JACKIE di Pablo LarrainThe time is out of the joint. O cursed spite, that ever I was born set it right! (William Shakespeare, Hamlet) Il film, prima del primo dei moltissimi primi piani di Jackie, inizia con lo schermo nero, e una musica dissonante. Il tempo e l’America sono già usciti dai cardini, e Jackie si ritrova smarrita in un mondo sconvolto che si sente in dovere, per quanto le possa essere possibile, di rimettere in sesto. Il progetto di girare un film su Jacqueline Kennedy, nei giorni che ruotano intorno all’assassinio del presidente, si trovava evidentemente di fronte a una materia ricca, complessa e problematica: dal giudizio sull’azione politica della breve presidenza Kennedy, con tutti i risvolti interni e internazionali; ai molti misteri mai dissipati sull’omicidio (e sulle vicende che ne seguirono); alla relazione tra Jackie e John (di cui fanno parte le numerosissime infedeltà coniugali di quest’ultimo) e con la famiglia Kennedy; e la stessa biografia della protagonista, in cui la morte del marito sembra segnare uno spartiacque tra due diverse esistenze: quella che converge “naturalmente” verso il destino che la incorona first lady - per poi volgerne l’immagine nella tragica vedova dell’innocenza americana, e quella che ne diverge portandola verso un paese straniero, moglie a contratto di un anziano armatore greco. La sceneggiatura di Noah Oppenheimer, pur nella sua densità e complessità che le hanno fruttato un premio alla Mostra del Cinema di Venezia, ne sfiora alcuni e ne ignora altri, mentre la regia di Larrain immerge la protagonista in una specie di viaggio lisergico (per riprendere la citazione in esergo, Time Out of Joint è anche il titolo di un romanzo distopico di Philip Dick, in cui intorno alla mente distorta del protagonista viene creato un mondo fittizio), in cui si muove smarrita cercando di trovare dei nuovi punti di riferimento quando tutti i vecchi si sono dissolti al suono delle pallottole di Dallas. Tuttavia quello fornito dal film è un ritratto prismatico e frammentato, in cui la protagonista mostra differenti facce: la donna consapevole e decisa che affronta l’intervista con il giornalista; la dimensione pubblica e politica del lutto e quella intima e privata del senso di perdita; il filmato televisivo di repertorio della visita guidata, dalla stessa Jackie, alla Casa Bianca - da lei trasformata in una magione che ospita storia e bellezza -, in cui a sua volta la rappresentazione si sdoppia (anche per colore e formato) tra l’immagine del filmato e quella del set in cui si stanno effettuando le riprese; infine il colloquio con il prete alla ricerca di un nuovo senso dell’esistenza. Jackie si muove in effetti, non come un burattino squassato dagli eventi, ma in maniera consapevole, all’incrocio degli assi tra storia, mito, immagine e realtà bruta della morte. Davanti al mondo capovolto, Jackie, giovane donna colta, recupera le coordinate collocando la morte di John all’interno della storia e della tradizione americana, inventandosi un funerale grandioso ispirato a quello di Lincoln, fondatore, con l’abolizione della schiavitù, del futuro dell’America moderna in cui la presidenza Kennedy si inserisce a pieno titolo; impone la dignità e quasi l’eleganza del lutto, coniugandolo e mettendolo a contrasto con l’orrore (dapprima con il tailleur rosa Chanel che continua ad indossare nelle ore dopo l’omicidio – “Voglio che vedano ciò che hanno fatto a John” – e poi con il corteo funebre in cui sfida il pericolo e la prudenza); suggellando con cavalli, carrozze e funerali regali il mito cavalleresco che lei in prima persona aveva costruito insieme al marito trasformando la Casa Bianca in una illusoria Camelot permeata di bellezza e di nobiltà d’animo; e infine con la brutalità irriducibile della morte, che le ha schizzato il viso e gli abiti, e che le ha fatto colare tra le mani e lungo le gambe il sangue e frammenti di cervello del suo sposo. Se il paragone non vi sembra troppo paradossale, Jackie compie nel film un viaggio nello spazio e nel tempo simile a quello che compie Bowman al termine di 2001 Odissea nello spazio: recuperando da una parte e traducendo iconicamente l’orgoglioso senso di una posizione nella storia (americana nel suo caso; della filogenesi umana e cosmica nel film di Kubrick); ma trovandosi a vagare nello stesso tempo, sola e smarrita, in stanze di un lindore e di un biancore abbacinante (come quelli che accoglievano l’astronauta kubrickiano al termine della sua odissea umana), in ambienti che hanno perso tutta la loro connotazione domestica e umanistica, per trasformarsi in un nuovo paesaggio alieno in cui il bianco è il paradossale colore della morte, in una camera caritatis in cui ci si trova soli di fronte alla condizione umana. La cosa che stupisce però, è la misura in cui le tematiche del film, scritto appunto da uno sceneggiatore americano, vadano a inserirsi perfettamente nel discorso d’autore di Larrain, non sempre autore degli script dei propri film. Molti dei temi trattati in Jackie in effetti suscitano echi dalla filmografia precedente del regista: come in Post mortem, la vicenda si svolge intorno a un cadavere eccellente, al corpo di un presidente assassinato, e alle risonanze che questi suscitano in chi gli sta accanto; come in No – I giorni dell’arcobaleno si tratta della consapevole costruzione mediatica di un immaginario politico; come in Neruda si indaga sulle possibile forme della biografia: se in quel film lo sdoppiamento dello sguardo si incarna in due differenti personaggi, il poeta e il poliziotto, che danno vita a una strana relazione di persecuzione-fascinazione, in Jackie, come abbiamo visto, la scissione è interna al personaggio stesso (e confermata da diverse scene in cui la protagonista cerca la nuova se stessa post traumatica davanti allo specchio, che ne rimanda a volte anche diverse immagini contemporaneamente): tra la donna e la sua immagine di first lady; tra la realtà dei sentimenti e la costruzione identitaria e mitopoietica della regina di un regno favolistico improvvisamente minacciato dalla morte e dalla dissoluzione. Si risale infine fino a Tony Manero e alla sua contrapposizione grottesca e paradossale tra la brutalità della vita e l’immaginario. E’ un altro parallelo assurdo, ma Jackie è quasi il rovesciamento in versione alta, nobile e colta dell’infame assassino protagonista del secondo film di Larrain: come quello trafficava nel Cile della dittatura di Pinochet con sangue e materia fecale per arrivare a costruirsi una pedana da ballo simile a quella in cui si esibiva il personaggio de La febbre del sabato sera, così Jacqueline dopo essersi sporcata di sangue e materia cerebrale sogna di lasciare nella memoria collettiva un funerale come quello che seguì la morte di Abramo Lincoln. Entrambi tentano di sublimare una realtà contaminata dalla morte e dall’orrore con la costruzione di una realtà mitica, la prima pop e kitsch, la seconda nobile e colta. Resta da dire di Natalie Portman, quasi sempre al centro (letterale) dell’inquadratura, molto brava in un ruolo che sembrava scritto per l’Oscar, che si confronta impavidamente con il dolore e con lo sgomento. Stranamente, l’Academy le ha preferito la pur bravissima Emma Stone, premiando, una volta tanto, una (virtuosisitica) leggerezza rispetto al peso della tragedia e della storia.
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NERUDA di Pablo LarrainNeruda non è un film su Neruda. O non solamente. O forse sì. Ma forse no. Il titolo, perlomeno, nella sua didascalica apodittica eponimia, è sicuramente ingannevole. Pablo Neruda, premio Nobel per la letteratura – esatto, come Bob Dylan – fu poeta, diplomatico, ambasciatore, viaggiatore, militante comunista, politico, parlamentare, polemista, esiliato, marito, donnaiolo impenitente. Morì in un ospedale - dopo aver visto cadere il governo di Allende che aveva sostenuto - per tumore alla prostata, o forse assassinato dai sicari di Pinochet. Quanto di questo ricchissimo materiale biografico umano, politico, esistenziale si ritrova nel film di Larrain (attivissimo: quest’anno prima di Neruda si è visto El club e si già attende Jackie, presentato alla Mostra di Venezia)? Una buona parte. Non tutto, ma una buona parte. Ma, soprattutto, non solo. Perché in Neruda, a scombinare le carte di un biopic “ben fatto” c’è Oscar Peluchonneau. Chi è Oscar Peluchonneau? Difficile dirlo. E’ sicuramente l’ispettore di polizia incaricato di rintracciare Neruda dopo che il partito comunista è stato dichiarato fuorilegge nel 1948 dal governo Vileda. Ma non solo. E’ anche e prima di tutto il narratore della storia: sua, capiamo dopo un po’, è la sprezzante ma lirica voce fuori campo che (dall’aldilà?) racconta la vicenda. E’ suo quindi (tenete conto che è un personaggio di fantasia) il punto di vista con cui Larrain guarda a Neruda? Certamente non è solo un poliziotto (lavoro che probabilmente fa, più o meno consapevolmente e intenzionalmente, molto male), benché sia senz’altro un “perseguidor” (cito qui il titolo di un racconto lungo in cui Julio Cortazar attraverso il suo alter ego letterario insegue la rovina di un sassofonista jazz che assomigli molto a Charlie Parker); il suo inseguimento sembra, man mano che il film avanza, sempre meno un dovere e una missione professionale, e sempre più un viaggio spirituale e poetico verso un’identificazione con l’ombra del poeta, la caccia ad un fantasma amoroso e lirico nel tentativo di diventare un doppio di Neruda stesso, un antagonista a distanza (i due nel film non si incontrano mai), un oppositore sul piano dell’esistenza e della poesia piuttosto che su quello ideologico e funzionale. Se alla fine Peluchonneau ruba letteralmente la scena al personaggio eponimo, facendo propria tutta l’ultima parte del film, risulta comunque difficile trovargli un definitivo statuto ontologico e narratologico. E’ una proiezione della mente di Neruda, la creazione poetica di un avversario che ne espliciti le contraddizioni, come a volte dal film stesso è malignamente suggerito? O piuttosto il Neruda che vediamo sullo schermo è un’invenzione di Peluchonneau? Se il paragone non offende nessuno, Peluchonneau mi ha ricordato perfino il Rick Deckard di Blade Runner (da Neruda a Philip Dick! multiplo salto mortale) il cacciatore inadeguato che combatte contro avversari spiritualmente superiori a lui, lungo un percorso disseminato di indizi intenzionali (gli origami nel film di Scott, i romanzi polizieschi in quello di Larrain), che seminano dubbi sulle identità invece di risolverli (per giocare la similitudine fino in fondo: Peluchonneau è un "replicante"?). Neruda insomma non è un film semplice. E’ un labirinto di sole due stanze (o, per dirla alla Lynch, una lost highway), in cui si entra con i panni di Neruda e si esce (di scena) con quelli di Peluchonneau. Con quelli di uno sconfitto, che forse la propria sconfitta ha voluto e cercato. E, devo dire, dopo aver tanto cercato Neruda, un po’ della sua frustrazione è anche la nostra. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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