale a centinaia di migliaia avrebbero voluto in ogni modo fuggire per scampare alla morte) da combattere con tutte le sue forze per non esserne scacciata, al costo di rinunciare alla presenza del marito, trasferito ad altra destinazione. E’ in fondo questa la tragedia rappresentata nel film, non quella di milioni di persone sterminate nell’Olocausto, ma quella di una famigliola che rischia, a causa di un trasferimento burocratico vissuto come ingiusto, di dover abbandonare il luogo da sogno dove vive felice (per la cronaca, Höss fu impiccato nel 1947 nella “sua” Auschwitz – era stato lui a fare issare sul portone del campo di concentramento la scritta “Arbeit macht frei” -, dopo aver cercato di dissimulare la propria identità, essere stato condannato per crimini contro l’umanità ed essersi convertito in extremis al cattolicesimo). Film teorico, concettuale, filologicamente accurato, di freddezza e di rigore kubrickiani, La zona d’interesse interpella direttamente non solo i negazionisti, che – al pari dei famigliari di Höss che non attraversano i pochi metri di strada e non guardano cosa succede dietro il muro - si rifiutano di fare quei pochi metri di percorso intellettuale che li metterebbe di fronte all’evidenza inconfutabile delle testimonianze e delle prove materiali e documentali dello sterminio. Ma in maniera più indiretta chiama in causa la responsabilità qualunque spettatore. Non colpevole, non complice, ma – impotente - rannicchiato nella propria zona d’interesse e di comfort, impegnato a cercare di godere le proprie gioie individuali e particolari e a non guardare cosa accade al di fuori della propria casa e oltre il muro che lo protegge, dove il fuoco sta divampando. Noi che viviamo sicuri nelle nostre tiepide case, dove ci interpellavano i versi di Primo Levi; sforzandoci di crederci assolti - come i borghesi di De André che hanno paura di guardare, e si dicono che in fondo non sta succedendo niente - mentre invece siamo tutti - forse, in parte - coinvolti. THE HOLDOVERS - LEZIONI DI VITA di Alexander PayneIl prof. Hunham di The Holdovers potrebbe essere in fondo una variante o una reincarnazione del Miles Raymond di Sideways (2004): entrambi i film sono scritti e diretti da Alexander Payne (non a caso figlio di un docente di Yale e di un'attrice) e interpretati da Paul Giamatti, che in entrambi i casi interpreta il ruolo di un insegnante “depresso, introverso e insicuro con le donne”, ma animato da una passione esclusiva (qui la storia antica, nel film del 2004 l'enologia – e in entrambi i casi l'apertura di una bottiglia pregiata segna una delle sequenze simbolicamente significative del racconto).
D'altra parte una certa affinità ce l'hanno perfino i rispettivi titoli, indicativi della poetica delle piccole storie marginali e antispettacolari di Payne: se sideways è sinonimo di “strade laterali, secondarie”, holdovers indica qualcosa o qualcuno di residuale, tenuto in sospeso. Ad essere “in sospeso” sono in questo film i tre personaggi principali, in una prestigiosa scuola superiore, Barton, chiusa per le vacanze di fine anno: un professore solitario e inviso a tutti, Paul Hunham, cui viene affidato l'ingrato compito di custodire gli studenti che per un motivo o per l'altro non hanno potuto tornare in famiglia per le vacanze; lo studente Angus Tully, scaricato dalla madre che vuole passare le vacanze a Saint-Kitts da sola con il suo nuovo marito; e Mary Lamb, la capo cuoca di colore che ha appena perso il figlio, caduto in Vietnam, dopo che anche il marito era morto in giovane età per un incidente sul lavoro. La narrazione di Payne procede per sottrazione, mandando in vacanza prima tutto il corpo docente e gli studenti e poi gli altri quattro altri studenti rimasti a Barton, lasciando soli i tre protagonisti a vagare per gli ambienti e i corridoi freddi e vuoti del grande edificio scolastico in mezzo alla neve (come fosse un Overlook Hotel in versione scolastica, dove si aggirano due adulti, uomo e donna, più un terzo personaggio più giovane; c'è perfino l'arrivo del quarto personaggio, che in Shining era un capocuoco di colore – come Mary –, e che qui invece è un addetto alle pulizie che si chiama Danny, esattamente come il bambino del film di Kubrick); infine allontana anche Mary, che va a trovare la sorella incinta. Alla fine l'attenzione si concentra quindi sui due soli personaggi maschili, che sviluppano loro malgrado un rapporto putativo e controverso di padre e figlio, con una progressiva conoscenza e accettazione reciproca. In realtà si tratta di una struttura chiasmica, perché nell'ultima parte tornano Mary e tutti i personaggi della prima parte, mentre fino all'ultimo vengono introdotti nuovi personaggi determinanti. Payne si prende il suo tempo, un tempo che si direbbe “naturale” per osservare le dinamiche tra i suoi tre antieroi: il professore che nasconde dietro la severità e il sarcasmo le frustrazioni personali e professionali di tutta una vita, ma che finisce per scoprire dentro di sé una capacità residuale di empatizzare con il prossimo e perfino una certa dose di altruismo; la cuoca che sembra incarnare con il suo fisico corpulento un solido buonsenso e una fondamentale bonomia, incrinato però da un dolore silenzioso e indicibile; e il giovane studente moderatamente ribelle che a sua volta ha perso il padre (scopriremo solo alla fine come) e che ora si sente respinto dalla nuova famiglia, incompreso e incompiuto. Complice la solitudine e l'isolamento, l'atmosfera nonostante tutto natalizia e festiva con le relative canzoni languorose e sentimentali, e le prove sociali cui i tre saranno comunque sottoposti, il terzetto arriverà comunque a comprendersi e a volersi un po' di bene - malgrado le differenze sociali, economiche e anagrafiche di partenza - e a formare, almeno per quel breve lasso di tempo, una sorta di nuova e strana famiglia. Dopo la fantascienza sociale acida e disturbante di Dowsizing, The Holdovers, con i toni della commedia dolceamara, è alla fine un film imperniato sulla scoperta della gentilezza e della dolcezza, due caratteristiche più volte esplicitamente citate nel film. Il lavoro di Payne è di grande finezza nel rendere naturali e quasi impercettibili gli slittamenti con cui i personaggi finiscono per avvicinarsi gli uni agli altri; spiace un po' che gli accenti melodrammatici, tenuti sotto traccia per tutti il film, riemergano malgrado tutto nel finale, per offrire qualche rivelazione inedita non indispensabile e soprattutto per arrivare ad una scena di addio finale con un adeguato e sufficiente livello di pathos. Pensando alla filmografia di Payne, padre e figlio (qui solo putativi) si separano solo dopo un'evoluzione positiva del loro rapporto, come in Nebraska, e l'anziano Hunham parte sulla strada come il pensionato di A proposito di Schmidt. Il film, dall'impaginazione molto tradizionale, senza guizzi narrativi o registici particolarmente originali, è ambientato nel 1970, con acconciature maschili, estratti di trasmissioni televisive e canzoni a ricreare l'atmosfera dell'epoca (all'inizio ci sono perfino le false imperfezioni della pellicola e qualche scricchiolio nella colonna sonora); la guerra del Vietnam è un'eco lontana, che ha portato a morire il figlio di Mary ma che non riguarda certo i figli di papà che studiano nelle esclusive scuole del New England e che per le vacanze invernali partono in elicottero per andare a sciare o vanno ai Caraibi. Paul Giammatti (che con Payne esce dai suoi abituali panni di attore di contorno o di caratterista per conquistare la ribalta del protagonista, come già in Sideways) si crogiola (ma senza strafare) nel ruolo per lui congeniale del professore burbero ma dal cuore, al fondo, tenero; nella parte di Angus esordisce con autorevolezza Dominic Sessa, ombroso e vibratile come richiesto dal ruolo, e Da'Vine Joy Randolph dà alla sua Mary Lambert un'apparente placidità venata di malinconia e di dolore. Giamatti e la Randolph si sono già aggiudicato il Golden Globe e ora aspirano all'Oscar; The Holdovers è candidato anche come miglior film, oltre che per la sceneggiatura e il montaggio. SALTBURN di Emerald FennellSaltburn è decisamente un film la cui contemporaneità è testimoniata anche dall'interesse e a volte dall'acceso favore che ha riscosso sui social media. Eppure al suo interno spira una certa aria di déja-vu, forse favorita dall'atmosfera vecchia Inghilterra (che per antonomasia è conservatrice e tradizionalista) che si respira nella magione della famiglia coprotagonista del film. Certo, non si tratta della nobiltà inglese delle buone maniere, del rispetto dell'etichetta e dei tè delle cinque, bensì della versione piena di vizi e tare che si può trovare ad esempio nella saga letteraria della famiglia Melrose raccontata da Edward St Aubyn.
Poi c'è il tema dell'intruso che si insinua in un ambiente sociale per corromperlo e distruggerlo dall'interno: con analogie che vanno dal Teorema di Pasolini Cabaret di Bob Fosse al polacco The Hater di Jan Komasa (se non l'avete visto vi consiglierei di recuperalo), fino a titoli emblematici (anche se forse l'indiretto prototipo è rintracciabile nel cecoviano Il giardino dei ciliegi) come The Servant o Parasite. Per non parlare de Il sacrificio del cervo sacro, dove Barry Keoghan interpretava già il ruolo del corpo estraneo che si insinua come un tumore maligno all'interno di una famiglia allo scopo di distruggerla, cosa che probabilmente ha indotto la regista a fargli indossare un paio di corna cervine durante la lunga scena di una festa. La Fennell imposta da subito la narrazione sul rapporto tra due personaggi maschili, Oliver Quick (che racconta una storia famigliare lacrimevole, tra la reale biografia dello stesso Keoghan e il dickensiano Oliver Twist; ma il personaggio si rivelerà quick, svelto e senza scrupoli, nel perseguire i propri obiettivi) e il fortunato Felix Catton: l'uno (Keoghan, nella realtà figlio di un'eroinomane morta di overdose) povero, brutto e dal carattere non privo di meschinità e ambiguità: l'altro ricco, bellissimo e con un animo aperto e generoso, anche se ovviamente un po' snob (Jacob Elordi, il cui cognome già ingloba la parola lord...), facendolo raccontare dallo stesso Oliver, in un'ambigua cornice narrativa che rimane indecifrabile fino alla fine. Dopodiché segue due strategie narrative: la prima è appunto quella di condurre un racconto cinico e amorale mantenendo un'ambiguità che si dissolverà solo nel finale (nel racconto comunque i conti non tornavano e non era difficile immaginare un twist finale che colmasse i buchi drammatici - e lo fa fin troppo). La seconda è quella di trasmettere il senso di disagio morale anche sul piano visivo, quasi tattile, disseminando il film di liquidi corporei come si trattasse della bava di una lumaca paziente e malefica: con masturbazioni assortite (in coppia o solitarie, tra cui una sulla terra fresca di una fossa cimiteriale), sputi, sudore, sperma, feticismo (è già celebre la scena in cui il protagonista lecca con voluttuosa avidità il buco di scarico della vasca da cui è defluita l'acqua nella quale Felix si è masturbato), cunnilingus conditi di sangue mestruale, fino alla danza finale in totale nudità, con l'evidente obiettivo di épater le bourgeois, cioè di stupire e scandalizzare i benpensanti. Lo schema etico e drammaturgico si rivela speculare e antinomico rispetto a quello del promettente esordio di Una donna (appunto) promettente: lì una giovane donna (Carey Mulligan, che è presente anche qui, quasi irriconoscibile, in un cameo) sacrifica se stessa per un progetto di giustizia e di doverosa vendetta; qui un giovane uomo sacrifica tutti gli altri per un cinico ed egoistico progetto di autoaffermazione. Se nel primo film la Fennel ricorreva ad una simbologia visiva cristologica, mariana ed angelica, qui ovviamente oppone all'inverso un'ironica simbologia demoniaca, come le già citate corna sulla testa di Oliver o il labirinto dentro cui consumare le proprie vittime sotto l'effige incombente di un Minotauro a sua volta cornuto, o la pertinente simbologia animale che decora i titoli di coda con falene, ragni, serpenti, ecc. Di nuovo molta attenta anche la scelta dei brani in colonna sonora, che include titoli che dicono già tutto come Destroy Everything You Touch o Murder on the Dance Floor. Tutto appare però stavolta un po' troppo voluto, con una ricerca dello scandalo un po' troppo insistita e studiata a tavolino; salvo poi scivolare nell'utilizzo di facili cliché, con maggiordomi impassibili e magioni infinite, e soprattutto con la rappresentazione dei ricchi come una congrega di viziati e viziosi, resi vulnerabili e indifesi dalla loro stessa corruzione, omosessuali, bisessuali, ninfomani, depressi, euforici, dipendenti da sostanze, che prendono il sole nudi ma giocano a tennis in smoking con la racchetta in una mano e la bottiglia di champagne nell'altra. Barry Keoghan, che già era balzato all'occhio con una manciata di ruoli da non protagonista (Il sacrificio del cervo sacro, Gli spiriti dell'isola), qui si prende la ribalta relegando i belli (Elordi, la Pike, la Oliver) al ruolo di proprie inconsapevoli marionette. C'E' ANCORA DOMANI di Paola CortellesiC'è ancora domani, che già di per sé è un titolo consolatorio, ha messo d'accordo tutti, pubblico e critica, come raramente succede - soprattutto per un film italiano.
E si tratta di un film in bianco e nero, in dimessa veste neorealista, che tratta un tema pesante come la violenza domestica e di genere; non insomma - con rispetto parlando - di un film di Checco Zalone o di Aldo Giovanni e Giacomo, di quelli che mettono d'accordo tutti sul piano di una comicità schietta con una problematicità tematica quasi sempre ridotta ai minimi termini o trattata comunque attraverso toni comico-satirici. I pregi del film sono già stati messi ampiamente in rilievo: il riallacciarsi ad una delle più gloriose eredità del cinema italiano (il neorealismo appunto, che qui già si vena di commedia, per quanto nera); la capacità di raccontare un tema grave con leggerezza; le invenzioni linguistiche (la violenza girata come un musical); l'uso di canzoni contemporanee; la capacità di riallacciare una vicenda individuale ad un cambiamento epocale della storia e della società italiana, ecc. Ma le reazioni che ho letto, anche sui social, con la loro forte componente affettiva ed emozionale, mi fanno pensare che il film abbia suscitato qualcosa di più che l'apprezzamento per un bel film, e che abbia invece intercettato qualche bisogno più profondo del pubblico italiano. Da una parte c'è indubbiamente la personalità di Paola Cortellesi, che non è solo una show woman eccezionale, che è riuscita in tutti i campi in cui si è cimentata (comica, cantante, conduttrice, attrice televisiva, cinematografica e teatrale, sceneggiatrice, regista di videoclip, ecc.), ma che ben può rappresentare l'emblema della donna contemporanea realizzata: coraggiosa, capace, intelligente, emancipata, artefice del proprio meritato successo; e tutto questo dando di sé un'immagine sempre sorridente, positiva, ironica ed autoironica. Proprio questa sua autorevolezza le permette di mettere qui in gioco con altrettanta credibilità una componente più dolente e drammatica – con il viso stesso esibito nella sua nudità e spigolosità -, nel ruolo di una casalinga-lavoratrice-moglie-badante-madre di famiglia, vittima, in ogni e ciascuno di questi ruoli, di una sopraffazione di origine patriarcale. Ma forse c'è qualcosa di più, e ho pensato che uno delle cause “nascoste” più rilevanti nel determinare il successo film sia proprio quella che è in realtà più eclatante e sotto gli occhi tutti, ovverossia la sua esibita matrice neorealistica. C'è ancora domani è lontanissimo dal cinema del reale così come lo concepiamo oggi, e il suo punto di partenza è quindi un modello squisitamente cinematografico e dichiaratamente finzionale. Ma forse il pubblico, tra le mille e mille proposte che il cinema e la televisione gli offrono, a volte in modo frastornante, nel campo della fiction, proprio di questo aveva inconsciamente bisogno: di un film diverso perché simile a quello lontano nel tempo, apparentemente dimenticato ma radicato nell'inconscio collettivo e di ciascuno di noi (persino, forse, degli spettatori più giovani); di una proposta dall'apparente semplicità e freschezza proprio perché assimilata ad un cinema passato (ri)nascente e quasi primigenio. Un film che riparte quindi dalle origini della storia (perché tutto ciò che sta prima del neorealismo appare davvero come preistoria), da un paese e da un cinema che deve ricostruirsi dalle proprie macerie materiali e morali, e perfino estetiche: C'è ancora domani riparte dal bianco e nero e grigio in appartamenti seminterrati; dai cortili popolari dove si parla e si sparla e dove i bambini corrono e schiamazzano; dagli uomini in canottiera e dalle donne in parannanza; da un epoca in cui la Repubblica italiana neppure esisteva. Nella musica è successo con i Måneskin, che hanno resuscitato dal tempo dei vinili l'energia basica del rock, intercettando un bisogno evidentemente latente, una nostalgia collettiva – dopo tutte le declinazioni di pop, rap, trap, techno, latino, e chi più ne ha più ne metta - che magari nessuno ancora sapeva di provare. E come i Måneskin resuscitano il rock, ma con la malizia e il bagaglio tecnico e musicale di chi fa musica oggi, e non nel negli anni '70 del secolo scorso, così Cortellesi reinterpreta il neorealismo e il cinema degli anni '40-50, ma iniettandovi una sensibilità tematica - etica e sociale - contemporanea e con una consapevolezza linguistica aggiornata ai tempi. Così ad esempio usa il ralenti dove il neorealismo nemmeno se lo sarebbe immaginato; fa una lunga carrellata circolare intorno a Delia e Nino, per mostrare la loro infatuazione, come Fassbinder girava intorno alla coppia dei suoi protagonisti (il primo esempio che mi ricordi) con una steadycam a 720°; usa una canzonetta come commento ad una scena di brutale violenza, come hanno fatto Kubrick in Arancia meccanica, o più recentemente Bong Joon-Ho in Parasite o la Ducorneau in Titane; usa canzoni contemporanee in contesti anacronistici come ha fatto, ad esempio, la Niccharelli in Miss Marx. Non sto parlando di citazioni o omaggi, né tanto meno di copiature; sto solo dicendo che la Cortellesi usa (naturalmente) un linguaggio contemporaneo impiantandolo sul modello di un cinema d'altri tempi. Parte da una sensazione di semplicità, quasi di naïveté, per introdurre uno stile e dei temi che trascendono il prototipo per farsi cinema dei nostri tempi, capace di attrarre l'attenzione e il favore dello spettatore contemporaneo. Mi sorge il dubbio di stare dicendo delle banalità, ma credo che proprio qui risieda la radice del fascino che il film ha riscosso tra gli spettatori; nel twist tra una promessa di rassicurante semplicità e una sensazione di gratificante complessità. Un'operazione analoga, e qui azzardo sempre di più, a quella compiuta dalla Gerwig con Barbie: partire da un gioco infantile universalmente riconosciuto e riconoscibile, a suo modo tranquillizzante, per iniettarvi poi un pensiero femminista molto contemporaneo e attuale, tutt'altro che puerile; e, per fare invece un esempio negativo, è l'operazione che invece non è riuscita ai Manetti Bros con Diabolik: anche loro sono partiti da un'icona “semplice”, ma hanno commesso l'errore snob di mantenerne filologicamente intatta la semplicità ingenua e vintage, pensando bastasse a se stessa, senza apportare forti elementi nuovi drammaturgici o stilistici. Non nascondo che non tutto mi ha convinto in C'è ancora domani, a partire da un didascalismo insistito e da alcune soluzioni stilistiche e narrative (tra queste ultime, ho trovato davvero fuori luogo quella relativa al nero della Military Police e all'attentato al bar dei futuri suoceri); ma onore a Paola Cortellesi per il risultato conseguito. Perché sembra facile ma non lo è; onore quindi al carattere che ha costruito (una Delia che sarebbe probabilmente piaciuto ad Anna Magnani); alla rappresentazione di un'Italia che rinasce ma che – tra delatori e borsaneristi – si porta non pochi pesi sulla coscienza; all'intuizione di un finale emozionante dove il riscatto da una sopraffazione individuale patita passa per un atto di libertà e di partecipazione collettiva, come le storiche elezioni del 2 giugno 1946; per avere avuto l'illuminazione di una sequenza finale che materializza visivamente l'inno resistenziale e resilienziale di Daniele Silvestri, che canta: E senza scudi per proteggermi né armi per difendermi Né caschi per nascondermi o santi a cui rivolgermi Con solo questa lingua in bocca E se mi tagli pure questa Io non mi fermo, scusa Canto pure a bocca chiusa ____________________________________________________________________________________________ ...ma al maligno Oruam Norac è rimasto qualche dubbio: leggi qui le sue riflessioni su Face/Off |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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