FIGLI di Giuseppe BonitoFigli può essere letto come un altro dei ricorrenti tentativi di replicare, rinnovandola, la commedia all'italiana classica. Le premesse sono promettenti. Alla scrittura c'è Mattia Torre, acclamato autore (scomparso prematuramente tra il rimpianto generale; dirige il film Giuseppe Bonito, già assistente alla regia in Boris) di script televisivi come appunto Boris e La linea verticale, che già vedeva protagonista Valerio Mastandrea; nelle parti principali, sulle quali si regge l'intero film, ci sono Valerio Mastandrea, specialista di una recitazione autoironica e sommessa che mescola costantemente umorismo e malinconia, e Paola Cortellesi, straordinario talento comico nel cabaret televisivo, già accreditata come interprete di molte commedie cinematografiche, ma con l'ambizione di estendere la propria gamma espressiva, anche in situazioni teatrali, fino a registri decisamente drammatici. Forzando l'argomentazione, forse in modo indebito, si può dire che proprio nel rapporto tra cinema e televisione (non si dimentichi che anche Mastandrea ha esordito in tv, nel Maurizio Costanzo Show) si può trovare una chiave di lettura di Figli. Se, con una schematizzazione discutibile e convenzionale, il cinema è il racconto di vicende e personaggi eccezionali, più grandi (anche in senso letterale) della realtà, la televisione può invece essere identificata con il racconto del quotidiano, nel quale lo spettatore si identifica o trova una propria collocazione. Il cinema è il regno del tragico, dell'eccezionale, del più grande della vita, del conflitto, talvolta anche fatale; la televisione è il regno del quotidiano, della vita come flusso, dove i conflitti sono superabili in una logica di continuità e di serialità, dove le vicende si rinnovano di giorno in giorno, di episodio in episodio. In Figli, ci troviamo in una situazione in cui è assente non solo la dimensione del tragico (è ovvio, ci troviamo precisamente nel territorio della commedia), ma anche quella del drammatico o del conflitto, sulla quale anche la commedia e il comico devono trovare fondamento. Nicola e Sara sono una coppia come tante, sulla quarantina, sposata da anni. Non sembrano avere particolari problemi: entrambi lavorano e, a parte i riferimenti a mitologiche e persecutorie cartelle esattoriali, le difficoltà sembrano limitarsi a clienti troppo tentennamenti o poco collaborativi; la figlia maggiore sembra brava e responsabile; ma il figlio neonato piange. Il pianto del bambino, depotenziato per una trovata di messa in scena che lo sostituisce fin dall'inizio e ad ogni successiva ricorrenza con le note della Patetica di Beethoven, è il problema: l'unico, la molla drammaturgica da cui il film dovrebbe prendere spunto ed energia per il suo sviluppo. La struttura paratattica, episodica, scandita da capitoli intitolati a situazioni (Il sonno) o personaggi (I nonni), lo rendono già un prodotto perfetto per la serialità televisiva: per una sitcom, più che per la commedia italiana. Il gesto tragico del suicidio dalla finestra diventa, in una logica, appunto, televisiva, un tormentone, una gag che esaspera iconicamente la condizione di stress dei protagonisti, ma dopo la quale il personaggio suicidatosi torna vivo e vegeto ad interpretare il successivo episodio. È illuminante il paragone con un classico uscito nel 1967, nel periodo d'oro della commedia all'italiana, Il padre di famiglia, diretto da Nanni Loy e interpretato da Nino Manfredi e da(lla mia omonima) Leslie Caron. Anche qui siamo alle prese con una coppia (nota bene: di professione architetti, ovvero in qualche modo progettisti di futuro, mentre quella di Figli esercita professioni nell'ambito della food economy, che soddisfa gli appetiti materiali con il gusto contemporaneo del maquillage estetico) messa in crisi dai problemi della genitorialità, dal flusso dei problemi quotidiani. Ma per loro in gioco c'è la perdita degli ideali giovanili, la frustrazione di non trovare più la forza, l'energia, il tempo per cercare, magari velleitariamente, di cambiare una società inegualitaria, conservatrice, avida solo di profitto. La famiglia appare una struttura naturale ma costrittiva che impedisce o ostacola il cambiamento e il progresso sociale. Il dramma di Nicola e Sara, invece, è quello di non poter andare al ristorante (anche se avrebbero la baby sitter) o di poter passare una serata con gli amici per colpa dei figli. La dimensione sociale è tutta lì, quella politica non esiste. Nel film non esistono servizi pubblici sociali, non esiste solidarietà parentale o amicale. Ogni tanto si parla astrattamente, ironicamente, del fatto di fare (in quanto famiglia) il proprio dovere, di essere all'altezza del Paese e della comunità: entità metafisiche, invisibili, fuori inquadratura. Appunto: iI problema del padre (o meglio dei genitori) di famiglia (guarda caso quando i due si devono inventare un'identità alternativa per una festa in maschera si presentano vestiti come la Sposa di Kill Bill e Drugo di Arancia meccanica, due antieroi celibi, individualisti e asociali) non è più quello di migliorare la società bensì quello, nel migliore dei casi, di adeguarvisi. Ma non si può fare neppure questo: di là c'è il bambino che piange.
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FAVOLACCE (Ita-Svizz) dei fratelli (Damiano e Fabio) D'InnocenzoFavolacce comincia con una plurima autofalsificazione dei punti di vista. Una voce narrante incorporea, di un adulto maschio, afferma di aver ritrovato nella campana per la raccolta della carta il diario di una bambina, di averlo letto, e di averne proseguito la scrittura inventando il seguito della storia e le parole per raccontarla. “Quello che segue è ispirato a una storia vera; la storia vera è ispirata a una storia falsa; la storia falsa non è molto ispirata”: così la voce fiori campo introduce la narrazione. Quello dei fratelli D'Innocenzo si configura così come uno sguardo disincarnato, quasi entomologico (nel prologo sono inquadrate delle formiche al lavoro), e in quanto tale quasi deresponsabilizzato rispetto alla materia narrata e al modo di raccontarla. Lo stesso titolo, Favolacce, sembra prendere le distanze da un proposito di rappresentazione realistica e sociologica. E' vero che si parla di un quartiere periferico di Roma, di personaggi realistici, che vivono in ambienti credibili, in un contesto geografico e storico ben determinato; eppure gli autori dichiarano un intenzione favolistica, irrealistica, storpiata inoltre dal dispregiativo che ci fa capire di iniziare la visione che non si tratterà di un racconto di fantasia mirato alla consolazione e al lieto fine. Un gruppo di famiglie romane, che vivono in una periferia residenziale, in ordinate casette che ricordano tante altre realtà abitative in giro per il mondo (ne abbiamo tanti esempi anche nel cinema, soprattutto americano: di recente ho visto Suburbicon, firmato da Clooney e da altri due frères terribles, i Coen). Padri, madri, figli e figlie (Elio Germano è solo la punta di diamante di un cast corale che comprende anche molti giovanissimi), in appartamenti con giardino che sono apparentemente delle comfort zone inattaccabili. Tutto il film inoltre si svolge in un'immutabile estate, piena di sole, con il costante frinire delle cicale in sottofondo, nella calda luce estiva che splende su case, campagna, spiagge. Eppure, come il film racconta per un preciso partito preso, quelle case che sembrano così perfette e confortevoli sono ricettacoli di infelicità, di insoddisfazione, di rancore inespresso. Le situazioni all'apparenza più innocenti e felici, come una piscina gonfiabile in giardino o la festa di compleanno di una ragazzina, diventano occasioni di invidia, di malevolenza, di nichilistica frustrazione. La mancanza di valori e di obiettivi, l'insoddisfazione profonda che corrode il cuore degli adulti, e che si trasmette anche attraverso atti di violenza fisica e verbale verso i più giovani, semina e coltiva un malessere profondo anche nei figli. Quelle case sono letteralmente (o favolisticamente) delle bombe pronte a scoppiare, in quegli appartamenti si diffondono letteralmente (o favolisticamente), veleni letali. Non c'è un pifferaio magico, o ce ne sono una marea, o la società stessa è un pifferaio magico che conduce alla distruzione e all'autodistruzione (“così finisce tutto”, è la speranza espressa da uno dei giovanissimi protagonisti). I D'Innocenzo (un cognome che suona ironico rispetto ai loro film che parlano essenzialmente di colpevolezza), come dichiarato, variano i modi dello sguardo e della narrazione. Una bambina parla attraverso la voce e le parole di un adulto che non sapremmo identificare; i giochi dei bambini in giardino con l'acqua sono ripresi con una camera mobile, immersiva, e in controluce estatici che sembrano alludere al cinema di Malick; una scena drammatica è ripresa con la camera immobile in campo lungo e sbilenco, con una distanza e un'obliquità agghiaccianti; un primissimo piano fisso è invece dedicato al volto sdraiato del padre di Alexia e Dennis, che, dopo aver scoperto l'orrore nella propria cucina della casa torna a stendersi nel letto al piano di sopra, quasi a sperare che quell'orrore si dissolva come fanno i brutti sogni, e sapendo che non potrà essere così; infine l'inquadratura si incorpora con quello delle telecamere televisive o nello schermo stesso della tv, a raccontare una tragedia annunciata mostrandone i dettagli più morbosi e scabrosi. Il narratore infatti, pentendosi di aver raccontato una storia così “triste, amara e pessimistica”, dichiara l'intenzione di voler ricominciare dall'inizio; ma è una beffa atroce, e il ritorno sui propri passi non rimedia agli errori e alle tragedie, ma per le ribadisce in un circolo temporale paradossale. I D'Innocenzo dopo il credito conquistato con l'esordio nel noir minimalista de La terra dell'abbastanza, confermano di essere degli autori da seguire. Il loro è un cinema aspro, anticonsolatorio, programmatico nel proprio nichilismo privo di speranza e nel loro sguardo freddo e antiempatico. Qui rispetto all'esordio si nota una cura formale più precisa e consapevole, sia nel taglio delle immagini che del montaggio libero e asintattico, sia nel sound design, con una colonna sonora straniante che sembra saturare le sequenze di cigolii e scricchiolii inquietanti. Favolacce, a torto o a ragione, mi ha ricordato (con un'attenuazione delle punte più acide e insostenibili dei due autori) la poetica di cineasti come l'austriaco Seidl (Canicola) o il messicano Reygadas (la sequenza di Dennis perduto nella natura sotto la pioggia sembra quasi una citazione esplicita del prologo di Fiat tenebras lux). Continueremo quindi a seguire i due fratelli, sperando che davvero non “finisca tutto” e con la consapevolezza che loro e noi tutti, come il padre di Dennis al mare, saremo “i primi a non divertirci”. I DAVID DI DONATELLO - edizione 2020Non so a chi possa importare, ma racconto qui le mie preferenza rispetto ai film candidati al David di Donatello. Quasi tutti li ho recensiti su questo sito; se vi interessa leggere le mie argomentazioni potete cliccare sui rispettivi titoli nella colonna delle categorie qui sulla destra (quindi non sto a rimettervi i link nel testo). Non scandalizzatevi perché l'avevo già detto, ci sono un paio di film italiani che proprio non mi sono piaciuti per niente e che hanno ricevuto diverse candidature ai David di Donatello. Sono Martin Eden e il Suspiria di Guadagnino, per cui non li vedrete tra le mie preferenze, in qualsiasi categoria concorrano. Detto questo iniziamo con le mie scelte (accanto ad ogni categoria indico per correttezza quanti dei film candidati ho visto).
FILM STRANIERO: ex-aequo (so che così me la cavo troppo facilmente) JOKER e PARASITE. Parasite se lo merita, ma è da The Host che credo in Bong Joon Ho e sono contento dei suoi trionfi. Da Todd Phillips invece un Joker così non me lo aspettavo proprio e ho avuto il piacere di essere spiazzato e sorpreso. Entrambi film che ci dicono qualcosa dei tempi e delle società in cui viviamo. Molto attuale, anche se ambientata nel passato, la storia dell'affare Dreyfuss raccontata dal grande vecchio Roman Polanski ne L'ufficiale e la spia, in un film molto formale e un po' impettito. Al quarto posto il C'era una volta a Hollywood di Tarantino, che gira a vuoto (piacevolmente - e poi ci sono Pitt e la Robbie, benché zittita) per due ore per poi arrivare ad un finale “a sorpresa” che avevamo già visto in Unglorious Basterds. Lascio in coda Green Book, che (tanto per chiudere con una nota che procurerà nemici), mi è sembrato un film ruffiano, già visto nella dinamica tra i protagonisti, un po' ipocrita nella retrodatazione in tinte pastello di un antirazzismo piuttosto di maniera...SUBURBICON (Usa, 17) di George ClooneySuburbicon è firmato da George Clooney, alla sua sesta regia, ma il film può considerarsi legittimamente un film dei Coen, che lo scrissero nel 1986 dopo il fulminante esordio con Blood Simple. Del cinema dei due fratelli terribili, e di Blood Simple in particolare, Suburbicon conserva i tratti fondamentali e caratteristici, con una crime story intricata, dove a dominare il fato di personaggi che credono ingenuamente di poter dominare e determinare i propri destini è il caso, crudele e irriverente. Tutta la narrazione, come si conviene appunto ai Coen, è ammantata da un velo di black humor, crudele, pervicace e beffardo, capace di rendere divertente la scena più atroce e disturbante la vena più comica. Clooney, sia come attore che come regista, ha spesso fatto propria una critica piuttosto puntuta e feroce all'american way of life (si pensi a progetti anche azzardati come Confessioni di una mente pericolosa, Le idi di marzo o Good Night, Good Luck, che firma come regista, o alle interpretazioni in Michael Clayton o in Tra le nuvole), e nella sceneggiatura di Suburbicon ha trovato pane per i suoi denti. La truculenta storia di crimini famigliari è infatti ambientata nella più idilliache delle cittadine modello all'americana, in quella golden age color pastello situata alla fine degli anni '50. La famiglia modello si rivela abitata da mostri capaci delle peggiori nefandezze; il padre di famiglia (con le gradevoli fattezze di Matt Damon) si rivela un orco feroce, il serio professionista un ambizioso capace dei peggiori delitti, l'amorevole zia una lady molto molto dark, il detective delle assicurazioni un avido dalle intenzioni losche. E il panorama intorno è agghiacciante, tra addetti alla sicurezza maldestri e feroci e bravi borghesi benpensanti pronti a infiammarsi del sacro fuoco del peggiore razzismo che vede nel diverso un comodo capro espiatorio sul quale riversare il male che si portano dentro. Tutti sono colpevoli, tutti sono animati dai peggiori istinti, ma nessuno è destinato a veder compiersi i propri nefasti progetti. Il caso scompiglia le carte, rende ridicoli i malvagi, vani i piani più diabolici. Il caso continuerà poi fino ad oggi a perseguitare impietosamente tutti i personaggi del cinema dei Coen, buoni e cattivi, intelligenti e stupidi, uomini comuni e altri che si sentono eccezionali - e si sbagliano. Intanto a Suburbicon alla fine non restano che macerie morali e materiali, oltre a una serie di cadaveri ridicoli disseminati. La regia di Clooney è perfetta nel rendere le atmosfere del film veramente inquietanti, impaginando un noir disturbante, e nello stesso tempo nel sottolineare i lati grotteschi e ironici della vicenda. Gli fa gioco poter contare su due attori protagonisti segnati da una certa ambiguità, come Matt Damon (un volto pulito che non ha però disdegnato ruoli più problematici, e che nello stesso 2017 si presta ad un altro progetto decisamente anomalo come Downsizing) e Julianne Moore (già equivoca musa di autori come Cronenberg, Egoyan, Lelio). Strano che Clooney non abbia tenuto per sé il ruolo dell'investigatore, affidato invece a Oscar Isaac, che sembrava ritagliato sul suo lato più viscido e ambiguo. Adeguati anche gli interpreti dei due stupidi assassini, mentre il piccolo protagonista Nicky è interpretato da Noah Jupe, che con Wonder, Honey, A Quiet Place, ha inanellato una serie di titoli e di interpretazioni che ne fanno a tutti gli effetti una nuova star di Hollywood. 7 PSICOPATICI (Seven Psychopaths, Usa-Gb, 2012) di Martin McDonagh"Non vorrei mai entrare a far parte di un club che accettasse tra i suoi soci uno come me" (Groucho Marx) Se avete amato o anche solo apprezzato Tre manifesti a Ebbing, Missouri, non dovreste perdervi il precedente film scritto e diretto da Martin McDonagh, 7 psicopatici. D’altra parte esaurire l’intera filmografia del regista e sceneggiatore è alla portata di tutti: McDonagh infatti, anche apprezzatissimo e pluripremiato regista teatrale, oltre ai due già citati ha diretto solo un altro film, il fulminante esordio In Bruges. Il nome di McDonagh, angloirlandese, è spesso accostato a quello di Quentin Tarantino per l’originale mescolanza di violenza e umorismo nero, per il funambolismo di sceneggiature audaci e di dialoghi tanto brillanti quanto assurdi, per la spregiudicatezza con cui maneggiano le regole (temporali e di consecutio) di un genere codificato come quello della crime story. Convinca o meno il paragone, se In Bruges (una storia criminale che si svolge in arco di tempo limitato, in un luogo preciso, con un numero limitato di personaggi) corrispondeva all’esordio tarantiniano de Le iene, 7 psicopatici corrisponde allora alla sua seconda opera. Come Pulp Fiction esplodeva il furore concentrazionario de Le iene in una pluralità di storie, di ambienti, di personaggi, curvando e attorcigliando l’arco narrativo come in una teoria della relatività drammaturgica, così 7 psicopatici moltiplica spericolatamente personaggi, luoghi, piani narrativi. Sembra quasi che McDonagh si diverta a sperimentare il maggior numero possibile di combinazioni narrative e di rapporti tra realtà e finzione. Il protagonista (o piuttosto il filo conduttore che tiene unite tutte le storie) è uno sceneggiatore di origini irlandesi (ops, come Mc Donagh), che deve scrivere il copione di un film che si intitola 7 psicopatici (ops, come il film che stiamo guardando); per farlo deve raccogliere storie prese dai giornali, raccontate dagli amici, raccolte da personaggi convocati da una spericolata inserzione giornalistica. E, ops, le storie inventate si rivelano vere e i personaggi di fantasia si materializzano in carne e ossa, le cronache dei giornali arrivano a coinvolgere direttamente i protagonisti, e tutto si moltiplica si avvita su diversi piani narrativi, con serial killer che uccidono serial killer (alcuni dei quali realmente esistiti e magari già oggetto di altri trattamenti cinematografici), storie che si intrecciano imprevedibilmente con altre, i medesimi personaggi interpretati da attori diversi (a secondo che ci troviamo nella finzione nella finzione, o nella realtà nella finzione), o l’enumerazione progressiva e metastuale dei psicopatici necessari alla sceneggiatura che si avvita in un circolo vizioso e si autofalsifica. Detto così sembra tutto molto complicato, ma sopra ho usato non a caso il verbo “divertirsi” a proposito dell’atteggiamento di McDonagh nei confronti del proprio materiale drammaturgico, e tutte le giravolte della narrazione fanno sì girare la testa allo spettatore, ma sempre sotto la cifra caratteristica dell’autore, che è l’ironia onnipresente e un caustico black humor. Nello stesso tempo però (come ma forse ancor più che Tarantino, che tende un po’ a cartoonizzare i propri personaggi), McDonagh conferisce ai propri eroi (psicopatici quasi senza eccezione) uno spessore umano non banale, e sembra trattarli tutti o quasi (compresi i peggiori) con umana simpatia. Da questo punto di vista 7 psicopatici prepara quello che ad oggi è il capolavoro di McDonagh, 3 manifesti (un film di una maturità che forse il più prolifico Tarantino non ha ancora raggiunto). Il godimento del film si eleva a potenza grazie al cast al quale McDonagh distribuisce le sue psicopatologie: dal pseudo-protagonista Colin Farrell (già a Bruges), al pirotecnico Sam Rockwell, lo stupido più sublime del cinema americano, che di fatto “si prende” il film, al villain Woody Harrelson (entrambi torneranno a Ebbing, Missouri), ai “vecchi” Cristopher Walken e Harry Dean Stanton, a un Tom Waits insieme viscido e romatico, o a Michael Pitt (un falso protagonista dal destino ironico e imprevisto che si compie sotto l'insegna di Hollywood - un segno beffardo ma nello stesso tempo anche una rivendicazione, dopo l'anomalia di un noir ambientato in una sonnolenta città belga). Le donne sono tenute ai margini, siano psicopatiche quanto o più dei loro compagni (come Linda Bright Clay) o semplicemente “stronze” (Olga Kurylenko e Abbie Cornish, anche lei a Ebbing); ma anche su questo McDonagh esercita la propria consapevole ironia metatestuale (anche se ciò non ha impedito ai pubblicitari di mettere in locandina nel novero dei 7 due donne giovani e belle, omettendo invece quella più attempata e di colore...). |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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